COSA GIUDICATA

Enciclopedia Italiana (1931)

COSA GIUDICATA

Emilio BETTI
Ubaldo PERGOLA

. È la forza vincolante che il provvedimento giurisdizionale - massime la sentenza - spiega in quanto decide irrevocabilmente circa la sussistenza della ragione fatta valere in giudizio. Essa consiste nel valore normativo che la decisione assume sia come regola ormai indiscutibile per le parti nei rapporti tra loro, sia come criterio obbligatorio per il giudice in qualunque giudizio futuro sul medesimo oggetto.

Condizione necessaria affinché la decisione acquisti valore normativo è che la sentenza passi in giudicato, diventi cioè definitiva e irrevocabile come provvedimento giurisdizionale (cosiddetta cosa giudicata formale). La sentenza soggetta a gravame diviene definitiva solo allorché, col decorso dei termini prefissi per l'impugnativa o con la rinuncia a quest'ultima, o con la perenzione del giudizio di gravame, tutte le impugnative normalmente proponibili contro di essa restano precluse. La cosa giudicata propriamente detta presuppone avvenuta, pertanto, la preclusione di tutti i mezzi d'attacco esperibili contro la sentenza.

Processo civile.

Nel processo civile, la ragione fatta valere in giudizio e decisa con la sentenza è quella pretesa che l'una delle parti in causa (normalmente l'attore, ma, nelle cause di accertamento negativo e nelle domande riconvenzionali, il convenuto) chiede sia riconosciuta in confronto dell'avversario, affermando esistente con un contenuto determinato un dato rapporto o stato giuridico. La stessa struttura del processo civile impone alla parte che prende l'iniziativa della lite l'onere e il rischio di formulare la ragione che intende far valere, o (nelle cause d'accertamento negativo) quella che intende contestare, di fronte all'altra parte: le impone, cioè, d'individuare la "volontà di legge" ch'essa afferma divenuta concreta nel caso, o che, rispettivamente, asserisce insussistente.

A sua volta il giudice, chiamato a provvedere sulla domanda giudiziale (attrice o riconvenzionale) e a dar ragione a chi l'ha, individua la volontà della legge e accerta la sussistenza e l'entità, ovvero l'insussistenza, della ragione di cui si contende. Così nelle affermazioni delle parti come nella decisione del giudice il processo logico d'individuazione della volontà della legge mira ad accertare e a rappresentare il processo reale (antecedente) di concretamento che questa medesima volontà ha subito per effetto di una concreta situazione di fatto rientrante nell'ipotesi astratta da essa prevista.

Passata in giudicato la sentenza, le premesse logiche della decisione non hanno importanza se non in quanto occorra risalire a esse per identificare la ragione fatta valere, e così per determinare l'estensione della cosa giudicata. Ma quanto al resto, esse diventano indifferenti: la decisione rimane ferma, ancorché esse potessero per avventura dimostrarsi infondate. E tale indipendenza della decisione da quelle che furono le sue premesse logiche si spiega non già per il fatto che essa, a differenza dalle premesse, sia un atto di autonoma volontà del giudice, ma piuttosto per il fatto che solo con la decisione il giudice compie quell'individuazione della volontà della legge che le parti gli domandano e che a lui propriamente spetta di pronunziare con l'effetto di vincolarle.

La forza vincolante della decisione è un effetto che lo stesso ordine giuridico (non già la volontà del giudice) ricollega, come a sua causa, alla formulazione autoritativa della volontà della legge, in quanto essa formulazione è operata dall'organo dello stato competente a pronunziarla, e quindi deve considerarsi quale atto proprio dello stato stesso.

Come appare già da questa prima dilucidazione, la "ragione" sulla cui sussistenza si forma la cosa giudicata, non è, direttamente e senz'altro, il rapporto o lo stato litigioso, considerato in sé e per sé, come rapporto (o stato) di diritto sostanziale, astrazion fatta dal processo, ma è piuttosto il profilo sotto il quale esso rapporto - che nella realtà potrebb'essere persino inesistente - viene guardato dalle parti e dal giudice, proprio in quanto è gittato nel crogiuolo del processo, ossia, secondo l'espressione romana, in quanto è dedotto in giudizio.

Ne consegue che la cosa giudicata investe il rapporto (o stato) litigioso, non già immediatamente, ma mediatamente, sotto quel profilo in cui è stato proposto a decisione dalle parti nell'iniziare e nel sostenere la lite. La ragione fatta valere funge da tramite necessario, destinato a stabilire il collegamento fra il rapporto litigioso, che essa rappresenta, e la decisione del giudice. L'efficacia vincolante di questa, operatasi anzitutto sul terreno del diritto processuale, penetra per siffatto tramite nella sfera del diritto sostanziale e imprime al rapporto (o stato) litigioso che in essa vive un atteggiamento conforme al giudicato. E anche in altro senso è da dire che la cosa giudicata ha, immediatamente, carattere processuale e solo mediatamente rilevanza sostanziale: nel senso, cioè, che solo nell'ordinamento processuale essa trova il fondamento e la disciplina giuridica sua propria, ma dalle situazioni di diritto sostanziale, cui si riferisce, desume pure taluni presupposti della propria estensione.

Tutto ciò rende ragione della differenza essenziale che passa fra la cosa giudicata e la forza vincolante di norme giuridiche o di pronunce normative diverse dalla sentenza (v. giurisdizione).

Chi tenga presente il carattere processuale della cosa giudicata intende senza difficoltà che il suo vincolo non crea, neppure fra le parti in causa, una nuova regola di diritto sostanziale immediatamente operativa di fronte a tutti, quale potrebbe crearla, ad es., una legge speciale o un negozio giuridico concluso fra le parti stesse. Perché sul terreno del diritto sostanziale la decisione non è destinata a creare una regola nuova, ma unicamente a individuare quella che, secondo la conoscenza del giudice, è la volontà della legge nel caso specifico: volontà, pertanto, che preesiste come regola concreta del caso, e che il giudice deve solo scoprire e additare. Se la regola concreta preesiste, è chiaro che la pronuncia del giudice non può avere, rispetto ad essa, altra funzione che quella di accertarla, di rafforzarne il vigore e d'imporne l'osservanza. Proprio questo è ciò che comunemente s'intende per l'applicazione della legge. E in ciò sta la situazione giuridica che la cosa giudicata pur crea. Alla parte che ha vinto la lite essa assicura, di fronte alla parte soccombente, la posizione di preminenza giuridica (o la situazione di diritto oggettivo) cui pretendeva o, rispettivamente, le garantisce l'invocata libertà dalla pretesa avversaria. In tal modo la cosa giudicata costituisce, per la parte vittoriosa, un bene il quale è bensì distinto e diverso da quell'altro bene che le era già garantito dalle norme di diritto sostanziale e come tale viene apprezzato anche nella vita di relazione, ma che, ad ogni modo, ha pur sempre esclusivo riferimento alla situazione giuridica preesistente.

Bisogna ammettere - è vero - che il giudice, nell'individuare la volontà della legge, può fallire lo scopo, e cioè non riuscire a scoprire e a rappresentare il precorso concretamento di essa volontà, e così può disconoscere una ragione che effettivamente sussiste, o, viceversa, riconoscere una ragione che in realtà non sussiste. Ma in casi di tal genere non è da credere che la decisione ingiusta abbia la medesima portata di un negozio giuridico o di una legge speciale con cui le parti o il legislatore estinguano il rapporto o stato giuridico a torto disconosciuto, ovvero diano vita al rapporto, o stato, a torto riconosciuto. Neppure in quegti casi speciali l'efficacia aberrante della decisione può far mettere questa sullo stesso piede di quegli atti che per loro natura sono destinati ad estinguere o a creare rapporti giuridici.

Piuttosto è da dire che la decisione ingiusta, allorché disconosce l'esistenza o l'entità di una ragione effettivamente sussistente, dà luogo a un conflitto di regole giuridiche, il quale è risolto dalla legge nel senso che la cosa giudicata prevale sulla regola di diritto sostanziale preesistente. Prevale, in quanto ne paralizza il vigore nella misura in cui vi contraddice, così da renderla praticamente irrilevante e da imprimere al rapporto fra le parti - anche agli effetti per i quali esso è, secondo i principî, rilevante per i terzi - un atteggiamento conforme al giudicato. Allorché, poi, la decisione ingiusta riconosce una ragione insussistente, è da dire che essa dà vita non già a una nuova regola di diritto sostanziale, ma pur sempre a un vincolo di natura processuale il quale, vietando alle parti di discutere il giudicato, impone a esse, nei rapporti fra loro, l'osservanza della pretesa riconosciuta.

Soltanto le sentenze costitutive sono destinate a operare direttamente un mutamento nella situazione di diritto sostanziale: mutamento che, per sua natura, non limita i suoi effetti alle parti, ma vale rispetto a tutti. Esse, invero, non si esauriscono nell'accertamento della situazione preesistente, ma all'accertamento fanno seguire una pronunzia che tende per l'appunto a modificarla. Sennonché codesta funzione costitutiva o trasformativa, - che anche le sentenze di condanna sono chiamate a spiegare, non però rispetto alla ragione fatta valere, ma solo rispetto all'azione (in quanto la convertono da azione di condanna in azione esecutiva) - è da tenersi nettamente distinta dalla funzione normativa che è propria della decisione giurisdizionale in quanto accertamento positivo o negativo di una volontà di legge preesistente.

In senso meno proprio si qualifica come cosa giudicata anche l'efficacia vincolante delle sentenze che decidono, non sulla ragione fatta valere, ma soltanto sull'azione o sul mezzo di prova, dichiarandone l'ammissibilità o l'inammissibilità per ragioni attinenti all'una o all'altro (per es., in quanto respingono la domanda per mancanza d'interesse ad agire o per una eccezione di compromesso, e così riconoscono il convenuto temporaneamente esente dall'azione avversaria). La qualifica è qui meno propria, perché i vantaggi che tali sentenze arrecano alla parte vittoriosa, pure avendo un'importanza che non si esaurisce nel processo attuale, ma è destinata a manifestarsi al di fuori e più oltre, tuttavia non costituiscono che un preliminare provvisorio di quella che sarà la decisione definitiva sulla ragione fatta valere, e sono destinati a essere, da tal decisione, o assorbiti (quando le siano conformi) o eliminati (quando ne restino contraddetti). Considerate sotto questo aspetto, le sentenze in parola non sono fine a sé stesse e non hanno di per sé sole che un valore effimero o, tutt'al più, una funzione preparatoria, quali elementi anticipati della cosa giudicata futura.

La cosa giudicata, concepita nel modo ora detto, ha una duplice portata. Ha anzitutto una portata negativa, in quanto esclude che la ragione di cui fu deciso possa essere riproposta a giudizio e formare oggetto di una nuova decisione. Ha inoltre e soprattutto una portata positiva, in quanto impone alle parti di osservare il giudicato come regola ormai indiscutibile nei rapporti fra loro, e fa obbligo all'autorità giudiziaria di uniformarvisi, come criterio da adottare senza un rinnovato esame di merito, nelle pronunce che lo presuppongono e che quindi vi si debbono coordinare.

Poiché d'altronde è anche interesse pubblico evitare che una stessa concreta volontà di legge, in quanto fatta valere, formi oggetto di attuazione giurisdizionale, al medesimo fine, più di una volta, e successivamente in senso contrario o comunque difforme, così è da dire che l'esistenza della cosa giudicata debba essere rilevata dal giudice anche d'ufficio e non solo sull'eccezione opposta dalla parte interessata. Ché se il giudice, senza rilevare la cosa giudicata, emette una nuova decisione, questa, una volta passata in giudicato, prevale sul giudicato anteriore.

Bisogna tuttavia distinguere il conflitto pratico dal conflitto teorico fra giudicati. La contraddizione fra il giudicato anteriore e quello posteriore è meramente teorica, quando in essi sia bensì decisa in senso diverso l'identica questione concernente la sussistenza del medesimo rapporto o stato giuridico, ma tale questione sia in entrambi meramente pregiudiziale rispetto a quella principale (diversa nell'uno e nell'altro) concernente la ragione fatta valere; ovvero quando nel giudicato anteriore sia risolta soltanto come questione pregiudiziale quella che nel giudicato posteriore forma la questione principale proposta a decisione. In tal caso l'un giudicato, quantunque repugnante all'altro nelle sue premesse logiche, è tuttavia, almeno in generale, compatibile pur sempre con esso sul terreno pratico. Il contrasto è invece d'indole pratica quando i due giudicati decidano in modo difforme l'identica questione concernente la sussistenza di quella che in entrambi è la ragione fatta valere, ovvero la sussistenza di quella che nella causa anteriore è questa ragione stessa e nella successiva costituisce la condizione necessaria e sufficiente per ammettere o escludere (se accertata insussistente) la ragione fatta valere. In tal caso è chiaro che il vigore dell'una decisione è praticamente incompatibile col vigore dell'altra. Ora quello che l'ordine giuridico si preoccupa sempre di evitare è solo il conflitto pratico, non il conflitto teorico. Il che si spiega, oltre che con ragioni di opportunità, col fatto che il ragionamento tenuto dal giudice per giungere alla decisione non partecipa del valore normativo di questa.

Ove si tenga presente codesta portata della cosa giudicata, s'intuisce subito quanto interesse pratico offra il determinarne esattamente l'estensione e i limiti. Perché, se essa investe tutta intera la ragione fatta valere, nella misura in cui ha formato oggetto di decisione, essa lascia però impregiudicata la proposizione in giudizio a ragioni che con quella non s'identifichino o che si dibattano fra parti diverse. L'estensione della cosa giudicata incontra limiti di carattere oggettivo, concernenti la ragione in sé e per sé considerata, e limiti di carattere soggettivo, concernenti le persone dei litiganti.

I limiti oggettivi propongono essenzialmente un problema d'identificazione della ragione fatta valere in giudizio e decisa. Possono anche proporre, ma solo in linea subordinata, un problema d'identificazione dell'azione, in quanto si tratti di vedere, con riguardo alla portata negativa della cosa giudicata, se la ragione già decisa venga riproposta in giudizio per il medesimo fine di attuazione giurisdizionale o per un fine diverso (mero accertamento, condanna, esecuzione). In proposito basterà ricordare che la preclusione delle questioni costituenti l'antecedente logico necessario della decisione si riferisce (salva esplicita restrizione) a tutti quanti i fatti rilevanti in senso positivo o negativo per la sussistenza della ragione fatta valere, i quali siano accaduti prima dell'ultimo momento di tempo cui la decisione si riferisce (momento che coincide con la chiusura dell'ultima discussione in cui essi erano ancora proponibili): non abbraccia - come ben s'intende - anche quei fatti che siano sopravvenuti dopo. La cosa giudicata non investe l'avvenire, ma solo il passato. Che poi i fatti passati siano o non siano stati effettivamente sottoposti all'esame del giudice, non fa differenza: basta che le parti abbiano avuto la possibilità di prospettarglieli. D'altro canto la preclusione in parola non esclude punto che le questioni pregiudiziali vertenti sull'esistenza di un rapporto o stato giuridico possano essere proposte a decisione, anche fra le parti medesime, in un nuovo giudizio che abbia per fine di accertare per l'appunto questo stato o rapporto, non di rimettere in discussione la decisione avvenuta. In verità la cosa giudicata investe la ragione fatta valere nel giudizio anteriore, ma non il rapporto o stato giuridico che in quel giudizio abbia formato soltanto oggetto di una questione pregiudiziale (rapporto pregiudiziale). La risoluzione di siffatta questione non ha valore diverso da quello che hanno le altre premesse logiche della decisione.

I limiti soggettivi della cosa giudicata sono governati da due principî fondamentali. L'uno ha carattere negativo e può formularsi così: la decisione pronunziata fra le parti in causa è giuridicamente irrilevante rispetto a terzi estranei al processo e alla ragione decisa, in quanto cosa giudicata loro riferibile, ossia opponibile contro di essi o da parte loro.

Il fondamento di tale irrilevanza è evidente. Dall'un canto è ovvio osservare che è rimesso all'iniziativa di ciascuna parte far valere quei fatti della cui verità essa ha interesse a persuadere il giudice, e a ciascuna parte è data la possibilità d'influire, con le proprie domande, deduzioni e prove, sulla convinzione del giudice nel senso di pregiudicare la posizione dell'avversario e di avvantaggiare la propria: la possibilità, cioè, di determinare a proprio vantaggio le premesse logiche della decisione e della cosa giudicata. Ora chi è rimasto estraneo al processo non ha avuto, per ciò stesso, la possibilità giuridica di far valere la propria ragione, o di contestare l'altrui, e di determinare quelle premesse. D'altro canto si può rilevare che compito del giudice chiamato a decidere circa la sussistenza della ragione fatta valere non è già di attuare la legge sostanziale quale norma generale e astratta, né di attuarla quale norma regolatrice comune a tutti i rapporti consimili a quello litigioso, che per avventura esistano nella realtà, o con efficacia vincolante anche rispetto ad altri rapporti che siano comunque contigui al rapporto litigioso. Compito del giudice è di attuare la legge quale regola concreta del rapporto che si è dedotto in giudizio, e di questo rapporto esclusivamente, non quale regola di altri rapporti distinti, quantunque ad esso perfettamente consimili o strettamente contigui, tranne che tali rapporti siano ad esso inscindibilmente connessi o da esso necessariamente dipendenti.

Il principio in parola prende due atteggiamenti diversi, secondo che a) venga riferito a terzi i quali siano soggetti di un rapporto praticamente compatibile con la decisione pronunziata fra le parti, quantunque possano di riflesso riceverne un pregiudizio di fatto; ovvero b) venga riferito a terzi i quali siano soggetti di un rapporto praticamente incompatibile con quella decisione e, ciò non pertanto, estranei alla ragione di cui si è deciso. Nel secondo riferimento il principio assume un significato più vivo ed energico, in quanto vuol dire che i terzi di questa seconda categoria possono legittimamente disconoscere l'efficacia della decisione nella misura in cui ne sarebbero pregiudicati.

Siffatta differenza di atteggiamento del principio in parola induce a distinguere i terzi non soggetti all'eccezione della cosa giudicata nelle due seguenti categorie: a) terzi giuridicamente indifferenti, che non possono esser pregiudicati in un loro diritto, né quindi sono ammessi a disconoscere il valore della decisione come cosa giudicata fra le parti: b) terzi giuridicamente interessati, che non debbono esser pregiudicati dalla decisione, e quindi possono disconoscerne l'efficacia, anche come cosa giudicata fra le parti.

L'altro principio, di carattere positivo, che governa i limiti soggettivi della cosa giudicata, può così enunciarsi: la decisione pronunziata fra le parti ha valore anche rispetto a determinati terzi, come cosa giudicata formatasi fra esse parti. Tale principio prende anch'esso due atteggiamenti diversi secondo che venga riferito a terzi partecipi del rapporto o stato giuridico dedotto in giudizio sotto specie di ragione fatta valere (e quindi investito dalla cosa giudicata), ovvero a terzi estranei ad esso stato o rapporto. Nel primo atteggiamento il principio assume un significato più energico, e può formularsi come segue: la cosa giudicata formatasi fra le parti si comunica a quei terzi partecipi del rapporto da essa investito, la posizione dei quali sia subordinata alla posizione di una delle parti. Nel secondo atteggiamento il principio è così formulabile: la cosa giudicata formatasi fra le parti non può essere disconosciuta da quei terzi che siano soggetti di un rapporto diverso, ma praticamente compatibile col rapporto dedotto in giudizio. Costoro pertanto, dal canto loro, si possono dire anch'essi sottoposti alla cosa giudicata formatasi fra le parti, ma in senso differente e meno proprio, perché la cosa giudicata non è loro riferibile immediamente.

Quest'altro principio non solo non sta in contraddizione col primo, ma ne costituisce il necessario complemento. Infatti, né quel principio né questo si applicano a tutti quanti i terzi, ma l'uno e l'altro solo a terzi determinati. Il principio di carattere negativo trova applicazione per quei soli terzi che siano estranei, oltre che al processo, anche alla ragione di cui si è deciso. Esso resta perciò escluso rispetto ai terzi partecipi del rapporto dedotto in giudizio, ai quali invece si applica esclusivamente il principio di carattere positivo, inteso nel suo significato più energico. Questo principio positivo, a sua volta, non trova punto applicazione per quei terzi estranei alla ragione decisa, che siano soggetti di un rapporto praticamente incompatibile con la decisione avvenuta: poiché costoro sono legittimati a disconoscere la cosa giudicata nella misura in cui tende a pregiudicarli. Ad essi si applica esclusivamente il principio negativo nel suo significato più energico.

Vi è tuttavia una zona intermedia, nella quale trovano applicazione combinata e, per così dire, attenuata, tanto il principio negativo quanto il positivo. Entro tale zona il principio positivo si applica in quella più ristretta misura in cui lo comporta il principio negativo, il quale funziona qui come criterio-limite. Sicché i rispettivi campi d'applicazione dei due principî negativo e positivo si possono raffiggurare con due circoli interferenti, la cui superficie di coincidenza raffiguri la zona dove entrambi trovano applicazione combinata e attenuata. Tale zona è occupata da quei terzi che abbiamo testé chiamati giuridicamente indifferenti (categoria a), siccome estranei alla ragione di cui si è deciso e soggetti di un rapporto praticamente compatibile con la decisione. Le due zone estreme sono invece occupate da terzi che in contrapposto con costoro possono tutti quanti chiamarsi giuridicamente interessati, ma gli uni in un senso ben diverso dagli altri. L'una zona, dove si applica in modo esclusivo e più intenso il principio di carattere negativo, è occupata da quei terzi che sono legittimati a disconoscere il valore della decisione, anche come cosa giudicata fra le parti (categoria b). L'altra zona, dove trova, viceversa, applicazione esclusiva e più energica il principio di carattere positivo, è occupata da quei terzi ai quali la cosa giudicata formatasi fra le parti è riferibile come propria: vale a dire, dai quali o contro i quali essa è opponibile mediante eccezione di cosa giudicata (categoria c).

Che i terzi giuridicamente indifferenti possano tuttavia risentire certi effetti riflessi del giudicato, non sta punto in contrasto col principio dell'irrilevanza. Quegli effetti, invero, non configurano mai un pregiudizio di diritto, bensì, in ogni caso, un semplice pregiudizio di fatto, che normalmente l'ordine giuridico non ha ragione di prevenire, né possibilità di rimuovere. Un vero e proprio pregiudizio di diritto, per contro, è quello che la decisione ha virtù di apportare ai terzi partecipi del rapporto dedotto in giudizio, la posizione dei quali sia, rispetto a tale rapporto, subordinata a quella di una delle parti nel senso che stiamo per dire. Ma costoro, appunto perché non sono estranei alla ragione di cui si è deciso, si trovano fuori dal campo d'applicazione del principio negativo e compresi invece nell'orbita di efficacia della cosa giudicata. Laddove per i terzi che siano soggetti di un rapporto praticamente incompatibile con la decisione, ma abbiano una posizione indipendente da quella di entrambe le parti (terzi della categoria b), il pregiudizio minacciato dalla decisione sarebbe illegittimo, per i terzi ora in discorso (categoria c) il pregiudizio creato dalla cosa giudicata è legittimo. Onde questi, a differenza di quelli, vi soggiacciono senza potervisi, normalmente, ribellare.

Condizione necessaria affinché la cosa giudicata formatasi fra le parti si comunichi ai terzi considerati da ultimo è che la posizione giuridica di siffatti terzi sia - come si è accennato - subordinata a quella di una delle parti già in causa rispetto alla ragione di cui si è deciso. Tale subordinazione rende possibile e giustifica, di volta in volta, l'applicazione del principio di carattere positivo nel suo significato più energico.

La subordinazione idonea a determinare il comunicarsi della cosa giudicata può assumere quattro figure, secondo che rifletta: a) il tempo dell'entrata del terzo nel rapporto giuridico investito dalla cosa giudicata; b) il potere di far valere e dedurre in giudizio il rapporto giuridico proprio del terzo; c) la prevenzione operata rispetto al rapporto del terzo dalla proposizione a giudizio di un rapporto ad esso inscindibilmente connesso; d) l'esclusione operata sul rapporto del terzo dall'accertamento negativo d'un rapporto da cui esso necessariamente dipenda.

La subordinazione della posizione giuridica del terzo a quella della parte già in causa rispetto al rapporto investito dalla cosa giudicata può nascere dalle seguenti cause: a) successione del terzo alla parte nel rapporto giuridico già dedotto in giudizio; b) sostituzione processuale della parte al terzo, operatasi col dedurne in giudizio il rapporto giuridico; c) inscindibile connessione fra il rapporto giuridico del terzo e il rapporto investito dalla cosa giudicata; d) dipendenza necessaria del rapporto giuridico di esso terzo dal rapporto investito dalla cosa giudicata. Fra la successione e la sostituzione processuale, dall'un lato, e la connessione o dipendenza necessaria dall'altro, non vi è altra differenza che questa: che nelle prime la riferibilità della cosa giudicata al terzo è diretta, in quanto il rapporto giuridico del terzo è identicamente quel medesimo che venne dedotto in giudizio sotto specie di ragione fatta valere; laddove nelle seconde la riferibilità di essa al terzo è riflessa, in quanto il rapporto giuridico del terzo non presenta altro elemento d'identità col rapporto investito della cosa giudicata se non quello che è costituito dal legame stesso di connessione inscindibile o di dipendenza necessaria. Sennonché anche questa seconda specie di riferibilità ha carattere necessario, perché la stessa struttura che i due rapporti giuridici hanno a norma del diritto sostanziale fa sì che la cosa giudicata formatasi sull'uno è destinata a investire anche l'altro rapporto.

Bibl.: K. Hellwig, Wesen und subjektive Bregrenzung der Rechtskraft, Lipsia 1901; id., System des deutschen Zivilprozessrechts, Lipsia 1912, par. 226-235, e bibl. citata a pag. 763; G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, 3ª ed., Napoli 1913, par. 78-80, e bibl. ivi citata a p. 906; E. Betti, Trattato dei limiti soggettivi della cosa giudicata in diritto romano, 1922.

Diritto Penale.

I provvedimenti del giudice in materia penale (quali che ne siano la natura e la forma: sentenze o ordinanze, talora anche i decreti) diventano irrevocabili, vale a dire irretrattabili, solo col passare in giudicato. Per effetto della cosa giudicata, infatti, la controversia si considera come definita e chiusa, e non può essere mai più sollevata di nuovo (o riproposta) per qualsiasi ragione, anche se sopravvengano prove ineccepibili dell'errore incorso dal giudice, sia nell'affermazione o denegazione deì fatti sui quali la pronunzia ebbe a fondarsi, sia nell'interpretazione e applicazione della legge. Molto si è tuttavia discusso in dottrina sul fondamento e sull'opportunità e convenienza di siffatto principio; perché è ovvio che l'irretrattabilità di una condanna, quando sopraggiungano prove dell'innocenza del condannato, contrasta con l'interesse dello stato e col pubblico sentimento della giustizia; e d'altro canto l'irrevocabilità di una sentenza assolutoria, quando sopravvengano le prove della reità, offende l'interesse sociale della repressione. Una larga corrente, in dottrina, è perciò propensa ad attribuire, in materia penale, un valore tutt'altro che assoluto alla cosa giudicata.

Dal punto di vista del diritto costituito, s'impone in proposito una distinzione fondamentale fra pronunce liberatorie o assolutorie, pronunce di condanna, e pronunce semplicemente ordinatorie (o preparatorie, o incidentali).

1. Pronunce assolutorie. - Si ritiene una necessità di ordine pratico (determinata dalla necessaria tranquillità dei consociati e dai pericoli di una possibilmente indefinita persecuzione dell'imputato per il medesimo fatto, per il quale fu mandato assolto) che i giudicati di proscioglimento abbiano per regola un valore assoluto, e che quindi non possano dar luogo a nuovo processo per l'accertamento della reità, quali che possano essere le prove di colpevolezza, che siano per sopraggiungere. Tale principio era espressamente consacrato nell'art. 435 del cod. di proc. pen. 1889 per le sentenze assolutorie emesse a seguito del pubblico dibattimento, e passate in giudicato (salvo che l'assoluzione avesse avuto luogo soltanto per mancanza della querela, o della richiesta, la quale venisse tempestivamente proposta in un momento successivo). Per le pronunce di proscioglimento emesse nella fase istruttoria, l'art. 295 conferiva invece al giudicato un valore solamente relativo, in quanto l'imputato prosciolto in istruttoria poteva essere sottoposto a procedimento per il medesimo fatto, quando sopravvenissero - prima che si fosse verificata la prescrizione - nuove prove a suo carico. Ciò significa che il giudicato istruttorio di proscioglimento aveva un valore semplicemente relativo (allo stato delle prove), se il proscioglimento era determinato da ragioni attinenti alla prova (es., "non è provato" che il fatto sia avvenuto; oppure si deve, in base alle prove in atti, escludere che l'imputato lo abbia commesso, o che vi abbia partecipato); ma aveva un valore assoluto perfettamente uguale al giudicato assolutorio dibattimentale, se il proscioglimento avesse avuto luogo invece per ragioni di diritto (es.: perché "il fatto non costituisce reato").

In quest'ultimo caso, il risultato delle prove non ha influenza veruna sul giudizio logico emesso dal magistrato istruttorio: e quindi non potevano ricorrere i casi d' ammissibilità del nuovo procedimento per il medesimo fatto e contro lo stesso imputato, indicati nell'art. 295 segg. del cod. di proc. pen. 1889. La materia è ora analogamente regolata dagli articoli 90 e 402 del cod. di proc. pen. 1930.

Pronunce di condanna. - Esse possono dar luogo in ogni tempo a un nuovo giudizio, nei soli casi nei quali il legislatore ravvisa l'evidenza o la probabilità di un'ingiustizia consapevole da parte del giudice, ovvero l'evidenza o la probabilità dell'errore sul fatto che determinò la condanna: casi tassativamente indicati nell'art. 538 cod. proc. pen. 1889, e ora nell'art. 554 del cod. 1930 (casi di revisione). La regola tuttavia rimane quella dell'inammissibilità di un secondo giudizio, giusta l'art. 90 del cod. di proc. pen.

Altre pronunce. - Il codice processuale italiano non contiene una disposizione di carattere generale, intesa a disciplinare il valore delle pronunce del giudice penale, diverse dalla sentenza di proscioglimento o di condanna sopra menzionate. Ciò non vuol dire tuttavia che le pronunce diverse da quelle sin qui contemplate non siano suscettibili di passare in cosa giudicata, o che la legge processuale italiana disconosca un valore d'irrevocabilità a queste altre pronunce. Ciò, invece, significa soltanto che il legislatore si è per regola riportato ai principî generali che regolano l'autorità della cosa giudicata, quando non ha espressamente disposto per il caso di cui concretamente si tratta. Ond'è che, volta per volta, s'imporrà la necessità di un esame particolare della questione di cui si tratta (irrevocabilità o meno della pronuncia, e suo valore ed efficacia), alla stregua delle norme che regolano il caso concreto, o, se queste mancassero, alla stregua dei principi generali che regolano la materia in esame.

Non potendosi qui approfondire l'indagine, che è di per sé assai ardua e complessa, ci limiteremo a dire che debbono per regola ritenersi suscettibili di passare in cosa giudicata, e di diventare perciò irrevocabili: le pronunce che il nostro codice denomina sentenze (al pari di quelle di assoluzione o di condanna), ma che pongono semplicemente termine a un procedimento incidentale, insorgente nel corso del procedimento principale: come ad es. la sentenza che risolve i conflitti di competenza (art. 54 cod. proc. pen.); le ordinanze che decidono sulla rimessione dei procedimenti (ordinanze di cui all'art. 58 del cod. 1930); quelle con cui il giudice ammette o respinge la costituzione di parte civile in sede di giudizio; ovvero l'ordinanza con la quale il giudice dibattimentale abbia accolto o respinto un incidente, inteso a ottenere la dichiarazione della nullità degli atti compiuti nella fase istruttoria e simili. Poiché peraltro è assai comune l'opinione che le ordinanze - a differenza delle sentenze - siano di regola revocabili nel corso del procedimento, dobbiamo aggiungere che ciò è vero soltanto per le ordinanze emesse allo stato delle cose; ma ciò non dipende allora dal trattarsi di ordinanza (anziché di sentenza) sibbene dalla natura stessa del pronunciato, il quale fu emesso "allo stato" e non definitivamente. All'infuori di ciò, le pronunce incidentali sono suscettibili di costituir giudicato, quanto e più delle sentenze di merito: non essendo per esse ammissibile (se non impugnate) né revoca né revisione.

Anche taluni decreti, così denominati nel codice processuale italiano, sono suscettibili di passare in cosa giudicata. Basterà ricordare per tutti il decreto di condanna penale, se non impugnato tempestivamente dall'imputato. Si suol dire che in tali casi la pronuncia è decreto per la forma, mentre è sentenza nella sostanza.

Possiamo dire pertanto che ogni pronunzia del giudice è suscettibile di costituir giudicato (o di passare in cosa giudicata); ma sempre - s'intende - limitatamente al punto controverso, che in essa è deciso. In tal senso, anche la sentenza d'invio a giudizio può costituir giudicato, ma limitatamente alla questione (ivi risoluta) dell'obbligo dell'imputato di sottostare al pubblico dibattimento.

Un'altra questione, alla quale possiamo senz'altro accennare qui, concerne l'efficacia del giudicato penale (con particolare riguardo a quello sostanziale di merito) rispetto ai terzi, che non hanno partecipato al processo penale.

A differenza di quanto dispone per la materia civile l'articolo 1351 del cod. civ. (validità del giudicato soltanto quoad partes) suol dirsi valere nel diritto penale il principio opposto, quello cioè che il giudicato penale ha efficacia erga omnes. Ciò appare esatto, in quanto, per es., la parte lesa, ancorché non abbia partecipato al giudizio penale, non può mettere nuovamente in questione il fatto escluso dal giudicato penale, neppure in sede separata, e ai limitati effetti del risarcimento (art. 25 cod. proc. pen.). Se anche si dubitasse potersi accogliere il principio dell'unicità della giurisdizione (civile, penale e amministrativa) basterebbe qui, a giustificare la validità erga omnes (nel senso sopra indicato) del giudicato penale, il fatto - agevolmente desumibile dagli articoli 3, 20 segg. del cod. di proc. pen. - che il legislatore (per evitare appunto la possibile contrarietà dei giudicati nelle diverse sedi, e ad opera delle diverse autorità giudiziarie dinanzi alle quali la cognizione del fatto, o delle sue giuridiche conseguenze, può essere portata) ha conferito al giudice penale la competenza esclusiva a conoscere del fatto-reato, e della colpevolezza dell'agente; e allo stesso giudice penale ha conferita la competenza principale (o poziore), per conoscere di tutte le questioni che possano influire sulla valutazione della reità (salvo rimando della questione stessa ad altro giudice, da parte di quello penale); o viceversa (come per le questioni di stato, art. 19), quando ha ritenuto inadatto il giudizio penale all'accertamento del presupposto della colpevolezza, e più garanziario il giudizio civile.

In altri termini, il legislatore - in tutti i casi di possibile interferenza fra giurisdizione penale e altra giurisdizione - ha regolato e disciplinato ex prius i criterî di coordinazione e di prevalenza delle singole giurisdizioni; e ha all'uopo autorizzato la parte lesa interessata a intervenire nel processo, nel quale la questione va risolta, imponendogli implicitamente di spiegare il suo diritto d'intervento, se non vuol accettare a priori i risultati del processo di cui si tratta.

La validità del giudicato penale in sede civile, e quella del giudicato civile in sede penale, anche rispetto agli eventuali interessati non partecipanti al giudizio stesso, ha perciò il proprio fondamento anche nel fatto e nel comportamento proprio dell'interessato, il quale, posto dalla legge nella possibilità di scegliere fra l'intervenire nel processo, e il rimettersi alle risultanze di esso, ha creduto di dover scegliere, quali che ne siano le ragioni, quest'ultima via.

Con quanto precede, ha già la sua implicita risoluzione il problema delle condizioni di validità ed efficacia del giudicato penale (sia di assoluzione, sia di condanna). Queste condizioni si possono riassumere nelle seguenti proposizioni: a) nell'emanazione della pronuncia da parte di un vero e proprio giudice (investito di giurisdizione penale), ancorché egli eventualmente sia incompetente (tanto per territorio, quanto per materia); b) nell'identità del fatto, per il quale seguì l'assoluzione, o la condanna; c) nell'identità della persona del reo.

Le dette condizioni debbono poi, naturalmente, ricorrere contemporaneamente, perché di cosa giudicata si possa parlare, ad ogni effetto giuridico. Ond'è che non potrebbe fondarsi un'exceptio iudicati quando un medesimo giudice avesse dichiarato, p. es., che un determinato fatto non costituisce reato, nel giudizio emesso contro Tizio, mentre poi avesse dichiarato invece che un altro fatto uguale costituisce reato, in altro giudizio contro Caio; o quando il giudice (lo stesso, o altro) avesse dichiarato che il fatto non costituisce reato, in un giudizio emesso contro Tizio, mentre poi avesse altra volta dichiarato costituir reato un altro fatto uguale, sebbene commesso dallo stesso Tizio e così via.

Bibl.: Rümelin, La dottrina dell'exceptio rei iudicatae, Napoli 1876; G. Cesareo Consolo, Che s'intende per sentenza passata in giudicato, Messina 1876; P. Cogliolo, Cosa giudicata, in Enciclopedia giuridica, parte 2ª; id., Cosa giudicata, in Digesto italiano; Tuozzi, L'autorità della cosa giudicata, Torino 1900; A. Rocco, Trattato della cosa giudicata, Napoli 1904; U. Rocco, L'autorità della cosa giudicata ecc., Roma 1917.

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