CONSIGLIO

Enciclopedia Italiana (1931)

CONSIGLIO (dal lat. consilium, con influenza di concilium; fr. conseil; sp. consejo; ted. Rat; ingl. council)

Benedetto LIUZZI
Giuseppe MARANINI
Alessandro GRAZIANI
Emilio BONAUDI
Guido Zanobini.

Consesso istituito per consigliare o deliberare su determinate materie.

Per il consiglio di famiglia, v. tutela. Per il Maggior Consiglio, v. venezia: Storia.

Il Consiglio dei ministri.

Lo statuto italiano ignora questo organo limitandosi a far cenno dei soli ministri (art. 65), analogamente a quanto avviene nel diritto inglese (dove non esiste un istituto esattamente corrispondente, perché il Cabinet che è quello più affine non comprende tutti i ministri), nella generalità delle costituzioni della prima metà del secolo passato (in particolare francese, 14 agosto 1830, e belga, 7 febbraio 1831, la quale si limita ad accennare a un'attività dei ministri riuniti in consiglio solo in casi eccezionali, p. es. art. 79) e in molte altre costituzioni successive (p. es. leggi costituzionali francesi del 1875, le quali come lo statuto belga parlano del Consiglio dei ministri solo per alcuni provvedimenti eccezionali); e contrariamente alla tendenza predominante nelle costituzioni del dopoguerra (p. es. Germania, 11 agosto 1919, articoli 52, 55, 58; Cecoslovacchia, 29 febbraio 1920, § 70 e seg.; Polonia, 17 marzo 1921, art. 55; Lettonia, 15 febbraio 1922, art. 56; Lituania, 1 agosto 1922, art. 53 seg.; Romania, 28 marzo 1923, art. 93; Turchia, 20 aprile 1924, art. 45 seg.; Egitto, 19 aprile 1923, art. 57 seg.). Però fin dai primi tempi del regime introdotto con lo statuto i ministro si riunirono insieme per discutere degli affari di maggiore importanza o che esorbitavano dalla sfera di un solo ministero. Il r. decr. (emanato il 29 dicembre 1850, n. 1122 "sentito il Consiglio dei ministri"), con il quale era approvato il regolamento che determinava le attribuzioni dei varî dicasteri, stabilì poi esplicitamente (art. 11) che il consiglio dei ministri dovesse "sempre deliberare" in undici casi. Successivamente si procedette a determinare con maggior precisione i casi d'intervento del Consiglio dei ministri, a introdurne di nuovi e a regolare l'organizzazione del consiglio in particolare, delineando con nettezza la posizione del presidente (r. decr. 25 agosto 1876, n. 3289, sostituito con il r. decr. 14 novembre 1901, n. 466 ancora in gran parte in vigore, modificato in particolare dalla legge sul capo del governo 24 dicembre 1925, n. 2263; un primo tentativo di regolamentazione era fallito: r. decr. 27 marzo 1867, n. 3629 revocato con r. decr. 28 aprile 1867, n. 3664).

Il Consiglio dei ministri è composto dei ministri con o senza portafoglio, non di ministri di stato. Il re può assistere alle riunioni. Inoltre per l'art. 14 della legge 9 dicembre 1928, n. 2693 il segretario del Partito nazionale fascista può, dietro proposta del capo del governo, essere chiamato a partecipare alle sedute del consiglio dei ministri (si deve intendere con voto consultivo, senza acquistare la qualità di ministro senza portafoglio). Questa disposizione ha già avuto una prima applicazione col r. decr. 16 dicembre 1928 (Gazetta Uff., 26 dic. 1928). Altre persone possono essere chiamate dal consiglio a esporre pareri o notizie. Le funzioni di segretario sono esercitate da uno dei ministri (art. 3 cpv. del regol. del 1901) o, per prassi recente, dal sottosegretario alla presidenza. Il consiglio è convocato (in qualunque luogo) e presieduto dal capo del governo primo ministro segretario di stato, o dal ministro designato da lui di volta in volta in caso di assenza o d'impedimento (articoli 3, 8, legge sul capo del governo). Non è stabilito un quorum e perciò le deliberazioni sono valide qualunque sia il numero dei presenti.

Il Consiglio dei ministri costituisce un corpo collegiale. Tutti i componenti concorrono in pari modo alle sue manifestazioni. La volontà del primo ministro non ha carattere preminente e perciò, in caso di parità di voti, il suo non determina la prevalenza. Tutti i membri sono tenuti ad osservarne le deliberazioni (nel sistema cosiddetto della specialità tecnica, come nella costituzione prussiana del 31 gennaio 1850, invece i singoli ministri non sono tenuti ad osservare le deliberazioni del Consiglio, e nei sistemi monocratici, come quello presidenziale degli Stati Uniti o del cancellierato della costituzione dell'Impero tedesco del 16 aprile 1871, il consiglio dei funzionarî che corrispondono ai ministri eseicita un'attività meramente consultiva) non perché il Consiglio costituisca un superiore gerarchico, ma in virtù dei principî che reggono i corpi collegiali.

Il nostro diritto per regola non conosce decreti del Consiglio dei ministri, ma solo reali, o del capo del governo o ministeriali. Perciò in genere la deliberazione del Consiglio dei ministri è la deliberazione del progetto di un atto che poi sarà emanato dal ministro competente o dal primo ministro (esempio: provvedimenti disciplinari in seguito a deliberazione del Consiglio dei ministri, art. 75 r. decr. 30 dicembre 1923, n. 2960) o sarà sottoposto al re perché sia emanato con la solita forma del decreto reale (atto complesso firmato dal re, dal ministro competente, e, nel nostro caso, per essere intervenuto il consiglio dei ministri, per l'art. 10 del reg. del 1901 obbligatoriamente anche dal primo ministro). Il primo ministro conserva il registro delle deliberazioni, le quali in ogni adunanza sono firmate da lui e dal segretario (art. 3 del reg. del 1901). I decreti che possono essere emanati solo dopo aver udito il Consiglio dei ministri debbono contenere nel preambolo l'indicazione "udito il Consiglio dei ministri". È questione controversa se il privato possa di mostrare che il consiglio dei ministri non è stato effettivamente udito, pur essendovi quella indicazione, e se il governo possa pretendere l'osservanza di un atto emanato senza quella indicazione, quando il Consiglio sia stato effettivamente udito, dimostrando che la formalità è stata in realtà osservata.

In quanto ai casi in cui il Consiglio dei ministri interviene, essi sono indicati nel citato regolamento del 1901 e in varie altre leggi. Inoltre il primo ministro ha la facoltà di richiedere che sia portato in Consiglio qualunque affare sul quale creda opportuno di provocare una deliberazione (art. 4 del reg. del 1901). I casi del regolamento del 1901 e delle altre leggi principali sono inspirati al criterio di sottoporre al Consiglio tutti i provvedimenti di maggiore rilevanza per la vita dello stato e la nomina a tutte le cariche pubbliche più alte. Si possono in particolare distinguere le seguenti categorie che possono essere ricomprese in quel superiore criterio: 1. questioni di ordine pubblico e di alta amministrazione (reg. 1901, art. 1, n. 1); 2. rapporti internazionali (reg. cit., art. 1, n. 5); 3. rapporti tra potestà civili ed ecclesiastiche (reg. cit., art. 1, n. 13); 4. rapporti tra esecutivo e legislativo (in particolare: petizioni inviate dal parlamento al Consiglio dei ministri: reg. cit., art. 1, n. 6; disegni di legge: reg. cit., art. 1, n. 2; decreti legislativi e decreti-legge: art. 3, legge 31 gennaio 1926, n. 100; regolamenti di cui all'art. 1 della legge 31 genn. 1926, n. 100); 5. atti dell'esecutivo che contrastano alle manifestazioni d'importanti corpi costituzionali (le richieste di registrazione con riserva alla Corte dei conti: reg. cit., art. 1, n. 11, legge sulla Corte dei conti 12 agosto 1862, n. 800 e succ. mod. art. 14, gli affari per cui si debba provvedere con decreto reale con precedente parere del Consiglio di stato quando il ministro competente non intenda conformarsi a tale parere, reg. cit., art. 1, n. 7, legge sul Consiglio di stato 26 giugno 1924, n. 1054, art. 14 penult. comma e regolamento alla legge sul Consiglio di stato r. decr. 26 giugno 1924, n. 1055, art. 30); 6. alcuni degli atti di maggiore importanza nella gestione del bilancio e del patrimonio dello stato (per es. prelevazioni dal fondo di riserva per le spese impreviste per somme superiori alle cinquantamila lire: r. decr. 18 nov. 1923, n. 2440, art. 42; approvazione di contratti nei casi per i quali era richiesta una legge: legge 31 gennaio 1926, n. 100, art. 2); 7. nomina, provvedimenti disciplinari e di qualsiasi altra natura relativamente alle maggiori cariche pubbliche, anche quelle che più personalmente riguardano il re come il ministro della real casa, il prefetto di palazzo e il primo aiutante di campo generale o alcune sue prerogative, alle quali è dato dallo statuto particolare rilievo, come la nomina del capo di Stato maggiore generale (regolamento del 1901, art. 2, nn. 2, 7).

In deroga al criterio ricordato di attribuire al Consiglio dei ministri il compito di deliberare su tutti gli atti di maggiore rilevanza per la vita dello stato e sulla nomina di tutte le maggiori cariche pubbliche e in armonia alla nuova tendenza del nostro diritto pubblico di accentuare la preminenza del primo ministro, i sottosegretarî di stato sono nominati dal re su proposta del capo del governo di concerto col ministro competente (legge sul capo del governo, art. 2, che ha abrogato così l'art. 2, n. 3, del reg. del 1901 cit.) e non più il Consiglio dei ministri (come disponeva l'art. 1, n. 8 del reg. cit.), ma il primo ministro risolve le divergenze tra i ministri (legge sul capo del governo, art. 3).

Bibl.: v. gabinetto; governo; ministero e ministri. Fondamentale è l'opera di L. Dupriez, Les ministres dans les principaux Pays d'Europe et d'Amérique, Parigi 1891-1893. Per il diritto italiano v. i trattati generali di diritto costituzionale e amministrativo e R. Porrini, I ministeri, in Trattato di diritto amministrativo di V. E. Orlando, I, Milano 1897, p. 573 seg.; le voci Gabinetto (red. Bruno) e Ministero e ministri (red. Santangelo Spoto), in Digesto italiano e in Enciclopedia giuridica italiana; egualmente le voci Gabinetto (red. Brunialti) e Ministri (cap. VII, red. A. Grassi); C. Corradini, Attribuzioni del Presidente e del Consiglio dei ministri, in Arch. di diritto pubblico, 1902, p. 65 seg. Per la questione dell'errata attestazione che il Consiglio dei ministri sia stato udito, v. in particolare Mortara, Commentario, I, 5ª ed., nota 14, p. 159 segg.

Il Gran Consiglio.

Il Gran Consiglio del Partito nazionale fascista si adunò per la prima volta nella notte del 12 gennaio 1923, a Roma, nell'appartamento privato dell'on. Mussolini, che lo presiedeva. Questa assemblea aveva caratteri di organo supremo del partito, ed era composta di tutte le maggiori personalità del partito. Essa poggiava quindi su basi di fatto, e la sua stessa composizione dipendeva, sia dagli ordinamenti statutarî del partito, sia da consuetudini elaboratesi spontaneamente sotto l'influsso immediato dell'on. Mussolini.

Tra il 12 gennaio 1923 e il 9 dicembre 1928 il Gran Consiglio continuò a funzionare come organo supremo del partito, senza venire in alcun modo riconosciuto dalla legge. Ma, essendo ormai il partito venuto a costituire la base del regime, per naturale conseguenza il Gran Consiglio fin dalla sua origine esercitò importantissime funzioni costituzionali, pur senza arrogarsi facoltà già spettanti al Parlamento. Difatti i provvedimenti decisi dal Gran Consiglio in questo periodo, quando rivestirono caratteri legislativi, sempre furono presentati poi all'approvazione delle camere e alla sanzione reale. La funzione del Gran Consiglio dunque fu semplicemente consultiva, sebbene, per la grande autorità di quest'organo, in pratica le sue decisioni avessero generalmente valore definitivo. Tutte le leggi fondamentali sulla cui base si venne gradualmente ordinando il nuovo regime italiano, furono elaborate dal Gran Consiglio in questo periodo. Basti ricordare l'istituzione della Milizia, decisa fino dalla prima seduta del 12 gennaio 1923; la nuova organizzazione del partito; la fusione col nazionalismo; la nuova organizzazione sindacale corporativa; l'organizzazione delle avanguardie, dei balilla, delle giovani e delle piccole italiane; l'istituzione della leva fascista; la carta del lavoro; infine, la nuova legge elettorale a base corporativa.

La sistemazione del Gran Consiglio nel complesso degli organi costituzionali dello stato, fu decisa dal Gran Consiglio stesso, nella seduta del 13 settembre 1928 a palazzo Chigi. Fu allora presentato dall'on. Rocco il testo del disegno di legge per la costituzionalizzazione del Gran Consiglio. Il disegno di legge fu approvato all'unanimità. Lo stesso disegno di legge, leggermente modificato, fu poi approvato dalla Camera e dal Senato e sanzionato dal re in data 9 dicembre 1928. Ma già prima il Gran Consiglio aveva ricevuto un implicito riconoscimento legislativo con le funzioni assegnategli dalla legge elettorale politica del 17 maggio 1928.

In virtù di queste due leggi l'ordinamento costituzionale italiano venne profondamente modificato, in armonia con la situazione di fatto creata dalla rivoluzione delle camicie nere. Esso è l'organo supremo, che coordina e integra tutte le attività del regime; e per conseguenza è anche il supremo organo costituzionale, quello che indica le mete a tutti gli altri organi, e che, in caso di necessità, ne risolve i conflitti. Difatti l'art. 12 della legge sulle attribuzioni del Gran Consiglio gli attribuisce facoltà deliberativa: sulla lista dei deputati designati a termini dell'art. 5 della legge 17 maggio 1928; sugli statuti, gli ordinamenti e le direttive politiche del Partito nazionale fascista; sulla nomina e revoca delle supreme cariche del partito. Gli attribuisce invece funzioni consultive relativamente a tutte le questioni aventi carattere costituzionale. Ma, esprimendo il Gran Consiglio la volontà del regime, e toccando le questioni costituzionali le basi del regime, è da ritenersi che quando sorga conflitto tra gli altri organi costituzionali, il parere del Gran Consiglio debba assumere efficacia decisiva. Altra funzione importantissima affidata dalla legge al Gran Consiglio, è quella di formare e tenere aggiornata la lista dei nomi da presentare alla Corona, in caso di vacanza per la nomina del capo del governo primo ministro segretario di stato, nonché la lista delle persone idonee ad assumere funzioni di governo, ferme restando le attribuzioni del primo ministro. Di queste due disposizioni ha importanza essenziale la prima, che appare diretto complemento della fine del sistema del governo di gabinetto. Escluso che il governo sia politicamente responsabile di fronte alla Camera e che debba quindi la Camera virtualmente designare al sovrano in caso di vacanza uomini di sua fiducia per la formazione del nuovo gabinetto, rimaneva da precisare a chi spettasse compiere questa designazione. Con piena coerenza, relativamente a tutto il sistema dello stato fascista, la legge ha affidato all'organo supremo del regime, al Gran Consiglio, tale delicatissima funzione. A sua volta poi il primo ministro, nella scelta dei suoi collaboratori, non dovrà tener presente la designazione della Camera, ma la designazione del Gran Consiglio. Si noti però che a termine dello statuto e della legge sovracitata, sia il sovrano sia il primo ministro rimangono, nella scelta, giuridicamente indipendenti da tale designazione, sebbene sia da prevedersi che possa svolgersi una consuetudine che li leghi a tale designazione, come prima una consuetudine li aveva legati alla designazione della Camera. Altrettanto importante, e forse più ancora, ai fini della costruzione del nuovo ordinamento fascista, è l'attribuzione al Gran Consiglio della facoltà di formare sulla base delle designazioni corporative, ma con piena libertà e in suprema istanza, la lista nazionale dei deputati, da presentarsi al suffragio degli elettori senza liste concorrenti. Questa lista che, per la mancanza di concorrenza, ha sempre grande probabilità di riuscita, risulta quindi definitivamente formata dall'organo massimo del regime, il quale viene per tal via ad assorbire gran parte della funzione elettorale. S'introduce in tal modo nella vita della Camera dei deputati un elemento di stabilità, una garanzia di indirizzo costante e di composizione omogenea. Il regime viene a rinnovare i suoi organi per forza propria, e riduce assai ogni dipendenza dei deputati dal mobile suffragio popolare, pur consentendo al popolo di manifestare la sua eventuale sfiducia nella lista unica.

Per quanto riguarda la composizione del Gran Consiglio, si devono distinguere tre categorie di membri. Sono membri di diritto, per un tempo illimitato: i quadrumviri della marcia su Roma; coloro che nella loro qualità di membri del governo abbiano fatto parte del Gran Consiglio per almeno tre anni; i segretarî del Partito nazionale fascista usciti di carica dopo il 1922. Sono membri del Gran Consiglio a cagione delle loro funzioni e per tutta la durata di queste: il presidente del Senato e il presidente della Camera dei deputati; i ministri segretari di stato; il sottosegretario di stato alla presidenza del Consiglio; e altre numerose cariche dello stato e del partito. Infine il capo del governo ha facoltà di nominare per un triennio, con facoltà di confermare o di revocare in qualunque momento la loro nomina, persone che abbiano bene meritato della nazione e della rivoluzione fascista.

La carica di membro del Gran Consiglio è compatibile con quella di senatore e deputato: e questo giova ad assicurare un più facile coordinamento fra l'attività dei diversi organi. Il Gran Consiglio è convocato e presieduto dal capo del governo, il quale, sia attraverso queste delicate attribuzioni, sia attraverso la facoltà di nomina e revoca dei membri della terza categoria, si trova in grado di esercitare sulle determinazioni del Consiglio, oltre che col suo prestigio personale, anche con mezzi giuridici, un'influenza adeguata alla situazione storica sorta dalla rivoluzione dell'ottobre 1922. I membri del Gran Consiglio sono tutelati contro procedimenti giudiziarî, arresti, misure di polizia, in modo analogo a quanto dispone lo statuto per la Camera e il senato. Solo in caso di flagrante reato possono essere arrestati senza l'autorizzazione del Gran Consiglio.

Bibl.: P. N. F., Il Gran Consiglio nei primi cinque anni dell'Era fascista, 2ª ed., Roma 1927; U. P. E., Opere e leggi del regime fascista, Roma 1927; P. N. F., Le origini e lo sviluppo del fascismo, Roma 1928.

Consiglio di stato.

Il Consiglio di stato è in Italia il principale organo dell'amministrazione consultiva e l'istituto più importante della giustizia amministrativa. Fra gli organi non costituzionali del potere esecutivo, di cui fa parte, è quello circondato dal maggiore prestigio. A ciò contribuisce, oltre all'importanza delle sue attribuzioni, l'antichità delle sue origini, in quanto esso rappresenta la continuazione dei Consigli regi, delle Consulte e dei Consigli di stato, costituitisi al tempo della formazione delle grandi monarchie assolute. Tali consessi hanno resistito, specie in Francia e in Italia, a tutti i cambiamenti di costituzione, giungendo nei tempi moderni a particolari splendori, come nel periodo napoleonico, in cui il consiglio di stato fu l'anima della grande codificazione, e nei periodi più recenti, in cui è stato il centro di ogni discussione sul grave problema della giustizia amministrativa. Esistono tuttavia differenze notevoli fra gli antichi consigli e l'odierno istituto, sia riguardo alla composizione, sia riguardo alle attribuzioni. Da quest'ultimo lato specialmente, si deve rilevare che, mentre nello stato assoluto, e anche posteriormente, le funzioni consultive del collegio si estendevano a tutti i campi della sovranità (onde si poteva, a ragione, parlare di una partecipazione del Consiglio alle tre funzioni: legislativa, esecutiva e giurisdizionale), oggi il Consiglio è organo esclusivamente del potere esecutivo e la sua competenza consultiva, per quanto estesa, non oltrepassa la competenza di tale potere; e anche se talora è chiamato a dare pareri sopra progetti di legge o sopra decreti interessanti la giustizia, si tratta sempre di attività dirette a coadiuvare lo stesso potere, sia pure nella sua azione di governo anziché nella comune azione amministrativa. Inoltre, mentre negli antichi ordinamenti i pareri del Consiglio di stato avevano contenuto non solo tecnico, ma anche politico, oggi, specialmente in Italia, tali poteri hanno un contenuto esclusivamente tecnico-giuridico e amministrativo, e a questo scopo corrisponde la capacità richiesta nei componenti il collegio. L'esame delle questioni dal punto di vista politico oggi spetta, infatti, al Consiglio del ministri e al Gran Consiglio del Fascismo.

Al costituirsi del regno d'Italia il Consiglio di stato constava di tre sezioni con funzioni consultive e giurisdizionali a un tempo (legge piemontese 20 novemhre 1859, n. 3707). D0po il 1861 il Consiglio è stato retto da quattro testi legislativi successivi, le cui modificazioni riguardano specialmente le attribuzioni giurisdizionali. Queste, infatti, furono daoprima abolite (legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. D), poi restituite al Consiglio, creando tuttavia per esse un'apposita quarta sezione (testo unico 2 giugno 1889, n. 6166), e quindi anche una quinta (testo unico 17 agosto 1907, n. 638), e furono in seguito allargate e meglio distinte da quelle dei giudici ordinarî (testo unico 26 giugno 1924, n. 1054). Questo ultimo è il testo legislativo oggi vigente: esso è stato modificato in qualche articolo col decr. legge 23 ottobre 1924, n. 1672, con la legge 8 febbraio 1925, n. 88, e col decr. legge 15 ottobre 1925, n. 1791; e poi completato da un regolamento esecutivo 26 giugno 1924, n. 1055. Non è il caso di parlare dei regolamenti di procedura: per questi e per tutto ciò che attiene alla funzione giurisdizionale v. giustizia amministrativa.

Il Consiglio di stato si compone di un presidente, sei presidenti di sezione, cinquanta consiglieri, un segretario generale, due primi referendarî e tre referendarî. Completano il personale cinque segretarî di sezione e trentacinque impiegati di segreteria e di archivio.

Il presidente, i presidenti di sezione e i consiglieri appartengono ai più alti gradi dell'ordinamento gerarchico dello stato: rispettivamente al 2°, al 3° e al 4° (r. decr. 11 noovembre 1923, n. 2395, alleg. 1); sono nominati con decreto reale, su proposta del ministro dell'Interno, previa deliberazione del Consiglio dei ministri. Trattandosi di gradi superiori al 5°, il governo non è in alcun modo vincolato nel fare la scelta (r. decr. 30 dicembre 1923, n. 2960, art. 19): però, un terzo dei posti che si rendono vacanti deve essere riservato ai referendarî, che abbiano quattro anni di anzianità nel grado (testo unico sul Consiglio di stato, art. 4). Il detto personale è garantito da una relativa inamovibilità, non potendo essere privato del grado se non per le cause tassativamente indicate nell'art. 5 della legge e col procedimento ivi stabilito (v. anche l'art. 1 della legge 31 gennaio 1926, n. 100). Particolarmente regolato è l'affidamento a tale personale di uffici e incarichi diversi da quelli di cui sono titolari (citati decreti-legge 23 ottobre 1924 e 15 ottobre 1925). Cessano dall'ufficio per limiti di eta al compimento degli anni settanta.

Il segretario generale e i primi referendarî appartengono al grado 5°, gli altri referendarî al 6°. Il segretario generale è nominato a scelta del ministro dell'Interno fra i funzionarî dell'amministrazione dell'Interno di grado non inferiore al 6°; i primi referendari per promozione fra i referendarî; questi ultimi sono nominati in base a concorso tra i funzionarî dello stato, compresi quelli delle due camere, aventi grado non inferiore all'8° e appartenenti a carriere per le quali è richiesta la laurea in giurisprudenza. Questo personale è sottoposto alle norme sullo stato giuridico degl'impiegati: la commissione di disciplina è costituita in loro confronto dal consiglio di presidenza, che è formato dal presidente e dai presidenti di sezione del Consiglio di stato e assistito dal segretario generale (testo unico, articoli 1-3; regolamento, articoli 1, 2, 3, 11). Del personale di segreteria e di quello subalterno trattano gli articoli 7-8 del testo unico e 4-10 del regolamento.

Il Consiglio di stato si divide in cinque sezioni: le prime tre consultive, la quarta e la quinta giurisdizionali. Queste ultime costituiscono il Consiglio di stato in sede giurisdizionale. Gli affari dei varî ministeri sono ripartiti annualmente fra le sezioni consultive, con regio decreto. Alla prima sezione sono assegnati, di solito, gli affari della Presidenza del consiglio dei ministri, del ministero dell'Interno, di quello dell'Educazione nazionale e di quello delle Corporazioni; alla terza gli affari del ministero delle Finanze e quelli dei tre ministeri, della Guerra, della Marina e dell'Aeronautica; alla seconda sezione gli affari dei rimanenti dicasteri. Il reparto dei ricorsi fra le sezioni giurisdizionali è fatto dal presidente del Lonsiglio di stato, assistito dai presidenti delle sezioni medesime. Ogni sezione si compone di un presidente e di un numero di consiglieri non inferiore a sette: detti componenti sono designati per ciascuna sezione annualmente con decreto reale; nelle sezioni giurisdizionali è obbligatorio il cambiamento di almeno due e non più di quattro consiglieri dalla composizione dell'anno precedente. Oltreché per sezioni, il Consiglio di stato delibera anche in adunanza generale e in adunanza plenaria: la prima riguarda le funzioni consultive e risulta formata da tutti i componenti del Consiglio; la seconda riguarda le funzioni giurisdizionali ed è formata da otto consiglieri (quattro per ciascuna sezione giurisdizionale), designati annualmente con decreto reale: ambedue sono presiedute dal presidente del Consiglio di stato. Infine, il Consiglio, negli affari consultivi, può funzionare per commissioni speciali, formate da consiglieri scelti in diverse sezioni: la formazione di tali commissioni è in facoltà del presidente, quando si tratti di dar pareri sopra questioni di natura mista o indeterminata. È pure in facoltà del presidente di aggiungere a una sezione consiglieri appartenenti ad altra sezione: questi, in tal caso, hanno solo voto consultivo (articoli 17, 18, 22, 45).

Così delle sezioni come dell'adunanza generale fanno parte anche i primi referendarî e i referendarî, secondo l'assegnazione disposta dal presidente: i medesimi hanno la funzione d'istruire gli affari loro commessi e di riferirne; hanno voto deliberativo negli affari di cui sono relatori; negli altri, solo quando intervengano in sostituzione di consiglieri assenti o impediti. Tale sostituzione, infatti, può farsi dal presidente o a mezzo di consiglieri di altra sezione o a mezzo di referendarî. Altri importanti poteri, oltre quelli accennati, spettano al presidente nell'organizzazione degli uffici e nella direzione di tutto il servizio; a lui solo appartiene la corrispondenza col governo. Il segretario generale ha una posizione particolare nella direzione degli uffici di segreteria e nella vigilanza sul personale (testo unico, articoli 11, 13, 18, 22; regol., articoli 52, 53, 54, 58).

La funzione consultiva del Consiglio (la sola di cui qui dobbiamo far cenno) dà luogo a pareri preventivi del collegio sugli atti governativi sottoposti al suo esame: pareri che investono sia la regolarità e legittimità, sia la convenienza e il merito amministrativo dei provvedimenti. In questa funzione, la competenza del Consiglio di stato non è limitata a uno o ad alcuni ministeri, ma è generale: i consigli superiori esistenti presso i singoli dicasteri hanno anch'essi una funzione consultiva, ma esclusivamente tecnica, e limitata alla competenza tecnica di ciascun ministero: perciò il loro parere non può sostituire quello del Consiglio di stato, essendo diverso il rispettivo oggetto. Tuttavia alcune leggi speciali hanno disposto per tassative materie che il parere di certi consigli superiori investa anche il lato giuridico-amministrativo e sostituisca quindi il parere del Consiglio di stato: cfr., p. es., il decr. legge 14 ottobre 1926, n. 1835, art. 5; quello 8 dicembre 1927, n. 2258, art. 3; la legge 17 maggio 1928, n. 1094, art. 6, ecc.

I pareri del Consiglio sono facoltativi e obbligatorî. I ministri hanno sempre facoltà di chiedere il parere al Consiglio, quando lo reputino opportuno: l'esercizio di tale facoltà fa sorgere per il Consiglio il dovere di dar corso alla richiesta. Fra questi casi è notevole la facoltà, ricordata dalla legge (art. 14), di chiedere il parere sulle proposte di legge e di commettere al Consiglio addirittura la formulazione di progetti di legge e di regolamenti. Vi sono, però, numerosi provvedimenti, per i quali la legge pone come obbligo per il governo di richiedere il parere. In questi casi, a differenza dei primi, il decreto reale o ministeriale, emanato in seguito al parere, deve recare la formula "udito il parere del Consiglio di stato"; e, inoltre, se il ministro non creda di adottare il parere ricevuto, deve sottoporre l'affare alla deliberazione del Consiglio dei ministri, e il decreto, in tal caso, deve far constare di tale deliberazione e recare la firma del presidente del Consiglio (testo unico, art. 15; regol., art. 30; r. decr. 14 novembre 1901, n. 466, art. 1, n. 7 e art. 5).

Gli atti per i quali il parere è obbligatorio ai sensi del testo umco (art. 16), sono: 1. tutti i progetti di regolamenti da emanarsi con decreto reale e quelli di testi unici di leggi e di regolamenti: la formula lata della legge 31 gennaio 1926, n. 100, sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche (art. 1), ha eliminato la questione, che già si faceva, per interpretare la formula restrittiva, imitata dal diritto francese, dei "regolamenti generali di pubblica amministrazione", di cui è ancora traccia nell'art. 16, n. 1, col rinvio all'art. I, n. 7 del cit. r. decr. 14 novembre 1901; 2. i ricorsi fatti al re in via amministrativa contro la legittimità di atti amministrativi definitivi; 3. i contratti dello stato, quando il loro valore superi determinati limiti, diversi secondo il modo di contrattazione (v. per questi anche gli articoli 5-15 del r. decr. 18 novembre 1923, n. 2440, sulla contabilità generale dello stato, e l'art. 2 della legge 31 gennaio 1926, n. 100).

Numerosi sono, però, i casi in cui il parere è prescritto da altre leggi. Ricordiamo: l'autorizzazione agli acquisti dei corpi morali (legge 5 giugno 1850, n. 1097); il riconoscimento d'istituzioni pubbliche di beneficenza (r. decr. 30 dicembre 1923, n. 2841, art. 45); l'annullamento di provvedimenti illegittimi da parte del governo del re (r. decr. 30 dicembre 1923, n. 2839, art. 114); la dichiarazione di pubblica utilità ai fini dell'espropriazione (art. 12 della relativa legge del 1865); l'autorizzazione a procedere contro il prefetto o il podestà (legge comunale e provinciale, articoli 8, 158); la legittimazione di figli naturali e l'autorizzazione al cambiamento o aggiunta di nomi e cognomi (cod. civ., art. 200; r. decr. 15 novembre 1865, n. 2602, art. 123). Il parere del Consiglio di stato, già richiesto dalla legge 3 aprile 1926, n. 563 per il riconoscimento delle associazioni sindacali e delle federazioni, è oggi sostituito dal parere del Consiglio nazionale delle corporazioni (legge 20 marzo 1930, n. 206, art. 10).

Il parere, anche quando è obbligatorio, non vincola il governo come risulta dalle cose dette. Vi sono però alcuni casi in cui eccezionalmente è prescritto, per l'emanazione dell'atto, il "parere conforme" del Consiglio di stato: v. p. es. la legge sulla cittadinanza 13 giugno 1912, n. 555, articoli 4 e 9. In tali casi, si tratta evidentemente di pareri vincolanti.

I provvedimenti, con la richiesta del parere, sono trasmessi dal ministro competente al presidente del Consiglio di stato, insieme coi documenti che vi si riferiscono. Di ogni affare è preso atto in apposito registro. Il regolamento interno determina quali oggetti debbano essere trattati dalle sezioni e dalle commissioni e quali dall'adunanza generale. Però, i progetti di legge e di regolamento, i ricorsi fatti al re, i contratti, le questioni generali e di massima, devono sempre essere sottoposti, dopo il parere della singola sezione, all'adunanza generale. Inoltre, per qualunque atto, il ministro ha sempre facoltà di chiedere la deliberazione dell'adunanza generale, sia immediatamente, sia dopo la deliberazione della sezione competente. Però, tutte le volte che il progetto riguardi un provvedimento che possa formare oggetto di ricorso giurisdizionale, affinché le sezioni quarta e quinta non si debbano pronunziare due volte, e in diversa sede, sullo stesso oggetto, è stabilito che il governo non possa chiedere il parere dell'adunanza generale; col consenso scritto degl'interessati, può invece provocare preventivamente la decisione giurisdizionale; se gl'interessati si rifiutano, s'intende che abbiano rinunziato al ricorso, e il ministro è allora libero di sottoporre l'atto all'adunanza generale (testo unico, articoli 23-25,33; regol., articoli 13-15,23). Allo stesso criterio è ispirata l'incompatibilità, sancita dall'art. 34, fra il ricorso giurisdizionale al Consiglio di stato e il ricorso straordinario al re, posto che su quest'ultimo deve sempre essere udito il parere del Consiglio in adunanza generale.

Le sezioni, le commissioni e l'adunanza generale sono convocate dai rispettivi presidenti; spetta ai medesimi nominare un relatore per ciascun affare. Questi riferisce nella seduta, che non è pubblica e dove non possono intervenire gl'interessati, né i loro mandatarî. Le memorie e i documenti, che gl'interessati credessero di sottoporre al Consiglio, devono essere presentati al ministero, cui spetta di provvedere. Il Consiglio può chiedere al ministro le notizie e i documenti che crede necessarî. I ministri possono intervenire alle adunanze, sia personalmente sia a mezzo di rappresentanti, per dare notizie e chiarimenti. Per la validità delle deliberazioni è necessaria la presenza della metà almeno dei consiglieri che compongono la sezione o l'adunanza generale: non si calcolano i consiglieri assenti per incarichi permanenti o temporanei. Le deliberazioni si prendono a maggioranza assoluta di voti: in caso di parità, prevale il voto del presidente. Il segretario redige il processo verbale; il parere è trasmesso al ministro richiedente dal presidente o, d'ordine suo, dal segretario generale, firmato dal presidente e dal segretario della sezione o dell'adunanza, che l'ha emesso (testo unico, articoli 17-21; regolamento, articoli 25-29). È vietato far conoscere il nome del relatore; come pure è vietato dar copia o comunicazione dei pareri emessi dal Consiglio di stato, se non dietro assenso scritto del ministro cui l'affare riguarda (testo unico. articoli 17-21; regolamento. articoli 25-29, 32).

Conviene qui aggiungere qualche cenno sull'organizzazione del Consiglio stesso nel diritto francese, spagnolo ed inglese. L'istituto manca nel Belgio, ove fu abolito con la costituzione del 1831, in odio - si dice - a tutte le istituzioni ivi importate con la dominazione napoleonica; manca anche nei paesi di più recente costituzione, sia per la diversa tradizione pubblicistica (stati federali), sia per l'avversione molto frequente a tutto ciò che è legato agli antichi ordinamenti.

ln Francia, il Consiglio di stato, soppresso dalla Rivoluzione, e ristabilito con le costituzioni posteriori, è retto da una legge del 24 maggio 1872, modificata da numerosi atti posteriori, fra cui la legge 1° marzo 1923. Il Consiglio si compone, come l'italiano, di cinque sezioni: di queste però solo una costituisce il Conseil d'état en contentieux: le altre quattro sezioni sono consultive. Circa la composizione, è notevole la distinzione dei suoi componenti in ordinarî e straordinarî: gli ordinarî appartengono stabilmente al Consiglio secondo un organico che comprende un vice-presidente, un segretario generale per le sezioni consultive e uno speciale per il contenzioso, 35 consiglieri, 37 referendarî e 40 uditori; i membri straordinarî, in numero di 26, sono alti funzionarî dei ministeri, autorizzati a intervenire alle sedute delle sezioni consultive con decreto del presidente della repubblica. La presidenza del Consiglio di stato spetta al ministro della Giustizia, che può presiedere, oltre all'adunanza generale, anche le sezioni e i comitati misti. All'adunanza generale possono intervenire anche, con voto deliberativo, gli altri membri del gabinetto.

Come si vede, il Consiglio di stato francese conserva traccia, a differenza dell'italiano, della sua antica composizione politica. Lo stesso può dirsi per il Consejo de Estado dell'ordinamento spagnolo anteriormente alla rivoluzione del 1931. Di esso, infatti, facevano parte i ministri in carica, e il presidente, di nomina regia, doveva essere un ex-ministro. Gli altri consiglieri, in numero di 23, erano nominati dal re fra determinate categorie di alti funzionarî civili e militari e fra gli alti prelati. Il consiglio era diviso in tre sezioni, più un tribunale amministrativo, che ne faceva parte integrante. Le sezioni avevano funzioni esclusivamente consultive, dando pareri facoltativi e obbligatorî ai varî ministeri, secondo una distribuzione di competenza di questi ultimi fra le tre sezioni.

L'antico carattere di corpo politico è, infine, completamente conservato nel Privy Council del diritto inglese. Questo è formato da un numero non determinato di membri, fra i quali sono di diritto tutti i ministri in carica e gli ex-ministri; gli altri componenti sono scelti dalla fiducia della Corona fra i più alti funzionarî civili e militari e fra i notabili del clero e della nobiltà. Questo vasto consesso ha funzioni consultive (p. es. sui progetti di legge), deliberative (per alcune ordinanze regie e per la nomina ad alcune cariche dello stato) e giurisdizionali (in alcune cause ecclesiastiche, in alcune cause d'appello dai tribunali coloniali). È diviso in numerosi comitati, i quali assumono spesso di fronte al Consiglio l'autonomia di altrettanti dicasteri. La maggior parte delle funzioni dell'antico Privy Council sono oggi esercitate, però, dal gabinetto, che costituisce la parte attiva del collegio.

Bibl.: A. Regnault, Histoire du Conseil d'État,Parigi 1851; L. Aucoc, Le Conseil d'État avant et depuis 1789, Parigi 1876; P. Bertolini, Privy council e Conseil d'État, in Archivio giuridico, XLVII, Modena 1892; id., Il Consiglio di stato in Francia, ibid., XLIX; L. Armanni, Il Consiglio di stato e le sue attribuzioni consultive, Milano 1893; C. Schanzer, Il Consiglio di stato e i regolamenti generali di pubblica amministrazione, in La legge, XXXIV (1894); M. Hauriou, Précis de droit administratif, 11ª ed., Parigi 1927, p. 121 segg.; L. Ragnisco, Di alcune limitazioni alla funzione consultiva del Consiglio di stato, in Foro amm., IV (1928).

Consigli provinciali dell'economia.

Istituiti con legge 18 aprile 1926, i consigli provinciali dell'economia riassunsero le funzioni precedentemente demandate in Italia alle camere di commercio e industria, ai consigli agrarî provinciali, ai comizî agrarî; e a queste altre ne aggiunsero rivolte particolarmente a una maggiore valutazione degl'interessi dell'agricoltura e a dare adeguato posto al lavoro nel nuovo organo destinato a rappresentare tutte le attività produttrici nel loro complesso. Norme legislative successive, e in particolar modo quelle che istituirono gli uffici provinciali dell'economia collegati (ai consigli, ma dai medesimi ben distinti), valsero poi a precisare la figura e le funzioni di questi consigli provinciali.

Enti pubblici dotati di personalità giuridica i consigli (se pur tale loro qualità non sia esplicitamente dichiarata nei testi legislativi), come si rileva dal sistema della legge che riconosce la possibilità che abbiano lavori preparatorî (cfr. relazione dell'Ufficio centrale del Senato); organi statuali gli uffici, dipendenti dal Ministero delle corporazioni, del quale debbono curare l'esecuzione degli atti e provvedimenti e sotto le cui direttive debbono promuovere lo sviluppo economico della provincia (art. 1 r. decr. legge 16 giugno 1927, n. 1071 che poneva gli uffici alle dipendenze del Ministero dell'economia nazionale; art. 2 del r. decr. 27 settembre 1929, n. 1663 portante norme circa la ripartizione dei servizi già di competenza del Ministero dell'economia nazionale).

Diverse le mansioni dei consigli da quelle degli uffici, se pur intese a unica finalità; di carattere prevalentemente amministrativo e burocratico quelle degli uffici; di carattere spiccatamente consultivo e, in determinati limiti, deliberativo, quelle dei consigli. Collegati peraltro gli uffici ai consigli per la funzione demandata ai primi di uffici di segreteria dei secondi e per essere il direttore dell'ufficio segretario del consiglio.

I consigli, istituiti in ciascuna provincia del regno, e con sede nel capoluogo, rappresentano gl'interessi delle attività produttrici nelle rispettive provincie e ne assicurano e promuovono il coordinamento e lo sviluppo in armonia con gl'interessi economici della nazione. Essi sono organi consultivi dell'amministrazione dello stato e delle amministrazioni locali, per quanto si riferisce ai servizî relativi alle dette attività (art. 2 legge 18 aprile 1926). L'esplicazione di tali compiti viene assicurata demandando ai consigli una serie di funzioni specificate nell'art. 3 del r. decr. 16 giugno 1927. Accanto all'attribuzione generica che essi hanno di proporre e segnalare al governo tutto quanto essi ritengono possa interessare lo sviluppo economico della provincia, inteso questo sviluppo nella sua più ampia comprensione e con particolare riguardo all'istituzione e al funzionamento degl'istituti d'istruzione professionale (art. 3, nn. 1-4), vi è la particolare attribuzione di dare parere su una serie di questioni, sempre interessanti la pubblica economia, e su richiesta del governo, del prefetto e delle amministrazioni locali (art. 3, n. 5).

Ai consigli ancora è demandata la compilazione e la raccolta degli usi e delle consuetudini commerciali e agrarie della provincia, la compilazione dei ruoli dei periti commerciali industriali e agrarî, degli stivatori e pesatori pubblici e dei mediatori. (La compilazione dei ruoli dei curatori di fallimenti è stata sottratta ai consigli con la legge 10 luglio 1930, n. 995, art. I). Spetta ancora ai consigli l'amministrazione delle borse di commercio, e, infine (funzione questa di particolare importanza e delicatezza), sono loro deferite "rispetto agli enti ed istituti di carattere pubblico della provincia aventi per iscopo l'incremento della produzione del credito e del risparmio, della previdenza sociale e dell'istruzione professionale, le funzioni di tutela deferite per gli altri enti locali alla giunta provinciale amministrativa, fatta eccezione per i sindacati" (n. 10).

Il consiglio è presieduto dal prefetto, il quale con il vice-presidente e i presidenti di sezione ne costituisce la presidenza, ed è composto di non meno di dodici e non più di ventotto membri, nominati su designazione: a) delle istituzioni della provincia aventi finalità attinenti alla competenza dei consigli dell'economia; b) delle organizzazioni sindacali legalmente riconosciute.

Fanno inoltre parte del consiglio, ma solo con voto consultivo, una serie di funzionarî, i quali abbiano una speciale competenza nelle materie trattate dai consigli. Il consiglio funziona diviso in sezioni, tranne in quei casi nei quali sia particolarmente richiesta dalla legge o dal regolamento la deliberazione in adunanza plenaria.

Consiglio comunale.

In Italia dal 1848 alla legge 4 febbraio 1926, n. 237, che ha concentrato ogni potere nel podestà di nomina governativa (v. comune; consulta; podestà), il consiglio comunale era uno dei tre organi, al quale spettava di deliberare, in genere, sopra le materie di competenza dell'amministrazione comunale, che non fossero attribuite agli altri due organi: la giunta e il sindaco. Esso era un collegio amministrativo, composto di consiglieri nominati con suffragio diretto dal corpo elettorale, in numero proporzionale alla popolazione del comune (da un massimo di ottanta consiglieri a un minimo di 15) e che duravano in carica 4 anni. Le loro attribuzioni potevano distinguersi in due grandi categorie, a seconda che concernessero gl'interessi proprî del comune (nomina della giunta e del sindaco, costituzione degli uffici, amministrazione del patrimonio comunale, imposizione di tributi, esercizio della potestà regolamentare, istituzione dei servizî pubblici, esecuzione di opere pubbliche, ecc.), ovvero interessi distinti da quelli del comune medesimo (funzione di vigilanza e di controllo sulle istituzioni locali fatte a vantaggio della generalità degli abitanti, intervento, con la potestà di nominare in tutto o in parte gli amministratori di taluni enti istituzionali aventi sede nel comune, concorso con facilitazioni amministrative e contributi finanziarî a favore di attività o istituzioni le quali, anche se non rivolte a vantaggio diretto del comune, avessero però scopi socialmente utili). Le deliberazioni del consiglio erano sottoposte a un duplice controllo: quello di legittimità, esercitato dal prefetto e dal sottoprefetto, e quello di tutela, diretto a sindacare l'atto amministrativo sotto il profilo della sua opportunità e convenienza economica, esercitato dalla Giunta provinciale amministrativa.

Consiglio provinciale.

Prima della legge 27 dicembre 1928, n. 2962, con cui fu riformata l'amministrazione provinciale (v. provincia), il consiglio provinciale era in Italia l'organo deliberativo della provincia e durava normalmente in ufficio quattro anni. Alle sue sessioni, ordinarie e straordinarie, poteva intervenire, quale commissario del governo, il prefetto e farvi le osservazioni che credeva opportune, senza però avervi voto deliberativo.

Oltre le attribuzioni di gestione patrimoniale, spettava al consiglio provinciale il deliberare i regolamenti su tutte quelle materie, che, avendo la loro sfera d'applicazione nell'ambito della provincia, erano dalla legge disciplinate solo nelle linee fondamentali (p. es. regolamenti di polizia stradale, zooiatrica, sulle risaie, sui manicomî, ecc.). Esso svolgeva inoltre un'attività concreta, creando stabilimenti pubblici, e provvedendo a servizî pubblici. Spettava inoltre al medesimo di esercitare una potestà di vigilanza sulle istituzioni e gli stabilimenti a beneficio della provincia, di nominare i membri delle commissioni governative locali e designare i proprî rappresentanti nelle commissioni in cui la provincia fosse particolarmente interessata; infine di esercitare funzioni consultive, dando parere preventivo in tutti quei casi in cui il suo voto fosse richiesto dalla legge o domandato dal prefetto.

I consiglieri provinciali erano nominati dagli elettori comunali, ripartiti per mandamento, in numero variabile, a seconda della popolazione della provincia (da un massimo di 60 a un minimo di 30). Le deliberazioni del consiglio provinciale erano sottoposte al sindacato di legittimità del prefetto, nonché, nei casi dalla legge previsti, all'approvazione tutoria della Giunta provinciale amministrativa.

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