NATURA, Conservazione della

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1993)

NATURA, Conservazione della

Longino Contoli

(App. IV, II, p. 545)

Nel corso degli anni Ottanta, la conservazione dell'ambiente naturale, a livello sia mondiale che italiano, è stata influenzata da due spinte almeno in apparenza opposte: lo sviluppo di iniziative di tutela e lo sfruttamento consumistico accelerato e distruttivo della biosfera; poiché, tuttavia, in generale, il ritmo del secondo processo è stato di molto superiore a quello del primo, il risultato, alla fine del decennio, è stato un gravissimo peggioramento della situazione complessiva.

Il livello e il tipo d'impatto antropico sulla biosfera sono influenzati in primo luogo dal continuo incremento della popolazione mondiale: negli anni Ottanta, si è assistito al raggiungimento dei 5 miliardi di individui, con un incremento di quasi un miliardo (siamo dunque nel pieno della cosiddetta esplosione demografica); anche se il tasso d'incremento annuo, giunto sino al 2% negli anni Settanta, sembra ora stazionario o meglio in lieve flessione (dall'1,8% dei primi anni Ottanta si è passati all'1,6% attuale), appare certo il raggiungimento di una popolazione di 6 miliardi di uomini alla fine del 20° secolo.

Secondo le ipotesi non pessimistiche, il fatto che, per la prima volta da molto tempo, si assista a un calo del tasso di accrescimento può far pensare che questo sia giunto a un punto di flesso del suo andamento sigmoide, essendo ormai terminata la fase di crescita esponenziale; ciò potrebbe preludere all'assestamento su una ''capacità portante'' (v. ecologia: Dinamica delle popolazioni, in questa Appendice) intorno ai 6 miliardi la quale, però, dovrebbe essere con ogni probabilità superata nella prima metà del 21° secolo (Meadows e altri 1972; Brown e altri 1988), anche perché le stesse previsioni ottimistiche ammettono, ancora alla fine del 20° secolo, un tasso di natalità uguale a circa il doppio di quello di mortalità (Brown e altri 1989); ciò causerebbe un'oscillazione negativa rispetto al picco presunto di forse 10 miliardi di individui, il che aprirebbe, verso la seconda metà del 21° secolo, un periodo di gravi sofferenze per l'umanità.

Nel contempo, si è incrementato l'uso incontrollato e imprevidente di energia, soprattutto da fonti non o poco rinnovabili, che potrebbe produrre in futuro crisi anche gravi; del resto, negli anni Ottanta e Novanta, in relazione alla guerra Iran-῾Irāq e alla Guerra del Golfo che hanno coinvolto molte fra le nazioni più sviluppate del mondo, si sono avuti, nel golfo Arabico, i primi esempi di conflitto bellico causato essenzialmente da esigenze di approvvigionamento energetico.

L'effetto sinergico dell'incremento della popolazione e dello spreco di energia, attraverso il sovrasfruttamento delle risorse naturali e l'inquinamento dell'ambiente e col tramite di un modello di sviluppo individualistico e consumistico tipico dei paesi industrializzati della cosiddetta civiltà occidentale, sta conducendo al rischio di una crisi ambientale planetaria. Infatti, notevole ed evidente è il fatto che, nell'ultimo decennio, i problemi relativi all'ambiente naturale si siano generalizzati, coinvolgendo l'intera biosfera; anzi, proprio nei paesi del Terzo Mondo, o sottosviluppati, che a lungo si erano sottratti ai problemi ambientali moderni, si verificano oggi i più cospicui cambiamenti. Ciò vale sia per le iniziative di tutela e corretta gestione ambientale relative ad aspetti purtroppo ancora circoscritti, anche se appariscenti, del patrimonio ambientale (come nel caso dei parchi e delle riserve naturali, la cui rete si estende ormai per circa mezzo miliardo di ha in tutte le regioni biogeografiche e geopolitiche: Brown e altri 1988 e 1989), sia per l'alterazione dei principali subsistemi della biosfera. Così, l'atmosfera risulta globalmente alterata: l'incrementata concentrazione di anidride carbonica è da associare al cosiddetto effetto serra, che molti ritengono causa dell'aumento di temperatura terrestre che, a sua volta, potrebbe avere gravi conseguenze. La fascia stratosferica di ozono (v. in questa Appendice) risulta erosa, e questo potrebbe accrescere gli effetti dannosi della radiazione ultravioletta sui viventi. Le emissioni industriali stanno producendo un continuo aumento dell'acidità delle precipitazioni, con pesanti conseguenze sul patrimonio forestale (v. inquinamento, in questa Appendice).

Procede poi rapidamente l'inquinamento del mare, aggravato da recentissimi episodi di rilascio massiccio di idrocarburi a seguito della Guerra del Golfo o di incidenti subiti da superpetroliere. Le acque interne risentono non soltanto di un crescente inquinamento, ma pure dell'uso improvvido dei suoli, che vengono erosi e dilavati; questo provoca d'altra parte un'accelerata sedimentazione negli alvei, con conseguenze anche economiche e sociali gravissime.

Ogni anno vengono degradati (quasi sempre a causa del sovrasfruttamento) circa 20 milioni di ha, dei quali più del 25% in maniera irreversibile (desertificazione); tale processo minaccerebbe addirittura, secondo l'UNEP (United Nations Environment Programme), il 35% di tutta l'area coltivabile della Terra, area che alimenta circa un miliardo di esseri umani. Anche errate tecniche irrigue possono provocare degradazione del suolo, per es. attraverso la salinizzazione (40 milioni di ha, secondo l'UNEP). L'eccessivo carico antropico e le errate politiche agronomiche sembrano alla base di tali fenomeni.

Le foreste, soprattutto tropicali, stanno subendo un accelerato tasso di distruzione: ogni anno, si perderebbero per disboscamento circa 10 milioni di ha, mentre altrettanti verrebbero degradati soprattutto attraverso la loro frammentazione; nel contempo, il rimboschimento rimpiazzerebbe soltanto un 10% di queste perdite e comunque − si noti − solo dal punto di vista, parziale, della biomassa arborea, mentre i danni qualitativi sono pressoché irreparabili. Molti di questi fenomeni di degrado avrebbero, secondo alcuni studiosi, effetti destabilizzanti anche sul clima, per lo meno a livello locale. Infine, si deve purtroppo assistere al continuo deterioramento della diversità della componente vivente degli ecosistemi.

La diversità biotica o biodiversità (v. ecologia, in questa Appendice) si esprime a livello molecolare e/o genetico e/o tassonomico e/o biocenotico, nella biosfera come pure nei sistemi filetici o ecologici che ne sono le componenti vicendevolmente assai integrate e spesso difficilmente separabili l'una dall'altra. La biodiversità è stata successivamente considerata un concetto fondamentale e direttamente legato alla stabilità, ovvero come un non-concetto, o infine (più di recente) come un ''grappolo'' di concetti, misurabile con un grande numero di strumenti matematici (indici di diversità). Essa ha il significato, nel contesto applicativo di cui si tratta, sia di valore ambientale in sé (gli ambiti naturali ricchi e complessi hanno sempre interessato i naturalisti più di quelli banali o poveri), sia d'indicatore di disturbo antropico, nei limiti in cui sia possibile stabilirne una precisa correlazione con qualche forma di antropizzazione, cosa non sempre semplice o addirittura fattibile.

Un recente, promettente approccio in questo senso si basa sullo studio della diversità dei sistemi funzionali (per es. trofici), piuttosto che di quelli, per es., a base soltanto topografica, nei quali le varie popolazioni di viventi siano accomunate solo dal fatto di risiedere nello stesso biotopo (Contoli 1981). Nel contempo, ci si avvede di quanto incomplete siano ancora oggi le conoscenze anche più elementari sull'argomento: così, mentre sino a pochi anni or sono si riteneva che il numero delle specie biologiche esistenti sulla Terra fosse fra 1 e 2 milioni, oggi (in base a ricerche genetiche e biochimiche e a metodi sofisticati di campionamento) si ritiene che ve ne siano da 10 a 100 milioni; ciò non soltanto aumenta d'un colpo il margine d'incertezza delle stime, ma fa pure temere che la maggior parte di tali taxa possa scomparire a opera dell'uomo in tempi così brevi da non consentire non solo l'abituale processo di sostituzione negli ecosistemi, grazie alla speciazione evolutiva, ma neppure la loro conoscenza e descrizione scientifica.

La diversità ecologica risente sia dell'elevato tasso di estinzione di specie (giunto, secondo alcuni, al livello di ''estinzione di massa'', per cui May [1988] si attende, nel 21° secolo, la scomparsa di milioni di specie), sia dell'abbassamento dell'equiripartizione (evenness) degli individui tra le specie stesse. Ciò si verifica anche a causa del diffondersi di poche entità tassonomiche invadenti e infestanti, che è conseguenza della banalizzazione biocenotica dovuta all'agricoltura intensiva e in particolare alla monocoltura.

Un dato sintetico che esprime bene il peso dell'antropizzazione sulla biosfera è quello secondo il quale, già alla metà degli anni Ottanta, circa il 40% della produzione primaria terrestre era consumata o gestita in qualche forma dall'uomo. Nello scorso decennio e per la prima volta, quindi, talune ipotesi catastrofiche, un tempo appannaggio della fantascienza, sono state prese in seria considerazione a livello scientifico.

Così dicasi per l'effetto serra, che potrebbe passare da una fase iniziale, ampiamente reversibile e legata alla concentrazione di anidride carbonica (CO2) e altri gas secondari nell'atmosfera, a una fase legata alla concentrazione di vapore acqueo (H2O), con possibile andamento autocatalitico; cambiamenti catastrofici del clima mondiale, inondazioni, siccità sarebbero alcune possibili conseguenze di una tendenza che, comunque, sembra impossibile invertire o arrestare per lo meno nei tempi brevi (entro il 20° secolo). Nel caso, poi, di un conflitto basato su ordigni nucleari è stato calcolato che esso comporterebbe conseguenze catastrofiche a livello planetario, dovute al cosiddetto ''inverno nucleare'' (Turco e altri 1983).

Altri esempi di ecocatastrofi incipienti sono l'espansione, in apparenza inarrestabile, dei deserti, causata dal cattivo uso del suolo nelle aree subtropicali; il continuo aumento di ceppi di batteri resistenti agli antibiotici e di animali e vegetali dannosi alle colture e resistenti ai biocidi; l'impoverimento delle terre fertili e coltivabili: tutto ciò sarebbe foriero di allarmanti carestie ed epidemie, aggravate, secondo alcuni (Morpurgo 1987), dall'insostenibile deterioramento genetico al quale sarebbe già avviata la nostra specie.

Purtroppo, alcune catastrofi locali, ma le cui conseguenze si sono estese su aree anche molto vaste, si sono già manifestate: tra le più recenti, un esempio è il gravissimo incidente al reattore nucleare di Cernobyl, in URSS (1986), che non soltanto ha causato vittime, infermità e danni, costringendo al trasferimento decine di migliaia di abitanti, ma ha pure condizionato negativamente, a causa di nubi radioattive, buona parte dell'Europa, compresa l'Italia. Un altro esempio è quello dell'incidente della superpetroliera della ditta Exxon (1989), che ha causato inquinamento e devastazione biotica in una vasta area costiera dell'Alaska. Inoltre, taluni ritengono che il calo della produzione agricola nel paese tecnologicamente più avanzato nel settore, gli USA (che oggi costituiscono, in un certo senso, il ''granaio del mondo'', e che nondimeno hanno dovuto attingere pesantemente alle proprie scorte per far fronte alle richieste del mercato), assieme alle gravissime carestie in vaste plaghe tropicali e subtropicali del Terzo Mondo, possa già preannunciare una crisi alimentare mondiale, causata con ogni evidenza da alterazioni ambientali locali (cattivo uso dei suoli), ma soprattutto globali (riscaldamento dell'atmosfera, alterazioni del regime delle precipitazioni).

Uno degli aspetti più gravi, sul piano generale, è che, nonostante i progressi innegabili e a volte tumultuosi dell'ecologia e nonostante il crescente e ormai rilevante patrimonio di persone e risorse impegnato nella tutela della n., non si è ancora riusciti a porre su solide basi teoriche e nemmeno concettuali quest'ultima esigenza.

Da questo punto di vista, a fianco di correnti le quali sostengono che la tutela della n. è in primo luogo connessa alla difesa della salute e del benessere dell'uomo, soprattutto per le future generazioni, emergono sempre più forti nell'ambito della bioetica le tendenze a sostegno di un diritto primario dei viventi a essere rispettati come tali, soprattutto in rapporto alle sofferenze. Pur nel massimo rispetto di tali posizioni, la cui connotazione moralistica è forse insopprimibilmente legata al modo di pensare dell'uomo, da un punto di vista biologico occorre ricordare che ogni specie in certo senso costruisce il proprio ambiente modificandone i parametri abiotici e/o biotici. Ciò, secondo alcuni autori, avviene per il fatto stesso di costituire, con i propri rappresentanti, un tipo di sistema aperto che utilizza flussi di materia ed energia per autocostruirsi, mantenersi e riprodursi, alla stregua di ''strutture dissipative'' (Prigogine e Stengers 1981). A stretto rigore di termini, quindi, non vi è specie che non alteri l'ambiente e non provochi o acceleri la scomparsa di altre specie biologiche (v. anche ecologia: Dinamica degli ecosistemi, in questa Appendice). Ma tali fenomeni possono avvenire in modi e tempi più o meno compatibili con il mantenimento dell'ambiente al quale è legata quella data specie e, pertanto, con il benessere e la sopravvivenza della stessa.

Se si condivide questo approccio, mentre il problema etico del diritto alla vita di ogni entità biologica è affidato alla coscienza dei singoli uomini, al consorzio umano nel suo complesso spetta il compito della tutela della vitalità della biosfera (legato, in un'ottica evoluzionistica, alla tutela delle sue potenzialità funzionali e omeostatiche, della sua diversificazione, della sua complessità), ai fini dell'avvenire stesso della nostra specie.

A parte questi problemi di natura teorica, non pochi progressi si sono registrati nella valutazione delle potenzialità genetiche di sopravvivenza di specie rare attraverso raffinate analisi ecologiche e genetiche (si può per es. valutare, specie per specie, quale sia la consistenza numerica minima per garantire statisticamente nel tempo la sopravvivenza di una popolazione: Frankel e Soulé 1981) nonché nell'uso di nuove tecnologie per la lotta all'inquinamento (per es. l'uso di ceppi batterici modificati grazie all'ingegneria genetica: v. biotecnologia, in questa Appendice), mentre si è sviluppato un dibattito di alto livello scientifico sulle dimensioni e il numero ottimali delle aree da proteggere in modo particolare (anche la valutazione di tali aree è stata molto sviluppata: Margules e Usher 1981; Contoli 1985). Purtroppo, l'Italia è risultata quasi estranea a questi sviluppi culturali, mentre si è dato molto spazio a dispute che appaiono più formalistiche che sostanziali (per es. quelle sulla qualifica o la gestione nazionale, o piuttosto regionale, dei parchi), e nonostante i meritori sforzi di alcuni centri pubblici di ricerca (soprattutto nell'ambito delle università e del Consiglio nazionale delle ricerche) e di sodalizi scientifici privati, quali la Società Italiana di Ecologia (SITE).

A livello del grande pubblico, sono sorte o si sono affermate negli ultimi anni nuove organizzazioni ambientaliste (Greenpeace, Friends of the Earth, ecc.) caratterizzate da un impegno più vasto, anche in chiave politico-sociale, rispetto a quelle classiche, le più importanti delle quali (per es. l'IUCN, International Union for Conservation of Nature and natural resources, e il WWF, World Wildlife Fund) si sono presto adeguate a tale nuovo indirizzo (UICN 1981). Così, per es., opera oggi in Italia la Lega per l'Ambiente alla quale si devono campagne di controllo e protesta propositiva di largo interesse popolare, nonché il rapporto annuale ''Ambiente-Italia''. Ma soprattutto un grande sviluppo si è avuto nell'informazione a tutti i livelli circa il problema ambientale; relazioni e rapporti un tempo appannaggio di ristretti circoli sono stati divulgati su scala mondiale (per es. il rapporto annuale del Worldwatch institute: Brown e altri 1988 e 1989). Ciò ha determinato una sempre più vasta e crescente consapevolezza della gravità e urgenza dei problemi in questione.

A volte, tale consapevolezza sembra ancora soggetta a spinte più emotive che razionali, tanto che alle soluzioni costruttive vengono tuttora preferite quelle drastiche e di taglio più moralistico che tecnico. In Italia, l'abolizione totale dell'attività venatoria è stata richiesta attraverso referendum formulati in maniera superficiale e persino contraddittoria rispetto ai fini dichiarati. E ciò, nonostante la comprensibilità della proposta (a fronte dell'attuale distruttivo consumismo venatorio e del gravissimo depauperamento di mammiferi e uccelli del nostro paese), il cui obiettivo sarà forse da perseguire con gradualità, in quanto non privo di rischi diretti e indiretti.

La presa di coscienza ambientalista è in ogni caso un fenomeno nel complesso assai positivo, e che si è concretizzato più volte, a livello sia locale che nazionale, in clamorose (anche se sovente effimere) affermazioni elettorali delle liste o delle posizioni cosiddette ''verdi''. A seguito di tale spinta, in Italia sono sorte a livello ufficiale strutture amministrative (ministeri e assessorati) con lo specifico compito di affrontare i problemi della conservazione dell'ambiente naturale; la loro azione, anche se tra molti condizionamenti economici e politici, ha già portato a qualche positivo risultato. Sono stati inoltre promulgati provvedimenti normativi nazionali (quali il decreto Galasso che vincola porzioni critiche del territorio, ovvero il recepimento di convenzioni internazionali, come quelle di Washington, di Berna, ecc.) e locali (quali le delibere contro l'inquinamento, la speculazione edilizia, l'installazione di impianti industriali e di centrali per la produzione di energia). Carente è tuttavia nel nostro paese, a differenza di molti paesi industrializzati, l'attivazione di normative efficaci in vari settori, quale quello, fondamentale, della preventiva Valutazione dell'Impatto Ambientale (VIA) per le opere di trasformazione e sfruttamento di vaste risorse territoriali e ambientali.

In conclusione, si può affermare che, all'inizio dell'ultimo decennio del 20° secolo, le previsioni di vent'anni prima contenute nel rapporto del club di Roma (Meadows e altri 1972), nonostante fossero state ritenute allarmistiche, sono risultate purtroppo confermate, per lo meno sostanzialmente e qualitativamente: anche rispetto ai modelli più pessimistici, la popolazione ha subito un aumento maggiore e le risorse alimentari pro capite sono aumentate meno del previsto; l'inquinamento si è mantenuto su livelli elevati (la riduzione registratasi nel mondo industrializzato non ha potuto infatti controbilanciare l'aumento registrato nei paesi in via di sviluppo) e il sovrasfruttamento delle risorse naturali non solo è proseguito ma si è aggravato. Pertanto, non è da escludersi a priori l'ipotesi di una crisi planetaria dell'ambiente e delle risorse a cui l'uomo è legato, con un conseguente crollo demografico entro la prima metà del 21° secolo. Per scongiurare tale eventualità occorrerebbe un grande sforzo coordinato di tutta l'umanità, mirante a un uso razionale e parsimonioso delle risorse energetiche e del patrimonio ambientale, alla lotta all'inquinamento e all'avvio di una politica e di un'economia a ciò finalizzate.

Ma (come confermano anche i modesti risultati della Conferenza di Rio del 1992: Grondacci 1992), sino a oggi, le basi del modello di sviluppo predominante sembrano quelle stesse che determinano l'alterazione e la degradazione dell'ambiente naturale. L'adozione dei provvedimenti suddetti non appare quindi per nulla scontata, anzi si presenta come una sfida assai ardua e senza precedenti; e per di più una sfida da vincere prima che si siano del tutto esaurite le potenzialità omeostatiche della componente biotica della biosfera e si siano avviati processi irreversibili di destabilizzazione, cosa che, secondo alcuni, potrebbe addirittura avvenire tra uno o pochissimi decenni.

Bibl.: D. H. Meadows, D. L. Meadows, J. Randers, W. W. Behrens iii, I limiti dello sviluppo, Milano 1972; L. Contoli, Approcci ecologici per la tutela della fauna mediante aree naturali protette, SITE, Atti, 1 (1981), pp. 51-55; O.H. Frankel, M.E. Soulé, Conservation and evolution, Cambridge 1981, pp. 1-161; C. Margules, M. B. Usher, Criteria for assessing wildlife conservation potential, in Biol. Conserv., 21 (1981), pp. 79-109; I. Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza, Torino 1981; UICN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura), Una strategia mondiale per la conservazione, in collab. con UNEP, WWF, FAO e UNESCO, a cura dell'Assoc. Ital. per il WWF, Roma 1981; R. P. Turco, O. B. Toon, T. P. Ackerman, J. B. Pollack, C. Sagan, Nuclear winter: global consequences of multiple nuclear explosions, in Science, 222 (1983), pp. 1283-92; L. Contoli, L'individuazione dei sistemi territoriali di speciale interesse naturalistico: criteri e metodi, SITE, Atti, 5 (1985), pp. 1043-47; G. Morpurgo, Dalla cellula alle società complesse, Torino 1987; P. M. Vitousek, P. R. Ehrlich, A. H. Ehrlich, P. A. Matson, Net primary production: original calculations, in Science, 235 (1987), p. 730; R. M. May, How many species are there on Earth?, ibid., 241 (1988), pp. 1441-49; L. R. Brown e altri, State of the World, a cura del Worldwatch institute, Torino 1988 e 1989; Conferenza di Rio sull'ambiente, a cura di M. Grondacci, in SIAC notizie, 3 (1992), pp. 1-38.