CORSICA

Enciclopedia Italiana (1931)

CORSICA

Antonio Renato TONIOLO
Gino BOTTIGLIONI
Raimondo Bacchisio MOTZO
Rosario RUSSO
Carlo ARU
Alfredo BONACCORSI

situazione. - Chiamata Κύρνος dai Greci, Corsica dai Latini, è questa la più piccola e più settentrionale delle tre maggiori isole che chiudono il Mar Tirreno (Sicilia, Sardegna, Corsica), ma geograficamente la più italiana. Situata infatti fra 41°21′50″ e 43°0′45″ di lat. N., 8°32′22″ e 9°33′41″ di long. E., essa è separata dalla Sardegna dalle Bocche di Bonifacio, larghe 12 km. e si trova appena a 82 km. dalla Penisola Italiana (promontorio di Piombino). Tra la Corsica e l'Arcipelago Toscano, vi sono fondali non superiori agli 863 m.; mentre fra l'isola e la costa di Provenza, corrono. 175 km., con profondità superiori ai 2000 m. Da nord a sud (Capo Còrso-Capo Pertusato) l'isola s'allunga per 183 km.; e fra il Lapo Rosso a O. e la Torre d'Alistro sulla spiaggia orientale è larga km. 83,5. La sua superficie è di kmq. 8718,7 oltre a kmq. 3,3 dati dalle 43 piccole isole e scogli che le appartengono. La Corsica è essenzialmente montuosa p0iché la zona pianeggiante si riduce solo a una breve fascia, lungo la costa orientale in corrispondenza alla foce del Golo e alla Piana d'Aleria. La sua altezza media è di metri 568 (Sardegna m. 344, Sicilia m. 441), con la cima massima a m. 2710 al Monte Cinto (2707 secondo l'ultima triangolazione).

Geologia e morfologia. - La Corsica, che orograficamente appartiene al sistema sardo-còrso, geologicamente e morfologicamente è formata da due parti distinte di ineguale estensione, separate da un solco più depresso centrale, che dalla Balagna orientale, a nord-ovest, si dirige a sud-est, in direzione di Solenzara.

A occidente si stende la zona più vasta, che occupa i due terzi dell'isola ed è costituita di rocce cristalline, tra le quali predomina il granito, che corrisponde, per età, ai nuclei granitici delle Alpi Occidentali, circondato come è da lenti di gneiss e micascisti e anche ricoperto da effusioni porfiriche nelle regioni di Asco e di Manzo. La grande zona spartiacque dell'isola, massiccia e relativamente uniforme, è spostata, con ampia curvatura, verso occidente, per l'azione regressiva dei corsi d'acqua orientali entro la massa granitica, la quale ha un'altezza media superiore ai 680 m. s. m. e rappresenta la zona di massimo sollevamento, con cime superiori ai metri 2000 (M. Cinto, m. 2710, M. Rotondo, m.2625). Plasmata dall'azione glaciale quaternaria, già assai estesa, ha creste aguzze, circhi e pareti strapiombanti, che poi degradano verso sud-est, in forme più rotondeggianti e disfatte (M. d'Oro, m. 2391, M. l'Incudine, m. 2136), ma sempre con rude paesaggio d'alta montagna. Perpendicolarmente alla linea spartiacque si spingono a occidente, verso il mare, una serie di catene parallele con direzione NE.SO., separate da valli conseguenti, che dopo una gola nel loro corso medio, si allargano in vallate terrazzate e alluvionate, oppure, come nella Balagna, in depressioni collinari aperte al mare. Anche sul lato interno, le alte valli orientali hanno corso conseguente, con ampî bacini a evoluzione molto avanzata, che formano, tra 1000 e 1500 m. d'altezza, conche isolate, che portano nomi speciali: Niolo (Tolo), Giussani (Tartagine), Bastelica (Prunelli), ecc., chiuse verso il basso da profonde gole, dovute probabilmente all'azione risaliente del ciclo evolutivo attuale, note per la loro orrida bellezza (le gole dell'Asco del Tavignano, del vecchio, del Fium'Orbo, del Golo, ecc.). Questo ambiente d'alta montagna, dove prosperano il bosco e il pascolo, è invece intercomunicante sui due versanti per mezzo di valichi, detti localmente "bocche" o "foci", fra i quali i più importanti sono il Col di Vergio (m. 1460), il Colle di Vizzavona (m. 1162), la Foce Verde (m. 1345), ecc.

Il lato nord-est dell'isola è occupato invece da una vasta formazione sedimentaria e metamorfica di scisti paleozoici o secondarî, in cui sono inclusi una grande quantità di serpentine, eufotidi, gabbri (rocce verdi"), corrispondenti a quelli del Piemonte. Questi scisti sembrano dovuti alla sovrapposizione di due falde di ricoprimento, carreggiate dall'est alla fine dell'Oligocene, e ripiegate a lor volta durante il Miocene superiore; e sopra di essi poggiano i terreni secondarî e terziarî in brevi lembi. È questa la regione morfologicamente più evoluta, di media montagna, con altezza media di 370 m. e assoluta di poco superiore ai m. 1200, che degrada verso il mare in una piattaforma di molassa miocenica, e in una striscia di alluvioni quaternarie. Il Capo Còrso, che forma una penisola ben distinta, dove predominano le pietre verdi, è costituito da una dorsale lunga 45 km. e larga 15, della media altezza di m. 306 e massima di m. 1305 (M. Stello), a breve e ripida idrografia penniforme, ma a vallate più mature e a fondo alluvionato più sul lato orientale che non sull'occidentale. Su tutta l'estesa massa degli scisti seritici e anfibolici, che costituisce il restante lato orientale dell'isola fino al Fium'Orbo, la morfologia è meno matura. Il Golo, il Fium'Alto, l'Alesani hanno sezionato masse fortemente ripiegate in un vero labirinto di valli, lasciando sussistere tra loro catene allineate da nord a sud, che non s' innalzano mai sopra i 1000 m., né scendono sotto i 300 (altezza media, m. 462), e che sono attraversate da gole profonde con ampî bacini intravallivi, con paesaggio di media montagna; mentre più a sud la zona del Tavignano scende su una serie di terre basse (altezza media, m. 328) sull'orlo marittimo di calcare e sabbia miocenica, a paesaggio collinare assai maturo.

Fra queste due zone geologiche, granitica a SO. e scistosa a NE., s'insinua, come nelle Alpi Occidentali, una fascia di rocce tenere (calcari infraliasici e nummulitici, arenarie e marne eoceniche) dovuta a una trasgressione eocenica, e fortemente erosa, con manifestazioni carsiche, con doline (caterazze) e caverne, come la grotta di Pietra Bella presso Ponte Leccia e del Torrente Lano nella Castagniccia. Si è quindi formato un solco centrale, che si dilata a nord nel bacino del Nebbio, dove confluiscono i corsi longitudinali mediani dei fiumi orientali provenienti dalla zona granitica (Asco, Golo, Tavignano), che hanno aperto ampî bacini depressi fra i 400 e i 200 m. s. m., separati in piccole unità regionali (bacino di Ponte Leccia, di Corte, ecc.), a fondo largamente alluvionato e terrazzato, con facili comunicazioni tra loro, e che rappresentano, anche storicamente, il cuore dell'isola. Questo solco allineato e depresso separa l'isola in due parti: l'"al di qua" dei monti orientale, e l'al di là" occidentale; o "Banda di Dentro" e "Banda di Fuori"; la regione ricca e abitata verso il Tirreno e la penisola italiana, e la regione povera e disabitata verso l'aperto Mediterraneo.

Anche le coste còrse, sviluppate per circa 1200 km., presentano due tipi ben differenti. Quelle granitiche occidentali, dalla Balagna a nord, a Solenzara a sud-est, sono alte, fortemente articolate, con vasti golfi orientati a seconda delle vallate (di Galeria, di Porto, di Sagona, di Ajaccio e di Valinco), largamente aperti a sud-ovest, sfrangiati da innumerevoli insenature minori, con piattaforma sottomarina molto ristretta e declive, ad antiche alluvioni fluviali sottoposte alle recenti: vere rías prodotte da un abbassamento della costa occidentale, per cui il mare è penetrato entro le vallate. L'apertura di questi golfi in direzione del vento dominante (libeccio), la mancanza d'accesso verso l'interno, li rendono (salvo quelli di Calvi e Ajaccio) poco atti alla navigazione; tanto più che le coste fronteggianti di Francia e delle Baleari sono molto distanti. La costa orientale invece, salvo il Capo Corso, dovuta a sollevamento e con ampia piattaforma sottomarina, da Bastia al Travo, è bassa, rettilinea, alluvionale. I fiumi più attivi, del versante tirrenico dell'isola, vi hanno costruito numerosi delta, legati fra loro da lidi sabbiosi, che separano stagni costieri, poco profondi e malarici, quali lo Stagno di Biguglia (ettari 1500, a nord della foce del Golo), quelli del Sale, di Stiglione, di Urbino, di Palo, fra la foce del Tavignano e quella del Fium'Orbo che misurano complessivamente 750 ettari; e infine una vera laguna, profonda 30 m., ad acqua salsa, aperta al mare, lo Stagno di Diana, ai piedi delle pendici collinari a nord di Aleria. Sebbene sia bassa e rettilinea, questa costa, perché difesa dai venti occidentali, con ampio retroterra fin nel cuore dell'isola e vicina all'Arcipelago Toscano e all'Italia, è stata prevalentemente utilizzata per la navigazione fin dall'antichità, nonostante l'ostacolo costituito dal cordone litorale che spesso separa dal mare aperto i golfi, salvo quelli di Bastia e Porto Vecchio.

Oggigiorno però la malaria dominante negli stagni costieri, e l'evoluzione tecnica della navigazione, hanno paralizzato anche qui ogni insediamento costiero, concentrando tutto il movimento marittimo nella cala d- Bastia; cosicché si può dire che nel loro complesso le coste della Corsica mal si prestano a un'attiva vita marinara.

Clima. - La Corsica, per la sua situazione, può considerarsi isola a clima spiccatamente mediterraneo, ma per la sua forte elevazione presenta grandi varietà climatiche. Nel complesso il suo clima può paragonarsi a quello della Toscana e della Liguria.

Dal punto di vista termico si possono distinguere tre zone sovrapposte. La zona costiera, che si spinge entro le valli e i contrafforti montuosi fino a circa 600 m. s. m., ha temperatura media annua anche superiore a quella delle coste d'Italia e di Spagna alla stessa latitudine: a Bastia e Ajaccio (medie dei mesi invernali rispettivamente 12°3 e 9°6) si hanno inverni più miti che in Troscana e in Provenza (Livorno 7°9, Nizza 10°2); le estati sono più calde sulla costa orientale (Bastia 25°9, Ajaccio 21°7) che è spesso insalubre. La zona interna, tra i 600 e 1600 m. s. m., gode d'un clima temperato caldo, ma più rude, con notevoli oscillazioni termiche tra i mesi estremi, assai salubre per serenità di cielo, per cui vi si insedia la massima parte della popolazione del lato orientale dell'isola. Le temperature variano secondo l'altitudine e l'orientazione delle vallate (Corte, m. 396, media invernale 6°1); l'inverno è piuttosto rigoroso nelle zone alte con frequente caduta di neve da novembre ad aprile; le estati sono calde, specie sul fondo delle valli e conche della regione mediana. La zona montuosa, sopra i 1600 metri, ha un clima d'altezza temperato freddo, con estati fresche e inverni lunghi e abbondanti di neve, che copre le alte vette fin oltre la metà di maggio.

I venti spirano soprattutto sulla "Banda di Dentro" verso il Tirreno. Il predominante è lo sciroccu d'inverno, che a Bastia soffia per circa un centinaio di giorni all'anno e che insieme col grecale porta la pioggia; molto frequente è anche il libeccio, che spira per una cinquantina di giorni al Capo Còrso e alle Bocche di Bonifacio, rendendo difficile la navigazione, ma soprattutto domina entro i golfi e le vallate della costa occidentale, che ne è presa in pieno, mentre è riparata dai venti freddi di tramontana. Nell'alta zona montuosa si fa sentire d'estate la brezza di montagna, il muntese, che scende le valli da sud-ovest nella Banda di Dentro e da nord-est nella Banda di Fuori.

Le condizioni pluviometriche sono rappresentate nelle carte e tabelle, dalle quali risulta che, a eccezione della zona costiera di Bonifacio e della Balagna, la Corsica, alta montagna in un mare meridionale", è un'isola ricca di precipitazioni, trovandosi sul percorso dei cicloni atlantici invernali nel Mediterraneo.

Vi sono in Corsica due zone di forte piovosità coincidenti con le grandi linee del suo rilievo, la regione del sud-ovest, dei massicci cristallini di oltre 2000 m., con piogge annue superiori ai 1500 mm., e la regione del nord-est, con rilievi non superiori ai 1500 m. e precipitazioni inferiori ai 1500 mm. Fra queste due zone v'è una fascia a piogge inferiori agli 800 mm., che coincide con il solco interno depresso. Le coste sono relativamente più secche, specie alle due estremità, e le variazioni locali dipendono dalla morfologia e dall'esposizione ai venti. Sono venti piovosi lo scirocco, che porta la pioggia sul versante tirrenico, ma giunge ormai asciutto nella zona interna, e il libeccio che la porta su quello mediterraneo e che fa sentire la sua influenza anche sugli alti bacini orientali, attraverso i valichi dello spartiacque.

Per quanto riguarda il regime stagionale delle precipitazioni, in tutta l'estensione dell'isola il massimo principale ha luogo in autunno e si prolunga in inverno, ben superiore alle piogge primaverili, mentre v'è un minimo ben netto in estate, in analogia a quanto avviene in Sardegna. La tendenza verso un massimo invernale, che fa della Corsica una regione di transizione verso il tipo nettamente mediterraneo della Sicilia, si accentua sempre più da nord a sud, fra il Capo Còrso e Bonifacio. Infatti, mentre a Bastia l'ottobre ha un massimo principale, a sud dell'isola questo è spostato a novembre. A Capo Pertusato la metà delle precipitazioni cadono da ottobre a dicembre, mentre si ha una stagione secca molto accentuata. L'influenza dell'altitudine si fa sentire più in primavera che in autunno, cosicché le stazioni elevate, come La Pineta, Alistro, ecc., hanno un'attenuazione delle piogge autunnali, con aumento di quelle primaverili; il rilievo tende cioè a moderare gli eccessi del regime mediterraneo sensibile invece sulle coste.

D'altro lato la quantità di piogge, durante la stagione umida, è maggiore sul versante tirrenico sottoposto allo scirocco, che su quello occidentale, ma la stagione secca è però a oriente più accentuata; con un numero medio annuo di ore piovose a Bastia meno grande che ad Ajaccio, dove pure piove meno.

Idrografia. - Il regime idrografico dei fiumi còrsi risente del regime udometrico dell'isola. L'alimentazione irregolare nelle varie stagioni e il forte pendio di quasi tutti i corsi d'acqua dànno a essi un regime prevalentemente torrentizio. Quelli orientali, più lunghi e a più esteso alto bacino, sono i più attivi e a portate molto variabili. Il principale è il Golo (84 km. di lunghezza e 980 kmq. d'estensione di bacino): scende dalle alte vette del M. Cinto e del Rotondo, i più nevosi dell'isola, per cui le morbide invernali, talora improvvise, sotto l'influenza dello scirocco, si prolungano fino a maggio, trascinando a mare un'enorme quantità di detriti; mentre da giugno a settembre il fiume si riduce quasi secco, cosicché la sua portata media non supera i 12 mc. Lo stesso si dica del Tavignano, il secondo fiume dell'isola (80 km. di lunghezza, con un bacino di 825 kmq.) e del Fium'Orbo, che sboccano tutti a delta su spiagge alluvionali, orlate di stagni.

Il versante occidentale ha fiumi meno lunghi, meno alimentati e che attraversano i compatti terreni granitici. Così l'Ortolo, il Rizzanese, il Taravo (km. 53), il Prunelli, il Gravona (km. 36), il Liamone, il Fango, il Ficarella, l'Ostriconi. Se le portate aumentano al principio d'autunno e alla fine dell'inverno, si esauriscono molto presto e d'estate sono quasi tutti secchi. Inoltre, convogliano minore quantità di detrito, così che le loro acque sono meno torbide; e sboccano su una costa alta a rías, che impedisce il formarsi di vere zone deltizie: fa eccezione il Rizzanese.

Vegetazione e fauna. - La Corsica fa parte di un'unità fitogeografica italiana ben circoscritta, che comprende la Sardegna, la Corsica e le isole dell'Arcipelago Toscano; unità che è attestata dalle specie di fanerogame endemiche (circa una quarantina) proprie di queste grandi isole. Di origine probabilmente terziaria, la flora attuale si è sviluppata in situ, con adattamento di tipo mediterraneo, giacché i 9/10 delle piante endemiche mostrano affinità con gruppi sistematici della Penisola Italiana, della Liguria e delle Baleari. Presentemente l'insularità della flora còrsa si nota nella caratteristica prevalenza, per tratti assai estesi, di poche specie, e di flore locali chiuse in zone ristrette, pur riflettendosi in essa una dualità floristica, in relazione con la dualità fisica e geologica dei due versanti dell'isola.

Fra 0 e 900 m. s. m. predomina la regione mediterranea con la caratteristica macchia, che è la sua principale formazione, con gli arbusti sempre verdi e piante xerofile di alistri, di scope (eriche), di strincoli (lentischi), di lavande, di cisti, misti a lauri e ginestre, e che si stende su tutti i terreni poco produttivi, specie su quelli cristallini nel sud-ovest dell'isola, dove è più spessa e più alta, e dove sembra una sostituzione, anche recente, alla foresta mediterranea, dopo gl'incendî periodici accesi dai pastori. Dentro questa fascia periferica della macchia, si stende più o meno, quasi a oasi, la zona delle colture. Fino a 400 m. v'è la coltura dell'olivo, predominante assolutamente nella Balagna, e fra essa boschi di querce da sughero presso Porto Vecchio, e vicino agli abitati mandorli, fichi, ciliegi, meli, noci; mentre, lungo le insenature riparate della costa occidentale e al Capo Còrso, vegetano agrumi, pini, agavi, cipressi. Fra i 400 e i 900 m. v'è la zona del castagno, che forma veri boschi, specie sui terreni umidi, soprattutto attorno a Bastelica fino a 900 m. e nella Castagniccia fino a 800, innalzandosi qualche individuo isolato fino ai 1200 m.; i castagneti sono intramezzati da limitati boschi di leccio (Quercus ilex) e sui versanti a solatio dal vigneto, che, specie sui bassi rilievi orientali, tende a invadere la zona a scarso reddito granario. Nella regione montana si ha una prima fascia, tra: 900 e i 1200 m., di boschi ad aghifoglie con ricco sottobosco di Pinus pinaster inferiormente e di Pinus laricio (Pino di Corsica) al disopra. Fra i 1200 e i 1800 metri, si stendono le foreste di faggi, accompagnate da abeti, larici, betulle, alni, per quanto meno diffusi, che formano i grandi boschi di Bonifato, di Filosorma, di Valdoniello d'Aitone, di Vizzavona, di Bavella, ecc. Questi si sfrangiano, sopra i 1800 m., con la fascia degli alberi nani (Juniperus, Alnus, Astragalus), trapassando alla regione alpina, relativamente povera di specie e d'individui, che forma pascoli magri, rocciosi, e chiarite prative, dette "pozzi", nelle conche e zone umide.

La fauna còrsa non può separarsi da quella della vicina Sardegna e della Toscana, di carattere europeo, ma con apporti meridionali e forme endemiche proprie del suo isolamento, che rappresentano però solo il 10% dell'intera fauna. Fra i Mammiferi non vi sono che una ventina di tipi, quali il Cervus corsicanus Wagn., che vive nelle foreste sotto i 1800 m., e si avvicina alla specie fossile del Pliocenico del Valdarno, come pure il cinghiale còrso, che fu ravvicinato al Sus Strozzii del Pliocene toscano. Così il muflone (Ovis musimon occidentalis Brandt.), che si distingue da quello della Sardegna, vive verso i 2000 m. sui pascoli della zona granitica, e si distingue dalla varietà orientalis pascolante sulle rocce calcaree nel sud della Corsica. Da molti anni è scomparso il lupo e da 150 anni l'orso; si trovano invece ancora numerose le volpi, i tassi, le faine, le talpe, le marmotte, ecc. Le specie domestiche importate, cavalli, maiali, capre, buoi, non sembra abbiano avuto una notevole influenza sulle specie endemiche, respinte dall'uomo nelle parti più aspre dell'isola. L'avifauna, essendo la Corsica vicina al continente e sulle vie dei viaggi delle specie migratorie, non presenta fisionomia particolare; fra le specie sedentarie l'unica propria della Corsica è la Sitta Whiteheadi delle sue foreste a conifere. Povera appare la fauna ittiologica d'acqua dolce, che vive negli stagni costieri e nei laghetti montani (le anguille, le trote e le carpette), ma annovera una forma originale, l'Euproctus montanus del Lago d'Argento al M. Cinto. Anche dei varî altri gruppi dì vertebrati solo la Lacerta Fitzingeri è endemica, mentre nella maggior parte questi gruppi confermano un isolamento relativamente recente della Corsica dalla penisola italiana.

Elementi etnici. - Il còrso è dolicocefalo, con indice cefalico medio di 76,6. Il 90% degl'individui sono di piccola statura, con carnagione scura, capelli e barba abbondanti di colore bruno (34%) o castano (56%), occhi affossati, naso diritto. I biondi a occhi chiari sono appena il 9,2%; predominano nelle città costiere occidentali e sembrano d'incrocio recente.

I Còrsi appaiono di solito melanconici e tristi, ma ricchi di sentimento, forti e tenaci. Il carattere insulare è impresso nelle loro tradizioni e idee, fra le quali l'amore della famiglia, la semplicità della vita, l'attaccamento alla libertà, la giustizia individuale ("la vendetta"), l'indipendenza dell'isola. Il "pomontico" o l'abitante della rude Corsica di sud-ovest è il pastore irruento molto fiero e sicuro di sé; il "castagnicciaccio" agricoltore che abita nella Corsica orientale, è più intelligente, calmo, socievole e trafficante: tipo caratteristico il "balaninu untu e finu". I costumi paesani vanno però scomparendo di fronte alla moda d'oltre mare, importata dagli uomini che emigrano per tempo, per tornare da vecchi a occuparsi delle sterili lotte politiche paesane.

Colture. - La Corsica, nel 1924, era a un dipresso così ripartita:

Come si vede, 1/5 della superficie è occupato dal bosco, circa 1/3 dalle colture e ben 2/5 dalla macchia mediterranea. Bisogna però tener conto che quasi il 70% del territorio è dato da terreni cristallini, che il clima dominante è quello submediterraneo e che quindi quel suolo difficilmente potrebbe produrre altro mentre la macchia dà combustibile e carbone di legna che è esportato.

I boschi, che si stendono sugli alti versanti montuosi, sono in gran parte l'avanzo d'una più estesa copertura, distrutta con l'incendio, per estendere le aree a pascolo, o con il taglio disordinato delle fustaie. Nel 1878 le foreste còrse erano calcolate a 209.000 ettari, e in un trentennio si sarebbero ridotte di 60.000 ettari quasi tutti di proprietà privata. Oggi sono soggetti a vincolo forestale ettari 122.000 di proprietà dello stato o dei comuni; ma molti di essi, per mancanza di comunicazioni, non sono ancora sfruttati; cosicché, dopo il consumo locale, poco resta di legname da costruzione per l'esportazione in Italia e Spagna. Anche il sughereto, dominante intorno a Porto Vecchio, fornisce un prodotto che si invia sul continente per un valore di circa 600.000 franchi annui, e lo stesso accade delle radici dell'erica, usate per la fabbricazione delle pipe.

Le castagne (circa 300.000 q. annui), come nell'Appennino Toscano, rappresentano uno dei maggiori alimenti della popolazione di media montagna, specie nella zona orientale della Castagniccia e nella Bastelica, a occidente, dove vengono seccate nelle "seccarecce" e nei "fucòni", macinate in farina, da far polenta, "nicci" e "pisticcini"; mentre le migliori si esportano per un valore annuo di quasi mezzo milione di franchi. L'estensione del castagneto va però riducendosi, per i troppi tagli fatti su richiesta delle fabbriche di tannino, che si trovano a Casamozza, Barchetta e Folelli nella Castagniccia e che esportarono, nel 1926, per circa 20 milioni di fr. di acido tannico.

Si stimano a circa 35.000 ettari i pascoli magri naturali, sia estesi verso le zone montane, sia nelle zone palustri orientali. Questi, insieme coi prati in rotazione di colture e col sottobosco, alimentano 260,000 pecore, 140.000 capre, 34.000 bovini, 33.000 suini, 18.000 equini, soprattutto asini. La pecora indigena - che devasta le colture e le giovani piantagioni boschive, per la transumanza vagante e disordinata - è d'origine siriaca e dà luogo a una notevole produzione di formaggio, che nel 1926 venne esportato in Francia per 22 milioni di franchi; mentre localmente si usa il "broccio", che è una specie di ricotta squisita.

Dei 240.000 ettari di colture erbacee, quasi due terzi hanno rotazione prativa e lunghi anni di riposo, soprattutto per la mancanza di braccia e la scarsezza di capitali. Effetto quest'ultimo dell'estrema divisione della proprietà, per cui, su 50.000 famiglie còrse, solo 2000 non hanno possessi fondiarî: la media delle parcelle catastali è di solo un ettaro l'una, spesso distanti l'una dall'altra, per cui è necessario abbandonarle a sé stesse. Così solo il 14% degli addetti all'agricoltura è costituito da salariati, quasi tutti italiani, il resto da lavoratori autonomi. Annualmente solo 33.000 ettari sono a cereali, con circa quintali 100.000 di prodotto, quasi tutti nella "Banda di Dentro", la zona veramente agricola dell'isola; e di poco superiore è la coltivazione della patata (3000 ettari con produzione di quintali 120.000).

Il vigneto occupa 7000 ettari, soprattutto nei terreni collinari asciutti, dove si spinge fino a 800 m. s. m., con una produzione che si avvicina a 200.000 ettolitri di vino; i vini più noti sono il bianco di Capo Còrso e i rossi di Campoloro, di Orcino e Sartena, che vengono peraltro esportati solo in piccola quantità. A 20.000 ettari è calcolata la superficie coperta a olivi, o isolati o a oliveto, di cui 4000 nella sola Balagna, con 300.000 ceppi d'olivo e con la massima produzione di tutta l'isola, ma variabilissima d'anno in anno, mentre la fabbricazione è ancora rudimentale e i mezzi di trasporto costosissimi e insufficienti, per cui nello smercio l'olio della Balagna subisce la concorrenza degli olî italiani.

Fra le colture varie va ricordata quella degli agrumi, lungo le riviere riparate delle coste sud-occidentali; la coltura caratteristica del cedro si esercita al Capo Còrso, nella Casinca, nel Nebbio, in Balagna (16.000 kg. nel 1926), e i frutti sono destinati alle fabbriche di canditi di Genova e di Livorno. Meli e peri dànno prodotto d'esportazione in Val di Prunelli, attorno ai 500 m. s. m.; le noci attorno a Venaco, dove sostituiscono il castagno; i mandorli vanno diffondendosi nella Corsica meridionale, e a Erbalunga v'è l'industria dell'essenza di geranio, mentre il tabacco è a coltura libera per l'uso famigliare.

Generi di vita. - La popolazione rurale della Corsica rappresentava nel 1921 il 71% del totale, con una diminuzione del 3,4% dal 1911; e mentre un secolo fa v'erano 6 campagnoli contro un abitante di città, oggi ve ne sono solo 4. Tuttavia la vita agricola è predominante, con varietà regionali in relazione all'ambiente fisico-economico delle rispettive regioni, e in stretto nesso con quelle della popolazione toscana.

L'attività agricola di tipo mediterraneo s'insedia sulle falde montuose sopra i 500 metri, dove si hanno le colture dell'olio, della vite e dei cereali, e sfrutta con il pascolo e le colture estensive, nelle diverse stagioni, le vicine zone inferiori e superiori, ma senza una vera transumanza. Fino a metà del secolo XIX questo tipo agricolo era esteso nella Balagna, nel Nebbio, nel Capo Còrso e nel solco centrale dell'isola; ma attualmente si ha la specializzazione delle colture erbacee e delle primizie di ortaggi (specie al Capo Còrso) e una diminuzione dei cereali e degli ovini, sostituiti dai bovini, ciò che domanda una minore mano d'opera, già diminuita per la forte emigrazione.

Nella Castagniccia, unità geografica omogenea, per il suo isolamento, per la natura scistosa del suolo, per la media altezza fra i 500 e gli 800 m., a causa del dominio del castagno, si svolge una vita tutta originale, imperniata su questo prodotto, comp] etata da una scarsa agricoltura attorno ai paesi e che pure, senza allevamento di bestiame, mantiene una popolazione stabile dai 60 agli 80 ab. per kmq.

Fuori della Castagniccia, fra i 600 e gli 800 m., nella media montagna granitica del sud-ovest, il castagno, per la sua limitata estensione attorno ai paesi, non assorbe tutta l'attività, che quindi varia ed è distribuita fra i pascoli d'alta montagna e la zona costiera orientale. La massima parte di questa popolazione di pastori transumanti oscilla con i suoi armenti fra gl'isolati ricoveri d'alta montagna ("stazzi", "pacciali"), nell'estate, e i centri temporanei di capanne di legno in basso, nell'inverno, dove attua anche un'estensiva coltura di cereali; mentre non torna ai villaggi permanenti di mezza costa che fra l'ottobre e il novembre per la raccolta delle castagne. Ma anche questa vita complessa va rapidamente evolvendosi con il progresso, sia pure lento, delle bonifiche del bassofondo orientale. Parte di questa popolazione abbandona la zona di media montagna e le greggi e si fissa in basso, accettando la vita agricola mediterranea, creando nuovi centri permanenti. Parte invece diviene completamente pastorale, con transumanza continua a scaglioni successivi, senza fissa dimora; infine i pochi rimanenti divengono abitanti permanenti dei centri di media montagna, sfruttando il castagneto e le grandi foreste della montagna granitica.

Da ultimo, le alte vallate del Golo, dell'Arco, del Tartagine, fra gli 800 e i 1000 m., conoscono un'economia a tipo alpino, in cui predominano l'allevamento dei bovini, che vanno aumentando, e lo sfruttamento del bosco, mentre i pochi ovini vengono consegnati ai pastori delle zone inferiori, per lo svernamento al piano.

Pesca, caccia, giacimenti minerarî. - Per quanto le alte zone montuose della Corsica siano ricche di selvaggina (cervo, muflone, cinghiale) e le coste orientali di uccelli (pernici, fagiani, beccacce, folaghe, quaglie, ecc.), ciò non dà luogo che a qualche battuta di maggiorenti dell'isola o di turisti. Anche la pesca, non solo d'acqua dolce, ma marittima, è molto in decadenza, dopo la legge del 1888 che ne ha proibito l'esercizio ai pescatori di nazionalità straniera. Così è abbandonata la pesca del corallo, fra Ajaccio e Bonifacio, e poco attiva è quella di sardine, triglie, sogliole, sgombri, di cui sono ricchi i mari dell'isola, e in diminuzione quella delle aragoste ad Ajaccio, S. Fiorenzo, Calvi, Propriano, Bonifacio, ridotta a soli 323 q. nel 1925. Più ricco è l'allevamento delle anguille e delle ostriche, esportate in Francia e in Italia, negli stagni costieri orientali.

La Corsica aveva nel 1925 solo 428 barche da pesca, che davano lavoro a 1098 uomini; si esportavano soli 1542 q. di pesce, e se ne importavano 7700 q. La vita marittima della Corsica è limitata quindi a pochi punti, e dovuta solo al traffico, a ragioni militari o al turismo.

La zona cristallina dell'isola presenta una grandissima varietà di minerali. Esistono 15 concessioni di miniere: di ferro a Sposata presso Calvi, a Tavoleggio presso Galeria, a Vero, Ota, a Candia presso Ajaccio, ma che sono del tutto abbandonate; di pirite all'Argentella, Belgodere e Revinda; di galena argentifera, all'Argentella, Calemana, Pietralba, Monticello, Ghisoni; di solfuro d'antimonio e arsenico a Vico, ecc. Ma le tracce sono scarse e manca il combustibile fossile: unico giacimento è quello di Osani, di carbone antracitoso, la cui concessione di 392 ettari aveva una sola miniera, oggi abbandonata. Numerose sono pure le cave di granito, porfido verde di Corsica, di marmi bianchi venati, gialli, ma tutte senza largo sfruttamento per la scarsità della mano d'opera e la difficoltà dei trasporti. Nel cuore dell'isola, a contatto fra la zona cristallina e quella sedimentaria, si trovano parecchie sorgenti termali. Alcune di queste, come quelle acidule di Moriani, erano note fin dall'epoca romana; quelle ferruginose di Orezza, solfuree di Pietrapola, Guagno, Caldaniccia, Puzzichello, Guitera, Baracci, ecc. sono usate anche oggi; ma l'esportazione di acque minerali segnò un valore di appena 17.000 franchi nel 1926.

Industrie e commercio. - Del complesso degli abitanti che esercitano una professione, solo il 18,7%, nel 1921, era addetto all'industria e al commercio, con una diminuzione del 5,3% dal 1906.

La grande industria propriamente detta si può dire manchi in Corsica, a eccezione delle fabbriche di acido tannico della Castagniccia, che occupano 248 persone, e di alcune altre, che sono agl'inizî, per la fabbricazione della cellulosa di legno. Complessivamente si usufruisce di 4465 cavalli di forza, a vapore o idraulici, compresi i mulini di cereali e castagne. Finora non vi ha avuto nessuno sviluppo l'industria idroelettrica. Solo sono stati iniziati i lavori per la costruzione della prima centrale idroelettrica a Prunelli di Casacconi, utilizzando le acque del Golo; e altri progetti per utilizzare le acque del Prunelli, del Taravo, del Rizzanese, del Tavignano, del Fium'Orbo sono rimasti senza esecuzione. Le piccole industrie manifattrici, e in gran parte domestiche (i salariati sono appena il 23%, non occupavano nel 1921 che 12.000 persone; delle quali quelle dell'abbigliamento 3551, quelle del cuoio e calzature 2292; quelle del legno (fra cui caratteristica quella delle pipe di radica) 1860; quelle delle costruzioni 1391; il resto in altre piccole industrie, tutte peraltro in regresso dal 1906.

Il commercio, compreso quello locale di vendite al minuto, occupa complessivamente 5633 persone (1921); quello interno si fa in gran parte per scambio dei prodotti fra le varie parti dell'isola, nelle grandi fiere annuali, fra cui quella di S. Pancrazio ad Ajaccio per la Banda di Fuori, e quella di S. Regina nel Niolo per la Banda di Dentro. Il commercio esterno si fa attraverso i porti di Bastia, Ajaccio, Propriano, Bonifacio, Calvi, Solenzara e Porto Vecchio.

Bastia è il più attivo porto della Corsica, il cui movimento, nel 1927, fu di 1392 navi, 111.970 tonnellate di merci e 75.715 viaggiatori; tale movimento si effettua specialmente con l'Italia e Livorno, da cui Bastia è separata da appena sei ore di viaggio. Ajaccio è il secondo porto dell'isola, ma segue a notevole distanza quello di Bastia, non avendo avuto che un movimento di 816 navi, 42.557 tonnellate di merci e 73.520 viaggiatori specialmente con i lontani porti francesi di Nizza e Marsiglia. Seguono Propriano, sbocco del Sartenese, per il carbone, sughero, e legname, con un movimento di 654 navi, 37.720 tonnellate di merci e 10.427 viaggiatori; Isola Rossa, con 10.347 tonn. e 11.987 viaggiatori, e Calvi, con 5638 tonnellate e 11.564 viaggiatori, sbocco ambedue della ricca Balagna. A ogni modo lo sbilancio commerciale dell'isola è enorme, ché le esportazioni non arrivano al terzo delle importazioni.

Comunicazioni. - La vita indipendente delle varie regioni còrse si è mantenuta a lungo per la mancanza di grandi e comode vie di comunicazione in un paese essenzialmente montuoso. Solo fra il 1830 e il 1840 si cominciarono a costruire le vie nazionali, che oggi hanno una lunghezza di 1144 km. Vi sono poi 210 km. di strade dipartimentali, 505 di vie forestali, e circa 3000 di strade vicinali, di cui solo 500 ritenuti praticabili; cosicché vi sono ancora 28 comuni non riuniti da carrozzabili. Sono sempre più diffusi i servizî pubblici di auto e di turismo; ma per molte parti montuose, i mezzi più usati sono sempre il cavallo e il mulo.

La prima ferrovia, fra Bastia e Ajaccio (158 Km.), fu costruita nel 1883. A Ponte Leccia si dirama la linea di Calvi (74 km.) e a Casamozza quella di Ghisonaccia (km. 65), da dove è ormai ultimato il tronco fino a Solenzara (km. 25), che dovrà poi continuare fino a Bonifacio.

La Corsica è unita all'Italia da linee bisettimanali Bastia-Livorno (64 miglia, ore 6) e di qui a Genova; con la Sardegna da due settimanali Bastia-Porto Torres (36 miglia) e Ajaccio-Porto Torres (68 miglia) e da un'altra giornaliera da Bonifacio a S. Teresa di Gallura, a Maddalena e Terranova. Con la Francia vi sono servizî marittimi da Ajaccio per Marsiglia (178 miglia) e Nizza (130 miglia), da Bastia per Nizza (123 miglia) e da Calvi, Isola Rossa per Marsiglia, Nizza, Tolone; vi è inoltre un servizio costiero da Ajaccio per Propriano, Bonifacio e Porto Vecchio. La linea bisettimanale d'idrovolanti, da Ajaccio ad Antibes (2 ore), fa servizio solo in estate mentre in altre stagioni il servizio aereo tra Marsiglia e Tunisi tocca Tolone e Ajaccio.

Demogram. - Nel 1789 la Corsica annoverava 149.000 ab.; questi nel 1821 erano 180.000, con rapido aumento a 236.000 nel 1851, con una stasi fra il 1891 (288.000), il 1901 (295.000) e il 1911 (291.000), dovuta in parte alla decrescenza della natalità e all'aumento dell'emigrazione; negli anni successivi la guerra ha lasciato notevoli tracce. Così al censimento del 6 marzo 1921 si contò una popolazione presente di 254.958 ab., su una popolazione legale di circa 280.000 ab., tornata nel 1926 a 290.000 ab., per l'eccedenza delle immigrazioni sulle emigrazioni; mentre, anteriormente al 1914, prevalevano le emigrazioni, tanto che si calcola siano sparsi nel mondo 200.000 Còrsi, specie in Francia, nei paesi mediterranei e nell'America Meridionale. L'incremento naturale della popolazione còrsa, nel decennio 1877-86, era dato dal 31 per mille delle nascite e dal 26 per mille delle morti; cifre discese nel periodo 1921-25 al 17 per mille di nati e al 14 per mille di morti, e ciò soprattutto per una rapida diffusione della consuetudine francese della limitazione volontaria della prole (media francese dei nati 19 per mille; Sardegna 31 per mille).

Il 94% della popolazione è costituita da nativi, dei quali, nel 1921, solo il 48% erano maschi. Gli stranieri erano 8658 nel 1911, di cui 8198 italiani; nel 1921 rispettivamente 6098 e 5609, risaliti nel 1926 a circa 10.000, per la maggior parte italiani. Notevole contributo all'economia dell'isola è portato dall'emigrazione temporanea dei Toscani ("Lucchesi"), specie nella parte orientale, dove si dedicano ai lavori agricoli e forestali, dall'autunno alla primavera.

La distribuzione della popolazione nei varî circondarî è indicata dalla tabella qui in fondo: dalla quale si rileva subito che la densità è molto debole (32,3 ab. per kmq.), con una diminuzione del -0,8% dal 1891; densità che è molto inferiore alla media della Francia (74) e di poco anche a quella della Sardegna (35), e che è indice delle condizioni poco floride dell'isola.

La distribuzione della popolazione è assai varia nelle diverse parti della Corsica, per ragioni geografiche e storiche. Il circondario di Bastia ha una densità fortemente superiore alla media, quello di Ajaccio quasi eguale, gli altri sensibilmente inferiore.

La percentuale di popolazione sparsa nella Corsica è molto bassa (18,3 del totale; 17,2 nel 1911), specie nel circondario di Calvi (8,8); mentre è massima (31,0) in quello di Sartena, dove v'è una recente trasformazione agricola delle zone a "macchia".

Regioni a densità assai forti sono la Castagniccia, la Balagna e in minori proporzioni il Capo Còrso. La prima è quella più intensamente abitata, con zone superiori ai 100 ab. per kmq., ma il SO. ha pure una larga zona con 25 e 50 ab. per kmq., con qualche piccolo nucleo superiore ai 50 e 100 ab. Invece una zona quasi vuota di abitanti attraversa l'isola da SO. a NE. e comprende i rilievi maggiori, separando tutta la popolazione in due gruppi: quello della Banda di Dentro con il 56,5% della popolazione totale, sopra il 47,3% dell'area dell'isola; e quello della Banda di Fuori con il 43.5% degli abitanti, sul 52,7% dell'area. Si ripete così una volta di più l'antitesi fra il NE. e il SO. della Corsica.

In genere la popolazione còrsa, più ancora di quella sarda, sfugge il mare, e non si possono calcolare a più del 4,5% del totale gli abitanti insediati permanentemente lungo il mare. Ciò a causa della poca fertilità delle coste alte granitiche e della malaria di quelle basse alluvionali, per cui gli abitanti si ritirarono, già nel Medioevo, nelle valli e sulle pendici dei monti; cosicché la densità costiera (a eccezione dei dintorni immediati di alcuni porti - Bastia, Ajaccio, Propriano, dove si hanno più di 100 ab. per kmq. - e del Capo Còrso) è inferiore ai 25 ab. per kmq., e spesso ai 10 ab. A NE. si ha un massimo assoluto di popolazione fra i 400 e 500 m. s. m., per ragioni di clima e di sicurezza contro le invasioni; un altro massimo fra i 600 e i 700 m. è dovuto alla popolazione della Castagniccia per la coltura del castagno. Nel SO., se si toglie il massimo della zona costiera dovuta ad Ajaccio, la più grande zona di densità è fra gli 800 e i 900 m. s. m., in rapporto alla latitudine più meridionale, alla morfologia della regione granitica, con bacini largamente aperti in alto e chiusi da gole in basso.

Il villaggio più elevato è Calasima nel Niolo, a 1100 m. nell'alta valle del Golo, e gli stazzi più alti, per l'estivazione temporanea del bestiame, sono fra i 1600 e i 1800 m. nel massiccio dell'Incudine. L'altitudine media dell'insediamento permanente è di circa 400 m. (in Sardegna m. 275); ma dal 1872 tende ad abbassarsi, specie lungo il versante di NE. per la colonizzazione delle zone inferiori del rilievo e a SO. per l'insediamento nel litorale, prima quasi deserto.

Anche il centro demografico dell'isola tende a spostarsi verso S. Negli ultimi 125 anni è aumentata del 95% la popolazione del circondario di Ajaccio, e del 138% quella di Sartena, dove si vanno estendendo le colture, a scapito della macchia, e dove è quasi sconosciuta l'emigrazione. Invece i circondarî settentrionali, già più fortemente abitati, nello stesso periodo segnavano aumenti minori (del 57% a Bastia e 66% a Corte), giacché l'eccesso della popolazione emigra verso le città della Francia meridionale o in Italia.

I principali centri urbani sono Bastia (Terravecchia 22.306 ab. e Terranova 11.160) e Ajaccio 20.797 (dati del 1926); tra i centri minori meritano menzione Corte con 4898 ab. e Sartena con 4272.

Divisioni amministrative, religiose, militari, ecc. - Oggi la Corsica è un dipartimento della Repubblica francese, amministrato da un prefetto residente ad Ajaccio, e con tre sottoprefetture a Bastia, a Corte e a Sartena; tre tribunali di prima istanza ad Aiaccio, Bastia e Calvi, 65 cantoni giudiziarî con un giudice conciliatore, e una Corte d'appello a Bastia. I comuni sono in numero di 364, con un'estensione media di 24 kmq. per ciascuno, con un minimo medio nel circondario di Bastia (14 kmq.), che è il più popoloso, e uno massimo in quello di Sartena (39 kmq.); sempre però assai piccoli in confronto a quelli della Sardegna (66 kmq.), perché metà dei comuni hanno una superficie compresa fra i 15 e i 20 kmq. e due terzi non superano i 30 kmq. Nello stesso modo il 48,9% dei comuni, nel 1921, avevano una popolazione inferiore ai 500 ab., e il 40,1% fra i 500 e i 1000 ab. I comuni con il più piccolo numero di abitanti si trovano soprattutto nel circondario di Bastia e in quello di Corte, dove sono più numerosi e hanno anche una minore estensione media (kmq. 14 e 23). Ogni comune, come in Sardegna, comprende ordinariamente un solo centro abitato, salvo in qualche zona (come nel Capo Còrso e nel mezzogiorno dell'isola). Regioni a centri molto numerosi e fitti sono la Castagniccia, la Balagna e, in minori proporzioni, il Capo Còrso e la zona SO. dell'isola; mentre molto rari e sparsi sono i centri comunali nel Deserto degli Argiati e nella parte SE. della Corsica.

Dal punto di vista religioso (i Còrsi sono cattolici nella quasi assoluta totalità) l'isola, che fino alla Rivoluzione Francese era divisa in sei diocesi (Mariana, Nebbio, Sagona, Accia, Aleria, Ajaccio), oggi è retta da un solo vescovo residente ad Ajaccio, dipendente dall'arcivescovado di Aix. Vi sono 70 pievanie e 420 parrocchie.

Gli analfabeti, che nel 1911 erano il 24,2% tra i maschi e il 42,2% tra le femmine, erano scesi nel 1921 al 19,6 tra i maschi e al 33,6 tra le femmine, pur rimanendo la Corsica il dipartimento più illetterato di tutti quelli francesi. Gli alunni delle scuole primarie (che si trovano in ogni comune) e secondarie sono complessivamente quasi 45.000. Un ispettore scolastico risiede in ogni circondario. L'insegnamento classico è impartito in un liceo a Bastia e in tre ginnasî (collèges) ad Ajaccio, Corte e Calvi. L'istruzione tecnica è data dalla scuola professionale di Sartena e dalle scuole commerciali di Bastia e di Ajaccio. La Corsica ebbe (1765-1790) un'università propria fondata da Pasquale Paoli a Corte. Oggi dipende dalla circoscrizione accademica di Aix-Marseille, che ha un ispettore generale scolastico residente ad Ajaccio; mentre i giovani vanno a studiare nelle università francesi o italiane (Pisa, Roma).

Militarmente la Corsica ha un'organizzazione autonoma residente a Bastia, ma dipendente dal 15° Corpo d'armata di Marsiglia. A Bastia è pure il commissariato marittimo dell'isola divisa in tre quartieri (Bastia, Rogliano, Ajaccio), con piazzeforti militari a Girolata, Bonifacio e Bastia.

Regioni naturali e storiche. - Per la sua natura montuosa, per la varietà della sua morfologia, del suo suolo, del suo clima, della sua economia, la Corsica presenta parecchie regioni naturali, specie nella parte nord-orientale che ha maggiori diversità geografiche. Regioni a limiti non ben definiti, ma che hanno vita economica propria, senso di autonomia e quindi nomi particolari e che Sambucuccio d'Alando, ai primi del sec. XI, aveva organizzato in pievi, aventi proprî delegati nelle cosiddette Terre dei Comuni (45 pievi riunite in 6 provincie).

Fra queste regioni naturali, oltre ad Agriata, Balagna, Casinca, Nebbio e Niolo (v.), merita menzione Capo Còrso, penisola montuosa nettamente distinta dal resto dell'isola, fertile e agricola, con abitanti contemporaneamente rurali e marinai, che conservano ancora relazioni con Genova e Livorno; la popolazione vi è numerosa e sparsa.

Giussani è il nome dell'alta regione montuosa del Tartagine e dell'Asco, affluenti del Golo, stretta fra le imponenti pareti delle diramazioni granitiche del Monte Cinto, coperta di boschi di faggio e abete (Foresta del Melaia, di Tartagine e di Carozzica), vuota di centri abitati permanenti, ma sfruttata dai "Lucchesi" per legname e carbone.

La Castagniccia o paese delle Cinque Pievi (Orezza, Ampugnani, Rostino, Vallerustie, Casacconi) è la regione ricca e popolosa della media montagna orientale, dai versanti scistosi coperti di castagneti, chiusa a valle dalle gole del Fium'Alto, Casaluna e Golo, centro della resistenza còrsa a tutti gl'invasori.

Infine la regione del Fium'Orbo, Abatesco e Travo è la più alpestre e isolata di tutta la Corsica, chiusa come è tra le alte catene del sud-est e le paludi della costa orientale (la Piana d'Aleria). Senza unità geografica ed economica, con la sua macchia, i suoi pascoli magri, i suoi pochi abitanti, rappresenta ancora la Corsica medievale, senza comunicazioni, poco accessibile, rifugio degli ultimi resti del banditismo.

Il sud-ovest della Corsica, uniformemente granitico, selvaggio, povero e disabitato, il cosiddetto "Pomonte" (post montes), è piuttosto la sede di regioni storiche, terra feudale per eccellenza, culla di grandi signorie, che dominarono l'isola (i d'Istria, i Cinarca, i Leca, ecc.).

Il Paese di Sia (Sevi di Dentro e Sevi di Fuori) e il Paese di Soro (Soro in Giù e Soro in Su), riuniti fra loro dal colle di Sevi, rappresentano una regione boscosa delle valli del Liamone e dell'Ota, che ebbe la città romana di Sagona, poi vescovado medievale, già indipendente, mentre la restante zona era sottoposta ai signori di Leca, dominanti dalla Rocca di Sia. Oggi il suo centro maggiore è Cargese dove sono nuclei di Greci sopraggiuntivi nel sec. XVIII dalla vicina Paomia dove immigrarono nel sec. XVII.

La Cinarca era il nucleo feudale della potente famiglia dei Cinarchesi, aventi supremazia su tutta la Corsica occidentale. Breve regione, irrigata dagli affluenti della Liscia e del Liamone (il Cantone di Sari d'Orcino), chiusa dalle estreme catene fiancheggianti il Rio di Cruzzini, va trasformandosi oggi in terra fertile di vigne, orti e alberi fruttiferi.

Anche l'Ornano è un'antica signoria stendentesi sulle alte valli del Prunelli e del Taravo, formanti cantoni separati, ma legati dal basso Colle di S. Giorgio, e che oggi va arricchendosi di colture e di abitanti.

Il Paese di Sartena e d'Attalla, dove dominarono i signori della Rocca, fra le propaggini granitiche scendenti dall'Incudine lungo il Rizzanese, sbocca nella conca di Sartena a morfologia collinare, ricca d'acque e di colture, che vanno estendendosi, con il moltiplicarsi degli abitanti.

Invece povero, deserto, coperto di macchia, attraversato solo da pastori e carbonai, è il tratto granitico meridionale dell'isola già appartenente alla Signoria Orbo-Alamana.

Isola essenzialmente italiana per situazione e popolazione, la Corsica, per natura geologica, clima, economia, demografia, si può, come abbiamo visto, distinguere in due parti diverse aventi un nome regionale ben definito. La parte NE., da Calvi a Porto Vecchio, a terreni scistosi, calcarei e sedimentarî, più depressa e aperta verso il mare, a clima umido, ricca di colture e di abitanti, è divisa in tradizionali regioni fisico-economiche che costituiscono la cosiddetta Terra di Comune (v. Comune, Terra di), ed è chiamata "Banda di Dentro" o "Cismonte", la vera Corsica dell'indipendenza e dell'evoluta vita insulare, che gravita sul Mar Tirreno.

La parte più estesa di sud-ovest, granitica, montuosa, povera d'abitanti, arida, divisa in regioni feudali (Paese di Sia, Cinarca, Ornano, Paese di Sartena e di Atalla, Signoria Orbo-Alamana) storicamente dette le Terre dei Signori, forma la "Banda di Fuori" o "Pomonte", con sviluppo economico e demografico più arretrato, soltanto in recente comunicazione con la Francia lontana.

Nello stesso modo tre città dominano la vita còrsa: Bastia sul Tirreno, il capoluogo economico, demografico e culturale dell'isola; Ajaccio, sul Mediterraneo; Corte, il cuore storico dell'indipendenza còrsa, dove vivono ancora le memorie e il culto di Pasquale Paoli.

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Dialetti. - Oggi gli stessi Còrsi hanno chiara la coscienza di due dialetti fondamentali diversi, parlati nella loro isola, rispettivamente in due territorî, tra i quali si svolge la catena montagnosa che dalla sua estremità verso NO., variamente determinata o al golfo di Porto o a quello di Girolata, o alla punta di Gargalo, procede verso sud-est con le cime più elevate (M. Rotondo, M. D'Oro, M. Renoso, L'Incudine, ecc.), fino a raggiungere l'estremo limite nel territorio di Conca, non lungi dalla marina di Solenzara. Gli abitanti di ciascuna delle sue zone si chiamano a vicenda pumuntinchi, e Pumonte dicono la regione che, rispetto a loro, è al di là dei monti, sicché, avendo riguardo all'uso popolare si potrebbe distinguere il Pomonte nord dal Pomonte sud. Ma questa denominazione non è quella più comunemente adoperata dagli studiosi della Corsica; tra i quali i geografi più antichi, per esempio, chiamavano Banda di Dentro il Pomonte Nord e Banda di Fuori il Pomonte Sud (Filippini, St. di Cors., 1827, I, 7). Il Mattei (Proverbes, locutions et maximes de la Corse, Parigi 1867, pp. XVI-XVII) distingueva i due dialetti, chiamando settentrionale l'uno e meridionale l'altro.

Più tardi il Falcucci cominciò a usare le espressioni Cismontano (pomontinco del nord) e Oltremontano (pomontinco del sud) che furono accolte dagli studiosi successivi e anche dai letterati indigeni specialmente del nord. All'uso invalso dal Falcucci in poi ci atterremo anche noi, avvertendo che, se la cresta dei monti può geograficamente dividere il Cismonte (coi suoi territorî di Capo Còrso, Bastia, Aleria, Corte e Balagna) dall'Oltremonte (in cui rientrano Ajaccio, Vico, Sartena e Bonifacio), non rappresenta tuttavia il giusto limite che separa i dialetti cismontani da quelli oltremontani, come vide già il Mattei (in Les Annales de la Corse, I, 4, Parigi 1877, p. 55 segg.) e come riconoscono i Còrsi più intelligenti e più versati nello studio delle loro parlate. Però, se questo è evidente per molti, non è per essi così facile e sicuro sostituire un altro confine a quello riconosciuto inesatto, e veramente i caratteri linguistici dell'una e dell'altra varietà occupano aree di estensione così diversa, che certe zone appartenenti al Cismonte per alcuni di essi, rientrano invece nell'Oltremonte per altri. A dire quali siano questi caratteri e come diffusi, valga la breve enumerazione seguente, nella quale si tien conto dei principalissimi e si procede indicando i fenomeni oltremontani di fronte ai cismontani successivamente da S. a N., secondo la loro estensione.

Dal lat. ĭ???, ŭ??? (pĭlu, gŭla) si ha: oltrem. í, ú (pilu, gula), cism. é???, ó??? (pélu, gïla). Limitati da una linea che tocca i paesi di Sartena, Levie, S. Lucia di Portovecchio.

Dal lat. -lj- (melju, palja): oltrem. -ÿÿ- (meÿÿu, paÿÿa), cismontano l′ o ll (melu, pala, o melh, palla). Limite: Coti-Chiavari, S. Maria Siché, Palneca, Solenzara).

Dal lat. -c-, -t-, -p- (locu, rota, nepote): oltrem. -k-, -t-, -p- (loku, rota, nipoti), cism. -g-, -d-, -b- (logu, roda, nibode). Limite: Calcatoggio, Ghisoni, Solaro.

Dal lat. -e (mare): oltrem. -i (mari), cism. -e (mare). Limite: Calcatoggio, Bocognano, Ghisonaccia.

Dal lat. -ll- (collu-): oltrem. -ÿÿ- (koÿÿu), cism. -ll- (kollu). Limite: Calcatoggio, Ghisoni, Aleria.

Del resto la differenza tra i dialetti cismontani e oltremontani appare evidente anche ai profani di glottologia: chi visita la Corsica resta subito colpito dalla dolce melodia tutta toscana delle parlate del nord, la quale va perdendosi, man mano verso il sud, in cui si riodono le forme e i suoni caratteristici delle parlate sarde del nord (sassarese e gallurese); quindi è che nella classificazione delle lingue romanze, il cismontano si considera come un dialetto di tipo toscano, mentre l'oltremontano si assegna al sardo settentrionale. Soltanto nell'estrema punta meridionale della Corsica, a Bonifacio, si parla tuttora l'antico dialetto di Genova che vi fu importato nel 1195, quando cacciati i Pisani dalla cittadella, i Genovesi la ripopolarono con famiglie loro. Invece, a Cargese, che nella seconda metà del sec. XVIII fu colonizzata dai Greci trasmigrati in Corsica, si parla dai più un dialetto còrso prevalentemente cismontano; vi permane la chiesa greca frequentata da un certo numero di famiglie, tra le quali solo poche parlano ancora greco.

Questo l'aspetto odierno dei parlari di Corsica; ma è interessante la ricostruzione storica che del còrso si può fare, movendo da quegli elementi particolari che qua e là nel cismontano si notano in contrasto coi caratteri più comuni di schietta toscanità; questi elementi appartengono a uno strato linguistico anteriore alla penetrazione toscana e trovano perfetto riscontro nei dialetti d'Oltremonte e in quelli sardi. Infatti per es., nella zona cism. di é??? ó??? da ĭ, ŭ, sopravvivono alcune voci che mantengono intatta la vocale tonica latina com'è dell'Oltremonte e del sardo in generale (kuistu, kuillu, prummissa; duve, guńńu "cubito", nući); né mancano i relitti di -ÿÿ- da -ll- diffusi in tutta la Corsica: iÿÿu, iÿÿa, iÿÿi, iÿÿe, un ÿu voli "non lo vuoi", un ÿa pigli, "non la pigli", nunda da anteriore nuÿÿa con dissimilazione analoga a quella che si riscontra in nonza da nozza "cavalcata di nozze", mansa da massa, ecc. Da queste e da altre considerazioni che qui convien trascurare, si può dunque concludere che il còrso, in quel periodo di tempo in cui si andarono elaborando e individuando le lingue romanze, doveva essere strettamente apparentato col sardo e anche con il siciliano e coi dialetti centro-meridionali della Penisola. Le diverse vicende cui andarono soggette queste varie regioni ne differenziarono i caratteri linguistici, spezzando quell'unità tirrenica che è rivelata chiaramente dall'analisi e dalla sintesi ricostruttiva del glottologo. E se dal modo con cui i popoli romanizzati reagirono al latino è lecito argomentare intorno alla loro condizione etnica, il fatto che Sardi, Còrsi, Siculi e Italiani centro-meridionali reagirono tutti in modo simile potrebbe indurci a presupporre un fondo etnico comune a tutti.

Quale esso fosse non è impossibile intravedere; infatti i risultati delle ricerche antropologiche più accreditate sembrano accordarsi con quelli della glottologia nell'ammettere che nel bacino del Mediterraneo si diffondessero, in epoca lontana, popoli etnicamente omogenei che si chiamano appunto mediterranei e che nulla vieta d'identificare con gl'Iberi. Ma per quel che più precisamente riguarda la Corsica, ci soccorrono anche le due preziose testimonianze di Pausania e di Seneca Il primo (X, 17,8) afferma che il nome di Corsica fu dato all'isola dai Libici che agl'Iberici possono ricollegarsi, dati i rapporti linguistici intercedenti fra il berbero e il basco, nel quale i più vedono un'ulteriore evoluzione dell'antico iberico (Trombetti, Le origini della lingua basca, Bologna 1925). Seneca, che, cantabro di famiglia e di nascita, era nelle condizioni migliori per rilevare i caratteri di sua gente rimasti nell'isola, dopo aver ricordato che quivi si usavano ancora alcune voci iberiche, conclude nam totus sermo conversatione Graecorum Ligurumque a patrio descivit (Ad Helv., VII, 8-9), mostrando chiaramente di pensare che il sermo primitivo dei Còrsi fosse iberico. Ma secondo la leggenda accennata da Sallustio (Hist. frag. Dietsch., II, 8) e riprodotta anche da Isidoro (Orig., XIV, 6,41) e da Prisciano (v, 80), il nome della Corsica deriverebbe da Corsa, donna ligure che per la prima vi passò; e in generale la tradizione assegna ai Liguri una parte importantissima nella preistoria dell'isola.

In ciò concordano i risultati della toponomastica la quale ci mostra diffusi nell'isola, insieme coi riflessi dei nomi liguri borbo, Laevi, ὁπινοί, Manicelus, Sava, mela, pala, ecc., i suffissi caratteristici -asco e -inco, anzi quest'ultimo tuttora vitale, specie negli etnici derivati dai nomi di luogo: bisincu di Evisa, urnasincu di Ornaso, prupianincu di Propriano, ecc., e anche ghjundincu "che abita giù", sundincu "che abita di sopra", ecc. Tra i popoli sopravvenuti di poi, ebbero nell'isola un saldo predominio soltanto gli Etruschi e, fra gli strati prelatini della toponomastica còrsa, insieme con l'iberico e con il ligure, si ritrova, sicuramente e ampiamente documentato, quello etrusco. Anzi resti etruschi si troverebbero anche all'infuori della toponomastica, se il còrso tafone "buco", donde tafunà bucare", è da riconnettersi con l'etr. Θafna "tazza, bicchiere"; se tercanu o tarcanu "il migliore", "il più abile", riflette il significato originario che il Trombetti (in Historia, I, p. 75) riconobbe all'etr. Tarχ-i; se infine il caratteristico verbo falare "discendere" vien da Falo nome di un monte còrso, connesso con la base etrusca e pre-indo-europea fala (cfr. anche Falerii, Falterona, ecc.) "altura" (Nehring, in Atti del primo congresso internaz. etrusco, Firenze 1929, p. 222). Quindi i popoli che lasciarono nella Corsica le tracce più profonde sono, in ordine di tempo, gl'Iberi, i Liguri, e gli Etruschi; ma specialmente carattere ligure dovettero avere le selvagge popolazioni dell'isola nel momento in cui vi penetrarono i Romani. Infatti è anche da tener presente la curiosa corrispondenza che la cacuminale -ÿÿ- da -ll-, così caratteristica dei dialetti di cui trattiamo, trova nel carrarese, in un breve territorio chiuso dalla cerchia delle Alpi Apuane, dove i Liguri poterono opporre una barriera quasi inespugnabile alle genti italiche sopravvenute.

Oggi i dialetti del Cismonte che occupano la maggior parte dell'isola, sono di tipo schiettamente toscano e questo fatto è decisivo per la questione che, intorno alla loro lingua letteraria, agitano i Còrsi non dimentichi del loro passato e delle glorie dei padri. Queste non cessarono mai di scaldar l'animo di quel popolo generoso il quale tenne sempre viva la sua fede con un movimento culturale e letterario che vigoreggiò nel 1914 col fiorire d'un periodico scritto in corso (A Tramuntana) diretto da Santu Casanova, tuttora vivente, cui gli anfarti còrsi, una folta schiera di studiosi, letterati e poeti, guardano come al loro padre spirituale, al loro Mistral. Quasi contemporaneamente si venne formando il cenacolo di A Cispra, un altro periodico che raccolse da prima pochi eletti (Saverio Paoli, G. Tommaso Versini, G. Pietro Lucciardi, lo stesso Casanova) i quali però fecero scuola, sicché l'entusiasmo e il movimento dilagarono coi nuovi giornali e le nuove riviste che via via sorgevano ad animarlo: l'Annu Corsu, Kirnos, L'Altagna, A Baretta Misgia, U Fucone e il settimanale A Muvra (Ajaccio) che pubblica ogni anno un Almanaccu e una serie copiosa di poesie, di racconti, di leggende di Petru e Matteu Rocca, Domenicu Carlotti, Ageniu Grimaldi, P. Graziani, Minicale, Simonu d'Aullé, Matteu Cirnensi, Ghjannettu Nottini, G.P. Codaccioni, Rustincu di Loretu, G.P. Lucciardi, ecc. La fede che anima questi scrittori è una sola: conservare intatte le glorie del passato e far grande la terra natia; un sol motto li unisce: "si tu sé Corsu, fa da Corsu", cioè ama e difendi il tuo paese, la tua lingua e le tue tradizioni. Quindi la lotta degli anfarti contro gl'influssi francesi che inquinano la purezza della loro parlata con un progresso continuo, lotta nella quale son tutti d'accordo, perché la differenza tra il francese e il còrso balza evidente agli occhi di tutti (v. D. Carlotti, Lessicu comparativu corsu-italo-francese, Pisa 1924; U Babbuziu, Una filza di francesismi colti nelle parlate dialettali corse, Ajaccio 1926).

Non mostrano i Còrsi invece altrettanta sicurezza e armonia nel discuter della lono lingua letteraria. Alcuni, per es., pensano che sia possibile far per la Corsica ciò che fece il can. Giovanni Spano per la Sardegna, nobilitando il dialetto del Logudoro; ma non si accorgono che nessun dialetto còrso è, rispetto agli altri, così caratteristico e fondamentale come il logudorese, mentre i poeti e i prosatori còrsi fioriscono un po' dappertutto, sicché non è da dire che una regione s'imponga all'altra per i suoi speciali prodotti letterarî. Vi è chi propone di dar risalto a quegli elementi particolari che, nei diversi dialetti, affiorano qua e là al di sopra dei caratteri più generali di toscanità viva, credendo di poter giungere a una lingua còrsa, inconfondibile con gli altri idiomi romanzi; ma noi abbiamo visto già dove si arriverebbe accentuando questi elementi, cioè disseppellendo lo strato linguistico che soggiace al toscano. Ma non può non apparire strano che gli eredi del Viale, del Lucciana, del Galletti, del Cristini, del Savelli, ecc., corran dietro a una vana chimera, nonostante la tradizione dei padri, che si espressero nella lingua di Dante. Perfino il popolo còrso, ignaro di letteratura e di dispute letterarie, porta nella questione il grave peso della sua spontanea tendenza per la quale, quando cerca di elevare il suo discorso, si esprime in buon italiano. "Vogliamo avere una lingua letteraria tutta nostra - avverte il padre Alfonsi (U Babuziu) -; e va bene. Ma lingua letteraria alla quale risponda il nostro dialetto non può essere che la lingua italiana. È così: è vano tergiversare e sofisticare" (in A Muvra, VII, 20 novembre 1926).

Bibl.: Materiale linguistico: Atlas linguistique de la France, pubblicato da J. Gilliéron e E. Edmont, Corse, fasc. I-IV, Parigi 1914-15; M. Cirnensi, Vocabulariu da Custera, Ajaccio 1929; I. D. Falcucci, Vocabolario dei dialetti, geografia, e costumi della Corsica, Cagliari 1915; G. Papanti, I parlari italiani in Certaldo, Livorno 1875, pp. 569-603; C. Salvioni, Versioni sarde, corse, e capraiese della parabola del Figliuol Prodigo, tratte dalle carte del Biondelli, Cagliari 1913; per la copiosa letteratura dialettale, v. A. Muvra, Giurnale di e Pieve di Corsica e Almanaccu di A. Muvra. - Studî linguistici: G. Bottiglioni, La penetrazione toscana e le regioni di Pomonte nei parlari di Corsica, in L'Italia dialettale, II, pp. 156-210 e III, pp. 1-69; id., Elementi prelatini nella toponomastica corsa, in L'Italia Dialettale, suppl. I, Pisa 1929; id., I nomi del muflone, in Annali della Fac. di lett. e filos. della R. Università di Cagliari, I-II (1928), pp. 76-92; P.E. Guarnerio, I dialetti odierni di Sassari, della Gallura e della Corsica, in Arch. glott. it., XIII, pp. 125-140 e XIV, pp. 131-200, 385-422; id., Nuove note etimologiche e lessicali corse, in Rend. Ist. lomb., XLVIII, p. 517 segg.; id., Nuove note etimologiche e lessicali corse, in Rend. Ist. lomb., XLIX, p. 74 segg.; C. Merlo, Concordanze corse-italiane-centromeridionali, in L'Italia dialettale, I, pp. 238, 251; C. Salvioni, Note di dialettologia corsa, in cend. Ist. lomb., XLIX, p. 705 segg.; M. L. Wagner, in Literaturblatt für germ. u. rom. Philol., 1915, coll. 283-288; 1916, coll. 374-86. - Sul dialetto di Bonifacio, v. G. Bertoni, in Romania, XLIV, pp. 268-273; G. Bertoni, L'Italia dialettale, Milano 1916, pp. 193-194; G. Bottiglioni, L'antico genovese nelle isole linguistiche sardo-corse, in L'Italia dialettale, IV, pp. 1-60 e 130-149. - Studî letterarî: O. F. Tencajoli, La lingua italiana in Corsica, in Rassegna nazionale, s. 2ª, IV (1916), pp. 25-39; U. Biscottini, Fiorita di poesie corse, Torino 1923; id., l'anima della Corsica, Bologna 1928.

Folklore. - La copiosa letteratura sulla Corsica cominciò a fiorire per tempo e anche presso i più antichi scrittori come Callimaco, Diodoro, Strabone, si nota quel contrasto d'osservazioni e di giudizî che si verifica presso i moderni. Questi autori però si accordano nel descrivere la Corsica ricca di foreste, di frutti e di molte varietà di bestiame, e in ciò consentono anche Teofrasto (IV, viii, 2) e Polibio (XII, iv); anzi quest'ultimo narra come i pastori còrsi non potessero seguire le loro bestie tra le selve fittissime e solessero radunarle col suono d'uno strumento che forse non era dissimile da u culombu, specie di grossa conchiglia marina, che più tardi fu usato anche come tromba di guerra. Meraviglia quindi l'insistenza con cui Seneca (Ad Helv., VII, 8-9; Riese, Anth. lat., n. 237) ci presenta l'immagine d'una terra rocciosa e infeconda; sebbene non sia da escludere che le terre di Capo Còrso, dove egli fu relegato nel suo esilio, mancassero di quella magnifica vegetazione di cui oggi sono adorne. Seneca inoltre notò le analogie che il copricapo e i calzari dei Còrsi avevano con quelli iberici; un'altra notizia importante ci viene fornita da Diodoro (IV, 2) che attribuisce ai Còrsi l'usanza dell'accubito o covata (v.).

L'uso dell'accubito è oggi scomparso, ma non si può escludere che l'antico copricapo non permanesse in quel "berretto ritto di velluto o di cuoio, ornato di nastri di seta" che descrisse il Tommaseo (Canti popolari, II, Venezia 1841, pp. 80 e 275) e disegnò l'abate Galletti e che forse richiama l'odierna barretta misgia (misgiu " micio, gatto"), non diversa dalla barritta sarda, che ci richiama ad altre analogie. Così una cronachetta a cui largamente attinse il Tommaseo descrive, per le vesti maschili, oltre la barritta pinzuta, la giubba di panno còrso e i calzoni lunghi e larghi all'uso greco, anche un "gabbano di pelo di capra" di cui il ricordo resta ancora nel nome cavriolu dato dai Guagnesi a un grosso cappotto di panno, che non dovette esser molto diverso dalla mastrucca o dalla bestebeddi dei Sardi. Altrove si ricordano il corpetto rosso che richiama il corittu sardo e le uose di panno corso o di pelo di capra che fasciavano i polpacci come i burzighinos o le cambittas dei pastori della Barbagia e del Logudoro. Finalmente non va dimenticato che su gabbanu, un cappotto di orbace lungo quasi fino ai piedi e munito di cappuccio, usato nelle parti più montane della Sardegna, trova perfetto riscontro in un indumento analogo che per esempio i Capocorsini e gli Evisinchi chiamano appunto gabà o cabà. Semplice e austero doveva essere il costume maschile; alla cintura era allacciata una ben fornita cartuccera (a carchera), in cui s'infilava la pistola e il pugnale, mentre dalle spalle pendeva a cispra, il fucile dal calcio breve e dalla canna lunga e sottile, insieme con la zucca per l'acqua o il vino, e dalla tasca dei pantaloni sfuggiva il fiocco rosso della borsa di pelle di gatto n zanettu) per tenervi l'arba tabacca. Più vario e più aggraziato doveva essere il costume femminile, di cui le tavole del galletti possono dare appena una idea. Anche in esso ritroviamo l'imbustu sardo, rosso o turchino, allacciato davanti, sul quale spiccava il candore della camicia ricamata e sormontata dalla riccia, una specie di colletto pieghettato; in basso, l'ampia gonna (u bunneddu, a rota, a coda) a pieghe piccole e spesse, e davanti, il grembiule (u scurzale), a vivaci colori.

Le zitelle coprivano qualche volta la testa con una cuffia, ma più spesso cingevano un fazzoletto stretto alla nuca (a capparella) e sopra questo ne disponevano, in fogge varie e graziosissime, un altro (u mandile) che ricadeva sulle spalle o s 'annodava sotto la gola; in qualche parte usava e usa ancora a faldetta, una specie di gonna corta, di panno leggiero, legata in cintura e rovesciata sul capo e sulle spalle, identica a quelle delle donne di Gallura, ma le dame portavano invece uno scialle di pizzo detto u mezzaru. Di tutta questa bellezza e ricchezza di vestire, oggi quasi nulla rimane: i pochi pastori, ormai vecchi cadenti, che non disdegnano a barretta misgia e che conservano l'antico pilone (un largo e lungo mantello di panno tessuto col pelo di capra) vengono segnati a dito.

Col costume sono andate scomparendo molte delle usanze più caratteristiche; non più l'offerta del frenu (rocca adorna di fusi e nastri) alla promessa sposa, né la bella cavalcata dei mugliaccheri (accompagnatori degli sposi), né la corsa precipitosa per prendere u vantu (il premio che la ragazza offriva al cavaliere che per primo le portava la chiave della casa maritale). La coppia felice non è più accompagnata dal gettito dei dolci (grazie), né la sposa riceve più dalla suocera l'augurio simbolico del latte cagliato, del riso e del grano. Un tempo si faceva anche a travata (o spallera), si costruiva cioè, sul cammino degli sposi, una specie di siepe attorno alla quale si svolgeva una finta disputa fra i parenti della ragazza che figuravano di volerla riprendere e quelli dello sposo. A Luri, Rogliano e Nonza, si suole ancora qualche volta costruire una specie di arco e sottendervi un nastro che, all'arrivo degli sposi, vien tagliato e legato, in parti uguali, al loro braccio.

Le feste, tranne alcune mascherate di carnevale, consistono quasi sempre nelle solennità religiose che, a poco a poco, si sono ridotte alle pure funzioni della chiesa. Soltanto a Casamaccioli, in Niolo, dal 7 al 12 settembre, la festa della patrona è allietata da una grande fiera e richiama, da tutte le parti dell'isola, molto concorso di popolo; in quest'occasione si rivedono qualche volta le danze paesane e si riodono i canti popolari nelle gare poetiche, promosse, specie in questi ultimi tempi, dagli anfarti. Ma è cancellata perfino la memoria di quella specie di torneo detto a moresca che fu giocato l'ultima volta a Cervioni nel 1817 (Tommaseo, l. c., p. 81); e così va scomparendo anche l'usanza una volta tanto diffusa, di accendere i fuochi di S. Giovanni, intorno ai quali si danzava e si stringevano i legami fra compari e comari.

Anche il canto più popolare, a paghjella (a varie voci) si ode assai di rado e ai semplici strumenti pastorali come u frischju e u frausi (di canna), a cialambella (di radica), a pivana (di corno di capra), si preferiscono la chitarra, l'organetto e il violino.

La buvetta e u caffè hanno allontanato gli uomini da u fucone, il grande focolare quadrato che, in varî paesi, si accende ancora in mezzo alla stanza. Non si crede più a l'ucchjata (il malocchio), ai murtulaghj (schiere di trapassati che annunziano di notte la morte di qualcuno), all'orcu, nascosto nei dolmen, alle profezie di chi sapeva leggere il futuro sulla scapola sinistra degli animali, alle stregonerie del diavolo.

Dall'oblio in cui sono sempre più avvolte le antiche usanze, si salvano in parte soltanto quelle che riguardano le cerimonie funebri, le quali, specie nei territori più appartati dell'isola, conservano il loro lugubre carattere e non sembrano dissimili da quelle sarde.

Così in Corsica come in Sardegna, appena avvenuta la morte, si fa, sul defunto, la crociata, cioè un segno di croce con una candela accesa, quindi esso vien lavato, vestito e composto (appacchjatu) sulla tavola (tola), disposta in mezzo alla stanza. Gli amici e i parenti accorrono alla scirrata e comincia il compianto (u dolu, sdrdo, u téiu). Alla tola si avvicinano le donne, col capo coperto dalla faldetta o dàl mandile nero, si stringono a cerchio e una di loro intona il lamento (bòceru, buceratu, abbaddati; sardo, attitidu). Qualche volta si offrono al pietoso ufficio, oltre ai parenti, anche delle donne estranee alla famiglia. Al calar della notte cessa u dolu e comincia a vegghja che è fatta generalmente dagli uomini, i quali, a una certa ora, ricevono u cunfortu (sardo, s'accunortu); ma all'alba ricominciano i pianti e le grida. Dopo il seppellimento, tutti ritornano alla casa del morto e sfilano dinanzi ai congiunti più prossimi cui stringono un'ultima volta la mano; segue poi un banchetto funebre non dissimile da quello che i sardi chiamano s'mbórvida. Invece della scirrata si fa, nei casi di morte violenta, a gridata che si distingue dalla prima solo perché u dolu vi è più acerbo; le voceratrici cantano le lodi del morto, e incitano i parenti alla vendetta.

Della bindetta còrsa che provoca e alimenta il banditismo si è detto e si è scritto moltissimo. I più hanno voluto attribuirla all'abbandono in cui l'isola fu lasciata da' varî dominatori, i quali trascurarono soprattutto l'amministrazione della giustizia. Ma non bisogna dimenticare nemmeno il temperamento caldo e impulsivo dei Còrsi, tenaci così nell'amore come nell'odio (cu nemici vecchj, un fa amicizia nova). Il bandito d'onore rinunzia alle gioie d'una vita serena e affronta, consapevole, il suo destino ben triste, perché è profondamente persuaso che, vendicando l'offesa ricevuta, assolve un sacrosanto dovere il quale spetta soltanto a lui. Quindi i banditi, per così dire classici, trovarono, presso i loro corregionarî, assistenza e aiuti d'ogni sorta e la loro memoria è avvolta, anche oggi, da un'aureola leggendaria d' eroismo; così, p. es., il famoso bandito Bellacoscia e il Romanetti che veniva chiamato u re di Calcatoghju. Spesso il primo misfatto della serie luttuosa è provocato dagli antagonismi politici, che dividono gli uomini e le famiglie in numerosi, minuscoli partiti. E l'opera nefasta della politica è integrata dal funzionarismo e dall'emigrazione; i Còrsi, abbagliati dagli splendori del continente, perdono i gusti semplici e patriarcali dei loro avi e vanno a servire negli uffici o nell'esercito in Francia e nelle Colonie.

Essi non amano la vita umile ma altamente benefica dell'agricoltore (u travagliadore unnn'ha mancu u tempu a more) e non sanno capire chi l'ama. All'agricoltura preferiscono la pastorizia anche se questa rende meno e li costringe a un vivere randagio e disagiato.

Tuttavia i pastori restano ancora fedeli alle tradizioni paesane; parlano con piacere del loro gregge col quale d'inverno impiàghjnua (fàlanu a a piàghja) e d'estate muntagnéghjanu (cóllanu a a muntagna). Si raccolgono nei primitivi pastorili (pasciale, pastricciale, stazzu), dove fanno u furmagliu con rozzi strumenti: a casgiaghja (o casgiatòghja) dove si mescola il latte col caglio (l'aredu), a ròmpula che serve per agitare il cagliato, a còcchja con cui si riempiono di esso e fattòghje (piccoli cestelli) che scoleranno sulla scafa (lunga tavola a scanalatura) e dalle quali uscirà il formaggio fresco; con u seru rimasto, si farà u brócciu, specie di ricotta già ricordata di cui solo i Còrsi conoscono il segreto. I pastori si divertono ancora a suonare a pivana, u frischiu, u fráusi, a cantare la loro passione amorosa nelle maggiolate per le vie del paese o in tempu di tundera (quando si tosano le pecore), o nelle veglie attorno a u fucone; fra loro, qualche vecchia fila ancora, con la rocca, il pelo di capra, per tesserne, col telaio, u pilone. Insomma, l'amore dei Còrsi per la loro terra non è spento, è soltanto sopito, e nel decalogo delle fede corsa sta scritto: "Derai u to sudore a' Corsica e u to sangue s'ell'abbisogna" (Malaspina, A nostra santa fede, Ajaccio 1926, p. 38).

Gli anfarti cantano oggi la rinascita dell'isola nei suoi costumi e nelle sue tradizioni, e il loro canto trova un'eco profonda in tutti i cuori.

Bibl.: G. Feydel, Moeurs et coutumes des Corses, Parigi 1800; A. Valery, Voyages en Corse... et en Sardaigne, Parigi 1837; F.-P. Agostini, De la Corse et des moeurs de ses habitants, Parigi 1819; P. Mérimée, Notes d'un voyage en Corse, Parigi 1840; id., Colomba, Parigi 1841; G. Prosperi, La Corsica e i miei viaggi in quest'isola, Bastia 1844; L.-A. Fée, Voceri, Chants populaires de la Corse, Parigi 1850; J. V. Grimaldi, Novelle storiche corse, Bastia 1855; S. Viale, Studi critici di costumi corsi, Bastia 1855; A. Provenzal, Serenata di un pastore di Zicavo, preceduta da brevi cenni intorno agli usi nuziali corsi, Livorno 1874; J. A. Galletti, Histoire de la Corse, Parigi 1863; C. Corbetta, Sardegna e Corsica, Milano 1877; J. B. Marcaggi, les chants de la mort et de la vendetta de la Corse, Parigi 1898; E. Spalikowski, Impressions de Corse, Parigi 1909; A. de Croze, La chanson populaire de l'île de Corse, Parigi 1911; A. Quantin, La Corse, Parigi 1914; l'Annu corsu, direttori Bonifacio e Arrighi, Marsiglia 1923 segg.; Archivio storico di Corsica, diretto da Gioacchino Volpe, Milano 1925 segg.; A Baretta misgia, Ajaccio 1925 segg.; H. Aurenche, Sur les chemins de la Corse, Parigi 1926; J. B. Marcaggi, Lamenti voceri, chansons populaires de la Corse, Ajaccio 1926; U Fucone, bull. de la "Salvador Viale", Bastia 1926-28; R. Blanchard, La Corse, Grenoble 1927; Mediterranea, Rivista mensile, Cagliari 1927 segg.; Almanacco popolare di Corsica, per l'anno 1930, Oletta 1930; M. Rocca, I Lucchetti, storia di una famiglia corsa del sec. XX, Livorno 1925; U. Biscottini, L'Isola persa, Livorno 1930; O.F. Tencajoli, La Corsica, Roma 1931.

Storia.

Preistoria e antichità. - La presenza dell'uomo in Corsica è attestata per l'età neolitica dai resti trovati dal Ferton in Bonifacio. I neolitici di Bonifacio, ritenuti dal Ferton i più antichi abitanti dell'isola, dovettero giungere in Corsica attraverso la Sardegna, dall'Africa. Altre stazioni neolitiche sono state scoperte a Mutola presso Villa di Paraso, a Vizzavona, a Grosso, a Moriani e altrove. A una corrente immigratoria posteriore, forse di provenienza iberica, appartenevano le tribù che hanno innalzato i dolmen (v.), in dialetto còrso stazzone, i menhir (v.), in corso stantare, e i cromlech (v.), che sono stati trovati sinora quasi esclusivamente nella parte occidentale dell'isola, non nella orientale. La civiltà del bronzo e del ferro pare penetrasse in Corsica dalla penisola italiana. Sul fondo libico-iberico della popolazione primitiva, venne, certo in età preistorica, e continuò poi a sovrapporsi in età storica l'elemento ligure. A quanto sappiamo, la civiltà nuragica della Sardegna non si estese alla vicina Corsica. I Còrsi, invece, passarono in Sardegna e ne occuparono la parte settentrionale, probabilmente quando già i Cartaginesi avevano iniziato la conquista di quest'isola, e infranto la potenza delle popolazioni nuragiche. Elementi sardi s'introdussero nella Corsica meridionale (Sartena), come fa fede la toponomastica.

I Fenici e i Greci nella loro espansione nel Mediterraneo occidentale toccarono le coste dell'isola. Nella loro espansione nel Tirreno a nord di Cuma, i Focesi occuparono nella Corsica Alalia (Aleria) e forse Nicea (dove poi fu Mariana), città dove non riuscirono a fiorire per l'opposizione degli Etruschi e dei Cartaginesi, che, avendo ereditato la potenza fenicia, cercavano di contenere l'espansione greca. Tragico fu il caso di Alalia che, dopo il 540, in seguito alla battaglia combattuta da Cartaginesi ed Etruschi di Cere (Agylla) contro la flotta greca, dovette essere sgombrata. Mentre la Sardegna era conquistata da Cartagine, la Corsica restava aperta alla penetrazione e alla colonizzazione tirrenica, specialmente di Cere. Ma l'isola era povera di prodotti, coperta di dense selve e scarsamente popolata. Le sue coste furono devastate dai Siracusani verso il 453-2 (Diod., XI, 88,4) e quando Dionisio il vecchio innalzò a nuova potenza Siracusa, verso il 384 fu preso possesso dai Siracusani d'un porto che fu detto Siracusano (probabilmente Porto Vecchio); ma, morto Dionisio, queste avvisaglie di espansione siracusana in Corsica non ebbero più seguito. Con la conquista romana dell'Etruria la Corsica doveva seguire le sorti di questa. Ma un tentativo di colonizzazione intrapreso da Roma, verso la metà del sec. IV, quando Cere entrò a far parte dello stato romano, non ebbe successo. Nei trattati tra Roma e Cartagine non si fa menzione della Corsica e, mentre i Romani dovettero riconoscere l'esclusivo possesso della Sardegna ai Cartaginesi, non ricevettero un analogo riconoscimento per la Corsica, che restò quasi zona neutrale. La necessità d'intervenirvi con le armi s'impose ai Romani durante la prima guerra punica. Nel 259 L. Cornelio Scipione prese Alalia e dovette agire anche in altre località: tuttavia la Corsica non pare fosse neanche allora conquistata. Nel 238-37 Tiberio Sempronio Gracco fu inviato a prender possesso della Sardegna; e fu allora anche riaffermata l'autorità romana sulla Corsica e da allora in poi le vicende delle due isole andarono strettamente congiunte, essendo state dai Romani riunite in una sola provincia (Sardinia).

La conquista effettiva delle due isole richiese una serie di guerre non pericolose per i Romani, ma non sempre esenti da difficoltà e da insuccessi. In Corsica si combatteva nel 236; il legato Claudio Cinea venne a patti con gl'indigeni, ma il console C. Licinio Varo non riconobbe le convenzioni, riprese la lotta, batté e sottomise i nemici. Le cose della Corsica dovettero ricevere ordine da T. Manlio Torquato che, vinti i Sardi, riordinò l'isola maggiore: effetto dei nuovi ordinamenti fu una nuova ribellione nel 234. Spurio Carvilio batteva i Còrsi e passava poi in Sardegna, ottenendo notevoli successi. Ma la lotta si rinnovava nel 232; M. Emilio Lepido e M. Poplicio Malleolo avrebbero conquistato un gran bottino sui Sardi, ma avanzatisi contro i Còrsi lo perdettero. E nel 231, il console C. Papirio Masone operava contro i Còrsi, finché stringeva un accordo coi nemici.

L'anno 227 fu istituito un pretore annuo per il governo della provincia di Sardegna, alla quale era unita la Corsica. In questa, per cinquanta anni pare fosse pace, contentandosi i Romani d'un dominio più nominale che reale. Sappiamo che nel 181 il pretore Pinario Rusca combatté nuovamente i Còrsi; nel 174 a combattere i Còrsi attende il pretore M. Atilio, e l'anno dopo il pretore C. Cicereio. Nel 163 la lotta è ancora viva, e a dirigerla muove il console M. Iuvenzio Talna; le operazioni vengono proseguite da P. Scipione Nasica, e più da Tib. Sempronio Gracco, che pare riuscisse, con grande energia, a pacificare le due isole. Né di guerre in Corsica si ha più notizia sino al 111, quando M. Cecilio Metello vinse Còrsi e Sardi e ne trionfò. Mario fondò nell'isola una colonia di veterani che da lui prese il nome di Mariana; altra colonia fondò Silla in Aleria. L'isola rimase sotto l'amministrazione del Senato nella divisione delle provincie fatta nel 27 a. C. da Augusto; passò probabilmente nel 6 d. c. sotto procuratori o legati imperiali, per ritornare al Senato, o all'imperatore, secondo che la maggiore o minore tranquillità suggerivano. Pare, tuttavia, che per qualche tempo fosse retta da speciali procuratori: uno di questi era Decimo Pacario che nel 69 si schierò con Vitellio contro Ottone, ma venne ucciso. A partire da Diocleziano, nei secoli IV-V, la Corsica fu certamente provincia a sé e fece parte della prefettura d'Italia e del vicariato di Roma.

Scarsi erano gli abitanti, che certo non superavano i 100 mila. Gl'indigeni vivevano in gruppi e in villaggi nelle campagne, divisi in civitates con proprî magistrati e consigli di anziani (senatori), con un loro territorio e statuti e privilegi approvati da Roma. Plinio dice che erano 32; Tolomeo dà il nome di 25, distribuite tra 11 popoli che egli novera (a O., da N. a S. i Cervini, i Tarabeni, i Titiani, i Balatini; a E., da N. a S. i Cilibensi, i Sicuini, i Macrini, gli Opini, i Sirbi, i Coimaseni, i Subasani). V'erano inoltre le due colonie romane di Nicea e Mariana, con vasto territorio. Non poca parte dell'isola doveva essere divisa in vasti latifondi, proprietà dei ricchi signori romani o dell'imperatore.

I prodotti erano scarsi e primitivi: legnami e resina dei boschi per cui l'isola era celebre, cera e miele, con la varietà del miele amaro, ritenuto medicamentoso, bestiame e schiavi. Come la Sardegna, la Corsica serviva per luogo di esilio e di relegazione. Vi fu relegato Seneca dal 41 al 49. I Còrsi entrarono a far parte di speciali coorti composte di Liguri e Còrsi o di Sardi e Còrsi, come probabilmente servirono nella flotta di Miseno. Nella lunga pace dell'età imperiale, fra i coloni romani e gl'indigeni si stabilirono relazioni di buon vicinato, che furono rafforzate dall'aspirazione di questi verso la cittadinanza romana, la quale si andò ad essi sempre più estendendo. Così progrediva la loro trasformazione. Una grande via romana congiungeva Marfana a nord con Palla sullo stretto di Bonifacio: a questa via principale facevano capo altre secondarie su per le valli dall'uno all'altro versante.

Non sappiamo con precisione quando il Cristianesimo penetrasse in Corsica e quale successo vi conseguisse: probabilmente i primi nuclei di fedeli erano già costituiti nel sec. III. Verso la metà del IV, s. Atanasio noverava i vescovi di Corsica tra quelli che aderivano al suo partito. Fra il sec. VI e il sec. VII le diocesi dell'isola erano almeno cinque: Aleria, Taina, Mariana, Ajaccio e Saona.

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Medioevo ed età moderna. - Nel tramonto dell'Impero romano, la Corsica fu occupata da Genserico, re dei Vandali. Finita la guerra d'Africa, Cirillo, luogotenente di Belisario, ricongiunse all'Impero Sardegna e Corsica (534). Ma nel 549 Totila le conquistò e impose loro un tributo. Distrutto il regno dei Goti, la Corsica tornò all'Impero e, con la Sardegna, fu posta alla dipendenza dell'esarca d'Africa. L'introduzione del Codice Giustinianeo migliorò i costumi e rinsaldò i legami delle popolazioni con l'Impero; ma la rapacità dei funzionarî bizantini oppresse quegl'isolani.

Grandi benemerenze si acquistò, allora, la Chiesa, che era stata dotata dall'Impero, nei secoli IV, V e VI, di considerevoli beni in Corsica. Gregorio Magno creò il vescovato d Accia, trasformò i conventi in fortilizî per la difesa negletta dal governo, aprì strade, soccorse poveri e malati. Quando i Còrsi si appellavano a lui contro le sentenze dei tribunali greci, egli ricordava al Defensor Corsicue, preposto al patrimonio ecclesiastico, che il suo ufficio era quello di difensore dei poveri e oppressi.

Dopo la conquista di Pisa nel 725, l'isola fu annessa al regno longobardo. Quando, nel 774, Carlomagno confermò la donazione di Pipino, vi comprese anche la Corsica; ma, in realtà, l'isola fu annoverata tra le marche e governata come le altre provincie del regno. Il suo legame con la Toscana rimase anche sotto i Franchi.

Sotto i Franchi, s'intensificarono le incursioni dei Saraceni. Lotario incaricò Bonifacio, conte di Lucca, di fare una spedizione contro di essi, che riuscì felicemente (828). Ma in seguito tornarono i Saraceni finché, iniziatasi la riscossa cristiana nel Mediterraneo, Pisa li attaccò anche nella Corsica e, con due spedizioni (1014 e 1050 circa) a cui concorsero anche i Genovesi, liberò l'isola. Nel 1078, Gregorio VII, che rivendicò sulla Corsica la sovranità pontificia, diede poteri di legato apostolico al vescovo di Pisa Landolfo. Nel 1091, a istanza della contessa Matilde, Urbano II confermò la bolla del 1078 a favore del vescovo di Pisa, e nel 1092 gli conferì il titolo d'arcivescovo, assegnandogli come suffraganei i vescovati della Corsica. Così si attuò la supremazia religiosa di Pisa sull'isola e l'azione dell'elemento toscano sul còrso. Mentre l'arte pisana irradiava la sua luce sull'isola dalle numerose chiese, il linguaggio locale, l'onomastica e toponomastica, si colorivano di toscano.

La rivalità tra Genova e Pisa per il dominio del Tirreno portò le due repubbliche a contrastarsi il possesso della Corsica. La contesa, in un primo tempo, ebbe carattere politico-ecclesiastico, pretendendo Genova di esercitare anche essa giurisdizione ecclesiastica in Corsica. Innocenzo II risolse la questione, dichiarando suffraganei dell'arcivescovato di Pisa i vescovi di Ajaccio, di Sagona e di Aleria, e del vescovato di Genova, elevato ad arcivescovato, i vescovi di Accia, di Mariana e di Nebbio (19 marzo 1133). Così si riconosceva a Genova una certa influenza sull'isola e le si facilitava la penetrazione per mezzo del clero. Nel 1195, i Genovesi sbarcarono nella Corsica forze armate, che penetrarono in Bonifacio, punto strategico importante. Le famiglie pisane ne furono cacciate e la città fu popolata di famiglie genovesi, alle quali furono concessi privilegi. Quindi Genova mirò a staccare da Pisa i feudatarî. Qualche provincia, come quella di Capo Còrso, estintisi i suoi signori, chiamò i Genovesi. La situazione internazionale offrì a Genova la possibilità di più vasta penetrazione. Onorio III, per ricompensarla del contributo dato all'impresa di Terra Santa, affidò all'arcivescovo di Genova il castello di Bonifacio, consacrandone il dominio genovese già esistente (bolla del 1217). Ma, mentre Genova e Pisa si combattevano, in Corsica presero il sopravvento feudatarî e signori. Uno di essi, Sinucello, detto Giudice della Rocca, favorito da Pisa, ebbe titolo di conte e governatore della Corsica e il comando delle milizie pisane. Sbaragliati i Genovesi, costrinse i signori a capitolare. Ma, sobillati da Giovanninello, altro signore, partigiano di Genova, gli si ribellarono. Privo di aiuti, Sinucello si arrese coi suoi figli, che ricevettero in feudo dal comune genovese le terre e i castelli del padre (10 aprile 1282). Ribellatosi nuovamente Sinucello, Genova occupò anche i castelli d'Istria, di Ornano, della Rocca, di Valle e di Contendole. Il ribelle fuggì a Pisa che lo difese contro Genova. È questo il tempo che la grande flotta genovese, con Oberto Doria, vinse la flotta pisana alla Meloria (1284). Inorgogliti dalla vittoria, i Genovesi estesero i loro possessi in Corsica. Nel 1289, Luchetto Doria, vicario generale dell'isola, conquistò tutti i castelli della regione oltremontana. Signori e comunità si arresero. Giovanninello inviò a Genova Emanuele da Mare a far donazione di tutti i castelli, terre e villaggi, riavendoli in feudo e ottenendo la cittadinanza genovese e il diritto di coprire cariche pubbliche. Attorno a lui si raggruppò il partito ostile a Sinucello che, tradito, cadde nelle mani dei Genovesi e finì nella prigione di Malapaga (1312?). Genova era padrona dell'isola. Irato della politica antiangioina e antiguelfa delle repubbliche di Genova e di Pisa, Bonifacio VIII conferì i regni di Corsica e di Sardegna a Giacomo II d'Aragona. Il re non poté, allora, muovere alla conquista dell'isola; ma più tardi, gli Aragonesi, impadronitisi della Sardegna, s'insediarono a Bonifacio e di lì cercarono di estendere il loro dominio su tutta la Corsica.

Lotte di grandi e di popolani con varie vicende insanguinarono la Corsica nel Trecento. In esse Genova appoggiava il partito popolare, ma non riuscì a imporsi né agli uni né agli altri. È notevole, però, in queste lotte, la costituzione, nella parte nord-est dell'isola, nel 1359, per opera di Sambucuccio d'Alando, d'una federazione di città e di pievi (v. comune, terra di). Ma Genova non seppe profittare del moto, che non si estese, e nel 1378 diede da sfruttare l'isola a una maona. Passata la repubblica sotto la protezione del re di Francia, dal 1396 al 1409 l'isola venne per la prima volta a contatto con quella monarchia, ma senza risentirne nessun influsso. Anzi, in questi anni, un signore còrso, Vincentello d'Istria, inalberò il vessillo aragonese; ma Francesco della Rocca, fattosi promotore della riscossa genovese, lo costrinse a fuggire in Sicilia. Nel 1408, Vincentello tornò in Corsica. Soffiavano nel fuoco anche i caporali, piccole autorità locali, riconosciute da Genova. Intervenne Alfonso d'Aragona, il futuro re di Napoli, che espugnò Calvi, Sagona e Ajaccio, ove ricevette l'omaggio solenne del popolo còrso. Ma, mentre era sotto le mura di Bonifacio, giunse il messaggio di Giovanna II di Napoli che lo designava suo erede. Vincentello, lasciato solo, resisté eroicamente fino al 1434. Vinto, ma non domo, voleva cercar soccorsi in Sardegna; ma catturato e portato a Genova, vi fu decapitato il 27 aprile 1434.

La morte di Vincentello segnò per la Corsica l'inizio d'un periodo di completa anarchia: prepotenze e lotte di caporali e di grandi feudatarî, intervento di papa Eugenio IV che mandò un corpo di soldati, tentativi aragonesi di conquista con l'Imbisora (1448), formazione d'un dominio personale dei Campofregoso di Genova (San Fiorenzo, Biguglia, Bastia e Corte), movimenti sociali-religiosi come quello dei Battuti. Per uscire da questa situazione caotica, i Còrsi si rivolsero al Banco di S. Giorgio e Genova cedé al Banco i suoi diritti (1453). Con i Capitula Corsorum (1453), il Banco tentò dare una costituzione all'isola e cercò con maneggi diplomatici di garentire i suoi diritti; ma, per l'indomita resistenza dei de Leca, si scoraggiò e abbandonò la Corsica al duca di Milano, con un accordo del 1463. I Milanesi, alla loro volta, la rivendettero nel 1478 ai Campofregoso, che la cedettero di nuovo al Banco di S. Giorgio nel 1485. E il Banco, stavolta, riuscì a domare i capi ribelli, Rinuccio e Gian Paolo de Leca e Rinuccio della Rocca (1511). Appartiene a questi anni una fierissima repressione antifeudale: la feudalità isolana, da allora, non si rilevò più.

Incombeva ora il pericolo francese. Nella lotta con la Casa d'Austria, il re di Francia mirò all'acquisto d'una base nel Tirreno. Quando Enrico II intervenne in Italia, la Corsica fu presa come obiettivo per colpire la potenza ispano-genovese. Consigliere dell'impresa, Sampiero Còrso (v.), ribelle a Genova. Il 20 agosto 1553 la flotta franco-turca iniziò l'offensiva; Bastia capitolò per il tradimento della guarnigione còrsa; Ajaccio si arrese; anche Bonifacio, bombardata per sedici giorni da Dragut, cedette; San Fiorenzo fu bloccata. Nel momento critico, Andrea Doria mosse contro il nemico, e Calvi e San Fiorenzo furono liberate. Ritiratisi i Turchi, i Francesi restarono soli: e allora Giordano Orsini proclamò l'annessione dell'isola alla corona di Francia. Ma la pace di Cateau-Cambrésis (v.) costrinse i Francesi a sgombrare. Un generale perdono fu concesso dalla repubblica ai ribelli; ma Sampiero non disarmò e, dopo esser corso per il mondo a cercarle nemici, il 12 giugno 1564 sbarcò in Corsica. Delle popolazioni, talune erano indifferenti; altre, come Sartena, si mostrarono grate alla Repubblica; poche, disposte a seguir Sampiero. Il ribelle offrì la sovranità dell'isola al papa prima, poi a Cosimo I. La regina madre di Francia preferiva ai Medici la Santa Sede, e quindi fece su questa forte pressione. Ma Filippo II frenò il papa e Cosimo I. Non restava a Sampiero e alla corte francese altra speranza che l'aiuto del Turco, impegnato nel blocco di Malta (1565). Tramontata anche questa speranza, il Cristianissimo si offrì mediatore tra Genova e i ribelli. Ma la Repubbica proseguì le operazioni militari, pur dimostrandosi pronta a perdonare. Il 17 gennaio 1567, Sampiero periva in un'imboscata, e nella direzione della guerra gli successe il figlio Alfonso. Ma la stanchezza delle popolazioni agevolò il compito di pacificazione, affidato a Giorgio Doria, il quale con l'aiuto del vescovo di Sagona, persuase Alfonso a lasciare la Corsica (1° aprile 1569).

Difficile fu l'opera di ricostruzione materiale e morale. Gli Statuti del 1357, riveduti dopo il 1559, furono richiamati in vigore dal 1° febbraio 1572; il governatore ebbe potere assoluto anche nel penale; commissarî e luogotenenti rappresentavano il governo e amministravano la giustizia. Città, come Bonifacio e Calvi, Bastia e San Fiorenzo, godevano privilegi. I feudatarî amministravano le loro terre con statuti particolari. Al di sopra di tutti i funzionarî, un governatore e il Sindacato, dapprima composto di Còrsi e di Genovesi, poi esclusivamente di Genovesi. I sindaci si recavano ogni anno nell'isola per fare inchieste; e i funzionarî indegni erano puniti con la rimozione temporanea o perpetua dall'impiego. I Dodici di qua e i Sei di là dai monti, eletti dai deputati d'ogni pieve, vigilavano sulla correttezza dell'amministrazione e avevano un oratore a Genova. La Corsica continuò ad essere divisa amministrativamente in pievi, ma queste furono raggruppate in dieci provincie. Vennero restrizioni e violazioni agli Statuti, ma, di solito, necessarie: così il decreto del 1581, che vietava di affidare a Còrsi la carica di guardia, era conseguenza dell'infedeltà di non pochi Còrsi; il decreto del 1585, che interdiceva ai Còrsi l'esercizio di funzioni giudiziarie nei luoghi di nascita o là dove avessero parenti fino al 4° grado, era ispirato dal desiderio di sottrarre la giustizia all'influsso di pressioni locali. Cura assidua richiese il problema dell'ordine pubblico, sconvolto dalla rivalità fra le famiglie, dall'insubordinazione fomentata dal partito francese e spesso da ecclesiastici. La piaga del banditismo non si poté estirpare, per quel diffuso spirito di solidarietà, che rendeva inafferrabili i rei dei più truci delitti. Frequenti i casi di famiglie di luogotenenti vittime di un'opera di risanamento sociale. Allo sviluppo dell'agricoltura la Repubblica dedicò per tutto il sec. XVII larghi mezzi finanziarî, ma i Còrsi preferivano al lavoro dei campi la milizia mercenaria. Per questo abbandono dell'agricoltura frequenti furono le carestie, che gravarono anche sullo stato.

Perciò la Signoria diede al problema agricolo un'altra soluzione. Seguendo gli esempî della Toscana, dello Stato pontificio e del Regno di Napoli, introdusse nella seconda metà del sec. XVII una colonia di Greci, che ebbero in proprietà i territorî di Paomia, Revinda e Salogna. Giurarono fedeltà alla Repubblica e si obbligarono a pagare la decima e cinque lire per fuoco all'anno. Un direttore genovese amministrava la colonia. Ben presto i Greci trasformarono la terra incolta in un ricco giardino, ma si gridò alla snazionalizzazione della Corsica e gl'indigeni compierono violenze contro le messi e le piante dei coloni.

Grave anche il problema della difesa litoranea, ma le incursioni dei Turchi e dei Barbareschi non erano un triste privilegio della Corsica. Per tutto il sec. XVI e il XVII, i pirati assalirono anche i paesi delle due riviere, portandosi via gli uomini più validi. Alla difesa delle popolazioni dell'isola, Genova provvide come a quella dei Liguri. Oltre alla perlustrazione fatta dalle sue navi, la Signoria coprì le coste di torri, dalle quali i guardiani avvertivano le popolazioni dell'interno, bene armate dallo stato. Il magistrato del riscatto degli schiavi provvedeva alla liberazione, insieme, dei Còrsi e dei Liguri.

Anche alla costruzione di edifici pubblici e privati, di chiese e monumenti furono dedicate cure e spese. Le opere d'utilità pubblica - ponti, strade, deviazione di fiumi, riordinamento del regime delle acque - assorbirono danaro. I lavori, diretti da ingegneri liguri, servivano anche per impiegare lavoratori indigeni. L'esportazione di prodotti nel dominio della Repubblica veniva fatta da legni di Còrsi, che molto lucravano a Genova e in Liguria.

Provvidenze vennero prese per gl'infermi poveri, che venivano ricoverati negl'istituti di beneficenza, onore della Dominante. Furono istituiti nel 1618 i Monti di Pietà, amministrati da tre governatori còrsi. Molto si preoccupò la Signoria dell'istruzione, affidata ai gesuiti e ai seminarî. Per gli studî universitarî, i Còrsi si recavano in continente. A Bastia esisteva l'Accademia dei vagabondi, fondata nel 1659.

Genova amministrava come meglio poteva. Difetti proprî del governo, inettitudine o disonestà di funzionarî - non di tutti - non si possono negare, ma bisogna tener conto anche della situazione interna dell'isola. Feudatarî recalcitranti; popolo dominato da preconcetti ingiusti contro i Genovesi; signori spodestati, maledicenti la Dominante che li aveva privati d'un potere feroce sui vassalli; aspirazione delle famiglie maggiori dell'isola a occupar esse gli uffici civili ed ecclesiastici; clero corrottissimo e mal disposto verso i funzionarî. Nessuna meraviglia, perciò, che fermenti rivoluzionarî covassero nel seno dell'isola; che qualche trama si tessesse con i Savoia, divenuti padroni della Sardegna; che la Francia cominciasse a trovar terreno favorevole alla sua accorta propaganda, ormai già orientata verso l'acquisto della Corsica.

Nel 1729, la ribellione eruppe, sotto la condotta di Andrea Colonna, Luigi Giafferi e il canonico Orticoni. Ci si rivelano ora, nell'isola, nuovi dirigenti, elementi che non escono più dalle classi feudali, ma dal medio ceto e dal basso clero, e che non combattono solo con le armi, ma anche con pamphlets polemici. Il senato genovese chiese l'intervento dell'imperatore, e quindicimila Tedeschi, comandati dal principe di Württemberg, passarono in Corsica. La pace di Corte (11 maggio 1732) concesse ai Còrsi amnistia generale, ammissione a tutti gl'impieghi e potere effettivo all'oratore e al consiglio dei Diciotto, remissione delle tasse scadute e creazione d'un ordine di nobiltà; la pace fu messa sotto la garanzia dell'imperatore. Ma una nuova sommossa generale scoppiò al principio del 1735, quando l'imperatore era impegnato nella guerra per la successione di Polonia. Giafferi inalberò la bandiera del re di Spagna, ma Orticoni non poté ottener nulla da Madrid. La consulta generale di Corte approvò la costituzione, redatta dall'avvocato Sebastiano Costa, in virtù della quale il potere veniva accentrato nelle mani dei generali Giafferi e Giacinto Paoli, con una Giunta di sei membri. Il governo francese si preparò allora all'intervento, il quale, nel disegno di Chauvelin, non doveva avere l'apparenza di un'usurpazione. Ma ecco che, il 12 marzo 1736, sbarcava sulla spiaggia di Aleria un avventuriero, Teodoro di Neuhoff, che si era accordato col Giafferi a Genova. I pomposi titoli di cui si fregiava fecero colpo sui ribelli: e il 15 aprile 1736 Teodoro fu acclamato "sovrano e primo re del regno". I beni dei Genovesi e dei Greci di Paomia furono confiscati; Paoli e Giafferi primi ministri, Costa gran cancelliere, segretario di stato. Fiere gelosie per questo. Genova con un proclama dichiarò Teodoro "reo di tradimento" e di lesa maestà. Alla fine del 1736, Teodoro se ne partì in cerca di aiuti, affidando la reggenza a Paoli, a Giafferi e a Luca d'Ornano. La guerra continuò. Genova, avendo invano tentato un accordo diretto coi ribelli, accettò l'offerta di soccorsi militari francesi (10 novembre 1737). Il comandante conte di Boissieux ostentò la sua benevolenza per i ribelli, che però sbaragliarono le truppe francesi a Borgo (Vespri Còrsi), quando si trattò del disarmo. Il Boissieux fu sostituito dal Maillebois, che, giorno per giorno, demolì l'autorità della Signoria. Nel gennaio 1740, il governo francese aveva già deciso di chiedere alla Repubblica la consegna di tutte le piazze e fortezze dell'isola, minacciandola di rappresaglia in tutti i suoi stati, il giorno in cui la Corsica, cacciati i Genovesi, si desse a qualche potenza. La Signoria tentò invano di ottenere un intervento misto di Francesi e d'Imperiali. Maillebois fu richiamato (maggio 1741). La situazione divenne delicata; una nave inglese trasportò il Neuhoff di nuovo nella Corsica; ma il re da commedia fuggì subito in Toscana, dove l'Inghilterra lo abbandonò al suo destino.

Alla Corsica, come a tutto il territorio della Repubblica, aspirava anche Carlo Emanuele III, appoggiato dall'Inghilterra. L'alleanza austro-anglo-sarda del 1744 allarmò Versailles. Ma il trattato di Aranjuez (maggio 1745) lega la repubblica ai Borboni di Francia e di Spagna. Nel novembre gl'Inglesi bombardarono Bastia, truppe di terra occuparono la città e la cittadella; ma gli abitanti si rivoltarono e scacciarono gl'invasori. L'anno dopo, Piemontesi e Austriaci, a cui s'aggiungono gl'insorti, attaccano con batterie la città. Il marchese di Cursay, sbarcato a Bastia, evita la caduta dell'isola nelle mani degli Austro-Piemontesi. Con la convenzione di San Fiorenzo (6 settembre 1752), la Francia restituiva a Genova l'amministrazione sulla Corsica sotto la garanzia del re, a patto che facesse partecipare all'amministrazione anche i Còrsi. Entrò in azione il governo di Gaffori, che era stato valente generale dei ribelli. Il commissario Grimaldi, per stroncare questo "principato nascente", voluto dal Cursay, fece richiamare il Cursay e uccidere Gaffori (3 ottobre 1753). Si scatenò l'anarchia. I Còrsi residenti a Roma volevano dar l'isola all'ordine di Malta, ma, nella Consulta di Caccia (21 aprile 1755), si proclamò che il dominio dell'isola spettava alla rappresentanza nazionale: e il 13 luglio, il nuovo governo fu affidato a Pasquale Paoli, da poco tornato nell'isola, col titolo di Generale. Tuttavia il potere sovrano spettava al popolo, che lo esercitava per mezzo della consulta; emanazione di questa, il Consiglio supremo. Il generale era capo dell'esercito, rappresentava la nazione all'estero. La Francia seguiva attentamente gli avvenimenti: il pericolo dell'intervento inglese fu eliminato mediante il primo trattato di Compiègne (14 agosto 1756), con Genova, la quale, tuttavia, non disperava di venire a un accordo diretto coi Còrsi: e i senatori si recarono a Bastia (1761). Ma la Consulta pose come condizione la consegna delle piazze e il riconoscimento del governo nazionale. Allora Genova tentò di separare i maggiorenti dal Paoli (tradimento dell'Abbatucci, insurrezione di Aleria, Castello, Fium'Orbo). Finita la Guerra dei Sette anni, la Francia tornò a occuparsi della Corsica. Col secondo trattato di Compiègne (6 agosto 1764), ottenne di presidiare le piazze più importanti a nome di Genova e di trattare direttamente coi Còrsi per la pacificazione. Paoli s'illuse che la Corsica potesse ottenere l'indipendenza sotto la protezione del re di Francia; ma quando il duca di Choiseul chiese la consegna delle piazze, il Paoli rifiutò. Nello stesso tempo, il governo francese prospettò alla Signoria il pericolo che l'isola cadesse nelle mani del Paoli, senza che alla Repubblica ne venisse alcun compenso. Genova, che aveva veduto fallire i tentativi d'accordo col Paoli, col trattato di Versailles (15 maggio 1768) cedé tutti i suoi diritti di sovranità sulla Corsica al re di Francia e in compenso ottenne un accomodamento per i sussidî già avuti dalla Francia prima del '63 e un sussidio di due milioni di lire. In linea di diritto, tuttavia, la Repubblica poteva rientrare in possesso dell'isola, rimborsando al re le spese della conquista e dell'amministrazione (art. 4). L'Inghilterra tentò tutti i mezzi pacifici per impedire l'esecuzione di questo trattato; il Regno di Sardegna cercò di eccitarla anche alla guerra; il Regno di Napoli, benché borbonico, si sforzò di suscitare le gelosie spagnole contro la Francia. Ma la diplomazia francese, con abile preparazione, aveva saputo assicurarsi la connivenza della Spagna e il non intervento dell'Austria e della Prussia. Sulla fine di luglio, s'iniziarono le ostilità tra i Francesi e i Còrsi. Paoli sperava sugl'Inglesi. Ma gl'Inglesi non si mossero, sebbene i fatti di Corsica destassero fra essi turbamento e recriminazioni contro la politica del governo. Il 9 aprile 1769, sbarcava il conte di Vaux con poderoso esercito; la giornata di Pontenuovo (8 maggio 1769) fu fatale alla causa dei Còrsi. Pasquale Paoli, con molti Còrsi, riparò in Toscana, dove ebbe grandi accoglienze di popolo. L'Italia si commosse dell'avvenimento. Scrittori come Pietro Verri parlarono della conquista francese, non solo come d'una grave minaccia all'Italia, ma come d'offesa ai nuovi sentimenti e principî che si erano ormai diffusi nel mondo civile. Per la penisola si diffuse il distico: Gallia vicisti! profuso turpiter auro, Armis pauca, dolo plurima, iure nihil. E con l'Italia, si commosse tutta l'Europa illuministica, che vedeva nel Paoli il primo combattente per un alto ideale politico e il filosofo aspirante ad attuare nella prassi le idee del tempo.

Il nuovo governo fu organizzato dal conte di Vaux, dal conte di Marbeuf e da un còrso passato ai Francesi, Buttafuoco. Gravi misure furono prese per tener fermi i Còrsi: alle famiglie che avevano accompagnato Paoli a Livorno, ordine di imbarcarsi; multa a chi possedesse o fabbricasse uno stile o un coltello a punta; impiccagione per i partigiani del Paoli; divieto a chiunque, eccettuati gli ecclesiastici e i funzionarî regi, di assentarsi senza il permesso del podestà. Larghi favori furono concessi alla nobiltà; il commercio fu istradato verso la Francia; si verificò un'immigrazione di famiglie francesi, vera ondata di gente in cerca d'impieghi e lucri: qualcosa di simile o di peggio di ciò che già i Còrsi potevano rimproverare ai Genovesi. Il forte rincaro della vita causò nel 1774 delle sommosse, fra cui notevole quella organizzata da Nicodemo Pasqualini, che fece sperare l'aiuto inglese. Undici ribelli furono impiccati, una trentina mandati nelle carceri di Tolone. Fu concessa un'amnistia, ma il Paoli non ne volle beneficiare. Napoleone poté ben dire che l'isola, al tempo di Luigi XVI, fremeva sotto il giogo dei vincitori. Fra essi, nessuna affinità, nessun contatto spirituale, nessuna reciproca comprensione. I Còrsi non intendevano il francese, i funzionarî di Francia non intendevano il còrso, dialetto italiano.

Il 30 novembre 1789, l'Assemblea nazionale abolì il regime militare e considerò l'isola unita alla Francia. Paoli, esultante, tornò in patria, e nella consulta di Orezza (9-27 settembre 1790), fece decretare la celebrazione annuale del decreto d'annessione della Corsica alla Francia. Ma l'applicazione della costituzione civile del clero determinò una sommossa a Bastia. La città fu punita, ma contro i demagoghi capitanati da Bartolomeo Arena si formò un partito paolino. La casa di Arena fu devastata e ne fu incolpato Paoli, al quale si attribuì anche il fallimento della spedizione contro la Sardegna, decretata dalla Convenzione. Napoleone Bonaparte, che fremeva di mettersi in vista, esortò la Convenzione a occupare Ajaccio per isolare il ribelle Paoli. Ma la consulta di Corte (27 maggio 1793) approvò la condotta del Paoli. La Convenzione, di lì a poco, lo dichiarò traditore. Mentre Giuseppe Bonaparte lavorava col Buonarroti per accendere di giacobinismo i Còrsi, Paoli chiese l'intervento inglese. Nelson e l'ammiraglio Hood vennero in soccorso di Paoli. Il 19 febbraio 1794, cadde San Fiorenzo; il 22 maggio, Bastia; il 10 agosto, Calvi. Il re d'Inghilterra lu acclamato sovrano dell'isola (giugno 1794) e sir Gilbert Elliot accettò la costituzione anglo-còrsa. Una commissione di quattro membri fu incaricata dal Paoli di recare al re d'Inghilterra l'indirizzo dettato dal Pozzodiborgo, con l'omaggio dei sudditi. Elliot fu nominato viceré; presidente del Consiglio di stato, Pozzodiborgo. Divenuto questi nemico di Paoli, si formarono due partiti. Il Padre della patria viveva appartato a Rostino: ma a lui si rivolgevano tutti i malcontenti. In ultimo, Elliot provocò dal re l'invito al Paoli di recarsi a Londra: e Paoli, il 13 ottobre 1795, per evitare la guerra civile, lasciò la Corsica. La prima campagna di Napoleone in Italia costrinse gl'Inglesi a sgombrare l'isola (ottobre 1796), che dal Saliceti e dal Miot de Melito fu messa sotto la costituzione dell'anno III. Vi furono disordini fomentati dal clero, ma il partito anglo-còrso non disarmò. Nel 1809, fu repressa una cospirazione. Di Napoleone, che nella Corsica vide più che altro un ottimo campo di reclutamento, i Còrsi non ebbero molto a lodarsi: né si può dire che egli vi lasciasse molte tracce di sé. Tuttavia, con lui, i rapporti tra Corsica e Francia si accrebbero.

Alla Corsica pare si rivolgesse qualche maggiore attenzione con Luigi XVIII. Luigi Courbon di Saint-Genest, il primo prefetto della restaurazione, convinto che la Corsica avesse bisogno d'un governo dispotico, ma onesto, debellò i capi che erano fonte di disordini. Ma le condizioni dell'isola rimasero squallide: venti abitanti per kmq., vaste zone malariche, la giustizia impotente, nonostante le frequenti condanne capitali. La rivoluzione di luglio dapprima diede la Corsica in preda alla clientela del potentissimo gen. Sebastiani, ministro nel nuovo regime; ma, dopo l'inchiesta del Blanqui (1836), Luigi Filippo iniziò una politica illuminata (strade, scuole, ecc.). Trascurati dal Secondo Impero e in parte anche dalla Terza Repubblica, i Còrsi lottano ora per la loro elevazione morale ed economica. Accanto a quelli che si sentono legatissimi alla Francia come essa è, alla Francia che costituisce, essa e le sue colonie, un grande sbocco per l'attività dei Còrsi, non mancano quelli che aspirano alla conservazione o restaurazione del vecchio patrimonio di lingua, costumi, cultura dell'isola e perseguono fini di larga autonomia amministrativa: è il movimento corsista, assai vivo dopo la guerra, che ha per portavoce il giornale A Muvra (Il Muflone) diretto da Petru Rocca e giornaletti minori.

Vivi furono sempre i rapporti economici e politici con l'Italia nel Risorgimento. Nel 1820, su cinquanta navi che arrivavano nei porti dell'Isola, trenta provenivano dall'Italia; Napoletani e Sardi pescavano corallo nelle acque di Figari, di Tizzani, di Bonifacio; i Lucchesi, come nel '600, dissodavano terreni. I funzionarî francesi erano allarmati dall'interesse che i Còrsi mostravano alle cose d'Italia: occhio all'Italia (ne perdez point l'Italie de vue...). Gli esuli italiani preferivano come luogo di gifugio la Corsica, perché sembrava loro di essere in casa propria. Lo diceva Mazzini, che nel '31 vi giungeva da Marsiglia: "là mi sentii nuovamente, con la gioia di chi rimpatria, in terra italiana... Da Bastia ed Ajaccio in fuori, dove l'impiegatume era di chi lo pagava, ogni uomo si diceva d'Italia, seguiva con palpito i moti del centro e anelava a ricongiungersi alla Gran Madre" Anche il Tommaseo si fermò a lungo nell'isola, intento a raccogliere i canti popolari e a preparare la pubblicazione dell'epistolario del Paoli. Nel programma di unificazione nazionale, i patrioti italiani pensarono più volte al cambio della Savoia con la Corsica e nel 1831 si misero su ciò d'accordo col Lafayette (v. comitato cosmopolita). Molti Còrsi parteciparono alle cospirazioni e lotte per l'indipendenza italiana. Ve ne furono con Garibaldi, ve ne furono con vittorio Emanuele, soldati e politici, come Leonetto Cipriani. Ai Milanesi delle Cinque Giornate, venne dalla Corsica l'offerta di gente armata.

Bibl.: La storiografia còrsa e sulla Corsica comincia con Giovanni della Grossa (1388-1464), autore d'una cronaca dalle origini ai suoi tempi, continuata da Pier Antonio Monteggiani (1464-1525), da Marc'Antonio Ceccaldi (1526-1559), da A. P. Filippini, che le pubblicò tutte, aggiornandole con un suo seguito (Tournon 1594). Testo unico un tempo di storia còrsa, Giovanni è stato demolito dalla critica storica del secolo scorso e riabilitato ora in parte dal Colonna de Cesari Rocca. Con Pietro Cirneo (1447-1503), autore del De rebus corsicis, edito dal Muratori nel tomo XXIV dei Rerum, comincia in Corsica la storiografia umanistica. L'epica lotta contro la Francia nel secolo XVIII fece convergere sulla Corsica l'interesse europeo. Uno scozzese, Giacomo Boswell, coi suoi volumi Relazione della Corsica (ed. it. Londra 1769, trad. franc. 1769, ma testo inglese Glasgow 1768), e Giornale del viaggio fatto nell'isola di Corsica, ed. it. Londra 1769, procurò all'indipendenza còrsa le simpatie europee. Intanto, si svegliava l'interesse storiografico francese (abbé de Germanes, Histoire des révolutions de Corse, Parigi 1771-1776; Pommereul, Hist. de l'isle de Corse, Berna 1779), mentre l'erudizione italo-còrsa poneva a profitto per la storia còrsa i frutti delle poderose ricerche e raccolte del Muratori e dell'Ughelli, pur con minore senso critico di questi due maestri (G. Cambiagi, Istoria del regno di Corsica, voll. 4, Firenze 1770-72; Limperani, Istoria della Corsica, voll. 2, 1779-80). Nel secolo XIX, la produzione storica sulla Corsica raddoppiò: il Gregori raccolse gli Statuti civili e criminali di Corsica, Lione 1843; il Robiquet pose le basi d'una storia economica con le Recherches historiques et statistiques sur la Corse, Parigi 1835; il Jacobi (Hist. générale de la Corse, Parigi 1835), il Friess (Histoire de la Corse, Bastia 1852), il Galletti (Histoire illustrée de la Corse, 1865), tentarono sintesi poco felici. Il miglior lavoro d'insieme fu quello, ancora utile, di F.O. Renucci, Storia di Corsica, voll. 2, 1834. - Il Romanticismo naturalmente accentuò l'interesse sentimentale, folkloristico - già spuntato sotto altro aspetto nel Settecento - per la Corsica tradizionalista, primitiva, barbara nel senso vichiano della parola, e sorsero la bella raccolta di canti còrsi del Tommaseo, le Notes d'un voyage en Corse, del Mérimée (Parigi 1840), i due volumi sulla Corsica del Gregorovius (1854). Nel 1881, comincia per la Corsica il periodo della ricostruzione critico-storica, con la fondazione del Bulletin de la Société des sciences historiques et naturelles de la Corse, nel quale un infaticabile erudito, l'abate Letteron (morto nell'aprile 1918) cominciò la pubblicazione, e spesso anche la traduzione francese, di cronache e documenti inediti. L'orizzonte dell'erudizione locale còrsa si slargò e si sentì il bisogno di ricerche sistematiche negli archivî italiani, spagnoli e francesi. Cominciò il Mollard, con una serie di contributi, nel 1875; seguì il Colonna de Cesari Rocca, con ricerche di più grande stile, che culminarono nel 1908 nella sua Histoire de la Corse écrite pour la première fois d'après les sources originales (fino al 1769). Nello stesso tempo, A. Le Glay rinnovava, con spirito francese, la storia della Corsica moderna (Théodore de Neuhoff, roi de Corse, Parigi e Monaco 1907; La Corse pendant la guerre de la succession d'Autriche, Parigi e Monaco 1912), insieme con L. Villat, La Corse de 1768 à 1789, voll. 2, Besançon 1925. Questa serie di buone monografie e di contributi ha reso possibile due tentativi di sintesi: A. Ambrosi, Histoire des Corses et de leur civilisation, Bastia 1914; Colonna De Cesari Rocca e L. Villat, Histoire de Corse, Parigi 1916.

Alla tendenza dell'ultima storiografia còrsa, che vede perfetta continuità tra lo sviluppo storico della Corsica e il periodo francese, che proclama l'amministrazione genovese la grande responsabile di tutti i mali dell'isola e riduce a non molto gl'influssi della civiltà italiana su di essa, si sono contrapposti in Italia il Volpe con la fondazione dell'Archivio storico di Corsica (1925), gli studi raccolti nel volume Corsica (1927), e un vigoroso profilo di storia còrsa (Arch. stor. di Cors., 1930) e il Solmi (La Corsica, in Arch. stor. di Corsica, 1925). Sulle tracce del Volpe e per suo impulso hanno iniziato una serie di ricerche sistematiche sulla Corsica E. Michel con Esuli e cospiratori italiani in Corsica, in Arch. stor. di Corsica, 1925, e R. Russo con La ribellione di Sampiero Corso, in Arch. stor. di Corsica, 1930. Si può anche vedere: O.F. Tencaioli, Corsica, Roma 1931, articoli di varia curiosità.

Arte.

Un solo monumento sembra riferirsi al periodo primitivo cristiano: la basilica di S. Laurina in Aleria: i ruderi lasciano riconoscere una chiesa a pianta basilicale con tre navate, divise da pilastri, e abside semicircolare orientata, preceduta da una vasca coperta per l'acqua lustrale: si deve escludere che i resti appartengano a una chiesa romanica. Del battistero di Valle di Rostino è certa l'età romanica verificabile nelle parti superstiti dei muri perimetrali; ma alcuni elementi, prevalentemente storici, potrebbero lasciare adito all'ipotesi che nel battistero di Valle di Rostino sia perdurata in periodo romanico una tradizione religiosa più antica, la quale potrebbe forse risalire a circa il sec. VII.

Le incursioni musulmane distrussero, in Corsica come nella Sardegna, gli scarsi edifici religiosi eretti dai tempi della rinascita gregoriana (sec. VII) fino a tutto il sec. XI. Per trovare un gruppo di monumenti che per importanza di costruzione e per omogeneità di stile rappresenti un fatto artistico d'interesse notevole bisogna discendere all'età romanica, quando la Corsica fu, anche artisticamente, provincia del territorio pisano.

Nel 1119 a Mariana l'arcivescovo di Pisa consacrò la chiesa di S. Maria Assunta, detta comunemente la Canonica (32 × 12), costruita da maestranze pisane rurali, quasi con pratica preromanica, in tre navi a pilastri quadrati con semplici sagomature al posto del capitello; copertura con capriate visibili, ma con le ultime campate lombardescamente in vòlte a botte e a crociera. Anche la decorazione della facciata della chiesa è di arcaistica semplicità nel terso paramento con spartimento di quattro pilastri e di una cornice. L'abside invece, ampliata dopo qualche decennio, con sette arcate a sesto rialzato, ciascuna delle quali ne comprende due altre più piccole, e con tre ampie feritoie dalla strombatura a gradi, rivela il proposito d'un più vivace effetto decorativo. Alla Canonica è strettamente legata nello stile la vicina chiesetta di S. Perteo (22 × 10), eretta fra il 1119 e il 1123. A questi due monumenti del primo quarto del sec. XII, seguì la chiesa dell'Assunzione in Nebbio, che attesta la divulgazione delle forme di Buscheto e che può assegnarsi alla seconda metà del secolo stesso. La pianta, la copertura, comprese le tre vòlte nelle ultime campate, la decorazione ad archetti pensili sui due fianchi e sul muro posteriore trovano preciso riscontro in quelle della Canonica. Ma all'interno i pilastri si alternano con colonne dai capitelli composti con fogliami appiattiti, volute atrofizzate e abachi a semplice tavola, come molti esemplari pisani, e nella facciata la decorazione si ravviva per un doppio ordine di arcate cieche falcate, che richiamano l'analogo partito della chiesa di S. Frediano in Pisa.

Le tre chiese ricordate costituiscono i modelli ai quali i maestri locali attinsero norme costruttive e motivi decorativi, a mano a mano che le forme artistiche pisane nel corso dei secoli XIII e XIV dalle regioni costiere, aperte ai più diretti rapporti con la Toscana, penetrarono verso l'interno: a S. Pancrazio, a Carbini, a Rostino, a Calenzana, a Sagona. Solo a Cervione, a Corte, a Murato, ad Aregno si può riscontrare qualche elemento che manca nel repertorio dei modelli. Nelle chiese di S. Cristina di Cervioni e di S. Marione presso Corte. come pure in quella di S. Maria della Chiapella nel Capo Còrso, si ha un'insolita nave con due absidi tangenti su uno dei lati, che è estranea alle tradizioni pisane e trova soltanto riscontro nelle isole orientali del Mediterraneo (Cipro e Creta) e nel Rossiglione (Montbolo e Espira de l'Agly).

Anche la chiesa di S. Michele di Murato, eretta tra la fine del sec. XIII e il primo decennio del seguente, quando la preponderanza di Pisa, specialmente nelle regioni settentrionali, era cessata, presenta due caratteri che non trovano precedenti nelle chiese di Mariana e di Nebbio: il dicromismo, consueto ai pisani, che ricorre pure nella S. Trinità di Aregno; e la particolarità della torre campanaria sulla fronte della chiesa come in alcune regioni della Toscana dove giunsero vivaci correnti monastiche d'Oltralpe.

Con le chiese di Murato e di Aregno s'inizia una tradizione romanico-paesana che durò in Corsica per tutto il Cinquecento.

Resta immutato l'organismo architettonico; anzi si adottano per esso le strutture più semplici del repertorio pisano, così che vengono generalmente abolite le vòlte, le arcate, le porte e le finestre di forma complessa, quali sono quelle a strombatura, le bifore, i rosoni. L'aula è sempre rettangolare, a una sola nave con piccola abside; i muri robusti sono rivestiti di paramento in pietra da taglio; le coperture sono sostenute da capriate visibili, molto ravvicinate, di tipo ancora arcaico in confronto persino alle coperture romaniche del sec. XII, persistente in Corsica per l'abbondanza del legname. Ma sul semplice organismo architettonico si distende una decorazione scultoria, che costituisce la parte più interessante di quest'architettura popolare. La pietra è tagliata come il legno nell'arte dei contadini; la stessa mancanza di senso plastico, la medesima ingenua osservazione realistica, trasfigurata da una minuziosa tendenza stilizzatrice. Il repertorio tradizionale della scultura ornamentale romanica viene liberato di tutti i motivi più complessi e arricchito di quegli elementi lineari, che la fantasia popolare suggerisce in ogni tempo e in ogni regione per gli arredi e i corredi della vita quotidiana. Tutta la Corsica offre esemplari di quest'arte romanico-paesana: i più interessanti si vedono a Rapale, Pieve, Lumio, Cuccianella, Brando, S. Pietro di Giuncaggio, Paomia, S. Martino di Lota, Suerta, Canari, Sisco, Morosaglia. Le chiese di queste tre ultime pievi offrono la documentazione precisa che questa singolare corrente architettonica, più o meno ricca di elementi decorativi, perdurò nei secoli XV e XVI.

Architettura gotica e architettura del Rinascimento, come fenomeno radicato e durevole, non attecchirono nel territorio dell'isola; gli scarsissimi monumenti che vi furono costruiti non ebbero alcuna risonanza nell'attività dei costruttori popolari.

La chiesa di S. Maria Maggiore in Bonifacio fu eretta nel sec. XIII da maestri genovesi su schema costruttivo romanico con pianta a tre navate, divise da pilastri, terminate da tre absidi semicircolari e precedute da una loggia. Anche la decorazione ha schietto carattere romanico. La costruzione non fu probabilmente ultimata e nel sec. XIV maestri aragonesi gettarono le crociere sostenendole all'esterno con i corrispondenti contrafforti, e sopraelevarono di tre piani, su una base romanica, il campanile. La chiesa di S. Domenico in Bonifacio, interamente coperta di crociere ogivali, con arcate a sesto acuto, è invece opera interamente gotica, dovuta a maestri genovesi del sec. XIV. L'oratorio di S. Antonio in Calvi (principî del sec. XVI) costituito da una vasta aula rettangolare, divisa per una parte in tre navate da otto colonne e coperta da vòlte a vela, ha l'aspetto leggero d'una costruzione toscana di carattere postbrunelleschiano.

Questo oratorio è l'unico monumento che si ricolleghi al Rinascimento italiano; le agitate vicende politiche non consentirono più ampî sviluppi architettonici. Ma l'importazione delle opere di scultura e di pittura dai lidi di Liguria e di Toscana invece fu nello stesso periodo assai più larga, e non è da escludere che essa abbia suscitato qualche modesta attività locale. Così, accanto a sculture che sono opera di marmorarî gagineschi e carraresi - quali le acquasantiere di S. Maria di Bonifacio (1463) e della Primaziale di Calvi (1568), un rilievo con la Vergine e il Bambino in S. Lucia di Tallano (1499), le lastre tombali figurate del vescovo Spinola in S. Francesco di Bonifacio (1457) -, si trovano sparse per tutto il territorio della Corsica svariate ripetizioni paesane, che sembrano una traduzione spesso antiquata, sempre rozza, ma talvolta espressiva, dei modelli continentali. Così accanto a opere pittoriche importate da Genova, che richiamano le correnti che dalla Lombardia e dal Piemonte discesero verso la Liguria per incontrarsi e fondersi con i modi nizzardi del Brea (pale di Luri, di S. Giovanni di Calvi, di S. Maria, dell'Oratorio della Concezione di Bastia), e accanto ad altre venute di Toscana, che si riconnettono direttamente a fonti fiorentine e peruginesche (trittici di Pino e di Cànari), può seguirsi a Murato (1370), a Cuccianella (1387), a Aregno (1458), a Cervioni (1473), a Calvi (1510-13), a Morosaglia (1517), a Gavignano, a Rostino, un filone interessante di pittura paesana, nella quale, di regola, l'insufficienza dei mezzi tecnici distoglie da qualunque ricerca formale, accentuando l'amore per gli effetti decorativi, lineari e cromatici, a carattere popolare. Due sole opere, conservate a S. Francesco di Tallano, si ricollegano alla pittura catalana della fine del Quattrocento, propriamente al cosiddetto Maestro di Castelsardo, e si spiegano con la vicinanza della Sardegna.

Nel 1453, Genova cedette la gestione della Corsica al suo Banco di San Giorgio. Questi, domata la feudalità, si rivolse alla sistemazione difensiva dell'isola. Il rinnovamento delle quattro piazze forti di Bastia, Calvi, Ajaccio e Bonifacio, la costruzione ex novo di una difesa "torregiana" su tutto il litorale, il miglioramento della viabilità per le comunicazioni interne fra le piazzeforti suddette con la costruzione di numerosi ponti (Ponte Nuovo, Leccia, Castirla, Pianella, Pallano, Lento), il migliore apprestamento di alcuni castelli, come quelli di Vizzavona e di Corte sui valichi montani, furono i capisaldi di questa difesa, interessante anche dal punto di vista artistico.

Poche regioni offrono tanto interesse quanto la Corsica per lo studio dell'architettura militare del Rinascimento in Italia. Trasformati in gran parte dagli sviluppi urbanistici della città sono la cittadella d'Ajaccio, edificata verso la fine del sec. XV da Paolo da Mortara, Cristoforo Gandino e Pietro da Novara, e il bastione di S. Giovanni a Bastia costruito (1575-1578) dal torinese Bastiano Ponsello. Calvi e Bonifacio conservano invece schiettamente il loro austero carattere di fortezze italiane del Cinquecento, per la massima parte tuttora intatte nei loro particolari.

Alla necessità di difendere le coste specialmente dalle incursioni barbaresche, Genova provvide con tutto un anello di torri, che, erette sul litorale, avevano il doppio scopo di guardare e difendere gli approdi (Solenzara, Punta Mortella, Spano, Gargalo, Turghio, ecc.) o che, situate a qualche distanza dal mare, provvedevano alla difesa del retroterra nei punti economicamente più prosperi e importanti (Giandinelli, Piana, Anuccia, Marcellara). A seconda della posizione e quindi delle esigenze militari, esse furono di tipo differente, generalmente rotonde, assai di raro quadrate (Porto, Morsiglia, Nonza, Toga).

Queste torri in origine superavano il centinaio; oggi, integre o rovinate, ne restano 91, così distribuite: 22 nella costa orientale fra la Punta Sperone e Bastia; 20 nel Capo Còrso; 12 nella costa settentrionale dal Golfo di S. Fiorenzo alla Punta di Revellata; 32 nella costa occidentale dalla Punta di Revellata al Capo di Zivia; 5 nella costa meridionale fra il Capo di Zivia e la Punta Sperone. La maggior parte di esse fu costruita fra la metà del sec. XVI e il primo decennio del seguente; cronache e documenti consentono una precisa datazione soltanto per alcune fra esse. A Solenzara, a Padulella e nel golfo di Girolata furono erette nel 1548, nel Golfo d'Ajaccio (Mezzomare e Capitello) fra il 1550 e il 1553 e alcune altre fra il 1580 e il 1608; fra il 1559 e il 1575 ne furono costruite 16 e restaurate 3 fra le Pievi d'Aleria e di Biguglia, il Capo Còrso, il Nebbio.

Dal 1567 al 1729 la Corsica ebbe oltre un secolo e mezzo di sufficiente tranquillità, caratterizzato, fra l'altro, da un vasta ripresa religiosa, alla quale si accompagnò un nuovo fervore costruttivo. Conventuali, osservanti, cappuccini, domenicani, romitani di S. Agostino, servi di Maria, clarisse, orsoline si sparsero in tutte le regioni dell'isola, rinnovarono chiese, eressero conventi.

Si cessò dal costruire in stile romanico paesano: si passò d'un tratto alla diffusione del barocco, importato da maestri genovesi, provinciali anch'essi come i loro predecessori pisani. Per quanto modeste e limitate negli effetti decorativi, sia per la povertà degli ordini committenti, sia per l'uniformità dei materiali che i capimastri avevano generalmente a loro disposizione, le chiese còrse del Seicento - come del resto tutta l'architettura provinciale italiana di questo periodo - meriterebbero uno studio compiuto. Tuttavia, in linea generale, può affermarsi che esse per la nobiltà della linea, per la compostezza nel movimento delle masse, per l'organicità se non per la vastità delle strutture, richiamano quell'attività costruttiva che, alimentandosi per tutto il sec. XVII alle fonti dell'Alessi, si sparse per le riviere della Liguria. Rimasero immutati i caratteri di S. Maria di Carignano: pianta raccolta con subordinazione delle diverse parti dell'edificio alla luce che discende dalla cupola, predominio, su tutta la massa, della cupola stessa e delle due torri di facciata, decorazione non invadente rispetto alla chiarezza degli spartimenti architettonici. Solo eccezionalmente in alcuni edifici còrsi, che appartengono alla prima metà del Settecento, la decorazione diventa preponderante; ma, pure spezzando in superficie la continuità dei paramenti e accentuando in profondità gli sviluppi curvilinei della massa, essa riesce talvolta - come nella chiesa e nel campanile di La Porta - a non alterare gli aspetti fondamentali delle strutture e dei loro concatenamenti.

Questo nuovo trapianto di forme artistiche italiane ebbe un carattere d'immediata e vasta divulgazione. Sono da ricordare, a riprova di ciò, le chiese di S. Giovanni Battista, di S. Maria, di S. Rocco, dell'oratorio della Concezione in Bastia, di S. Giovanni Battista e di S. Maria Assunta di Calvi, di Pino, di Ersa, di Piedicroce d'Orezza, di Piobbeta, di Carcheto, di Sermano, di Moita, di Lugo di Nazza, di Cargese, di Vezzani, di Campile, ecc.

L'importazione delle opere d'arte fu attivissima anche durante questo periodo e dalla sistematica esplorazione delle chiese còrse non potrà quindi prescindere chi vorrà un giorno accingersi allo studio della pittura genovese secentistica nei suoi ignorati sviluppi minori. Verranno in luce esemplari di ogni tendenza: dal "romanismo" del Cambiaso e del Castello in S. Maria e S. Giovanni Battista di Bastia, S. Andrea d'Oletta, S. Maria di Sartena, S. Domenico di Bonifacio, al "fiorentinismo" del Lomi e del Paggi in S. Croce e S. Rocco di Bastia, S. Maria di Brando, S. Francesco di Pino, S. Maria Assunta di Calvi; dal cosiddetto rinnovamento veristico dello Strozzi e di G.A. de Ferrari in S. Giovanni Battista in Bastia, S. Maria di Sartena, S. Domenico di Bonifacio, al secondo manierismo di L. De Ferrari e di G.B. Draghi d'imitazione parmigiana o bolognese in S. Rocco di Bastia, S. Lucia di Tallano. Non mancano neppure (a Vico, Orto, Canari, Sisco, Bonifacio, Brando) esempî pregevoli di arti minori, di quell'adorna ebanisteria che in Liguria riempì le chiese di tabernacoli, di stalli e di mobili da sagrestia e che attesta l'abilità degl'intagliatori, anch'essi variamente dominati da influssi lombardi e toscani del Rinascimento, e che talvolta raggiungono forme artistiche compiute in gruppi statuarî, fra cui l'Invenzione della Croce nella cappella dell'ospedale di Bonifacio e alcune figurine di Presepio nella sagrestia della parrocchiale di Luri.

Anche nel campo dell'arte la Corsica conserva dunque tutti i segni, inconfondibili e durevoli, delle dominazioni di Pisa e di Genova, che la tennero per sette secoli saldamente legata all'Italia.

Bibl.: L. De Bessières, Voyage archéol. et archit. en Corse, arrondissements d'Ajaccio et de Corse, 1856 (ms. della Bibl. com. di Bastia, collocaz. M. 7, i, 36); Renucci, Monuments religieux de l'ancien département du Golo, in Bull. Soc. sciences Corse, 1887; Porri, Monuments religieux des arrondissements d'Ajaccio et Sartène en 1281, in Bull. Soc. sc. Corse, 1889; F. Molard, Aleria, in Bull. hist. et philol. du Comité des trav. hist., astia 1891; De Fremenville, Tours génoises du littoral de la Corse, ibid., 1894, pp. 45-57; C. Aru, Chiese pisane in Corsica, Roma 1908; J. B. Marcaggi, L'île de Corse, Ajaccio 1909; Colonna De Cesari Rocca e L. Villat, Histoire de Corse, Parigi 1916; C. Enlart, Villes mortes du moyen âge (Aleria, Mariana, Nebbio), Parigi 1920; id., Monuments du moyen âge en Corse, Parigi 1923; id., Sculptures génoises du XVe siècle, importées en Corse, in Mélanges Bertaux, Parigi 1924; C. Aru, La difesa littoranea della Corsica durante il dominio genovese, in Mediterranea, aprile e maggio 1927; A. Ambrosi, Le baptistère de Valle di Rostinu, in Revue de la Corse, nov.-dic. 1929.

Musica.

Le melodie còrse (serenate, lamenti, vòceri, còmpiti o ballate, paghjelle o ninne nanne) hanno qualche analogia con i canti degli Arabi, coi randos dei Lituani (cantilene in morte di congiunti), con le attítiche dei Sardi e con le nenie delle prefiche romane.

Come è provato, la musica del popolo, cantata generalmente e dappertutto senza conoscenze musicali, è suscettibile di trasformazioni di metro e di ritmo e anche di melodia; onde le innumerevoli versioni fatte attraverso i tempi finirono talvolta per snaturarne l'origine, anche per la notazione troppo ricercata. I lamenti e i voceri còrsi, invece, sono stati conservati abbastanza fedelmente quantunque le parole siano mutevoli, il senso fondamentale nondimeno permane, così che l'origine unitaria di parole e musica appare chiaramente col suo carattere d'improvvisazione, d'ingenua spontaneità nell'espressione dei sentimenti primordiali, specialmente del dolore.

Il lamento còrso piange il defunto di morte naturale, tessendo le sue lodi e quelle degli antenati, lentamente, quasi senza colorito, a mezza voce:

Il vocero propriamente detto commemora il defunto di morte violenta:

Il lamento è così affine al vocero che è stato spesso considerato tutt'uno con quello. I canti della morte, infatti, in Corsica si chiamano oggi, comunemente, vocero. L'uso dei voceri si trova pure in altre regioni mediterranee. Le parole vengono improvvisate di volta in volta dalle lamentatrici (il Fara distingue anche le voceratrici) sui canti tradizionali, con una forma strofica abbastanza regolare, generalmente composta di sei settenarî, e con una certa libertà di movimento e lievi varianti tra paese e paese. Una specie di danza accompagna spesso il vocero, svolgendosi in stretto rapporto col carattere e il ritmo della melodia. Il vocero qui riportato è in 2/4, ma lo stesso, riprodotto invece in 3/8, è conosciuto anche in una forma più ampia, con una breve parentesi in minore, che gli conferisce un contrasto di colore assai efficace e caratteristico.

Canti d'amore, serenate e simili trovano anche nella Corsica abbondante ispirazione; ma qui il sentimento amoroso non ha per lo più quella vivacità spigliata che si riscontra nelle melodie popolari dello stesso tipo in altre regioni: esso trova la sua naturale espressione in lente cantilene svolgentisi in brevissimi intervalli, spesso sillabiche, che fanno pensare piuttosto a una salmodia.

Ecco ora un canto di culla:

Questa ninna nanna si riaccosta, evidentemente, al lamento; o, forse, questo a quella; quindi il principio si riaccosta alla fine, la vita alla morte. Nella ninna nanna, a differenza del vocero, sembra volutamente eliminata la cadenza di carattere conclusivo dalla sensibile alla tonica; e questa particolarità le conferisce un'espressione di vita più leggiera e più aderente al soggetto. La ninna nanna e il lamento deriverebbero da uno stesso canto, le cui parole, secondo il Tiersot, raccontavano originariamente una storia d'amore.

Le melodie etniche dei Corsi si distinguono dunque per una loro fisionomia particolare, senza virtuosismi, che nell'esecuzione si accentua naturalmente e notevolmente (nel vocero soprattutto si può parlare di una vera e propria interpretazione), che va dalla tensione più selvaggia alla tristezza indolente, rassegnata, con andamento di melopea, e che permane anche quando la melodia si svolge nel modo maggiore.

Bibl.: G. Fara, L'anima musicale d'Italia, Roma 1921; G. Cocchiara e F.B. Pratella, L'anima del popolo italiano nei suoi canti, Milano 1929; H. Müller, Italienische Volkslieder, Lipsia 1926; J. Tiersot, La chansonpopulaire, in Encyclopédie de la musique et Dictionnaire du Conserv., pp. 2903-2904, Parigi 1930.

V. tavv. XCIX-CIV.

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