Concussione 1. Costrizione indebita a dare o promettere utilità

Diritto on line (2014)

Giacomo Forte

Abstract

Viene esaminata la struttura del delitto di concussione così come riformulato dalla l. 6.11.2012, n. 190. In particolare, si dà conto della nuova formulazione dell’art. 317 c.p. che punisce il delitto di concussione nella sola forma della costrizione posta in essere dal pubblico ufficiale. Non viene invece più prevista come condotta di concussione per costrizione quella posta in essere dall'incaricato di un pubblico servizio. Essendo invece la condotta di induzione autonomamente considerata nel delitto di cui all’art. 319 quater c.p., introdotto con la l. n. 190/2012, diviene problema rilevante l'analisi degli spazi applicativi che sono stati attratti da tale ultima norma, specie se si consideri che solo nel delitto di cui all'art. 317 c.p. il privato è persona offesa del reato.

Premessa

L’art. 317 c.p. punisce con la reclusione da 6 a 12 anni la condotta del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri,costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro od altra utilità.

Quello in commento costituisce il delitto più grave fra quelli commessi dai pubblici agenti contro la p.a., tanto che per esso è previsto il più rigoroso trattamento sanzionatorio (trattamento inasprito ad opera della l. 6.11.2012, n. 190, a fronte della originaria previsione di un minimo edittale pari a 4 anni). Esso, infatti, compenetra in sé «in una sintesi pesantemente negativa» il disvalore dato dall’abuso del soggetto pubblico con quello legato alla lesione della libertà di autodeterminazione del privato, costretto o indotto al compimento di un atto per sé pregiudizievole (Romano, M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, in Commentario sistematico al codice penale, II ed., Milano, 2006, 92).

Nella sua originaria formulazione la norma puniva nell’ambito dell’art. 317 c.p. le condotte del pubblico ufficiale e dell’incaricato di un pubblico servizio che, abusando delle sue qualità o dei suoi poteri, costringeva o induceva il privato a dare o promettere, a lui o a un terzo, denaro od altra utilità. La l. n. 190/2012 (disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), pubblicata nella G.U. del 13.11.2012 ed entrata in vigore dal successivo 28.11) ha “sdoppiato” in due distinte ipotesi criminose le condotte di costrizione e di induzione, introducendo l’art. 319 quater c.p. (induzione indebita a dare o promettere utilità), nella quale è sanzionata con una pena inferiore alla riformulata concussione (con la reclusione da 3 a 8 anni) la condotta del « pubblico ufficiale o (del) l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo denaro o altra utilità». Dunque, non solo la condotta di induzione prende forma in una autonoma ipotesi di reato, ma si assiste al venir meno di una specifica previsione, quale ipotesi di concussione, della costrizione posta in essere dall’incaricato di un pubblico servizio.

Collocazione sistematica del reato e problematiche relative al bene giuridico tutelato

Per la sua collocazione nel capo I del titolo secondo del codice penale, il delitto di concussione si inscrive a pieno titolo nei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Anzi, esso rappresenta il delitto del pubblico ufficiale per eccellenza che strumentalizza i poteri e le qualità del suo ufficio per costringere il privato a dargli o promettergli una utilità non dovuta.

In quest’ottica si comprende la diffusa opinione secondo cui quello di concussione è delitto che danneggia innanzitutto la p.a.: da una iniziale affermazione secondo cui bene giuridico tutelato del delitto fosse il prestigio della p.a. (Antolisei, F., Manuale di diritto penale, parte speciale, II ed., 1986, 778) si è andato sempre più consolidando l’idea secondo cui oggetto di tutela fosse il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte speciale, I, III ed., 2002, 205; Pagliaro, A., Principi di diritto penale, parte speciale, I delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, IX ed., 2000, 106; Contento, G., La Concussione, Milano, 1970, 7 ss.; Fornasari, G., Sub Art. 317 - Concussione, in Bondi, A.-Di Martino, A.-Fornasari, G., Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 2004, 169; Palombi, E., La concussione, Torino, 1998, 117; in giurisprudenza, Cass.., S.U., 11.5.1993, n. 7, in Riv. pen. economia, 1994, 248; Cass. pen., 12.7.2001, in Cass. pen., 2002, 1394).

A tale impostazione si affianca altra che tende, ulteriormente, a valorizzare anche gli interessi della vittima (tale prospettiva è da ultimo rivalutata da Benussi, C., I delitti contro la P.A. I delitti dei pubblici ufficiali, in Marinucci, G.-Dolcini, E., diretto da, Trattato di diritto penale. Parte speciale, I, t. I, Padova, 2013, 506; Cerquetti, G., Tutela penale della P.A. e tangenti, Napoli, 1996, 41; in giurisprudenza cfr. Cass. pen., 10.10.1992, in Cass. pen., 1993, 1731; Cass., S.U., 24.10.2013, n. 12281), con specifico riferimento alla sua libertà di autodeterminazione. In quest’ottica, l’essenza della concussione (quella di cui all’art. 317 c.p.) viene incentrata nella strumentalizzazione da parte del p.u. della propria qualità o dei poteri ad essa inerenti, attraverso cui si realizza la limitazione della libertà di autodeterminazione del privato che viene, conseguentemente, costretto ad effettuare la prestazione indebita.

In tal modo si spiega il perché la strumentalizzazione nel delitto di concussione viene presa in considerazione a tutto campo senza il riferimento ad uno specifico atto. Anzi, è proprio nella dimensione di vittima che assume il privato che può cogliersi con maggiore efficacia la diversa portata dell’offesa al buon andamento ed all’imparzialità della p.a. che caratterizza il reato rispetto alle diverse ipotesi di corruzione laddove è in gioco solo la lesione del buon andamento e dell’imparzialità della p.a.

I soggetti del reato

Quello di concussione è reato proprio, il cui soggetto attivo può essere soltanto il pubblico ufficiale. Con la l. n. 190/2012 si è ritornati alla originaria formulazione, precedente alla l. 26.4.1990, n. 86, in quanto gli incaricati di un pubblico servizio sono stati esclusi dal novero dei soggetti attivi del reato in considerazione dell’importanza limitata, della modestia delle loro attribuzioni e della ritenuta impossibilità da parte loro di compiere opera di coazione nei confronti dei privati con cui vengono a contato.

A ben vedere la l. n. 86/1990 aveva inteso ovviare a tale vuoto di tutela ritenendo che il delitto di concussione «consta di una condotta aggressiva che può essere compiutamente realizzata anche dall’incaricato di un pubblico servizio, soggetto questo che..ha possibilità di abusare delle proprie mansioni a danno del cittadino» (Relazione al disegno di legge Gonnella presentato nella seduta del 6.4.1968 alla Camera dei Deputati, in Riv. it. dir. proc. pen., 1969, 348)

L’ultima formulazione ha invece riaffermato il principio per cui solo il pubblico ufficiale è in grado di ingenerare il metus publicae potestatis (Severino, P., La nuova legge anticorruzione, in Dir. pen e proc., 2013, 9), difettando in capo all’incaricato di un pubblico servizio poteri coercitivi tipici della pubblica funzione.

Tale scelta dovrà naturalmente fare i conti con la progressiva dilatazione giurisprudenziale della categoria degli incaricati di pubblico servizio, all’interno della quale vengono ricondotte figure rispetto a cui appare difficile escludere l’esistenza di poteri coercitivi propri della pubblica funzione (per le critiche in tal senso cfr. Seminara, S., I delitti di concussione ed induzione indebita, in Mattarella, B.G.-Pelissero, M., a cura di, La legge anticorruzione, Torino, 2013, 388). Alla luce di tali ultime osservazioni si comprende l’orientamento espresso di recente dalla Suprema corte.

Invero, il fatto che l’art. 317 c.p. non contempli più la figura dell’incaricato di un pubblico servizio quale possibile autore del reato non comporta l’avvenuta de-criminalizzazione della condotta di costrizione, individuandosi un fenomeno successorio fra l’art. 317 c.p. ed il delitto di estorsione aggravata dall’abuso di qualità, essendo quest’ultima norma generale rispetto alla prima (Palazzo, F., Gli effetti preterintenzionali delle nuove norme penali contro la corruzione, in Mattarella, B.G.-Pelissero, M., a cura di, La legge anticorruzione, cit., 18; Cass. pen., 25.2.2013 n. 13047). Resta problema rimesso al giudice nella valutazione del caso concreto stabilire quale sia il trattamento più favorevole da applicare (cfr. relazione del Massimario della Cassazione sulla giurisprudenza in materia di concussione e induzione indebita alla luce della l. n. 190/2012, pubblicata sul sito www.cortedicassazione.it/Notizie/Notizie.asp).

La qualità di pubblico ufficiale deve sussistere al momento della commissione del delitto. Non si può avere concussione, infatti, se al momento della commissione del reato il soggetto non era ancora investito (Romano, M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, 93). La dottrina dominante ritiene in ogni caso la configurabilità del reato in capo al funzionario di fatto (ad es. v. Di Giovine, O., Le qualifiche pubblicistiche, in Manna, A., a cura di, Materiali sulla riforma dei reati contro la Pubblica Amministrazione. La tutela dei beni collettivi. I delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., Padova, 2007, 431), sempreché lo stesso eserciti effettivamente, seppur di fatto, quei poteri di cui egli abusae sempreché il concreto esercizio non abbia ragione in una usurpazione di pubbliche funzioni (mancando, in tale ultimo caso, la possibilità di imputare gli effetti degli atti posti in essere dall’usurpatore alla P.A.: così cfr. Pioletti, G., Concussione, in Dig. pen., III, Torino, 1989, 5; Contento, G., La concussione, cit. 35 ss.; Marini, G., Concussione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1995, 2). Polo di riferimento della condotta abusiva del p.u. è «taluno», da intendersi come il privato che viene a contatto con l’agire della p.a. e che, in conseguenza della costrizione, dà o promette alcunché. Da ciò consegue che quello di concussione può essere definito come reato a concorso necessario “in senso improprio”, dove, cioè, per la sua configurazione è necessario l’apporto di almeno due soggetti, dei quali uno solo sarà penalmente punibile.

Elemento oggettivo

L’abuso delle qualità o dei poteri

L’art. 317 c.p. individua quale elemento espresso della concussione l’abuso da parte del p.u. delle sue qualità o dei suoi poteri. A differenza di quanto accade in altri delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a. nel caso di specie l’abuso dell’ufficio o del servizio è previsto come elemento costitutivo espresso del reato perché costituisce il mezzo per facilitare e rendere più efficace ‘l’intimidazione’.

In quest’ottica ben si spiega l’orientamento di parte della dottrinache fa riferimento all’elemento dell’abuso per cogliere la diversità significativa con la fattispecie di corruzione (Contento, G., La concussione, cit., 110 ss.). Si evidenzia, infatti, che nella concussione «il pubblico ufficiale ha compiuto un atto costituente estrinsecazione dell’abuso funzionale, o, quanto meno, ne abbia prospettato il compimento»; nella corruzione, viceversa, «il pubblico ufficiale compirebbe un atto (o comunque dichiarerebbe di essere pronto a compierlo) costituente violazione dei suoi doveri funzionali» (Contento, G., La concussione, op. ult. cit.). Condividendo tali considerazioni, non può essere certamente accolta una lettura riduttiva della nozione di abuso che lo riconduca al mero uso dell’ufficio per fini illeciti o ad una mera “nota modale” dell’azione esecutiva, o, ancora, ad un “presupposto” del reato.

Ciò premesso, può allora certamente ritenersi come l’abuso individui nell’economia della fattispecie un elemento costitutivo avente la funzione di delimitare e specificare la condotta di costrizione: sono idonee ad integrare la fattispecie di concussione solo quelle costrizioni che sono espressione dell’abuso della qualità o dei poteri (in tal senso la dottrina prevalente: cfr. Benussi, C., I delitti contro la P.A. I delitti dei pubblici ufficiali, cit., 512; Cerquetti, G., Tutela penale della P.A. e tangenti, cit., 50; Contento, G., Concussione, cit., 25; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte speciale, I, cit., 209; Fornasari, G., Sub Art. 317 - Concussione, cit., 171; Romano, M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, cit., 95; Seminara, S., Sub 317, in Crespi, A.-Stella, F.-Zuccalà, G., Commentario breve al codice penale, Padova, 2003, 906; la valorizzazione del requisito dell’abuso è riscontrabile anche in giurisprudenza: cfr. Cass. pen., 20.11.2002, in Cass. pen., 2005, 1246; Cass. pen., 4.11.2004).

In quest’ottica, può certamente escludersi il reato di concussione – e ritenersi, eventualmente, un diverso reato – nell’ipotesi in cui il p.u., per ottenere la dazione del denaro, non costringa il privato avvalendosi dei poteri o delle qualità inerenti al suo ufficio ma minacciandolo con la pistola di ordinanza.

Sempre in quest’ottica, parte della dottrina ha correttamente ritenuto che la configurabilità del delitto di concussione postuli un reale «abuso dei poteri» e non una mera «violazione dei doveri d’ufficio» (Benussi, C., I delitti contro la P.A. I delitti dei pubblici ufficiali, cit., 513). Venendo ad occuparci delle nozioni di abuso di qualità e di abuso di poteriva innanzitutto precisato come la loro previsione alternativa da parte del legislatore lascia chiaramente intendere la valenza omogenea ad esse attribuita nell’economia della fattispecie. Questo lascia ovviamente sfumare tutti gli sforzi interpretativi volti ad attribuire una netta distinzione fra i due concetti.

Il criterio tradizionalmente accolto nella distinzione fra i due concetti fa riferimento alla “competenza”, nel senso che solo l’abuso dei poteri e non quello delle qualità postulerebbe il collegamento all’esercizio dei poteri (Antolisei, F., Manuale di diritto penale, parte speciale, II, XIII ed., Milano, 2000, 307; in giurisprudenza, cfr. Cass. pen., 20.1.2003, in Cass. pen., 2004, 2808). Di qui, l’orientamento più diffuso individua l’abuso delle qualità allorché il p.u. faccia ‘pesare’ sul privato il proprio status – sia dichiarandolo espressamente senza ragione, sia evidenziandolo chiaramente nel proprio comportamento (nel senso che l’abuso di qualità si evidenzi nella strumentalizzazione della propria qualità soggettiva attraverso la prospettazione – come detto, anche implicita – della possibilità di un esercizio dei poteri, cfr. Romano, M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, 96; Contento, G., Sub art. 317, cit., 517; Seminara, S., Sub 317, cit., 906; Cerquetti, G., Tutela penale della P.A. e tangenti, cit., 68; Fornasari, G., Sub Art. 317 - Concussione, cit., 173), sempreché la prospettazione abbia efficacia motivante dal punto di vista psicologico sul privato e si qualifichi in termini di ingiustizia.

Muovendosi in tale prospettiva, la giurisprudenza ha escluso che per la sussistenza del reato sia necessario che la coartazione rifletta la competenza specifica funzionale del p.u. atteso che ciò che rileva è che la qualità soggettiva, ben nota al privato, renda credibile ed avvalori la sua condotta rendendola idonea a coartare il privato ad effettuare la dazione o la promessa indebite (Cass. pen., 19.1.1998, in Cass. pen., 1998, 3246). A sua volta, l’abuso di poteri è ravvisabile allorché il p.u. faccia un uso illegittimo delle attribuzioni del suo ufficio al fine di costringere il privato ad una dazione o promessa indebite(in generale, cfr. Fornasari, G., Sub Art. 317 - Concussione, cit., 171; Benussi, C., I delitti contro la P.A. I delitti dei pubblici ufficiali, cit., 514). Si ha così abuso dei poteri quando il p.u. utilizzi i suoi poteri al di là dei limiti stabiliti (Cass. pen., 13.11.1986, in Riv. pen., 1987, 981), ovvero per fini diversi da quelli legittimamente attribuiti (Cass. pen., 13.10.1992, in Cass. pen., 1994, 301; Cass. pen., 17.3.1995, in Riv. pen., 1996, 100)o, ancora, non utilizzandoli (Cass. pen., 9.7.1992) o, infine, usandoli in violazione delle regole giuridiche di imparzialità, legalità e buon andamento (Benussi, C., I delitti contro la P.A. I delitti dei pubblici ufficiali, cit., 514).

La costrizione

Nell’originaria formulazione la costrizione, affiancandosi all’induzione, rappresentava, in via alternativa, la condotta che il p.a., abusando delle sue qualità o dei suoi poteri, compiva per ottenere dal soggetto passivo la dazione o la promessa indebite. In tal modo il Codice Rocco unificava le due ipotesi in un unico reato, equiparando le stesse dal punto di vista sanzionatorio, rappresentando, evidentemente, nella sua ottica, due specie equivalenti di una stessa “iniuria” commessa, per l’appunto, “aut vi, aut fraude” (Pagliaro, A., Principi di diritto penale, parte speciale, I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 115). La l. n. 190/2012 ha invece sdoppiato le due condotte, limitando la fattispecie più grave di cui all’art. 317 c.p. alle sole ipotesi di costrizione, confluendo invece le meno gravi condotte di induzione nella più blanda fattispecie di cui all’art. 319 quater c.p.

Venendo alla disamina del significato della condotta di costrizione, tradizionalmente si afferma che “costringere” significa: adottare un qualsiasi mezzo idoneo ad una coercizione effettiva, non importa se diretta o indiretta, di carattere pubblico o privato; esercitare con violenza o minaccia una pressione su di una persona, in modo da alterare il processo formativo della sua volontà, e determinarla ad un’azione diversa da quella che altrimenti avrebbe compiuto ovvero obbligare altri a tenere un comportamento che altrimenti non si sarebbe tenuto o si sarebbe tenuto con altre modalità.

In quest’ottica, rappresentano condotte sicuramente idonee ad integrare la costrizione tanto la violenzaquanto la minaccia,intesa come prospettazione di un male futuro e ingiusto che dipende dall’agente cagionare. Il male minacciato deve costituire l’alternativa al comportamento che si pretende dalla vittima in modo che quest’ultima sia posta nella scelta di tenere il comportamento richiesto o subire l’evento che si è minacciato.

La costrizione che integra il delitto di concussione è solo quella che si connota in relazione all’abuso delle qualità o dei poteri. Integrerà dunque la concussione solo quella particolare forma di costrizione che si estrinsechi nella prospettazione alla vittima di un male derivante dall’abuso del p.u. In questa prospettiva si coglie il recente orientamento espresso dalla Suprema corte per cui non rientrerebbe nell’ambito del delitto di cui all’art. 317 c.p. la violenza fisica, riconducendosi alla portata applicativa della norma la sola violenza morale, quella cioè consistente in una minaccia, esplicita o implicita, di un male ingiusto, recante alla vittima una lesione patrimoniale o non patrimoniale (cfr. Cass. pen., 3.12.2012, n. 3251). Sussisterebbe in sostanza la costrizione rilevante ai fini della concussione nel caso in cui sia posta in essere una coazione psichica che determini la collaborazione della vittima, la quale si trova di fronte all’alternativa scelta tra subire il male minacciato o cedere alla dazione o promessa richiesta. La diversa ipotesi in cui il p.u. realizzi una coazione assoluta della volontà del privato integrerà, tutt’al più, la diversa ipotesi della rapina aggravata, ex art. 61 n. 9 c.p., (si pensi all’ufficiale di polizia che, con un’arma puntata contro la persona arrestata, le intima di consegnare del denaro).

La concussione per costrizione può manifestarsi quale minaccia, anche implicita (Cass. pen., 3.12.2012, n. 3251), univoca di un male la cui verificazioneo rimozione dipende dallo stesso agente– o anche da terzi appartenenti alla p.a. e con i quali il funzionario mostri di poter interagire (Cass. pen., 5.10.1998, in Giur. it., 2000, 378). Ciò che rileva è che la condotta del p.u. sia oggettivamente idonea a condizionare il comportamento del privato e che sia, dunque, percepita dallo stesso come una prevaricazione (In tal senso, Palombi, E., Il delitto di concussione, Napoli, 1979, 163; Fornasari, G., Sub Art. 317 - Concussione, cit., 175; in giurisprudenza v. Cass. pen., 25.1.2013, n. 6578).

Devono ricondursi nell’ambito del delitto di concussione tanto l’uso di modi bruschi e stressanti, accompagnati da comportamenti di abuso della qualità e/o dei poteri, preordinati a creare nel destinatario una condizione di riduzione dello “spatium deliberandi” (Cass. pen. 21.2.2013, n. 10891), quanto l’artata prospettazione da parte del pubblico ufficiale al privato di difficoltà e rischi di non riuscire ad ottenere un diritto (Cass. pen., 21.2.2013, , n. 18372). Diversamente, non potranno più ricondursi nell’alveo della norma quelle condotte più blande in cui al privato è lasciato un maggior spazium decidendi, nel senso che la sua decisione di aderire alle richieste del p.u. non è conseguenza di una coazione in senso proprio, ma rappresenta, se si vuole anche in limitata parte, il frutto di un calcolo di convenienza, con conseguente esclusione di una vera e propria lesione della sua libertà di autodeterminazione. Questi sono i casi in cui la minaccia si manifesti in forme più blande quali comportamenti allusivi o quando la minaccia venga posta in essere attraverso la prospettazione al destinatario di un male giusto, cioè di una conseguenza sfavorevole, connessa, però, all’applicazione della norma. Questi ultimi casi se fino ad oggi sono stati ricondotti nell’alveo della fattispecie di cui all’art. 317 c.p., senza che la questione assumesse particolare rilevanza, all’indomani della riforma, divenendo l’induzione condotta di altro delitto, la questione assumerà rilevanza centrale, rappresentando tali ipotesi proprio il nodo di distinzione fra la fattispecie in commento e quella di cui all’art. 319 quater c.p.

La distinzione fra concussione e induzione indebita

Espunta dal reato di cui all’art. 317 c.p., l’induzione rappresenta oggi il proprium del reato di cui all’art. 319 quater c.p.

Rinviando alla voce specifica Concussione 2. Induzione indebita a dare o promettere utilità la trattazione del concetto di induzione, in questa sede va dato conto del dibattito emerso all'indomani dell'introduzione della l. n. 190/2012 volto a delineare gli autonomi spazi applicativi del delitto di cui all'art. 319 quater c.p. rispetto a quello di cui all'art. 317 c.p., in quanto è sulla scorta dello stesso che può definirsi il concetto di costrizione in relazione a quelle costellazione di ipotesi in cui cui il p.a. pone in essere nei confronti del privato delle forme di pressioni che non assumono una chiara forma intimidiva.

Si consideri, infatti, a tal proposito, che nelle prime applicazioni del delitto di cui all'art. 319 quater c.p. si profila l’idea per cui l’induzione si manifesterebbe, fra l'altro, con le forme della minaccia, seppur caratterizzata da una forza intimidativa più limitata. Tali forme di minaccia, a differenza di quanto avviene per la costrizione, si caratterizzerebbero per la possibilità di opporsi da parte del destinatario della pretesa. La distinzione in tal modo fra le minacce inscrivibili nel concetto di costrizione e quelle che invece integrerebbero una induzione verrebbe a fondarsi sull’intensità della pressione prevaricatrice.

Ciò posto, secondo un primo orientamento solo la costrizione si caratterizzerebbe per l’idoneità a determinare nel privato uno stato di soggezione, meglio definibile come ‘metus pubblicae potestatis’, che sia tale da limitare la libera determinazione di quest'ultimo, ponendolo in una situazione di minorata difesa rispetto alle richieste di denaro o altra utilità (Cass. pen., 18.12.2012, n. 3093). In questa prospettiva, resterebbero fuori dal concetto di costrizione le condotte del pubblico ufficiale che si manifestano nelle forme più varie di attività persuasiva, di suggestione, anche tacita, o di atti ingannatori e che determinino taluno, consapevole dell'indebita pretesa, a dare o promettere, a lui o a terzi, denaro o altra utilità (Cass. pen. 4.12.2012, n. 8695). In quest’ottica, si giustificherebbe la punibilità del privato indotto nel carattere più blando della pressione subita e nella capacità motivante che la minaccia della pena deve realizzare.

Si tratta, di posizione che tuttavia non può dirsi pacifica.

Al citato orientamento se ne affianca altro che, proprio valorizzando la scelta del legislatore di punire il privato nell’ipotesi di cui all’art. 319 quater c.p., incentra la portata del termine costringere in quelle forme di pressione più pesanti in cui deve escludersi il perseguimento da parte del privato di un proprio interesse o vantaggio (Cass. pen. Sez. VI, 3.12,2012 n. 3251; Cass. pen. 3.12.2012, n. 7495; Cass. pen., 25.2.2013, n. 13047). Di qui l’affermazione per cui è costrizione l’azione del p.u. consistente nella prospettazione, in forma minacciosa, di una conseguenza sfavorevole che possa ritenersi contra jus. La distinzione fra concussione e induzione indebita si incentra in tal modo sulla qualità del danno minacciato: ingiusto nella concussione e giusto (perché previsto dalla legge) nel delitto di induzione indebita. In questa prospettiva, solo nella costrizione si assiste ad una forma di prevaricazione ai danni del privato che si trova a pieno titolo nella condizione di vittima del reato.

Appare fin troppo chiaro come tale orientamento recuperi la tesi del vantaggio e del danno proprio in quelle costellazioni di ipotesi in cui il pubblico ufficiale minacci di compiere il proprio dovere per estorcere una prestazione indebita al privato. Poiché in questi casi il p.u. non minaccia un danno originariamente ingiusto, ma, anzi, offre al privato l’opportunità ed il vantaggio di commerciare l’atto cui egli sarebbe obbligatoriamente tenuto, si configurerà una ipotesi di induzione perché il privato, pur se coartato dal “timore” di subire una «giusta» denuncia (di qui la non configurabilità della corruzione), non è per ciò meritevole di essere considerato quale vittima di un comportamento concussivo, avendo egli tratto un vantaggio ingiusto da tale mercimonio. In tali ipotesi il privato non si determina alla ingiusta dazione o promessa perché la sua volontà è stata coartata o viziata dal p.u. a fronte della minaccia di un fatto ingiusto né quest’ultimo sfrutta le sua qualità o i suoi poteri per fuorviarne la libertà di scelta. Il privato si trova semplicemente a scegliere tra il dover subire le conseguenze connesse alla propria pregressa condotta illecita ed il retribuire il p.a. onde ottenere un ingiusto vantaggio. La volontà del privato è, in fin dei conti, libera nell’aderire ad una opzione che gli permette di subire il minor danno. A fronte del contrasto insorto nell’ambito delle sezioni semplici, sono intervenute le S.U. le quali, discostandosi dagli orientamenti citati e anche da un orientamento intermedio (sostenuto da Cass. pen, 15.3.2013, n. 11794, secondo cui bisognava far riferimento alle diversità delle pressioni fisiche esercitate sul privato e al contempo al criterio del vantaggio indebito per le situazioni dubbie), hanno sostenuto che la costrizione si connota nella forma della sola minaccia, come forma di sopraffazione prepotente, aggressiva, socialmente intollerabile, che incide sull’altrui integrità psichica e libertà di autodeterminazione (Cass. pen., S.U., n. 12281/2013)

Gli altri elementi del fatto

La dazione o la promessa sono le condotte realizzate dal soggetto passivo del reato a favore dello stesso p.u. o di un terzo, ricollegabili causalmente alla condotta abusiva dell’intraneus. Esse possono senz’altro qualificarsi come evento finale in senso proprio trattandosi di realtà naturalisticamente osservabile e causalmente ricollegabile alla condotta del soggetto attivo, che costituiscono, peraltro, il polo ultimo cui tende lo stesso p.a. nel momento in cui realizza la condotta abusiva.

Affermare la natura di evento della dazione e della promessa permette senz’altro di escludere il reato in oggetto tutte le volte in cui non sia ravvisabile un nesso di causalità fra la condotta abusiva del p.u. e quella del privato. La dazione è il trasferimento di un bene dalla sfera di disponibilità del soggetto passivo a quella di altro soggettoe può manifestarsi anche attraverso la ritenzione. Essa è inoltre anche quella prestazione che può consistere in prestazioni, dichiarazioni od altro allorché abbia ad oggetto altre utilità non meglio individuabili materialmente. La promessa consiste nell’impegno seriopreso dal soggetto passivo ad eseguire nel futuro una prestazione che sia realizzabile ed a favore di un destinatario. Essa può essere fatta in qualsiasi forma, direttamente o per interposta persona. Trattandosi di un negozio illecito – come tale radicalmente nullo – è pacifico che la stessa non debba assumere i requisiti propri di una obbligazione civilistica (cfr., fra gli altri, Benussi, C., I delitti contro la P.A. I delitti dei pubblici ufficiali, cit., 533; in giurisprudenza v. Cass. pen., 2.5.1989, in Cass. pen., 1990, 409). Ai fini della consumazione del delitto non occorre che la promessa abbia dei contorni definiti, riscontrandosi una promessa in senso proprio tutte le volte in cui il soggetto passivo si dichiari pronto a trasferire una qualche utilità o una qualche somma (cfr. Cass. pen., 23.9.1993, in Cass. pen., 1995, 52).

Oggetto materiale della dazione o della promessa del privato è il denaro o un’altra utilità. Va innanzitutto rilevato come il riferimento al denaro o ad altra utilità abbia indotto la dottrina a richiedere, quale requisito implicito nella struttura della fattispecie, il verificarsi di un danno anche non patrimoniale per il privato con conseguente non configurabilità del delitto in presenza di vantaggi talmente esigui da non risultare idonei ad integrare l’offesa tipizzata (Seminara, S., Sub 317, cit., 908). Si evidenzia, infatti, correttamente, come di fronte alla richiesta di esborsi irrisori appaia davvero difficile la configurabilità di una vera e propria pressione psicologica da parte del concessore (in tal senso, fra gli altri, v. Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte speciale, I, cit., 210). Mentre la nozione di ‘denaro’ non ha mai posto problemi di sorta, più controversa è la nozione di ‘altra utilità’, specie se si consideri che in altre occasioni – cfr., ad es., quanto è avvenuto in tema di peculato – il legislatore è stato più selettivo nell’individuare l’oggetto materiale del reato facendo riferimento, affianco al denaro, ad altra cosa mobile. A fronte così di una tesi che, nell’obiettivo di attribuire funzione complementare e specificativa alla nozione di altra utilità in relazione a quella di denaro, richiedendo che la stessa sia omogenea rispetto all’altra, afferma che rientri in tale concetto qualsiasi vantaggio di natura economica o ad essa immediatamente riconducibile (Cass. pen., 10.12.1992, Riv. pen. economia, 1994, 246; Pioletti, G., Concussione, cit., 12), altra impostazione ha attribuito al termine ‘utilità’ un valore sicuramente più ampio, facendovi rientrare tutto ciò che per la persona rappresenta un vantaggio – sia questo, patrimoniale, materiale o morale – oggettivamente apprezzabile, consistente tanto in una dare, quanto in un fare, quanto in un omettere (Cass. pen., 6.12.2011, n. 48764), a prescindere dalla loro valutabilità economica (Cass. pen., 1.2.2006, n. 21991; Seminara, S., Sub 317, cit., 908-909; Romano, M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, cit., 110-111).

La tematica che ha posto maggiori problemi e che ha visto in più netta posizione di antagonismo le due citate impostazioni è quella relativa alla riconducibilità nella nozione di altra utilità delle prestazioni sessuali. A fronte di chi, infatti, proprio facendo leva sulle argomentazioni caratterizzanti la prima impostazione, ha escluso che fossero rilevanti le prestazioni sessuali (Marini, G., Concussione, cit., 11; Pioletti, G., Concussione, cit., 12; in giurisprudenza v. Cass. pen., 28.1.1976, in Mass. Cass. pen., 77, 63), si è obiettato che, proprio perché le prestazioni sessuali rappresentano senz’altro un vantaggio per il p.u., le stesse non possono che rientrare nel concetto di altra utilità (Romano, M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, cit., 111; Pagliaro, A., Principi di diritto penale, parte speciale, I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 135; in giurisprudenza v. Cass. pen., 15.10.1999, in Cass. pen., 2001, 1202; Cass. S.U., n. 7/1993).

Stante l’uso del termine utilità in funzione di ampliamento dell’oggetto materiale del reato, va sicuramente preferita questa seconda tesi, ponendosi la stessa in linea con l’interesse tutelato dalla norma che vede, al fianco del corretto funzionamento della p.a., non un interesse patrimoniale del privato ma la sua libertà di autodeterminazione.

La dazione o la promessa devono infine caratterizzarsi per l’ulteriore requisito del carattere indebito. Sul punto si contrappongono due orientamenti: uno più risalente, sostenuto in giurisprudenza, ha dato del requisito una interpretazione riduttiva ritenendo che trattasi di un riferimento superfluo alla illiceità di una condotta già compiutamente descritta in tutti i suoi elementi (tal senso cfr. Cass. pen., 10.4.1990, in Giust. pen., 1991, II, 41; Cass. pen., 16.3.1990, in Cass. pen., 1990, 2106); l’altro, più diffuso, fa leva sul significato dell’avverbio e sulla sua collocazione nell’ambito della norma, evidenziando come lo stesso attribuisca alla norma un significato aggiuntivo ed ulteriormente selettivo riferibile alla necessità che la prestazione che il privato effettua non sia dovuta (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte speciale, I, cit., 210; Antolisei, F., Manuale di diritto penale, parte speciale, II, cit., 311; Romano, M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, cit., 111; Seminara, S., Sub 317, cit., 909).

Destinatario della prestazione del privato può essere tanto il soggetto attivo quanto un terzo diverso dagli attori in gioco. Terzo può essere considerato certamente un qualsiasi privato, un ente avente carattere privato o un altro pubblico funzionario, sia esso concorrente o semplice destinatario inconsapevole della prestazione. Discussa è invece la riconducibilità nella nozione di “terzo” della p.a. – allorché si faccia però riferimento allo specifico ente cui appartiene il p.u., poiché, quando si tratti di ente diverso non si pongono problemi particolari.

Si è così affermato che, quando la prestazione promessa od effettuata dal soggetto passivo giovi esclusivamente alla p.a. e rappresenti una utilità per il perseguimento dei relativi fini istituzionali, deve essere esclusa la sussistenza del reato poiché in tal caso non si determina lesione per l’oggetto giuridico del reato (buon andamento della p.a.), e per altro verso il fatto manca di tipicità, non potendosi l’agente identificare nell’ente e non potendo questo - dato il rapporto di rappresentanza organica che lo lega al funzionario operante - considerarsi alla stregua di “terzo” destinatario della prestazione promessa od effettuata (Cass. pen., 25.9.2001, in Cass. pen., 2002, 3455).

A ben vedere, una volta che si è appurato, oltre alla sussistenza degli altri requisiti della norma, che la prestazione ha il carattere dell’indebito (nel senso che la stessa non è dovuta anche nei confronti della p.a.)non si comprende per quale motivo si debba ritenere non integrato il disvalore specifico del reato: sicuramente è stata realizzata l’ingiusta coartazione del privato e allo stesso modo deve dirsi offeso il bene del buon andamento e dell’imparzialità della p.a., posto che i fini pubblici non possono mai andare a discapito di una ingiusta ed indiscriminata sopraffazione sul privato. Escludere, viceversa, in queste ipotesi, il delitto di concussione significherebbe frustrare quelle esigenze di democrazia e diritto che sempre devono improntare l’agire dello Stato nell’ottica dei principi sanciti dall’art. 98 della Cost. (profilo particolarmente sottolineato da Stortoni, L., Delitti contro la P.A., in AA.VV., Diritto penale – Lineamenti di parte speciale, Bologna, 2000, 114; analogamente, cfr. Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte speciale, I, cit.).

L’elemento soggettivo

Sotto il profilo soggettivo, il delitto di concussione non pone particolari problemi, richiedendo esso il dolo generico, nei termini della rappresentazione e della volizione da parte dell’agente di tutti gli elementi costitutivi del fatto. Il p.u. dovrà essere così consapevole del carattere abusivo della propria condotta e della sua efficacia costrittiva nei confronti del privato, del carattere indebito della dazione o della promessa, dovrà essere infine consapevole di esercitare una pubblica funzione o un pubblico servizio. Trattandosi di reato a dolo generico l’elemento soggettivo potrà manifestarsi in tutte le sue forme, salvo, ovviamente, valutare la compatibilità di ognuna di esse con la particolare tipologia del reato in esame.

Più in particolare, controversa è la compatibilità del dolo eventualecon il delitto di concussione posto che se da una parte non si sono proposti problemi di sorta ritenendo punibile a titolo di concussione anche tale forma di dolo non ricavando riscontri contrari dalla norma stessa, dall’altra si è esclusa la punibilità a titolo di concussione qualora l’agire del p.u. sia caratterizzato dal dubbio da parte dell’agente sull’abusività o sull’indebito o con la previsione, in termini di mera eventualità, della possibile promessa o dazione (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte speciale, I, cit., 211; Palombi, E., La concussione, cit., 210; Cerquetti, G., Tutela penale della P.A. e tangenti, cit., 101). La condotta del p.u. deve improntarsi per la direziona alla coartazione altrui finalizzata all’ottenimento dell’indebito, con la conseguenza che non sarebbe individuabile un tale stato soggettivo qualora l’agire del p.a. si caratterizzi per le presenza di un dubbio del tipo di quelli sopra evidenziati.

Consumazione e tentativo

Il delitto si consuma nel momento in cui il privato effettua la promessa, laddove la successiva dazione diventa un post-factum irrilevante (Cass. pen., 4.4.1993, in Riv. pen., 1994, 426). La dazione individuerà il momento consumativo del reato solo allorché essa sia immediata e non sia preceduta da autonoma promessa (Benussi, C., I delitti contro la P.A. I delitti dei pubblici ufficiali, cit., 542; in giurisprudenza, cfr. Cass. pen., 17.3.1995, in Cass. pen., 1996, 1415).

Va evidenziato come non siano mancate prese di posizione diverse per cui, ove alla promessa sia seguita la dazione, si assisterebbe ad un aggravamento del disvalore della fattispecie, con conseguente spostamento del momento consumativo (Pagliaro, A., Principi di diritto penale, parte speciale, I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 138; analogamente Cass. pen., 17.12.1996, in Riv. pen., 1997, 31). Tale punto di vista appare condivisibile solo laddove venga valorizzata la necessità che la dazione segui la promessa (o le precedenti dazioni) in virtù del permanere della forza intimidatrice del pubblico ufficiale: in tal caso, l'esecuzione della prestazione, lungi dal rappresentare un post-factum ricollegabile alla precedente condotta del p.u., assume valenza giuridica autonoma, tanto da qualificare il fatto come reato continuato (Cass. pen., 26.9.2007, n. 2142).

Venendo, invece, alla diversa questione del tentativo, va in questa sede evidenziato come l’attribuzione nell’economia della fattispecie alla promessa di un disvalore analogo a quello assunto dalla dazione ha determinato a sua volta l’anticipazione del momento consumativo del reato con la conseguenza che integra già di per sé l’ipotesi consumata la condotta abusiva del p.u. che costringa il privato ad effettuare una promessa, a prescindere poi dalla percezione da parte sua della stessa. Allo stesso modo, nel caso in cui la promessa o la dazione avvengano a distanza, la semplice spedizione della somma richiesta comporterà la consumazione del reato a prescindere dalla ricezione della stessa proprio da parte del soggetto agente.

L’ipotesi tentata sarà invece configurabile nel caso in cui il p.u., abbia realizzato, con abuso delle qualità o dei poteri, atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere taluno a dare o promettere denaro o altra utilità, indipendentemente dal realizzarsi in capo al privato di uno stato di soggezione (Seminara, S., Sub 317, cit., 910).

Fonti normative

Artt. 317, 319 quater c.p.; art. 1, co. 75, l. 6.11.2012, n. 190.

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