FERRINI, Contardo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 47 (1997)

FERRINI, Contardo

Guido Fagioli Vercellone

Nacque a Milano, il 4 apr. 1859, da Rinaldo e da Luigia Buccellati.

La famiglia era di origine svizzera: il nonno Gaspare Antonio (1797-1867) fu farmacista a Locarno, città che lasciò per sposare in seconde nozze a Milano Eugenia Cagnoletti. Il padre, Rinaldo, fu per 38 anni apprezzato professore di scienze fisiche all'istituto politecnico e diede alle stampe alcune pregevoli opere scientifiche. Sia Rinaldo sia Luigia erano profondamente religiosi, e il clima nel quale il F. crebbe fu quello tipico di molte agiate famiglie milanesi appartenenti al cattolicesimo colto del secondo Ottocento: ammirazione per A. Rosmini e apertura ad una cooperazione strategica con le forze liberali in prospettiva antisocialista (Diz. d. Chiesa ambros., p. 1212), sebbene il F. ben difficilmente possa venire considerato un cattolico liberale, perché il suo ossequio a tutte le direttive della S. Sede in ogni campo sarà sempre totale ed incondizionato.

A sei anni il F. iniziò gli studi presso l'istituto "Boselli", la scuola dei rampolli delle migliori famiglie; manifestò subito amore per lo studio, ma anche un carattere dispettoso e indocile. Nel 1871, però, la preparazione alla prima comunione segnò per il F. una vera trasformazione dell'indole e del comportamento. Infatti, ricevuto il sacramento a S. Alessandro il 20 aprile, egli cominciò a mostrare un costante, rigoroso e sincero zelo religioso, prendendo a seguire assiduamente a S. Fedele (la parrocchia dell'intelligenza colta) le prediche del prevosto A. Catena, iscrivendosi alla Confraternita del Ss. Sacramento cui già apparteneva suo padre, e frequentando a S. Alessandro la scuola di dottrina cristiana tenuta dallo zio sacerdote, il noto giurista A. Buccellati.

Il Catena fu per lui in quegli anni consigliere spirituale e per un breve periodo confessore, mentre il dottissimo abate A. M. Ceriani, prefetto dell'Ambrosiana, lo guidò negli studi biblici, fornendogli rudimenti di ebraico, siriaco e sanscrito. Importante fu anche il rapporto col famoso geologo A. Stoppani, amico di suo padre, che gli instillò l'amore per la natura come maestra di virtù morali.

A tredici anni aveva già assunto atteggiamenti di pietà molto sottolineati; frequentò, quindi, il liceo "Beccaria", dove ottenne, nel 1876, il diploma con la massima lode e con segnalazione in latino e greco. A questo punto fu deciso di iscriverlo alla facoltà giuridica dell'università di Pavia, di cui era preside il citato zio Buccellati. Il padre riuscì ad ottenere per lui un posto gratuito nel collegio universitario "Borromeo", dove entrò il 17 nov. 1876.

A Pavia il F. ebbe gravi problemi d'inserimento nell'ambiente goliardico del collegio tanto che fu beffeggiato come "il nostro san Luigi" o "il beatino" e oggetto di continui pesanti scherzi dei compagni che si divertivano dei suoi "santi rossori"; finì col rinunciare a studiare insieme con gli altri nei locali riscaldati, per ritirarsi da solo in una stanza gelida, sempre però senza reagire e in silenziosa mansuetudine. Non rinunciava tuttavia a sottolineare le sue convinzioni, anzi: alla messa, celebrata nel collegio solo la domenica, cui tutti solevano assistere in piedi, egli rimaneva sempre in ginocchio, mentre i giorni feriali si recava ad assistervi in qualche chiesa esterna, osservando la confessione quasi quotidiana; questi atteggiamenti lo portarono a qualche contrasto e ad una certa freddezza anche con lo zio Buccellati, prete intellettuale e mondano, che criticava gli eccessi della sua religiosità.

A Pavia si legò invece di grande amicizia con il conte Paolo Mapelli e con suo fratello Vittorio, con E. Cappa e con C. Secchi, che erano però tutti esterni al "Borromeo". Entrò in relazione anche col mons. A. Riboldi, vescovo di Pavia e futuro cardinale, che ne intuì subito le straordinarie doti spirituali e intellettuali e gli fece da guida nella scelta di un programma di vita, che dopo lunghe esitazioni si concretò nell'esclusione di un orientamento ecclesiastico e nell'elezione, sulle orme paterne, dell'apostolato nell'insegnamento.

Completati brillantemente i corsi giuridici privilegiando quelli di diritto romano (ma ne aveva seguiti anche alcuni della facoltà di lettere e aveva studiato il tedesco), si laureò il 21 giugno 1880, con la tesi (da lui stesa in greco, e tradotta in latino su richiesta di alcuni professori della commissione) Quid conferat ad iuriscriminalis historiamHomericorum Hesiodeorumquepoëmatum studium, che stupì gli esaminatori per la rara maturità metodologica e l'ampiezza della trattazione, valendogli la classificazione di "assoluto con lode" e la pubblicazione (Berlin 1881), concessa per la prima volta a Pavia in quella facoltà. Questo successo gli fece ottenere dal ministero della Pubblica Istruzione e dalla Cassa di risparmio delle province lombarde una borsa di studio per un biennio di perfezionamento all'estero: egli scelse la Germania, dove si recò sul finire di quello stesso anno accompagnato dalle ampie commendatizie di mons. Riboldi per mons. H. Förster, vescovo di Breslavia, che aveva Berlino, destinazione del F., nella propria diocesi.

Qui prese subito a frequentare la facoltà e il circolo letterario cattolico. Il soggiorno tedesco fu determinante per la sua crescita scientifica, sotto la guida di A. Pernice, M. Voigt, H. Dernburg, T. Mommsen, K. E. Zachariae von Lingenthal, che portavano avanti gli studi del celebre romanista F. K. von Savigny. In particolare del Lingenthal, vero iniziatore degli studi di diritto romano-bizantino, il F. fu per allora quasi il solo continuatore, tanto che quello volle legargli tutti i suoi manoscritti. Anche sul piano spirituale l'esperienza si rivelò positiva, perché egli riuscì ad inserirsi felicemente nelle attività di quella minoranza cattolica che operava con straordinaria vitalità nel clima del Kulturkampf, costruendo un rapporto privilegiato con il botanico M. Westermajer, terziario francescano, che lo fece iscrivere alla Conferenza di S. Vincenzo. Pare sia stato allora che il F. pronunciò voto di castità, dapprima rinnovabile di mese in mese, e poi definitivo e assoluto.

Rientrato in Italia, ottenne, nel novembre 1883, la cattedra di esegesi delle fonti di diritto romano nell'università di Pavia, dando inizio alla sua carriera accademica, e ad un'ingente serie di pubblicazioni giuridiche (oltre 200), nelle quali si espresse tutta la sua eccezionale dottrina. In seguito resse come ordinario la cattedra di pandette all'università di Messina dal 1887 al '90, e dal 1890 al '94 quella di diritto romano a Modena, dove strinse amicizia col professore L. Olivi, uomo di elette virtù religiose, che in seguito sarà ilprimo ad ipotizzare la beatificazione del Ferrini. Finalmente nel 1894 venne nominato con voto unanime alla cattedra di Pavia, dove rimarrà fino alla morte, pur conservando la residenza a Milano. In quei lunghi anni di studio e di ricerca la sua sola fonte di svago fu l'escursionismo alpino, che spesso condivideva con l'amico A. Ratti, il futuro Pio XI. Il F. non volle però limitarsi agli studi e all'approfondimento della sua ricerca di perfezione spirituale: gli sembrò doveroso darsi, oltre a quello della S. Vincenzo, un impegno sociale.

Fu consigliere comunale, per gli anni 1895-99, e, nel 1898, uno dei fondatori dell'associazione Religione e patria, partecipando ad alcune iniziative di G. Toniolo ed aderendo all'Unione cattolica per gli studi sociali. Tuttavia la sua azione politica fu sempre limitata dalla sua assoluta fedeltà alla regola di sottostare in tutto alle direttive pontificie, a fianco degli amici Mapelli, di C. Giulini e di C. O. Cornaggia Medici, in contrasto con le posizioni de L'Osservatore cattolico e dei giovani democratici cristiani.

Divenuto terziario francescano, in tutte le attività portò sempre la sua intensa e genuina carica spirituale, che si manifestava in un vigile impegno di apostolato quotidiano. E fu nella forma più umile di esso, visitando malati, che contrasse il contagio tifoideo che il 17 ott. 1902 lo portò alla morte nella villa di Suna (ora Verbania).

La fama di santità cominciò a diffondersi subito dopo la sua morte, accompagnata da voci di presunti miracoli: nel 1905 una raccolta delle sue lettere fu consegnata a Pio X, e C. Pellegrini iniziò la necessaria indagine documentaria e biografica, poi alacremente continuata dall'università Cattolica, che aveva eletto il F. a proprio campione, emblema della santità moderna in campo studentesco, alla quale fu di stimolo a Milano il fervore pastorale dell'episcopato di A. Ferrari. Così l'iter della causa canonica fu rapido: l'8 febbr. 1931 fu emanato il decreto sull'eroicità delle virtù; nel 1942 i resti mortali furono traslati a Milano e collocati in una cripta all'università Cattolica; e il 13 apr. 1947 Pio XII lo proclamò beato. Le sue opere di carattere religioso furono pubblicate postume: Gli scritti religiosi, a cura e con introduzione di C. Pellegrini (prevosto di S. Calimero e curatore della causa di beatificazione), Milano 1926; e Pensieri e preghiere, a cura e con prefazione di A. Gemelli, ibid. 1960. I lavori scientifici principali furono riuniti in 5 voll. di Opere, ibid. 1929-30, con prefazione di P. Bonfante.

L'opera scientifica del F. fu vastissima per quantità di argomenti trattati. Rilevanti sono gli scritti su singoli istituti di diritto romano classico, spesso affrontati nella loro evoluzione e comparati alle figure in parte mutate giunte alla codificazione giustinianea.

Dedicò molte pagine al diritto ereditario classico (Sull'origine dei legati [1888], poi in Op., IV, pp. 139-206; Osservazioni sulla responsabilità dell'erede nel legato "per damnationem" di una "res certa" ([1900], ibid., pp. 207-216);nello scritto Ricerche sul "legatum sinendi modo" ([1900], ibid., pp. 217-236), riassunti i risultati di precedenti ricerche, mantenne una concezione dell'istituto come figura di transizione, intermedia tra il legatum per vindicationem e quello per damnationem. Intese studiare in quell'occasione quale fosse l'ambito di applicazione dell'istituto nel diritto classico, facendo tesoro di alcuni testi delle Pandette, che pur ritenendo alterati dai compilatori, tuttavia a suo avviso ne conservavano ancora l'impronta dell'originaria natura giuridica.

Numerosi studi, risalenti all'ultimo quindicennio del secolo furono dedicati al diritto ereditario moderno, sebbene l'ottica rimanesse quella del romanista. In alcuni di essi delimitò la portata effettiva delle influenze del diritto romano nel codice del 1865 (Sull'art. 973 del codice civile (perimento di cosa legata) [1891], ibid., pp. 403-411); molti di essi sono poi note a sentenza in cui denunciò talora un difetto di cultura giuridica romanista negli orientamenti giurisprudenziali delle corti di merito e anche della Cassazione (Sugli artt. 862-863 del codice civile (acquisto di legato) [1889], ibid., pp. 395 ss.; Sugli artt. 864 e 865 ... (diritto ai frutti della cosa legata) [1889], ibid.,pp. 399 ss.; Sulla differenza fra prelegato e porzione di eredità in diritto civile italiano, [1890], ibid., pp. 377-380; Sull'art. 837 ... (legato di cose altrui) [1892], ibid., pp. 385-390 e Sull'art. 833 ... (legato di cosa appartenente all'erede), ibid., pp. 391-394).

Un altro istituto abbondantemente percorso dal F. in materia ereditaria fu la separatio bonorum (Note intorno alla "separatio bonorum" [1900], ibid. con il titolo Nuoviappunti..., pp. 183-192,e Appunti sulla "separatio bonorum"),ricostruendo la natura giuridica dell'istituto classico che gli parve limitato all'eredità testamentaria, a differenza di quanto avveniva nel diritto giustinianeo in cui esso finì per essere concesso ai creditori postulanti di fronte a qualsiasi erede che fosse o si reputasse insolvente. Questa limitazione all'utilizzo dell'istituto in epoca classica si basava sulla considerazione che solamente in caso di successione testamentaria, a differenza dei casi in cui la successione legittima seguiva naturalmente il suo corso, poteva essere considerato riprovevole l'atto con il quale il testatore ordinava che la propria successione venisse raccolta da mano sospetta con pericolo dei creditori. Qui il F. ipotizzava un meccanismo di sospensione dell'efficacia del testamento e di esecuzione sui beni ereditari: un procedimento analogo a quello che rescindeva i gesta in fraudem creditorum, almeno riguardo alla sua tendenza, ma poi differente riguardo al mezzo ed ai requisiti soggettivi e oggettivi. Tesi che il F., come era solito procedere, avvalora con argomentazioni direttamente sulle fonti, mettendo in luce la contraddizione tra la frase creditores testatoris di Ulpiano e la frase creditores defuncti che considerò una sostituzione dei compilatori.

Nello studio delle fonti (Sulle fonti delle "Istituzioni" di Giustiniano [1901], poi ripubblicato in Opere, II, pp. 307-419) egli contribuì agli studi romanistici con la tesi che le Istituzioni giustinianee sono composte sostanzialmente alla stessa maniera dei Digesti, mediante giustapposizioni di brani tratti da opere anteriori cui i compilatori apportarono modificazioni ed aggiunte indispensabili all'esposizione di un diritto nuovo. Ne risultò il concetto fondamentale di una differenza soltanto apparente tra le due opere, in quanto nei Digesti i passi sono distinti fra loro e portano l'indicazione della fonte, mentre nelle Istituzioni sono collocati di continuo in modo da formare un unico discorso, conclusione alla quale il F. giunse dopo un attento studio della struttura del testo, dove avvertì il passaggio dal frammento di Gaio (alle sue Istituzioni era limitato il materiale disponibile) a quello dettato dai compilatori.

Uno studio capillare delle differenze lessicali, sintattiche e stilistiche che potevano essere adoperate come indizi per scoprire i punti di congiuntura (parlò di plumbatura piuttosto che di una ferruminatio) costituì il supporto della concezione dell'opera come costituita in massima parte da fonti classiche e nella quale le interpolazioni dovevano essere meno frequenti di quelle che si incontrano nei Digesti. Anche parlare di "interpolazioni" riguardo alle Istituzioni costituiva una novità di metodo resa possibile soltanto dalla mutata concezione della natura dell'opera che egli sostenne.

Basandosi sull'osservazione meticolosa del confronto dei modi in cui uno stesso passo è riportato nei Digesti e nelle Istituzioni, avvertì che in queste era spesso riprodotto il testo originale e che i brani si trovavano spesso vicini, come dovevano essere nelle opere originali, mentre nei Digesti si trovavano distanti l'uno dall'altro, deducendone la prova che i compilatori delle Istituzioni avessero attinto direttamente dagli originali classici piuttosto che raggruppato ciò che nei Digesti era stato diviso, e formulò le proporzioni ipotetiche con le quali le Istituzioni classiche erano state adoperate dai compilatori: innanzitutto le Istituzioni e le Res cottidianae di Gaio, poi le Istituzioni di Marciano, Fiorentino, Ulpiano e, per finire, di Paolo.

Accanto a quest'opera scientifica di per sé già vasta vi fu il campo, quasi suo proprio, del diritto e delle fonti bizantine, in particolar modo lo studio della Parafrasi greca delle Istituzioni di Giustiniano (Delle origini della Parafrasi greca delle Istituzioni [1886], ripubblicato in Opere, I, pp. 105-137, e numerosi altri scritti appartenenti agli anni 1883-1886 e raccolti nello stesso volume al quale si rimanda).

Egli ne inquadrò il periodo storico di riferimento ai primi anni dell'impero di Giustiniano, seguendo il metodo che gli era familiare dell'indagine parallela del contenuto giuridico (notò che nessun riferimento era stato fatto alle Novelle) e della forma letteraria, che gli apparve più simile alle opere del primo periodo del regno di Giustiniano, all'incirca fino alla morte di Teodora, in cui abbondavano gli indici, che erano parafrasi letterarie del testo, piuttosto che alle più tarde somme che erano compendi dei testi latini.

Al tempo stesso maturò una netta opposizione alla tradizionale attribuzione della Parafrasi a Teofilo. Notò che Stefano, che pure adoperò la Parafrasi, non citò mai l'antecessore e pose questo dato in relazione al fatto che il più antico codice della Parafrasi disponibile ai romanisti moderni risaliva all'XI secolo. Il riferimento a "Theophilus Antecessor" che in esso era fatto sarebbe stato allora frutto dell'arbitraria attribuzione ad opera dei giuristi della rinata scuola costantinopolitana restaurata da Costantino Monomaco. Il F. ipotizzò che essi dovevano aver riordinato la Parafrasi sulla base di un manoscritto imperfetto e privo del titolo I del libro I e credettero di attribuirlo a Teofilo di cui già avevano l'indice e parte dei Digesti.

L'articolo sulla Parafrasi incorporò, riproducendone integralmente il testo, le argomentazioni che egli aveva letto alla seduta dell'11 giugno 1885 al R. Istituto lombardo di sc. e lett. (Di alcuni studi recenti sull'origine delle Istituzioni imperiali, in Rendic. del R. Ist. lomb. di sc. e lett., s. 2, XVIII [1885], pp. 661-670), in cui veniva affrontata una questione sollevata da G. P. E. Huschke, il quale, nel 1868, pubblicando le Istituzioni di Giustiniano, aveva nella prefazione accampato la conclusione che, riservata a Triboniano la suprema direzione dei lavori, l'effettiva compilazione del libro fosse stata compiuta da Teofilo e Doroteo, ciascuno dei quali avrebbe composto due libri: Doroteo i primi due e l'altro gli ultimi due e che l'autore dei primi due sarebbe stato anche quello del titolo De publicis iudiciis.

La questione assunse rilevanza per il fatto che Huschke, seguendo la tradizione che attribuiva a Teofilo la Parafrasi, sulla base dei raffronti fra questa e i due ultimi libri non esitò ad attribuirli al medesimo autore, confortando la tesi con la maggiore semplicità che si osservava negli ultimi due libri e con il fastus orientalis che era presente maggiormente in questi due che nei primi due, ritenendolo più probabile per un provinciale, e quindi per Teofilo che proveniva dalla città di Berito, che per Doroteo, nato e vissuto a Costantinopoli a stretto contatto con gli ambienti di corte, nonché con i frequenti richiami a materie contenute nel medesimo gruppo, mentre rarissime volte si incorreva in richiami dai due libri posteriori ai due anteriori e viceversa.

La tesi ebbe un seguito in Germania e nel 1880 E. Grupe di Gottinga giunse alle medesime conclusioni di Huschke sulla base dello studio della materia lessicale.

Il proposito di dimostrare l'insussistenza dei legami tra il testo latino degli ultimi due libri delle Istituzioni e la Parafrasi greca evidenziò quell'attenzione, sempre costante, che il F. dedicò alla dottrina romanistica tedesca e costituì un punto nodale delle sue ricerche per l'originalità dell'impostazione.

Le conclusioni dello scritto rivestirono infatti per la scienza romanistica un'importanza storica e di metodo: una volta messa in dubbio l'attribuzione a Teofilo della Parafrasi si rendeva impossibile lo studio delle stesse Istituzioni sulla base del raffronto con la versione greca al fine di stabilire quali libri attribuire a Teofilo e quali a Doroteo.

Il F. ipotizzò che un κατὰ πόδας di Gaio fosse alla base della Parafrasi e ritenne scarsamente probabile che il parafraste avesse fatto ricorso ad esso pur essendo l'autore degli ultimi due libri delle Istituzioni imperiali.

In questo egli si servì dello studio di A. F. Rudorff sul glossario latino-greco edito da Stefano e, sullo spunto offerto dalle pagine del romanista tedesco, in cui si teorizzava che il glossario derivasse dai commentari di Gaio e fosse giunto alla sua forma definitiva poco prima del regno di Giustiniano, il F. individuò circa duecento voci presenti in esso e nella Parafrasi nella stessa forma e flessione. Ciò egli pose a conferma della tesi della derivazione della Parafrasi dal κατὰ πόδας gaiano, ipotizzando che ai maestri di grammatica doveva esser parso comodo confrontare il testo di Gaio con la versione greca e compilare un lessico latino-greco che potesse essere utile ai giuristi delle scuole orientali: la Parafrasi compilata sulla base di quel κατὰ πόδας doveva mantenere quelle coincidenze, e in misura tanto maggiore dove il lessico aveva tratto in massima parte i suoi materiali da Gaio, come nei paragrafi sulle forme dei testamenti.

Del F. va ricordato anche il Manuale di pandette, Milano 1908, a cura di G. Baviera, opera indirizzata all'università, e il suo interesse per un campo poco percorso dalla scienza romanistica, quello del diritto penale romano, cui è dedicato il vol. V delle Opere.

P. Camponeschi

Fonti e Bibl.: necr. in L'Illustrazione italiana, 9 nov. 1902, p. 376; M. Vaussard, Un Ozanam italien contemporain, C. F., in Le Correspondant, 10 maggio 1913, pp. 469-87; A. Novelli, Pio XI (A. Ratti) 1857-1922, Milano 1923, pp. 98-102; V. Scialoja, Commemorazi one di C. F.,Milano 1928; C. Pellegrini, La vita del professor C. F.,Torino 1928; F. Meda, Universitari cattolici italiani, Milano 1928, pp. 305-334; A. Gemelli, Discorso (pronunciato l'8 febbr. 1931, per la lettura del decreto sull'eroicità delle virtù di C. F.), in Rivista diocesana milanese, XXII (1931), pp. 125-132; P. Gorla, Commemorazione "in die trigesima" di mons. C. Pellegrini, Milano 1933, pp. 26-29; Pio XII, Discorso (del 14 apr. 1947 per la beatificazione di C. F.), in Riv. dioces. milanese, XXXVI(1947), pp. 95-102; I. Giordani, C. F. un santo fra noi, Milano 1949; B. Biondi, Beato C. F.,Milano 1952; P. Dezza, Ilbeato C. F. uomo di scienza e di fede, in La Civiltà cattolica, CXXXIX (1988), 1, pp. 143-52; Encicl. italiana, XV, p. 65; Encicl. cattolica, V, pp. 1204 ss.; Dictionnaire de spiritualité, V, pp. 199 s.; Vies des saints, X, pp. 587-94; Grande Diz. encicl. (UTET), V, pp. 667 ss.; Dizionario del movimento cattolico in Italia, III, 1, Casale Monferrato 1984, pp. 362 s.; Dictionnaire d'histoire et de géographie eccl., XVI, coll. 1990 ss.; Dizionario della Chiesa ambrosiana, II,Milano 1988, pp. 1212-16. Per il processo di beatificazione: Positio super introductione causae, Romae 11919-22; Positio super scriptis, ibid. 1921; Positio super virtutibus, ibid. 1927; Positio super miraculis, ibid. 1933; Novissima Positio super miraculis, ibid. 1941. Sull'opera scientifica del F.: La Temi siciliana, II (1902), pp. 60-66; V. Scialoja, in Bull. d. Ist. di dir. rom., 1903, 5; P. Del Giudice, in Archivio giuridico, XVI (1903), pp. 163 ss.; C. Pellegrini, cit., pp. 702-710.

Vedi pure: G. Segré, Sulla questione se la Parafrasi greca alle Istituzioni imperiali abbia avuto per fondamento il testo dei commentarii di Gaio, Milano 1888; alcuni elementi sull'attività scientifica del F. sono presenti anche nell'Introduzione alle Opere a cura di P. Bonfante, I, pp. V-XI, Milano 1929.

P. Camponeschi-G. Fagioli Vercellone

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