Conferimenti in natura nelle società di capitali. Il procedimento.

Diritto on line (2021)

Andrea Pisani Massamormile

Abstract

Ci si sofferma dapprima sul divieto di conferimento di opere e servizi e sulla regola dell’integrale liberazione delle azioni emesse a fronte dei conferimenti “in natura” (ma è meglio definirli “non in denaro”). Si ricorda poi che la legge postula l’effettiva (immediata ed integrale) formazione del capitale. A ciò è funzionale il procedimento di valutazione di cui vengono analizzate le fasi: relazione di stima, controllo degli amministratori, revisione. Vengono poi descritti i rimedi previsti per l’ipotesi che il valore del conferimento risulti inferiore a quello per cui avvenne il conferimento e cioè la riduzione del capitale ed il recesso. Da ultimo l’attenzione è posta sulle peculiarità della disciplina nella s.r.l.

1. Le norme

Nell’ambito delle società di capitali, i conferimenti possono distinguersi in due grandi categorie: i conferimenti in danaro e quelli – che qui saranno esaminati – tuttora chiamati della legge «conferimenti di beni in natura» e che viceversa sarebbe più opportuno chiamare conferimenti “diversi dal denaro”: che hanno cioè ad oggetto tutto ciò che sia conferibile e che non sia, appunto, il denaro contante. Può trattarsi di un bene esistente in natura o se si vuole, traducendo il riferimento alla “natura” in quello alla realtà materiale, di un edificio, ma può trattarsi altresì di qualcosa che con la natura (o la realtà materiale) nulla ha a che vedere (quale un’invenzione brevettata). Alle entità diverse dal danaro sono assimilati i crediti.

La legge dedica molto spazio, nell’ambito della disciplina delle società per azioni, ai conferimenti diversi dal denaro (artt. 2343, 2343-ter e 2343-quater c.c., più alcune disposizioni di cui all’art. 2342, c.c. contenente le regole di base della materia in esame), meno a quelli in denaro cui va però il favor della legge. Regole parzialmente diverse vigono, come si vedrà, per le società a responsabilità limitata (artt. 2464-2465 c.c.). Per le cooperative non vi è una norma specificamente dettata per i conferimenti, ma l’art. 2519 c.c. dichiara generalmente applicabili (in quanto compatibili) le disposizioni sulla s.p.a. e, in presenza di determinati requisiti dimensionali, quelle sulla s.r.l. (e quindi, in entrambi i casi, anche le norme dettate in tema di conferimenti).

Ancora in premessa occorrono due osservazioni. La prima è che una norma di notevole importanza in tema di conferimenti, vale a dire l’art. 2346 c.c., è scritta fuori del capo ad essi dedicato, nell’ambito della s.p.a. La seconda è che anche sui conferimenti e sull’art. 2346, c.c. hanno inciso in modo tutt’altro che irrilevante sia la complessiva riforma degli anni 2001/2003, sia le successive modificazioni ed integrazioni di cui al d.lgs. 4.8.2008, n. 142 ed al d.lgs 29.11.2010, n. 224. Obiettivo degli interventi predetti (dalla riforma in poi) è stato quello della semplificazione (delle modalità di attuazione) dei conferimenti (diversi dal denaro), che però si è tradotto in un più banale abbassamento della severità della relativa disciplina.

2. Le regole di fondo

Ai conferimenti di entità diverse dal denaro sono intanto dedicate, come si è già accennato, tre disposizioni, importanti sul piano sistematico e teorico, contenute nell’art. 2342: i) il rinvio agli artt. 2254 e 2255 c.c., vale a dire alle disposizioni dettate per i conferimenti in società di persone (co. 3, primo inciso); ii) la regola per cui le azioni corrispondenti ai conferimenti non in contanti devono essere integralmente «liberate» al momento della sottoscrizione (co. 3, secondo inciso); iii) il divieto di conferire nella s.p.a. «prestazioni di opera o di servizi» (ult. co.).

Il rinvio agli artt. 2254 e 2255 c.c. e la predetta regola sulla liberazione integrale sono presenti anche nella disciplina della s.r.l. (art. 2464, co. 5, c.c.). Viceversa, nella s.r.l. è possibile il conferimento di opere o servizi (art. 2464, co. 2 e 6, c.c.).

Si è già fatto cenno, nel contributo in materia di conferimenti in denaro, agli artt. 2254 e 2255, c.c. Conviene qui solo ricordare che, secondo un’opinione pressoché pacifica, le disposizioni dell’art. 2254 c.c. devono essere interpretate estensivamente, nel senso cioè di rimandare complessivamente – in quanto compatibili e non derogate dalle norme dettate nella sedes materiae – alla disciplina della vendita ed alla disciplina della locazione, rispettivamente per i conferimenti in proprietà e per quelli in godimento. Si può aggiungere che, in conseguenza di ciò ed in forza del principio consensualistico, si pongono le basi per l’attuazione in concreto della regola dell’integrale liberazione, perché con la sottoscrizione dell’atto costitutivo l’entità oggetto del conferimento passa in proprietà della società. Tuttavia, per il principio res perit domino, da un lato la società deve immediatamente procurarsi altresì l’apprensione materiale, dall’altro (per il comb. disp. del primo e del secondo inciso del co. 3 dell’art. 2342 e dell’art. 2254) non sono conferibili le entità che, in ragione delle loro caratteristiche ontologiche, non consentono la suddetta apprensione giuridica e materiale, espongono la società al rischio che l’entità perisca in capo ad essa per fatti addebitabili al socio (o a terzi) senza che la società abbia gli strumenti giuridici e fattuali per porvi rimedio reale e dunque non consentono l’integrale liberazione delle corrispondenti azioni.

Nonostante il rinvio, disposto dall’art. 2342 c.c. all’art. 2254, c.c. che regola anche il conferimento in godimento, nella s.p.a., diversamente da quel che accade nelle società di persone ed ormai anche nella s.r.l. (argomentando ex art. 2464, co. 2, c.c.), persistono i dubbi sulla conferibilità del godimento. Ciò perché mentre nelle società di persone (ed ora anche nelle s.r.l.) la disciplina del perimento della cosa conferita in godimento dal socio si completa con la possibilità di escludere il socio (art. 2286, co. 2, c.c.), nella s.p.a. da un lato ciò non è possibile, dall’altro non risolverebbe il problema dell’effettiva formazione del capitale, un’effettiva formazione che è necessaria e che però, in ipotesi di perimento della cosa conferita in godimento, subirebbe un definitivo vulnus. Sul punto si tornerà infra.

Della seconda e della terza delle disposizioni contenute nell’art. 2342, c.c. si può far cenno congiuntamente. L’ ultimo comma vieta, come si è detto, il conferimento di opere e servizi. Sulla lettera della norma e sul tenore del divieto vi è poco da dire, salvo la voluta ampiezza del richiamo alle “opere o servizi”, idoneo ad escludere tutto ciò che non verrebbe “trasferito” immediatamente alla società, ma da quest’ultima acquisito nel tempo e grazie alla continua collaborazione del soggetto obbligato.

La norma vale dunque a marcare, sull’argomento in esame, la netta differenza di disciplina ora esistente tra la società per azioni e la società a responsabilità limitata. Perché se nella seconda sono conferibili «tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica» (art. 2464, co. 2, c.c.), nella prima invece si impone una rigorosa selezione fra ciò che è e ciò che non è conferibile, basata non sulla possibilità o meno di attribuire all’entità oggetto del conferimento un valore economico (e neppure allora, implicitamente, di poter o meno utilizzare quell’entità ai fini dell’esercizio dell’attività imprenditoriale della società), ma appunto sulle indicazioni che emergono dalla disposizione del secondo inciso del terzo comma e da quella dell’ultimo comma dell’art. 2342, c.c.

3. La formazione del capitale. La conferibilità del godimento

Tema tuttora molto discusso è dunque quello della conferibilità. Da un lato, per le ragioni accennate e per realizzare “l’integrale liberazione” di cui si è detto, si impone una selezione fra ciò che è o non è conferibile (funzionale all’effettiva ed immediata formazione del capitale), dall’altro vi è il problema della valutazione (in denaro) delle entità conferibili diverse dal denaro (funzionale all’effettiva ed integrale formazione del capitale).

Affronteremo questo secondo punto in questo contributo, limitatamente alle regole dettate dall’art. 2343, c.c. (ed alle corrispondenti, ma non uguali disposizioni vigenti in tema di s.r.l.), rinviando ad altre voci sia il primo punto (la selezione dei beni conferibili), sia le deroghe che gli artt. 2343 ter e 2343 quater, c.c., introducono alle norme in tema di valutazione dettate dall’art. 2343, c.c.

Conviene qui, prima di procedere, riportare i dubbi che, come accennato, tuttora investono il conferimento in godimento e che, a ben vedere, riguardano non l’oggetto del conferimento, ma le regole negoziali dello stesso.

Occorre distinguere fra conferimento di godimento a titolo reale (per meglio dire: conferimento di un diritto reale di godimento) e godimento a titolo personale. A mio avviso è conferibile l’usufrutto, attesa la realità dello stesso, appunto, perché è possibile il trasferimento uno actu alla società ed è altresì possibile difenderlo erga omnes. L’intrinseca limitazione nel tempo del diritto di usufrutto gioca sul diverso piano della valutazione o se si vuole dell’appetibilità di un siffatto conferimento. Non è conferibile viceversa il godimento a titolo personale, perché l’acquisto delle “utilità” che ne sarebbero oggetto potrebbe dirsi effettivamente realizzato solo al termine del periodo di tempo concordato e solo se, durante tutto questo periodo, il godimento sarà stato pieno ed effettivo e ciò dipenderà dall’adempimento di un’ineliminabile (perché insita nello schema della locazione al cui archetipo la legge rinvia) obbligazione di fare del socio conferente. Il fatto che sia possibile che resti inadempiuto il conferimento in denaro, poi, da un lato non comporta che si possa solo per questo accettare un altro vulnus alla regola dell’effettiva formazione del capitale, dall’altro poggia su un’esplicita deroga di legge (non riprodotta, invece, per i conferimenti non in contanti) e dall’altro ancora prova troppo perché finirebbe con lo scardinare sia il dettato del secondo inciso, secondo comma, sia quello dell’ult. co. dell’art. 2342 c.c.

4. Le ragioni della relazione di stima e l’art. 2346

L’art. 2343 ha richiesto e richiederebbe fiumi di inchiostro, ma qui si vuol tracciare solo il filo conduttore della sua trama.

Intanto cosa prevede e perché lo prevede? Prevede che il socio che conferisce entità diverse dal denaro, deve presentare una relazione giurata di descrizione e di stima. La descrizione non è solo funzionale alla stima, ma ha invece, a mio avviso, un suo autonomo significato perché indica, aldilà del valore dei beni conferiti, se e quale utilità questi ultimi possono presentare per la gestione dell’impresa.

La previsione della stima risponde all’esigenza di essere sicuri, come si è già detto, per ragioni che trascendono quelle della società e dei soci, che il capitale sia effettivamente ed integralmente formato e che la società possa, sin dalla sua costituzione, disporre di “beni” il cui valore complessivo è pari almeno al “numero” indicato a capitale (salvo lo “sconto” che la legge prevede e di cui si dirà).

Bisogna essere certi di ciò e bisogna allora regolare l’eventualità che il valore dell’entità (diversa dal danaro) conferita non sia inferiore al valore a quella stessa entità «attribuito ai fini della determinazione del capitale e dell’eventuale sovrapprezzo». La formula ora adoperata dal legislatore risente di una delle più rilevanti novità introdotte dalla riforma, consacrata nell’art. 2346, co. 4, c.c.: si possono ora emettere azioni senza valore nominale e si può statutariamente prevedere che ai soci sia assegnato un numero di azioni non proporzionale alla parte del capitale sociale sottoscritta e per un valore inferiore a quello del loro conferimento.

Provo allora ad esprimere in sintesi la differenza fra ieri ed oggi in ordine al punto qui in esame. Ieri: se sottoscrivevo 10, il mio conferimento (non in contanti) doveva valere 10 (salvo lo “sconto” accennato). Il valore nominale delle azioni assegnatemi era anch’esso pari a 10. Oggi: il mio conferimento può valere 9 e, ciò nonostante, mi può essere consentito di sottoscrivere una quota di capitale pari a 10, se almeno un altro socio sia disposto ad accettare la situazione inversa (conferisce valore pari a 11 e sottoscrive capitale per 10).

Ciò, tuttavia, non comporta che vi sia una sola relazione di stima per tutti i conferimenti non in contanti, perché la legge continua a prevedere (forse per un difetto di coordinamento) che ciascun socio che conferisce entità diverse dal denaro è tenuto a presentare la relazione di stima del suo (e solo del suo) conferimento. Il controllo dell’integrale sottoscrizione del capitale spetterà ex post agli amministratori, alla luce della lettura delle varie relazioni di stima presentate dai soci che hanno conferito entità diverse dal denaro.

Sicché, alla luce dell’art. 2346 c.c., se l’esperto designato a norma dell’art. 2343 c.c., attesterà (contrariamente a quel che auspica il primo comma della norma) che il valore delle entità conferite da Tizio e da Caio non è pari al valore a quelle entità attribuito ai fini della determinazione del capitale sociale, potrebbe non innescarsi il successivo procedimento dell’art. 2343, c.c.: basterà che qualcuno conferisca quel che uno o più soci non hanno conferito e che però, ciò nonostante, si accontenti di sottoscrivere una quota di capitale inferiore al valore dell’entità che ha conferito.

Tutto ciò appare ripetibile per la s.r.l. L’art.2464, co.1, si apre infatti stabilendo in modo stentoreo: «Il valore dei conferimenti non può essere complessivamente inferiore all’ammontare globale del capitale». Senonché non è poi identica, come si dirà, la disciplina della stima dei conferimenti diversi dal danaro (art. 2465 c.c.).

5. Segue. La descrizione ed il momento di presentazione

Si può provare ora ad appuntare in ordine, per quanto possibile, cronologico gli adempimenti richiesti dall’art. 2343. Chi intende conferire entità diverse dal denaro, deve presentare la relazione giurata redatta da un esperto designato dal tribunale nel cui circondario ha sede la società e deve dunque, innanzi tutto, chiedere al tribunale la designazione di un esperto. Nella s.r.l., invece, la relazione di stima è redatta da un revisore legale o da una società di revisione scelti dal socio conferente, ciò che forse riduce un po’ le garanzie di indipendenza, ma consente, per altro verso, maggiore snellezza e rapidità.

Che il soggetto nominato sia davvero un “esperto” è problema che di certo coinvolge l’interesse sostanziale del socio conferente e della società, ma non la loro responsabilità. Spesso, ma non sempre, sarà sufficiente in proposito, almeno formalmente, attingere dagli albi professionali (se esistenti).

L’esperto, come già accennato, dovrà procedere in primo luogo alla «descrizione dei beni e dei crediti conferiti» (artt. 2343, co. 1 e 2465, co.1, c.c., in materia di s.r.l.). Perché la legge usa il plurale? Per mille motivi, ma non - è quello che nuovamente mi preme chiarire – perché una singola relazione possa o debba descrivere tutte le entità diverse dal denaro conferite da tutti i soci che non conferiscono denaro. Forse il plurale si giustifica perché ciascun socio potrebbe conferire non una sola, ma più entità diverse dal denaro, magari del tutto eterogenee fra loro (ed allora potrebbero occorrere più esperti) o forse, come qualcuno dice, perché la legge presuppone qui il conferimento (che maggiormente interessa i pratici come i teorici) e cioè quello di un’azienda che, appunto, immancabilmente di molti “beni” si compone (che dunque si presuppone che vengano analiticamente descritti). Circa il “quando”, cioè il momento in cui la relazione dovrà essere pronta, la legge dice, nell’ultimo periodo del primo comma dell’art. 2343 c.c. (come nell’ultimo inciso del co. 1 dell’art. 2465, c.c. per le s.r.l.), che essa, una volta giurata, deve essere allegata all’atto costitutivo, proprio perché in quel momento l’entità conferita viene acquisita dalla società e dunque in quel momento ne viene resa la valutazione.

6. Segue. La valutazione. Il controllo degli amministratori

Dopo la descrizione, la relazione di stima deve contenere l’attestazione, che deve essere preceduta dalla valutazione, che a sua volta deve essere preceduta dall’indicazione dei relativi criteri. Non muta, per questi aspetti, la disciplina della s.r.l. (art. 2465, co. 1, c.c.).

L’attestazione, che in ogni caso – anche cioè al fine del successivo e complessivo esame ex post che gli amministratori dovranno svolgere su tutte le relazioni eventualmente presentate – non può mancare, riguarda la comparazione fra due “valori”: da un lato quello dell’entità diversa dal denaro conferita e dall’altro quello della parte di capitale sottoscritta (o dal numero di azioni prive di valore nominale assegnate). Ma il primo valore è frutto di una valutazione e quest’ultima è frutto dei criteri scelti per renderla e dunque sia della correttezza di questa scelta, sia della capacità professionale dell’esperto di farne applicazione: dipende cioè da quanto l’“esperto” sia veramente tale.

L’esperto risponde dei suoi errori e dei danni a causa di questi ultimi procurati, a norma del co. 2 dell’art. 2343 c.c., nei confronti della società, dei soci e dei terzi. Responsabilità extracontrattuale, salvo quella nei confronti del socio che, sia pur attraverso la “mediazione” del tribunale, ha chiesto all’esperto (e con questi si è accordato per) l’attestazione. Risponde anche penalmente, come rispondono i periti, a mente dell’art. 64 c.p.c.

È bene sottolineare ancora l’importanza dei “criteri” adottati dall’esperto: valutazione e attestazione si reggono su questi ultimi e dunque coloro che volessero o dovessero (nelle successive fasi del controllo e della revisione) esprimere un proprio giudizio sull’attestazione, dovranno previamente esprimersi sulla corretta scelta e la corretta applicazione dei criteri.

L’attestazione, per quanto qui interessa, può avere due esiti. Il primo è che affermi che il valore delle entità (diverse dal denaro) oggetto del conferimento del socio e della valutazione dell’esperto, è almeno pari (o magari superiore) all’importo per cui il socio ha sottoscritto il capitale sociale (se del caso aumentato del sopraprezzo).

Il secondo è ovviamente quello contrario e cioè che l’esperto attesti che il primo valore è inferiore al secondo.

In entrambi i casi, tuttavia, una volta iscritta nel registro la società sulla base delle valutazioni contenute nella relazione dell’esperto, gli amministratori devono “controllare” quelle valutazioni (nel termine su cui si tornerà).

Non convince la scelta di affidare il controllo di un qualcosa elaborato da un esperto a soggetti che tali non sono (o non lo sono necessariamente). Come lo fanno questo controllo gli amministratori e quali garanzie può dare il loro controllo? Devono affidarsi ad un altro esperto da loro prescelto, anche in ossequio alla diligenza professionale che su di loro incombe ed alla consapevolezza delle loro «specifiche competenze» (art. 2392, co. 1, c.c.)? Se così fosse non sarebbe stato meglio dirlo esplicitamente?

7. La revisione della stima

Tant’è. La legge vuole che il controllo lo facciano gli amministratori (probabilmente) “inesperti” ed è da questo controllo che possono emergere o meno i “fondati motivi” che porterebbero alla revisione. I fondati motivi poi, altro non sono (non possono essere) che evidenti errori o insufficienti argomentazioni contenuti nella relazione dell’esperto. Per giunta tutto ciò deve essere “fondato”, deve cioè trovare un fondamento tecnico, logico o giuridico.

Ma le cose si aggravano se si volge lo sguardo all’ultimo step di questo percorso di valutazione e, soprattutto, a come gli interpreti lo decodificano; i fondati motivi (individuati dagli amministratori) emersi da un controllo (affidato agli amministratori) impongono, come accennato, la revisione, anch’essa di competenza degli amministratori. E così l’architettura barocca del procedimento di valutazione si traduce nell’inaffidabilità del risultato ultimo ed in ogni caso in costi e lungaggini del tutto inutili.

Perciò (ed anche perché si incide in definitiva su diritti soggettivi) tempo fa sostenni, aderendo ad un’autorevole (ma isolata) dottrina, che la revisione doveva avvenire attraverso l’intervento dell’autorità giudiziaria e perciò lo continuo a sostenere, pur consapevole dei tempi e degli inconvenienti che questa strada comporterebbe. Non riesco a convincermi della ragionevolezza di amministratori che sottopongono a “revisione” quel che già hanno sottoposto a “controllo”, senza aver (necessariamente) particolare qualificazione professionale per esperire né l’uno, né l’altra.

Certo si potrebbe impugnare la delibera consiliare di revisione o agire in responsabilità nei confronti degli amministratori, ma allora i tempi e/o gli inconvenienti di un contenzioso ugualmente non mancherebbero e potrebbero rivelarsi ancor più difficili per chi intenda lagnarsi della revisione e molto più “fastidiosi” per la società. Fortunatamente, tuttavia, mentre il “controllo” è doveroso, la “revisione” non lo è e dunque normalmente non la si fa (ed è perciò che non si registrano sentenze che la dispongano o comunque la prendano in considerazione).

La revisione è facoltativa, ma se ben comprendo è però, secondo un orientamento di pensiero, indispensabile per “accedere” ai rimedi di cui parla l’ult. co. dell’art. 2343 c.c., e cioè per stabilire che il valore delle entità conferite è «inferiore di oltre un quinto a quello per cui avvenne il conferimento». Non condivido questa conclusione, anche alla luce del principio di stabilità e delle esigenze di celerità qui presenti. È vero, infatti, che l’esito del controllo potrebbe lasciar ancora dubbi, ma è vero anche che, al contrario, l’esito del controllo potrebbe non sollevare alcun dubbio, non solo nel senso di condividere la valutazione dell’esperto, ma anche nel senso di discostarsi da essa in questa o quella misura. Come con delibera consiliare gli amministratori dovrebbero recepire gli esiti della revisione, facendola propria e dunque esponendo la delibera ad impugnazione ex art. 2388, c.c. e loro stessi a responsabilità, allo stesso modo con delibera consiliare e con gli stessi effetti potrebbero recepire l’esito del controllo ed attribuire (nella seconda, come nella prima ipotesi) all’entità non in denaro conferita un valore inferiore in questa o quella misura alla valutazione dell’esperto. E se la revisione, come si postula pressoché unanimemente, altro non è che un mero atto degli amministratori, aumenterebbe la simmetria strutturale fra le due ipotesi e dunque si rafforzerebbe la conclusione (anch’essa isolata, mi sembra) qui proposta: che cioè la revisione non è necessaria, neppure in funzione dei “rimedi” previsti dall’ult. co.dell’art. 2343 c.c., tutte le volte che gli amministratori non nutrano “fondati motivi” per dubitare del già svolto controllo, quale che sia stato l’esito dello stesso.

Nella s.r.l. l’art. 2465, c.c., non prevede né controllo, né revisione, ma si ritiene comunque doveroso un controllo da parte degli amministratori.

8. I rimedi. La riduzione del capitale

Se all’esito di questo iter risulta che il valore da attribuirsi al conferimento è inferiore di oltre un quinto rispetto al valore originariamente attribuito dall’esperto, il rimedio “naturale” è la corrispondente riduzione del capitale, con il conseguente annullamento delle azioni. Le alternative, facoltative ed opportune, sono due: che il socio conferente versi la differenza in denaro; che il socio conferente receda. La scelta fra l’una e l’altra è rimessa al socio.

La riduzione del capitale, pur enunciata dalla lettera del codice come prima conseguenza, è però, come si è visto, residuale e può attuarsi con due diverse modalità. In altri termini, se l’atto costitutivo non contiene la clausola di cui all’art. 2343, co. 4, c.c., la riduzione (che nell’ipotesi in esame è divenuta obbligatoria) avverrebbe con le modalità di cui all’art. 2446, c.c. e però senza attendere la chiusura dell’esercizio. La conseguenza è l’annullamento delle «azioni che risultano scoperte» e cioè non tutte quelle sottoscritte dal socio, ma solo quelle rappresentative della parte del valore del conferimento che è risultato mancante. Non sarà lecito, cioè, “espropriare” per intero al socio le azioni sottoscritte, perché il conferimento è stato effettuato, sia pure di valore ridotto.

La modalità alternativa di riduzione dipende, come accennato, dall’esistenza nello statuto di un’apposita clausola che, ricollegandosi alle previsioni dell’art. 2346 c.c., consenta una «diversa ripartizione tra i soci» delle azioni: in tal caso, in altri termini, l’annullamento delle azioni potrebbe non colpire solo o non colpire affatto il socio che ha conferito entità diverse dal denaro, ma anche o solo gli altri soci.

9. Segue. Il recesso del socio

Come detto, la riduzione del capitale può essere evitata (o meglio, può essere evitata la riduzione prevista dalla norma come effetto immediato e diretto dell’esito negativo della revisione) se il socio versa la differenza in denaro o esercita il recesso.

Sulla prima scelta nulla mi sembra che vi sia da aggiungere. La seconda presenta a sua volta due alternative: la restituzione dell’entità conferita o la liquidazione in denaro della quota. La prima è una facoltà del socio, che non è invece obbligato a subirla e dunque potrebbe decidere di non esercitarla. Comunque, la restituzione può avvenire, dice la legge, “qualora sia possibile”: per mille motivi quella restituzione potrebbe infatti non essere più oggettivamente possibile, specie se si considera che durante questo lungo procedimento di valutazione dei conferimenti diversi dal denaro, la società avrà esercitato la sua attività di impresa e l’entità conferita potrebbe allora essere già stata irreversibilmente coinvolta nel ciclo produttivo. Direi anzi, più chiaramente, che l’impossibilità di restituzione non deve ancorarsi a meri dati oggettivi o alla natura delle cose, ma può anche riferirsi alle scelte gestionali già assunte dalla società e relazionarsi alla necessità di conseguimento dell’oggetto sociale.

Veniamo allora all’altra possibile conseguenza del recesso, vale a dire la liquidazione (in denaro) della quota. Poiché la legge parla di recesso, senza alcuna ulteriore specificazione, si possono applicare, quanto agli effetti della dichiarazione del socio, gli artt. 2437-bis e ss. c.c.; poiché però si tratta di un’ipotesi estranea al catalogo contenuto nell’art. 2437 c.c. ed inserita in un particolare procedimento, è opportuno verificare la compatibilità delle norme dettate nella sedes materiae del recesso con quelle di cui all’art. 2343 c.c. A tal fine occorre a questo punto sospendere il discorso sugli effetti del recesso ed affrontare quello relativo all’inciso finale del co. 3 dell’art. 2343 c.c.: «[f]ino a quando le valutazioni non sono state controllate, le azioni corrispondenti ai conferimenti sono inalienabili e devono restare depositate presso la società».

Due sono le esigenze sottese a questa disposizione. La prima è evidente: poiché all’esito di controllo e revisione, le azioni di chi ha conferito entità diverse dal denaro potrebbero essere annullate, è bene evitare che le stesse vengano messe in circolazione, con i problemi che ne conseguirebbero. Di qui il vincolo di inalienabilità e, per maggior sicurezza, il deposito obbligatorio di quelle azioni presso la società. La seconda esigenza sottesa a questa disposizione emerge invece se la si legge in uno con la prima parte dello stesso terzo comma in esame: «Gli amministratori devono, nel termine di centottanta giorni dalla iscrizione della società, controllare le valutazioni» dell’esperto e, se sussistono fondati motivi, «devono procedere alla revisione della stima».

La presenza di un termine oggettivamente non lungo (e che, in punto di fatto, potrebbe diventare breve o brevissimo, come si vedrà) ci dice che il legislatore, se da un lato si preoccupa di assicurare l’integrale copertura del capitale, dall’altro si preoccupa altresì di non sacrificare troppo a lungo la posizione del socio conferente e di contenere nel tempo un “innaturale” vincolo di inalienabilità imposto a titoli connotati proprio, in linea generale, dalla destinazione alla circolazione.

Alla luce di questa complessiva ratio del co. 3 dell’art. 2343 c.c., è sorto (e persiste) il dubbio su cosa debba avvenire entro i centottanta giorni. Le possibili soluzioni sono tre: a) deve esaurirsi il mero controllo; b) deve esaurirsi il controllo ed iniziare la successiva revisione; c) deve altresì compiersi ed esaurirsi la revisione.

Benché la prima soluzione sia quella più coerente con la lettera della legge, che così non verrebbe forzata, e la terza quella più coerente con la sua ratio, che così verrebbe fino in fondo assicurata, è invece la seconda quella prevalente in dottrina perché sembra assicurare un maggior equilibrio fra le due “anime” dell’inciso finale del co. 3 dell’art. 2343, c.c.

Già cosi, allora, come si vede, il termine di centottanta giorni si accorcia sensibilmente e diventerebbe decisamente breve qualora si aderisse invece alla terza delle soluzioni prospettate.

Il punto è che, tuttavia, pur se si volesse dire che entro centottanta giorni deve essere portata a compimento (anche) la revisione, potrebbe risultare in definitiva vanificata la finalità cui la norma tende: perché trascorso quel termine deve cessare il sacrificio imposto al socio conferente e l’innaturale vincolo di inalienabilità.

10. Segue. Esercizio del recesso e inalienabilità delle azioni

Occorre qui considerare due cose. La prima è che sia il controllo, sia la revisione sono attività rimesse agli amministratori (secondo la tesi prevalente in dottrina, come si è detto innanzi) e devono allora essere consacrate in una delibera consiliare: solo da quel momento gli esiti di controllo e revisione divengono “ufficiali” e sono efficaci nei confronti dei soci.

La seconda cosa da considerare chiude il cerchio, perché riguarda appunto la compatibilità degli effetti del recesso con la ratio di fondo dell’art. 2343, c.c. ed in particolare con l’utile funzionamento dei rimedi previsti dal suo ultimo comma.

Provo ad esprimere in sintesi la mia preoccupazione. Chiuso il controllo o chiusa anche la revisione, l’inalienabilità cessa, secondo la lettera della norma. Ma chiusa la revisione al socio deve essere consentita la scelta fra silenzio, versamento della differenza e recesso. Per effettuare questa scelta il socio ha bisogno di un termine, breve o lungo che sia (ma comunque adeguato), e di conoscere il valore di liquidazione della quota in ipotesi di recesso. Il controllo e/o la revisione si possono dire conclusi quando sono consacrati in una delibera consiliare e può allora ritenersi che in questa stessa delibera debba essere indicato (art. 2437-ter, co. 2, c.c.) il valore di liquidazione delle azioni. Da questo momento scattano, stando alla lettera della legge, due effetti tra loro contraddittori: da un lato cessa l’inalienabilità delle azioni (sicché non troverebbe fondamento normativo il rifiuto di consegnarle al socio), dall’altro inizia a decorrere il termine da concedere al socio per scegliere cosa fare. Durante il decorso di questo termine, per quanto breve lo si voglia immaginare, il socio, anziché scegliere fra le opportunità che la legge gli consente, potrebbe optare per un’altra, proprio quella che la legge vorrebbe evitare: alienare le proprie azioni.

Non vi è soluzione, se non forzare la lettera della legge o consentire che ne venga aggirata la ratio. Scelgo la prima via e credo dunque che nei centottanta giorni di cui parla l’inciso iniziale del co. 3 dell’art. 2343 c.c., non solo deve essere assunta la delibera consiliare che fa propri gli esiti sfavorevoli del complessivo iter di rivisitazione della valutazione dell’esperto, ma deve essere altresì compreso il termine per consentire al socio di scegliere consapevolmente cosa fare e dunque, in mancanza di appigli normativi cui agganciarne altri, quello di quindici giorni (previsto in tema di recesso dall’art. 2437-bis, co. 2, c.c.) dalla iscrizione (e dalla comunicazione) della predetta delibera consiliare, che è quella da cui nasce la facoltà di recedere.

Per il resto l’applicazione al caso di specie degli effetti del recesso di cui agli artt. 2437-bis e ss., c.c. non solleva particolari problemi. Resta però da notare che, anche per questa via, non si sfugge al rischio della riduzione del capitale: è quel che accadrà se né gli altri soci, né terzi siano disponibili ad acquistare le azioni del socio conferente, né vi siano riserve a tal fine utilizzabili della stessa società.

In verità è stato detto che le chances che l’art. 2437-quater, c.c. offre al fine di evitare la riduzione del capitale, non sarebbero applicabili al recesso previsto nell’ult. co. dell’art. 2343, c.c., perché in tal caso si dovrebbero necessariamente annullare le azioni che, dunque, non potrebbero essere offerte ai soci o a terzi (e neppure acquistate dalla società) perché estinte. Non condivido queste conclusioni: l’annullamento delle azioni è collegato, nella lettera dell’ult. co. dell’art. 2343, c.c., alla riduzione del capitale e questa è conseguenza solo residuale dell’esito infausto di controllo e revisione ed all’ipotesi che il socio non scelga alcuna delle ipotesi alternative che la legge appresta.

Il che significa che se il socio esercita il recesso, si deve escludere la riduzione del capitale e dunque anche l’(immediato) annullamento delle azioni. Altrimenti, il recesso in altro non si risolverebbe che nello stesso risultato, la riduzione del capitale, che invece si pone nella norma come un’alternativa (peraltro la meno preferibile, anche per la società).

11. Differenze di disciplina nella s.r.l.

Ferme le peculiarità già segnalate, la disciplina della s.p.a. e quella della s.r.l., in tema di conferimenti non in denaro, divergono anche per altri aspetti e la seconda resta alquanto lacunosa.

In particolare, una volta depositata la relazione di stima ed ammesso che, pur nel silenzio della legge, sia anche qui doveroso un controllo da parte degli amministratori, cosa accade se il valore dell’entità conferita risulti inferiore rispetto alla quota di capitale sottoscritta? Credo di poter affermare con tranquillità che ormai, attesa la distanza che intercorre tra la s.p.a e la s.r.l., non è applicabile analogicamente a quest’ultima, almeno in linea generale, la peculiare disciplina dell’art. 2343, c.c., in particolare per tutto quel che viene dopo il controllo degli amministratori sulla stima conclusosi con il rilievo della non corrispondenza tra valore dell’entità conferita e quota di capitale sottoscritta.

Non appare applicabile in proposito la disciplina dell’art. 2466 c.c., perché vige anche qui (art. 2464, co. 5, c.c.) la regola dell’integrale liberazione, sin dalla costituzione della società, delle quote corrispondenti ai conferimenti non in denaro e perché manca la previsione di una soglia dello scostamento in minus tra valore del conferimento e quota di capitale sottoscritto (come invece per il “quinto” ex art. 2343, co. 4, c.c.) solo oltre la quale scatti l’obbligo di provvedere. Con la conseguenza, allora, che qualunque scostamento in minus del valore dell’entità conferita rispetto alla quota di capitale sottoscritto comporta una violazione della regola di cui al co. 5 dell’art. 2464, c.c. e dunque l’obbligo di ridurre corrispondentemente il capitale. Si può solo ammettere che al socio sia consentito, perché sembra poter discendere dai principi generali, di colmare in denaro la differenza e si deve naturalmente consentire al socio, in presenza di un controllo degli amministratori che riduce a suo danno il valore risultante dalla stima, di contestare in giudizio l’esito del controllo stesso.

Fonti normative

Artt. 2254, 2255, 2342, 2343, 2346, 2464, 2465, 2519, c.c.

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