COPPO di Marcovaldo

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1994)

COPPO di Marcovaldo

A. Garzelli

Pittore fiorentino documentato dal 1260 al 1276 a Firenze, Siena e Pistoia.I primi dati biografici di C. si apprendono da Il libro di Montaperti (1260): "Coppus dipintore populi sancti Laurentii". L'anno successivo alla sconfitta fiorentina a Montaperti, l'artista firmava la tavola della chiesa di S. Maria dei Servi a Siena, la cui iscrizione, venuta alla luce nel restauro del 1947-1948, così recita: "A(nno) D(omini) MCCLXI Copp(us) d(e) Flore(n)tia me pi(n)x(it)". Un documento del 26 ottobre 1265 menziona la casa Coppi pictoris a Firenze, presso S. Lorenzo (Davidsohn, 1965, p. 412, n. 1).Altri documenti prospettano l'attività pistoiese di C. per un decennio a partire dal 1265, in collaborazione con il figlio Salerno (v.) dal 1274 (Bacci, 1912). Il primo (22 luglio 1265) dà notizia di una pittura da eseguire nella cappella di S. Iacopo nel duomo pistoiese dal lato verso il mercato e di una "indoratura tabule testavangeli". Un documento del settembre 1269 indica come già eseguita l'affrescatura della stessa cappella dal lato verso la sagrestia, con la collaborazione di prete Insalato di Iacopo. Un documento del 1274 menziona più opere: "unum crucifissum pulcrum et honorabilem et duas tabulas pulcras et honorabiles in coro et super coro [...] unum crucifixum cum una trabe super altare sancti Michaelis [...] una figura seu sepultura sancti Michaelis, in quibus etiam tabulis debet esse figura beate Virginis et sancti Johannis" (Bacci, 1912, nr. 3). Per l'esecuzione di queste opere l'arciprete e i canonici del duomo fecero una petizione al podestà e al capitano del popolo perché fosse provvisoriamente scarcerato il figlio Salerno. Da un documento del 3 gennaio 1276, "pro depittura solarii quod est super coro et altare sancti Zenonis" (Bacci, 1912, nr. 4), risulta che C. e Salerno erano allora ancora viventi. Nel corso di questo secolo il processo di identificazione dell'opera di C. - la personalità di maggior rilievo nel panorama fiorentino alle soglie di Cimabue - è scandito da quattro tappe di portata diversa che delineano momenti del suo percorso artistico e pongono le premesse per successive chiarificazioni di una situazione che poggia, ai fini del lavoro attributivo, sulla sola opera senese. La prima è certamente rappresentata dalla valutazione primonovecentesca dei documenti (Bacci, 1912). Infatti la rilettura dei documenti pistoiesi già trascritti da Ciampi (1810), la pubblicazione di nuovi e il loro confronto con il patrimonio superstite nella città consentono di delineare l'attività pistoiese del maestro. Comunque, anche se le notizie sulla vita e sulle opere del pittore sono più numerose di quelle che si possiedono sui pittori fiorentini dell'epoca, nemmeno una può con certezza riferirsi a opere superstiti.La seconda tappa, che segna un consistente chiarimento della posizione storico-critica di C., scaturisce dalla mostra giottesca del 1937, che acquisì il carattere fiorentino di opere prima ritenute lucchesi. Il riesame dei dipinti toscani del Duecento definiva nel Crocifisso (Firenze, Uffizi, inv. nr. 434), nella tavola Bardi con S. Francesco (Firenze, Santa Croce) e nel paliotto della chiesa di S. Angelo a Vico l'Abate (oggi a San Casciano in Val di Pesa, Mus. Vicariale d'Arte Sacra; Offner, 1933) il terreno entro cui cercare l'origine di C.; è significativo che anche gli studiosi affezionati alla collocazione lucchese delle opere integrassero il riferimento con il richiamo ai mosaici del battistero di Firenze. Allo stato attuale lo studio di Coor (1947-1949) resta il più esteso e il più impegnato a sottolineare la consistenza della personalità di C. con interessanti osservazioni sia sul piano iconografico sia su quello stilistico.Il terzo momento è ravvisabile nel contributo di Ragghianti (1955) che chiarisce la posizione di C., arricchendo un catalogo delle opere attraverso la ricognizione dell'intervento del maestro nel battistero. Dando per acquisita la consistenza dell'apporto coppesco nel battistero, Garzelli (1982) saggiava una serie di elementi per chiarire il programma iconografico del Giudizio universale, quindi la sua possibile datazione e la consistenza delle innovazioni figurative di C. nel contesto toscano. Negli studi recenti la prospettiva critica sul pittore resta incompleta su questo versante.Dopo le novità attributive di Boskovits (1976; 1977; 1983) appare rilevante per la riapertura della questione cronologica delle opere di C. il contributo di Frugoni (1988) sulle fonti letterarie seguite dal pittore per la sequenza figurativa della tavola Bardi.Sono di ausilio nello studio le analisi di restauro, rivelatrici di un ductus pittorico di gran livello, specialmente nelle tempere con velatura a vernice su fondo dorato e argentato della Madonna di Siena, di quella di S. Maria dei Servi a Orvieto, del paliotto di Vico l'Abate. Singolarità nei procedimenti esecutivi sono state individuate anche in affreschi eseguiti, se non dallo stesso C., dalla bottega (Crocifissione nel capitolo di S. Domenico a Pistoia, con paglia e stoppa nell'intonaco e nell'arriccio).L'unico dipinto di C. firmato e datato è la Madonna con il Bambino in trono e due angeli in S. Maria dei Servi a Siena, che è conservata nella cappella Borgognini almeno dal 1569, l'anno in cui Giovan Pietro Bordoni ottenne la proprietà della cappella (da qui il nome di Madonna del Bordone). Ridipinture di un artista forse duccesco segnalate da Bacci (1912) celano il volto originario della Madonna e quello del Bambino, i cui tratti emergono dalle radiografie. Il restauro (1947-1948) ha posto in luce una pittura su fondo d'argento e un uso sofisticato di vernici colorate con effetti cangianti e velature che modulano le superfici delle immagini.Si può profilare la vicenda del catalogo di C. partendo dai nessi filologici indicati dalla critica a cominciare dalla Madonna del Bordone. L'opera più direttamente collegata alla tavola senese è la Madonna con il Bambino nella chiesa dei Servi di Orvieto (Perali, 1919), anch'essa del tipo della Odighítria, su trono a lira e con velario, eseguita a tempera con velature a vernice su fondo dorato e argentato. L'attribuzione a C. è stata accolta dalla critica successiva a eccezione di Boskovits (1976), che l'assegna a uno degli artisti del battistero fiorentino, e di Tartuferi (1986; 1990). Il recente restauro ha rivelato negli incarnati a olio dei volti ridipinture settecentesche e non duecentesche come già ipotizzato da Conti (1973). Gli studiosi concordano nel datarla post 1265, a eccezione di Toesca (1927); Polzer (1984) vi trova i punzoni adottati per la Madonna del Bordone e suggerisce analogie con la Madonna di S. Maria Maggiore a Firenze, ipotizzando un'unica bottega attiva anche nella parte superiore del battistero. Resta ancora da confrontare il dipinto con opere di Meliore - per le analogie che con la sua produzione mostrano i panneggi, l'uso delle pietre nel bordo dell'abito, la fisionomia del Bambino - e da chiedersi se esso non sia lavoro di collaborazione tra i due pittori.La seconda opera a proposito della quale, limitatamente ad alcune parti, è stato avanzato con continuità il nome di C., pur con sfumature attributive diverse, è costituita dalle parti dipinte della Madonna con il Bambino c.d. del Carmelo, (Firenze, S. Maria Maggiore, cappella del SS. Sacramento). Sono per C., o per la bottega di questi, Sirén (1922), Toesca (1927), Weigelt (1928), mentre Sinibaldi (in Pittura italiana, 1943, p. 207) parla di un "fiorentino che serba memoria di C.", Longhi (1948) di un affine di C., Coor (1947-1949) di un artista sotto la diretta influenza di C., Lazarev (1955) di un seguace di C. e Ragghianti (1955, p. 74) "di C. in compagnia di Meliore", apprezzandone il "pathos nudamente erompente" e "il clima di tragica veemente lamentazione jacoponica"; a favore Garrison (1949) e Prehn (1958); Giustini (1959) propendeva per la cerchia di C. e così Bologna (1962); Boskovits (1983) vi trova elementi di una cultura più arcaica, mentre Tartuferi (1986) pone l'opera nell'ambito della bottega di C. e avverte relazioni con il Crocifisso nel duomo di Pistoia.L'altro dipinto che, a cominciare da Toesca (1927), viene riconosciuto come autografo di C. è il Crocifisso del tipo patiens, a tempera su fondo dorato (San Gimignano, Mus. Civ., inv. nr. 30). Nell'accostare l'opera al Crocifisso del duomo pistoiese, Toesca (1927, p. 1037) dichiarava che "nella cifra bizantineggiante del disegno, nelle tinte fosche sul volto del Cristo l'espressione fu raggiunta da un maestro che meglio d'ogni altro precedette Cimabue nel vigore drammatico"; Sinibaldi (in Pittura italiana, 1943) indicava nel Cristo rapporti con i mosaici del battistero di Firenze, segnalando inoltre coincidenze iconografiche con la Pietà ad affresco nel monastero di S. Pantaleimone a Nerezi in Macedonia e ipotizzandone l'esecuzione intorno al 1254. Longhi (1948) introduceva, seguito da Bologna (1962), le prime riserve e, raccogliendo le indicazioni di Sinibaldi, sottolineava analogie con l'Inferno del battistero. La Salita sulla croce suggeriva a Coor (1947-1949) una committenza francescana e una datazione per l'opera nella prima metà degli anni cinquanta. Lazarev (1955) scorgeva affinità con le storie della tavola Bardi e con quella di Mosca (Gosudarstvennyj Muz. A.S. Puškina). Con Ragghianti (1969, col. 961) il dipinto, apprezzato per la "serrata densa emotività", è stato collegato al periodo della cattività senese di C., quindi confrontato con i mosaici del battistero. Prehn (1976), valutando la rarità della Salita sulla croce, ha indicato un confronto con l'analoga scena in S. Sebastiano presso Alatri.L'altra croce chiamata in causa per indicare l'ambito di formazione di C. è quella conservata a Firenze (Uffizi, inv. nr. 434), a tempera su fondo dorato e priva di cimasa, tabelle e suppedaneo. Il restauro del 1972 ha ritrovato l'alta qualità pittorica del dipinto, offuscato da rifacimenti settecenteschi. Inizialmente fatta gravitare in ambito berlinghieriano, ma anche avvicinata alla tavola Bardi e a quella di Vico l'Abate (Sandberg Vavalà, 1929; Hautecoeur, 1931), a partire da Offner (1933) è stata incanalata nella tendenza più plastica della pittura fiorentina che culmina con C.; Sinibaldi (in Pittura italiana, 1943) non la riteneva fonte per il Crocifisso di San Gimignano, ma derivazione da modelli comuni; Longhi (1948) la riferiva con riserve all'autore della tavola Bardi; Garrison (1949) l'accomunava alla tavola di Vico l'Abate e a quella delle Stimmate di s. Francesco (Firenze, Uffizi); Coor (1947-1949) vedeva affinità con la croce di San Gimignano; mentre per Ragghianti (1955) il Crocifisso, con elementi di esperienza pisana, era riferibile al Maestro della tavola Bardi e il suo autore collegato a C. e a Salerno per una probabile collaborazione nell'icona di S. Maria Maggiore. Ancora al Maestro del S. Francesco Bardi l'assegnavano Marcucci (1958) e Bellosi (1979). Prehn (1958) propendeva per un seguace di C., collaboratore nei mosaici; Boskovits (1983, p. 634) vede un maestro "depositario della cultura pittorica dei Berlinghieri a Firenze" nella cui cerchia si sarebbe formato Coppo. Tartuferi (1990) infine collega il dipinto al Crocifisso della Quiete (Firenze, Conservatorio del convento delle Montalve alla Quiete), alla croce Bandini (Fiesole, Mus. Bandini), alla tavola con S. Francesco e storie nella chiesa di S. Francesco a Pistoia e alla Madonna nella SS. Annunziata di Rosano (Firenze).Di quasi concorde ascrizione alla collaborazione di C. con il figlio Salerno è il Crocifisso a tempera su fondo d'oro, privo di cimasa e tabelle, nella cattedrale dei Ss. Iacopo e Zeno a Pistoia.Due sono le questioni dibattute dalla critica. La prima riguarda l'eventuale identificazione con uno dei due Crocifissi menzionati dal documento del 1274; C. avrebbe dovuto dipingere un Crocifisso pulcrum et honorabilem e altre due tavole - la Vergine e S. Giovanni - per la trave del coro, e un secondo Crocifisso con la sua trave per l'altare dedicato a s. Michele Arcangelo: anche se da un documento del 1275 risulta eseguito solo il Crocifisso, la critica è prevalentemente orientata a identificare quello istoriato nel duomo con quello destinato all'altare di s. Michele.La seconda questione, dibattuta fin da Bacci (1912), riguarda i ruoli svolti da Salerno e da C. e il loro rapporto con Cimabue. Toesca (1927) confrontava il dipinto con due miniature (Salerno, Mus. Diocesano, messale francescano; Firenze, Laur., conv. soppr. 233) accennando al rapporto con Cimabue, ribadito da Sandberg Vavalà (1929). Garrison (1949) assegnava a C. la figura di Cristo, a Salerno le storie; Ragghianti (1955) attribuiva il dipinto a Salerno aiutato dal padre, riconoscendo nella testa di Cristo un'umanità volgare originale e suggestiva. La disomogenea qualità della condotta pittorica è stata avvertita da Conti (1971), che su questa base assegnava a C. le due storie inferiori a destra. La connessione con la croce degli Uffizi e con il dittico di Cracovia (Muz. Narodowe) è stata indicata da Prehn (1976), che ha riferito a C. e al suo ambiente il dipinto. Boskovits (1983) dà a C. il Compianto e seppellimento, seguito da Polzer (1984) e da Tartuferi (1986), che indica rapporti con le parti dipinte della fiorentina Madonna di S. Maria Maggiore. Nel Crocifisso del duomo di Pistoia è forse la sola traccia di quanto ricordano i documenti. Certamente C. ne tracciò il disegno della figura centrale, dipingendo solo il Compianto e le Marie al sepolcro; Salerno dipinse il resto. Le persistenze dei tracciati compositivi della tavola di San Gimignano suggeriscono l'uso di taccuini e modelli.L'altra opera pistoiese è l'affresco con Cristo crocifisso fra la Madonna e s. Giovanni scoperto dai restauri del 1931-1932 nell'aula capitolare del convento di S. Domenico. La relativa sinopia recuperata dallo strappo eseguito nel 1967-1968 mostra invece ai lati del Cristo crocifisso a sinistra la Madonna confortata da s. Giovanni, a destra il centurione su sfondo di paesaggio e nel cielo sei angeli. La fiorentinità del complesso, affermata a partire da Procacci (1966), è stata ribadita con decisione da Baldini (in Frescoes from Florence, 1969), che ha insistito sulla pertinenza dell'opera a epoca ante Cimabue; Conti (1971) ha sottolineato il richiamo cimabuesco e la data 1280-1290; Prehn (1971) ha indicato una somiglianza iconografica con la Crocifissione affrescata in S. Sebastiano presso Alatri. Alla tarda attività di C. l'assegnano Boskovits (1983) e Tartuferi (1986). L'eventualità di una collaborazione con Salerno emerge di nuovo. È da chiarire il senso delle varianti iconografiche tra le due fasi (sinopia e affresco) e dovrebbe essere approfondita l'attribuzione dell'opera all'interno della bottega di C.: nell'affresco non traspare il suo ductus pittorico, le fisionomie dei volti divergono da quelli delle opere più sicure; più intensamente coppesca pare l'intonazione generale della sinopia, che ripete nel gesto che unisce Giovanni alla Madonna la soluzione di San Gimignano. Nuove le coppie angeliche, di cifra bizantina i panni rialzati (ricorrenti nell'angelo annunziante della fiorentina icona di S. Maria Maggiore e nella successiva Annunciazione, non di C., del mosaico del battistero).Nel contributo più recente Boskovits (1983) riconduce a C. due tavole sino agli anni Ottanta assegnate rispettivamente al Maestro del S. Francesco Bardi e al Maestro di Vico l'Abate.La tavola con S. Francesco e storie è ritenuta la più antica testimonianza dell'attività di C., forse a fianco di un altro maestro. Il dipinto rappresenta S. Francesco benedicente, con due angeli, e venti episodi della sua vita e miracoli post mortem. Attribuito a Cimabue da Vasari (Le Vite, a cura di Milanesi, 1878, p. 249) indi da Cavalcaselle (in Crowe, Cavalcaselle, 1886) a Margaritone, fu spesso accostato alla tavola con S. Michele Arcangelo di Vico l'Abate e a quella con le Stimmate di s. Francesco sin da Sirén (1922). Asseverandone la fiorentinità, Longhi (1948) ne riproponeva l'affinità con la tavola delle Stimmate, con quella di Vico l'Abate e più problematicamente con il Crocifisso fiorentino, ponendo in queste la formazione di C.; Lazarev (1955) indicava analogie con il Crocifisso di San Gimignano; Ragghianti (1955) la collocava a metà secolo suggerendo la probabile partecipazione dell'autore ai mosaici fiorentini; Prehn (1958) tentava di identificare l'apporto di due maestri; Stubblebine (1966) vedeva nei busti di francescani nei medaglioni l'avvio di schemi compositivi poi in Duccio. È infine importante per la cronologia il contributo di Frugoni (1988), che, con una complessa analisi relativa al dato agiografico, lega strettamente l'opera alla data del 4 ottobre 1243, senza per questo poter stabilire se fosse pronta a questa data o se a questa data si sia deciso di commissionarla all'artista con il programma iconografico deliberatamente orientato in quei termini. Stein (1976) propende per una determinazione cronologica più ampia - comunque non lontana dalle successive proposte di Frugoni - avente come punto di riferimento il generalato di Giovanni da Parma (1247-1257) e il Tractatus de miraculis di Tommaso da Celano; l'opera sembra comunque non potersi né anticipare rispetto al 1243 né posticipare rispetto al 1257. Una derivazione da questo dipinto effettuata all'interno della bottega di C. è la tavola con S. Francesco (Pistoia, Mus. Civ.).L'altra tavola, in passato ascritta al Maestro di Vico l'Abate, per la quale Boskovits (1983) avanza il nome di C. è il S. Michele Arcangelo in trono e sei storie angeliche (Firenze, Uffizi). Il restauro dell'opera ha rivelato sul fondo in argento meccato dipinto a tempera un disegno sottile realizzato direttamente sulla preparazione a mezzo di una punta graffiante (Casazza, Franchi, 1985). Dami (1924-1925) definiva l'autore il migliore prima di Cimabue; Salmi (1930-1931) sottolineava la partecipazione del suo autore ai mosaici del battistero; Offner (1933) il carattere precoppesco; Longhi (1948) raggruppava il dipinto con la tavola Bardi, con quella delle Stimmate e con una Madonna (coll. privata); Coor (1947-1949) ne poneva l'esecuzione ante 1261; Ragghianti (1955) ne apprezzava la presentazione dell'immagine quasi aulica. L'attribuzione del dipinto a C. è condivisa da Tartuferi (1986), che data l'opera non molto dopo il 1260. Il sapore eburneo del volto e delle mani suggerirebbe un confronto con il Meliore del paliotto di S. Leolino a Panzano (Firenze). La vivacità cromatica, senza riscontri nella pittura toscana dell'epoca, invita a cercare modelli culturali nell'ambito di manufatti di altro genere. C. potrebbe avere visto a Venezia icone costantinopolitane del tipo dell'icona dell'arcangelo Michele (Venezia, Tesoro di S. Marco) e anche marmi con figure imperiali (per es. quello già nel campiello Angaran tra la chiesa di S. Pantalon e il sottoportico Paruta). Nel ricostruire l'impianto geometrico di S. Michele, Cristiani Testi (1984) identifica uno schema bizantino diffuso anche tramite libri di modelli, analogo a quello della Madonna di Rosano.In aggiunta a queste due opere va esaminata entro il catalogo di C. anche la più antica del gruppo, la croce degli Uffizi, associata da Prehn (1958) al nome di C. dopo che i restauri avevano rivelato nel ductus pittorico del volto del Crocifisso gli stessi tratti ricorrenti nella Madonna del Bordone. Anche se le scene non appaiono del medesimo livello, alcune di esse, come il Trasporto di Gesù alla sepoltura e le Marie al sepolcro, coniugano l'inventiva con l'intonazione di una nuova pateticità (ruolo della gestualità, direzionalità degli sguardi) nella esplicitazione di una rinnovata coscienza 'volgare' lontana dal clima della tavola pesciatina di Bonaventura Berlinghieri. Della croce di San Gimignano essa anticipava il modello per la Cattura, per le figure sedute e per le tre Marie. L'attribuzione a C. di questo dipinto implica un'estensione dell'esame ai Crocifissi attribuiti al Maestro del S. Francesco Bardi: il Crocifisso del tipo triumphans conservato a Fiesole e quello del Conservatorio del convento delle Montalve alla Quiete.Nella fase conclusiva di un curriculum almeno trentennale è stato collocato un intervento di C. su un dipinto eseguito prevalentemente da Meliore: la Madonna con il Bambino in trono, poco più che mezzobusto, conservato nella pieve di S. Pietro a Bossolo presso Tavarnelle Val di Pesa. Un particolare importante non ha riscontri in Meliore: lo sguardo della Madonna rinnovato dal nuovo disegno degli occhi e del modellato rettilineo della fronte nella resa di una pensosità di marca inconfondibilmente coppesca. Questo punto di innesto stilistico e cronologico con i dolenti della croce aretina di Cimabue (S. Domenico) suggerisce di cercare momenti della formazione di quest'ultimo nella bottega di Coppo.L'attuale catalogo dell'artista è emerso dunque da una catena di riferimenti che risale alla Madonna del Bordone. Quest'ultima, a sua volta, ha una vicenda critica che implica diverse direzioni interpretative sulla formazione e la posizione storica di Coppo. Bacci (1912) analizzò le vicende della tavola e i rapporti stilistici con la croce nel duomo di Pistoia; Thode (1890), Weigelt (1928) e Sinibaldi (in Pittura italiana, 1943) la posero in rapporto con Guido da Siena; viceversa Coor-Achenbach (1946) ne avvertiva l'influenza sulla Madonna dipinta da Guido da Siena nel 1262 (Siena, Pinacoteca Naz.). Ragghianti (1955) sottolineava la peculiarità dinamica della razzatura aurea delle vesti, individuando una "energia quasi esplosiva" indicativa della formazione di C. presso il Maestro del S. Francesco Bardi; Prehn (1958) scorgeva nella radiografia del dipinto un ductus del modellato per curve concentriche presente anche nella croce degli Uffizi. Infine Cordaro (1983) segnala affinità tecniche con la Madonna di Orvieto, realizzata anch'essa con una pittura traslucida su foglia d'argento, rafforzando la tesi di un'unica paternità per le due opere. Un ampliamento degli orizzonti interpretativi si coglie in Polzer (1984), che vede nelle forme essenziali anticipazioni della scultura di Arnolfo di Cambio o delle prime figure colonnari di Giotto, assegnando a una stessa bottega il dipinto di Siena e quelli di Orvieto e di S. Maria Maggiore a Firenze.Le prospettive attuali del lavoro critico su C. sembrano riconducibili a questi nodi. È stato nettamente ridimensionato il peso della pittura lucchese nella sua formazione, mentre dovrebbe essere approfondito il ruolo esercitato in quel processo da Giunta Pisano, quindi studiato l'eventuale rapporto tra i due maestri intorno al quinto decennio del 13° secolo. Il giuntismo di C. è stato riconosciuto da Coor (1947-1949), che ha sostenuto inoltre l'influsso di C. sulla pittura pisana. Prehn (1958) ne vedeva i segni nelle pennellate circolari della croce fiorentina. Altra esperienza attiva nella fase giovanile di C. - accennata da Coor-Achenbach (1946) - è nella scultura, compresa quella lignea mobile, probabilmente esplorata per la resa drammatica di alcuni brani delle crocifissioni, e soprattutto quella di Nicola Pisano.Rispetto al prevalente riferimento al Maestro del S. Francesco Bardi, convince l'ipotesi di una collaborazione di C. alla tavola Bardi: più che di partecipazione si tratta di un intervento esteso se non prioritario, se si ipotizza un'esecuzione a due mani. Nella necessità di ridimensionare nel contesto il ruolo del maestro non coppesco decade comunque la fisionomia del presunto Maestro del S. Francesco Bardi. Restano da chiarire innanzitutto i ruoli dei due pittori e, nell'entourage fiorentino, l'eventuale collaboratore nell'ambito di una situazione compatibile con la storia di Coppo. Tra le scene fra loro omogenee e apparentemente estranee allo stile di C. possono essere annoverate per es. l'Approvazione della regola, i Miracoli alla tomba e la Canonizzazione. Vi è un gusto per sottolineature decorative (tessuti, bordi, libri, fasce ornamentali di edifici), frequente è la perlinatura ordinata in percorsi geometrici, mentre la lumeggiatura nei volti si limita a brevi pennellate. Dovrebbe essere stabilito a quale dei due pittori appartenga l'immagine centrale di S. Francesco, la cui imponenza umana scarta dalla formula berlinghieriana, appena riecheggiata dal dettaglio del lobo rialzato dell'orecchio, come spesso in Meliore e in talune figure a mezzobusto nella scarsella del battistero.Nell'ambito della pittura di metà secolo sembra particolarmente promettente il confronto tra le scene non coppesche indicate e la produzione giovanile di Meliore. Si abbina stilisticamente alla tavola Bardi, nelle parti che è possibile indicare come eseguite da C., quella con le Stimmate di s. Francesco, la cui affinità con la tavola di Santa Croce è stata più volte sottolineata.Un tratto che accomuna i dipinti di C. a quelli di Meliore è la decorazione dei troni e delle aureole, di una varietà di motivi senza riscontro nei loro contemporanei. Nella Madonna del Bordone l'aureola del Bambino è campita da eleganti palmette inserite in griglie geometriche indicative di una bottega non esordiente nel limpido dominio delle tecniche per la realizzazione. Nel corso degli anni settanta del secolo questi motivi graffiti sugli ori sarebbero spiccati nei dipinti di Meliore. La tavola senese ne presenta un assortimento: nel trono, nel gradino, nel cuscino, come nelle Madonne di Orvieto e di S. Maria Maggiore. Uno dei tratti più nuovi è l'elaborazione del gruppo madre-figlio, che parrebbe evocata nella successiva Madonna con il Bambino in piedi, posta tra lo specchio con l'Adorazione dei Magi e quello con la Presentazione al Tempio del pulpito di Siena: il piccolo siede sul braccio sinistro della madre che ne accarezza il piedino; Maria, ruotata di tre quarti, è lambita da un mantello che lascia circolare aria attorno al corpo; analogo risalto plastico caratterizza la veste del Bambino con un panneggio che ripropone il disegno del perizoma del Cristo sangimignanese, in un arricchimento del quadro dei significati. Una probabile fonte per C. potrebbe essere la Madonna seduta della Natività nel pulpito pisano di Nicola. L'esplorazione dell'arredo monumentale, assente nei pittori dell'epoca, ha una sua logica nella pratica di coniatore di immagini per i grandi formati.Le identificazioni effettuate da Ragghianti (1955) dei mosaici eseguiti su cartoni di C. per il Giudizio universale - il Cristo giudice, i risorti, una parte del gruppo dei beati, di quello dei dannati e dell'inferno -, ancor più convincenti dopo i restauri delle tavole che hanno evidenziato le caratteristiche del pittore, dovrebbero essere integrate con l'inclusione degli angeli - una volta assegnati al Maestro della tavola Bardi - e delle virtù, riaprendo la questione cronologica dei mosaici. Probabilmente la partecipazione di C. avvenne con ampi intervalli durante i quali poté eseguire tavole e altre opere. Nell'elaborazione dei dannati risalta un'abile regia di gruppo (figure flesse, capovolte, in movimento, exploits di panneggi e una disposizione scalare in profondità dei personaggi). L'aggiornamento delle conoscenze sullo stile di Salerno induce a cercarne l'intervento in quelle parti che, all'interno di questa impresa, sembrano più tarde: le zone al centro e a destra dell'inferno. La partecipazione di C. dovette aver luogo attraverso la formulazione di un piano generale dell'opera e nelle parti di sua competenza, con l'esecuzione di disegni e di sinopie. La rispondenza di alcuni passi (per es. l'affinità della risorta dalle chiome dorate seduta sul sarcofago con le Marie della croce di San Gimignano) indica, almeno qui, una presenza diretta nell'allestimento dell'opus tessellatum a piè d'opera. Il ruolo delle maestranze veneziane, se presenti, dovette costantemente essere quello di tradurre sinopie o disegni tracciati dai fiorentini. Parlare dei mosaici significa riaprire la questione dei rapporti di C. con l'eredità bizantina. Peraltro, se l'intervento dell'artista nel battistero ne afferma l'indipendenza dai mosaici di S. Marco a Venezia, è impensabile che l'avvio dell'impresa, avvenuto presumibilmente di concerto con Meliore, non abbia condotto entrambi alla visita del vasto apparato nelle cupole veneziane. La conoscenza raffinata del manufatto bizantino e orientale fa di C. - accanto a Meliore, più incline alla citazione meno elaborata da mosaici, marmi, smalti lagunari - il più aggiornato in Firenze in quest'ambito di esperienze.Dall'esame critico dell'opera di C. emergono dunque tratti che lo distinguono dal collaboratore Meliore. La figura umana è il principale oggetto delle sue attenzioni: sondata nella veduta frontale, nel profilo e nel tre quarti ed esplorata nella successione delle età, studiata nelle posizioni, gesti, movimenti con la definizione di modelli che con varianti sono riutilizzati per soggetti diversi.Se la radice iconografica talora è attinta alla tradizione pittorica bizantina, le rielaborazioni sono di elevata umanità: Giovanni che tocca la mano di Maria nel capocroce di San Gimignano pubblica la modalità di un gesto che Cimabue avrebbe introdotto nella Crocifissione di Assisi. L'uso di sfumature cromatiche e di una lumeggiatura sapiente e l'abbandono della linea scura nel disegno dei capelli e delle sopracciglia conferiscono un nuovo volume ai personaggi, spesso esaltati da un nuovo rapporto con le architetture negli sfondi. Il caratteristico paesaggio roccioso rinnova il clima delle sue lamentazioni rispetto ai prototipi evocati, come per es. quello del monastero di S. Pantaleimone a Nerezi. Lo scarto dalla produzione corrente è forte. Momenti di riflessione poterono essere offerti dalla nuova scultura (Pisa, Siena, Pistoia).C. fu la prima personalità fiorentina che si affermò fuori della città; dotato di una bottega attiva per oltre un trentennio e in grado di soddisfare committenze quali l'Arte di Calimala, i Francescani (a Firenze e a San Gimignano), l'Opera del duomo di Pistoia.Il successo di C. è dimostrato dal riflesso in pittori contemporanei: Meliore, il Maestro della Madonna del Carmine, il figlio Salerno e, fra i più giovani, il Maestro della Maddalena e Cimabue. Fuori Firenze è stato indicato l'interesse suscitato da C. in Guido da Siena. La tavola nella parrocchiale di S. Giovanni Battista di Pomarance (Pisa), nel gruppo della Madonna con il Bambino, è esempio interessante di copia duecentesca di una sua opera, la Madonna del Bordone, ancora inesplorata nella variante di qualità elevata delle sei storie laterali emerse dal restauro.

Bibl.:

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