BARONI, Congiura dei

Enciclopedia Italiana (1930)

BARONI, Congiura dei

Giuseppe Paladino

Dopo la pace di Bagnolo (v.), la corte di Napoli sentì il bisogno di respirare più liberamente e di sciogliersi dai vincoli, che, sotto forma di terre feudali, la tenevano stretta fin presso le porte di Napoli. Le guerre combattute per sei anni continui avevano accresciute le strettezze finanziarie, in cui gli Aragonesi si dibattevano, e posto meglio in evidenza l'egoismo e l'avidità di taluni signori e i danni che ne derivavano alla corona. Tutto ciò è indiscutibile; ma le intenzioni della corte non si erano ancora tradotte in atto, quando già i principali baroni, prevedendo il temporale che stava per scoppiare, cominciarono a mettersi d'accordo per paralizzare i movimenti di chi lo avrebbe scatenato. Le catture dei figli del duca d'Ascoli (20 maggio 1485) e del conte di Montorio (28 giugno 1485) non provocarono l'inizio, ma accelerarono i preparativi della congiura già innanzi intrapresa. Della quale furono artefici principali il conte di Sarno Francesco Coppola, Antonello Petrucci segretario del re, i figli di lui Francesco conte Carinola e Giovannantonio conte di Policastro, Antonello e Girolamo Sanseverino, principe di Salerno e ammiraglio del regno il primo, principe di Bisignano e gran camerlengo l'altro, Pirro del Balzo principe di Altamura e gran connestabile, il gran siniscalco Pietro Guevara marchese del Vasto, Barnaba Sanseverino conte di Lauria, la contessa madre di Sanseverino Giovanna, altri due Sanseverino, Giovanni conte di Tursi e Carlo conte di Mileto, Giovanni Caracciolo duca di Melfi, Andrea Matteo Acquaviva marchese di Bitonto, Angliberto del Balzo duca di Nardò e altri: parte viventi a Napoli, parte nelle provincie più o meno vicine alla capitale. Stretti gli accordi, i congiurati volsero gli occhi al papa Innocenzo VIII, irritato con Ferdinando d'Aragona a cagione della persistente negligenza di costui nel versare l'annuo tributo promesso ai predecessori (giugno-luglio 1485). Il pontefice, seguendo il proprio impulso e istigato principalmente dal cardinale Giuliano Della Rovere, si schierò dalla parte dei baroni e procurò loro il soccorso di Roberto Sanseverino.

La voce dei preparativi, che i congiurati andavano facendo, giunse all'orecchio del re, il quale si adoperò a tranquillizzare i feudatarî con parole e promesse rassicuranti; nel tempo stesso, inviava a Roma il proprio figlio Giovanni, cardinale, perché distogliesse Innocenzo VIII dall'incoraggiare la ribellione. Apparentemente Ferdinando riuscì ad accordarsi con i baroni, ma in realtà fu un succedersi d'inganni e finte paci, nel quale le parti contendenti, col pretesto di ristabilire le buone relazioni di prima, cercarono di prepararsi meglio alla lotta. I baroni in particolare tentarono, senza riuscirvi, d'impadronirsi della persona del re; questi a sua volta, per non trovarsi solo di fronte agli avversarî nel caso di fallimento delle trattative, si adoperò a procacciarsi gli aiuti dei proprî alleati Lorenzo de' Medici e Ludovico il Moro. Il 26 settembre 1485, mentre a Miglionico i congiurati fingevano di riconciliarsi con Ferdinando, Aquila insorse e qualche giorno dopo innalzò le bandiere della Chiesa. A loro volta il 19 novembre in Salerno i capi della congiura, ormai sicuri dell'arrivo di Roberto Sanseverino, buttarono la maschera e, catturato il figlio del re, Federico, che era presso di loro per trattare della riconciliazione, innalzarono gli stendardi pontifici. Da quel momento cominciò la guerra scoperta, che si svolse dentro e fuori i confini del regno. Fuori, operò per parte degli Aragonesi il duca di Calabria, coadiuvato da Virginio Orsini e dalle milizie del Magnifico e del Moro; di fronte a lui stette per il papa Roberto Sanseverino. L'azione culminante della campagna fu la battaglia di Montorio presso Acquapendente e Orvieto, riuscita favorevole in complesso agli Aragonesi (7 maggio 1486). Entro i confini del regno la guerra consistette in una serie di piccole fazioni combattute tra i principi reali Federico, fuggito dalla prigionia, Francesco, Cesare e Ferrandino, nonché i baroni rimasti fedeli al re, da una parte, e i ribelli coadiuvati dal prefetto di Roma, Giovanni Della Rovere, dall'altra. Più tardi Ferdinando ricevette aiuti dalla Sicilia e dall'Ungheria, mandati rispettivamente da Ferdinando il Cattolico e da Mattia Corvino.

Ma ai primi di giugno del 1486, non essendo comparso il duca di Lorena, erede delle pretese angioine sul regno, nel quale il papa e i baroni avevano riposto le loro speranze per combattere gli Aragonesi, si cominciò a trattare la pace tra il rappresentante di Innocenzo VIII, cardinale di Sant'Angelo, e quelli del duca di Calabria, tra i quali fu il Pontano. Dopo non brevi trattative l'11 agosto si venne a un accordo a queste condizioni: pagamento del censo alla Santa Sede come d'uso; perdono ai ribelli, purché si sottomettessero al re riconoscendone la superiorità; restituzione di Aquila al re; amnistia agli Orsini, che avevano combattuto il papa; licenziamento del Sanseverino. Prima che si divulgasse la notizia della pace, re Ferdinando, col pretesto di celebrare le nozze fra la nipote Maria Piccolomini e il figlio del conte di Sarno, convitò in castello i principali signori residenti a Napoli e fece arrestare Antonello Petrucci e lo stesso conte di Sarno con i figli. I figliuoli del segretario furono arrestati fuori della capitale: Giovannantonio a Torre del Greco e il conte di Carinola nel proprio castello. Vennero altresì trattenuti Giovanni Pou, negoziatore per parte del re dei falsi accordi con i baroni, Anello Arcamone, già rappresentante della corte aragonese a Roma, le donne dei sunnominati e un fratello del Coppola; e si mandarono subito a perquisire le case che gli arrestati possedevano a Napoli e fuori, confiscando tutte le ricchezze in esse contenute, le terre, il bestiame e sino i crediti vantati dal Coppola e dagli altri, cioè un valore complessivo di 300 mila ducati. Non v'è dubbio che il Petrucci e il conte di Sarno furono i principali architetti della congiura, e il primo specialmente, anche quando la guerra era apertamente scoppiata, si tenne in relazione con i ribelli, comunicando loro notizie circa i movimenti delle soldatesche regie. È chiaro inoltre che ad essi non spettava il perdono, poiché il trattato di pace si riferiva soltanto ai baroni, i quali avevano combattuto il re palesemente.

Questi ultimi, non sì tosto ebbero notizia della pace, ricominciarono il gioco di prima, fingendo di sottomettersi e facendo tutt'altra cosa. L'11 settembre riunitisi a Lacedonia giurarono sull'ostia consacrata di rimanere uniti ad unum velle et ad unum nolle e ad opera d'un messo del legato pontificio di Benevento si fecero prosciogliere dall'osservare la fedeltà che, a tenore del trattato, avrebbero dovuto giurare al re. Con la riserva mentale di non osservarlo, il conte di Mileto prestò omaggio in Napoli a Ferdinando anche in nome degli altri baroni (3 ottobre 1486). Pare che i congiurati sperassero ancora nel papa e nel duca di Lorena. Se non che si trovarono soli, quando il duca di Calabria, inseguito Roberto Sanseverino fino in Romagna, ritornò nel regno e li costrinse uno dopo l'altro ad arrendersi (ottobre-dicembre 1486).

Frattanto s'istruiva il primo processo contro il Petrucci e il Coppola, che più tardi fu messo a stampa. I quattro prigionieri confessarono e rinunziarono a difendersi. Contro di essi venne pronunziata sentenza capitale il 13 novembre 1486, eseguita per i due figli del segretario il giorno 11 del mese successivo e per il segretario stesso e il conte di Sarno l'11 maggio 1487. Durante la prigionia il Petrucci scrisse quei sonetti, che gli assicurano un posto cospicuo nella letteratura volgare del '400. La moglie di Antonello, Elisabetta Vassallo, morì nel castello l'11 ottobre 1486. Contro Anello Arcamone e Giovanni Pou non fu pronunziata sentenza di sorta; ma essi rimasero prigionieri rispettivamente fino al 1495 e al 1498.

I baroni che, sottomessi con le armi, il duca di Calabria condusse seco a Napoli, cioè il principe di Altamura e quello di Bisignano, nonché il conte di Lauria, il duca di Nardò, il duca di Melfi, la contessa madre di Sanseverino, il conte di Mileto e altri, furono arrestati in due riprese il 12 giugno e il 4 luglio 1487. Quattro anni dopo, nella notte di Natale, vennero i più di essi "ammazzerati", il che è quanto dire chiusi dentro sacchi con grosse pietre e gettati in mare. Antonello Sanseverino s'era messo in salvo a Roma; il gran siniscalco era morto molto tempo innanzi. Il fatto che diede origine all'arresto dei baroni perdonati, fu la tentata fuga del conte di Mileto, di cui si parla nel secondo processo pure esistente a stampa. Poiché gli arrestati del 12 giugno accusarono nei loro interrogatorî i baroni ancora liberi, anche questi ultimi vennero tratti in carcere il 4 luglio. Il re all'inviato papale recatosi a chiedergli conto di quanto aveva operato dichiarò che i baroni non potevano beneficiare di una pace che non avevano accettato. La verità era che Ferdinando, e a ragione, non si fidava dei baroni.

Bibl.: C. Porzio, La congiura dei baroni, ed. di S. D'Aloe, Napoli 1859; id., con note di A. Vecoli, Livorno 1907; J. Albini, De gestis regum neapolitanorum ab Aragonia, Napoli 1769; J. Leostello, Effemeridi delle cose fatte per il duca di Calabria, Napoli 1883; P. Fedele, La pace del 1486 tra Ferdinando d'Aragona e Innocenzo VIII, in Archivio stor. per le prov. napoletane, 1905; Carusi, Dispacci e lettere di Giacomo Gherardi, Roma 1909, p. 113 segg.; Calmette, La politique espagnole dans l'affaire des barons napolitains, in Revue historique, 1912; L. Volpicella, Regis Ferdinandi I Instructionum Liber, Napoli 1916; G. Paladino, Per la storia della congiura dei baroni, documenti inediti, in Arch. stor. per le prov. napoletane, 1919, 1920, 1921, 1923; id., Un episodio della congiura dei baroni, in Arch. stor. cit., 1918; E. Perito, La congiura dei baroni e il conte di Policastro, Bari 1926.

TAG

Ferdinando il cattolico

Andrea matteo acquaviva

Giovanni della rovere

Antonello sanseverino

Giuliano della rovere