Comunita

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Comunita

Francesco M. De Sanctis

di Francesco M. De Sanctis

Comunità

sommario: 1. Introduzione. 2. Comunità: identità e appartenenza. 3. Comunità e comunicazione. 4. Essere comunità. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Il destino della comunità come nozione o ideologia, nostalgia o speranza, oscilla nel XX secolo (dopo cioè l'epocale distinzione tönniesiana tra comunità e società) tra 'radicalismo' luciferino e rifugio soterico. Ma, nell'uno e nell'altro caso, gioca sempre un ruolo determinante lo stesso 'nemico': la massificazione, l'omologazione, l'omogeneizzazione di 'folle solitarie' rese possibili dalla disintegrazione di 'legami' forti, originari, preterintenzionali e identitari. Disintegrazione che atomizza e isola i singoli rispetto a poteri occhiuti o provvidenziali, repressori o biopolitici: comunque gestori e produttori di vita o di morte. Il fenomeno della cosiddetta 'globalizzazione' (in area francofona si usa preferibilmente 'mondializzazione'), che irrompe alla fine del 'secolo breve', complica lo scenario attraverso una macro-liberalizzazione per deterritorializzazione degli scambi di merci e informazioni, che si contrappone alla residua localizzazione delle istituzioni politiche riassunte nello Stato territoriale sovrano. Il mercato compie, nell'epoca della globalizzazione, il suo destino di sfondamento dei confini di oikos e polis. L'insicurezza e il 'movimento eterno' - che già caratterizzavano, per Marx, l'epoca della borghesia, ossia quella dell'economia fattasi 'politica' e dello Stato monopolizzatore della sovranità - diventano, nel tramonto dello Stato nazionale, il marchio della Risikogesellschaft (v. Beck, 1986 e 1996). Nel contesto della insicurezza globale che si profila nel mondo occidentalizzato della fine del secondo millennio cristiano, la comunità appare riavviata, in sincronia col 'multiculturalismo', a un revival non sempre criticamente sorvegliato, i cui esiti sono ancora incerti. Essa sembra destinata a esonerare l'orfananza epocale di quel sostituto 'astratto' o 'impersonale' dell'antica figura paterna (nucleo metaforico di ogni auctoritas e potestas) che lo Stato ha rappresentato nella modernità, la quale a sua volta può essere configurata come l'età del 'parricidio' politico, simbolizzato dalla decapitazione dei re assoluti. "Oggi la comunità è considerata e ricercata come un riparo dalle maree montanti della turbolenza globale, maree originate di norma in luoghi remoti che nessuna località può controllare in prima persona" (v. Bauman, 2001, p. 138).

Il carattere fortemente selettivo e riassuntivo di questo articolo, tuttavia, deve guardare essenzialmente agli esiti novecenteschi del tema 'comunità', la cui ampia presenza nel dibattito filosofico attuale, è stata drasticamente ridotta da chi scrive a tre linee di pensiero che sembrano meglio rappresentarne le ambivalenze e la complessità. L'esposizione ha una funzione sistematica, e non cronologica, che va dal 'comunitarismo' anglo-americano, all'etica del discorso, all'ontologia della comunità decostruita. La partizione obbedisce al criterio definito dalla progressiva disintensificazione del connotato del concetto: dal massimo di fusionalità al suo niente, passando per la linea universalistica che mima e continua (dentro la svolta linguistica della filosofia contemporanea) lo slancio cosmopolitico della lezione kantiana.

Un rapido richiamo etimologico può essere utile per giustificare l'eterogenesi delle diverse linee di pensiero di seguito indicate. Comunità può essere ricondotta a communitas e quindi a koinonia. Ma tra i significati di koinonia e quelli di communitas si può pensare una discontinuità, anche se la parola latina appare storicamente come traduzione del termine greco. Nel termine koinonia, infatti, denotazione e connotazione convergono nel significare una unione (koinè) che precede, sorregge e metabolizza qualsiasi individuazione. Nell'ambito della koinonia il singolo è membro del gruppo allo stesso modo organico di un arto per il corpo: senza di questo, come ricorda Aristotele, quello perde il suo significato. Il singolo membro della comunità, così intesa, non ha perciò un'esistenza indipendente dal tutto che la comunità rappresenta, il suo destino è preordinato all'interno dello spazio di possibilità perimetrato dalla comunità di appartenenza. E appartenenza, infatti, è il connotato forte della koinonia, al punto che il pensiero della comunità così intesa guarda alla libertà del singolo come nascita, crescita e fioritura dentro quello spazio. "La nozione di 'libertà' - scrive Émile Benveniste (v., 1969; tr. it., vol. I, p. 249) - si costituisce a partire dalla nozione socializzata di 'crescita', crescita di una categoria sociale, sviluppo di una comunità [...]. Il senso primitivo (del concetto di libero) non è, come si sarebbe tentati di pensare, 'liberato da qualcosa', è quello della appartenenza [...]. Questa appartenenza conferisce un privilegio che lo straniero e lo schiavo non conoscono mai". La parola communitas, invece, può avere un significato divergente rispetto a koinonia se si tematizza in maniera radicale il connotato di munus nel suo collegamento a cum. Se, infatti, è il munus a unire, il significato della comunità non starà tanto nell'appartenenza identitaria, quanto invece nella reciprocità dell'obbligo donativo; la relazione comunitaria, allora, è un 'dare-darsi' che mette in comune la depropriazione, nel senso di rinuncia al proprium e di esposizione all'alterità che abita il sé costituito essenzialmente dal suo 'fuori'. Il munus è la parte più intima del sé, e pertanto la radice dell'io è nel niente. D'altra parte, lo stesso cum viene ripensato non più come preposizione congiuntiva, semanticamente legata a koinon, quanto piuttosto come traccia dell'essere simultaneo del comune 'fuori' delle singole ek-sistenze, sempre trascese dall'involontaria comunità della finitezza esposta dalla singolarità. Per concludere, non va forse dimenticato che, nel contesto linguistico euroamericano qui preso in considerazione, il termine tedesco Gemeinschaft si allontana dalla radice greca o latina: in Ge-mein-schaft è proprio il 'mio' a fare da radice tra il prefisso ge- (che qui ha valore collettivo) e il suffisso -schaft (che assolve funzione astrattiva e indica l'appartenenza alla stessa categoria o alla totalità), suggerendo quella sorta di rivoluzione copernicana che, da Tacito a Guizot e oltre, caratterizza, come topos storiografico, la mentalità dei Germani rispetto a quella mediterranea radicata nella koinè cittadina.

2. Comunità: identità e appartenenza

L'interesse per la comunità, come nozione diversa da società o associazione, ha riguadagnato spazio, all'interno del pensiero occidentale, sul finire del XX secolo - non necessariamente nei termini di un recupero della, o di un ritorno alla, concezione tönniesiana del 'tipo' Gemeinschaft (v. Ferrara, 1996, p. 612) - soprattutto nell'ambito della filosofia morale e politica anglo-americana emancipatasi dalle istanze analitiche del non-cognitivismo etico. Il pensiero della comunità, qui, ha avuto la funzione di rapportarsi criticamente nei confronti di due pilastri della 'cultura politica' caratteristica di tale spazio culturale: l'utilitarismo e il liberalismo. Mentre il primo opererebbe con un concetto falso e inadeguato del bene, il secondo si disinteresserebbe del bene, abbandonandolo alle preferenze dei singoli, ipostatizzando la priorità del giusto: alla filosofia morale, così, sarebbe sottratto il suo oggetto più specifico (il bene) in vista di una nozione essenzialmente 'procedurale' e perciò formale del giusto (il formalismo, infatti, è l'ulteriore obiettivo critico di questo pensiero della comunità). Il 'comunitarismo' condivide in parte la critica liberale all'utilitarismo, soprattutto nella forma che a essa ha dato John Rawls. Agli occhi di Rawls - per il quale la premessa di ogni bene conseguibile individualmente o collettivamente è la 'giustizia come equità' a fondamento di una 'società ben ordinata' - l'utilitarismo, oltre a essere viziato di teleologismo, non riesce a dar conto della pluralità delle persone. Il modello di 'osservatore imparziale' dell'utilitarismo è l'individuo 'razionale', capace di una totale identificazione con i desideri altrui, che confida in un legislatore operante come imprenditore o come consumatore (rispettivamente, per massimizzare il profitto o la soddisfazione). Pertanto "la decisione corretta è essenzialmente una questione di amministrazione efficiente. Questa visione della cooperazione sociale è la conseguenza dell'estensione alla società del principio di scelta per un solo uomo, e successivamente della messa in opera di questa estensione, che comprime tutti gli individui in uno solo mediante gli atti immaginativi dell'osservatore imparziale simpatetico. L'utilitarismo non prende sul serio la distinzione tra persone" (v. Rawls, 1971; tr. it., p. 40). Ma, obietta Michael J. Sandel (v., 1982; tr. it., p. 190), "se gli utilitaristi non riescono a prendere sul serio la nostra distinzione, la giustizia come equità non riesce a prendere sul serio la nostra appartenenza a una comunità". E, soprattutto, una società può anche essere 'ben ordinata' senza essere comunità: "Perché una società sia una comunità in [...] senso forte, la comunità deve essere costitutiva della comprensione di sé condivisa da parte dei partecipanti e incorporata nei loro accordi istituzionali, e non semplicemente di un attributo di alcuni di coloro che partecipano ai suoi piani di vita" (ibid.). Per Charles Taylor l'obiettivo dell'utilitarismo è proprio quello di svuotare e respingere tutte le distinzioni qualitative "e di costruire tutti i progetti umani sullo stesso fondamento, rendendoli in tal modo suscettibili di una quantificazione e di un calcolo comuni sulla base di una 'moneta' comune" (v. Taylor, Sources of ..., 1989; tr. it., p. 38): tale comunanza, come quella dell'individualismo liberale, è solo frutto di artificio e di astrazione.

Il problema che diventa centrale, invece, è la posizione effettiva, concreta, dell'io nei confronti dei propri fini (progetti, affetti, preferenze, ecc.): l'io, per questo pensiero della comunità, non è indipendente e presupposto ai fini che si propone, bensì è costituito e, se si vuole, limitato dai suoi fini tanto da essere difficilmente distinguibile da essi. Il problema dei 'limiti' dell'io interessa, in modo particolare, Sandel, il quale vede la posizione dell'io pericolosamente oscillante tra la totale indipendenza dai fini (i limiti sono assolutamente presupposti) e l'altrettanto totale indifferenziazione rispetto a essi (i limiti sono dissolti); queste due eventualità (teoriche) rappresentano due tipi corrispondenti di 'espropriazione' o 'spodestamento': nel primo caso il 'rimedio' è rappresentato dalla volontà, nel secondo dalla conoscenza (v. Sandel, 1982; tr. it., pp. 70-71). Perciò Sandel conclude: "Per l'io la cui identità è costituita alla luce dei fini che sono già davanti a lui, la forza non sta tanto nel fare appello alla volontà quanto nel cercare la comprensione di sé. La questione rilevante non è quali fini scegliere, perché il problema che mi pongo è precisamente che la risposta a questa domanda è già stata data, quanto piuttosto chi sono, come faccio a distinguere in questo ammasso di fini possibili che cosa sono io da che cosa è mio. Qui, i limiti dell'io non sono pertinenze ma possibilità, i loro contorni non sono più evidenti di per sé, ma ancora da formare almeno in parte. Renderli chiari, e definire i limiti della mia identità è tutt'uno" (ibid., p. 72).

Il problema, dunque, non è deontologico (che cosa devo fare?) ma ontologico (chi sono?); non è costituito dalle condizioni necessarie a mettere in opera una prestazione di volontà per scegliere (tra i diversi possibili fini che l'io si può proporre) o per rivedere i progetti di vita, ma dalle condizioni necessarie a renderci consapevoli di 'dove' e 'cosa' siamo. Per Taylor, infatti, l'io è determinato 'spazialmente' (nel senso dell'orientamento all'interno di orizzonti di senso) dai "quadri di riferimento" (ossia distinzioni qualitative 'forti') al bene che "costituiscono lo sfondo esplicito o implicito dei nostri giudizi, delle nostre intuizioni e delle nostre reazioni" (v. Taylor, Sources of ..., 1989; tr. it., p. 42). Una distinzione importante in Taylor è la distinzione tra 'beni convergenti' e 'beni condivisi' (shared): dove i primi lasciano i singoli nella loro individualità, i secondi, invece, hanno effetti fusionali (ad esempio la conversazione, l'amicizia, ecc.) perché ricercati e coltivati come 'noi' (il 'noi' è il terreno comune a partire dal quale l'io si identifica; v. Taylor, 1985, p. 96). Di rilievo, poi, è la sua concezione degli 'iperbeni' ("beni di livello superiore [...] che, oltre a essere incomparabilmente più importanti degli altri, rappresentano il punto di vista a partire dal quale gli altri beni vanno valutati, giudicati e scelti"; v. Taylor, Sources of..., 1989, tr. it., pp. 89 ss.). Questi sono 'beni' capaci di gerarchizzare (attraverso una valutazione di secondo grado) il complesso dei beni in vista dei quali si organizza il progetto di vita degli uomini (ciò non significa che ciascuno effettivamente si comporti in ossequio alla funzione dell'iperbene, è sufficiente che lo riconosca come tale); ma, accanto a questa funzione, gli iperbeni ne hanno un'altra, storicamente documentabile, che è quella di porre in crisi beni e valori preesistenti, e pertanto sono atti a fondare prospettive etiche 'intrinsecamente' conflittuali. Da quest'ultimo punto di vista gli iperbeni si dimostrerebbero anche fonte di "dilemmi morali spesso laceranti" (ibid., p. 93) a cui si può rispondere o con teorie 'segregatrici' del bene, cioè teorie 'chiuse', o con teorie aperte o "comprensive" (ibid., p. 94), legate alla finalità di realizzare come bene supremo "la vita buona nella sua interezza, ossia l'insieme formato da tutti i beni nelle giuste proporzioni" (ibid.). Questi ultimi beni non sono tutti quelli possibili, ma solo quelli "interni" alle diverse pratiche che gli uomini mettono a punto nelle varie società. "Per 'beni interni' - spiega Taylor - intendo quei beni la cui ragion d'essere va ricercata nel retroterra di una certa modalità di interscambio sociale" (ibid.; v. anche MacIntyre, 19842, tr. it., cap. 14). La strategia 'comprensiva' di Taylor - il cui modello è l'etica di Aristotele interpretata come alternativa all'inflessibilità "revisionista" dell'etica platonica - è, naturalmente, alla base del suo approccio al multiculturalismo (v. Taylor, 1992).

Dunque, l'io in rapporto ai suoi fini, ai suoi piani di vita, alle sue concezioni del bene non sceglie, si scopre e, nello scoprirsi, si sa radicato e situato in uno "spazio comune" indisponibile e indipendente dalla sua capacità di trovarvi la propria collocazione. In questo senso alla comunità è ascritta, da Sandel, una 'funzione costitutiva'. Egli scrive: "Le ipotesi della posizione originaria [di Rawls] si contrappongono così in anticipo a qualsiasi concezione del bene che esiga una comprensione di sé più o meno espansiva, e in particolare alla possibilità di una comunità in senso costitutivo" (v. Sandel, 1982; tr. it., p. 77, ma anche pp. 67-73 e 194); e più avanti: "la comunità indica non solo ciò che [i membri di una società] hanno come concittadini ma anche ciò che essi sono, non una relazione che scelgono (come in un'associazione volontaria) ma un attaccamento che scoprono, non semplicemente un attributo ma un elemento costituente della loro identità. In contrasto con la concezione strumentale e sentimentale della comunità, potremmo definire questa concezione forte come una concezione costitutiva" (ibid., p. 166).

Ontologia, consapevolezza e scoperta di sé sono i diversi modi di designare il problema dell'identità: "La mia identità è definita dagli impegni e dalle identificazioni che costituiscono il quadro o l'orizzonte entro il quale posso cercare di stabilire, caso per caso, che cosa è buono o apprezzabile, che cosa devo fare, che cosa devo avversare o sottoscrivere" (v. Taylor, Sources of ..., 1989; tr. it., p. 43). Lo spazio comune in cui l'identità è destinata a trovarsi è linguaggio: l'io, per Taylor, esiste solo all'interno di "reti di interlocuzione" che implicano un riferimento a una comunità di interlocutori. La vita dell'io è sempre già un 'noi': è 'conversazione', nel senso più originario del termine (v. Taylor, Cross-purposes ..., 1989; tr. it., p. 147), talché "la definizione completa dell'identità di una persona, quindi, di solito comprende non solo la sua posizione sulle questioni morali o spirituali, ma anche un riferimento a una comunità" (v. Taylor, Sources of ..., 1989; tr. it., p. 54, ma anche pp. 41-77). Se la conversazione è la vera posizione originaria al cui interno l'io scopre la propria identità, la 'narrazione' diventa la condizione di persistenza della stessa identità nel tempo della vita. Scrive Alasdair MacIntyre: "il concetto di un io la cui unità risiede nell'unità di una narrazione che collega la nascita alla vita e alla morte, come l'inizio di un'opera letteraria è collegata al suo centro e alla sua fine [...] ci è forse meno estrane[o] di quanto possa sembrare sulle prime" (v. MacIntyre, 19842; tr. it., p. 246, ma anche pp. 251 ss.). Dalla "visione narrativa" dell'io deriva, per MacIntyre, che "la storia della mia vita è sempre inserita nella storia di quella comunità da cui traggo la mia identità" (ibid., p. 264). Dunque, il vivere la propria vita come racconto in cerca della propria conclusione, coerente con il fondamentale orientamento (al bene), implica l'impossibilità di fare dell'io un 'oggetto' di conoscenza in senso naturalistico (v. Taylor, Sources of ..., 1989; tr. it., p. 85) o come un 'trascendentale' privo di costitutivi orientamenti al bene.

Per MacIntyre (v., 19842; tr. it., cap. I) la 'catastrofe' del moderno, che ha sconvolto il linguaggio della morale, ha fatto perdere, con la netta separazione tra 'fatto' e 'valore', tra 'essere' e 'dovere', il radicamento del concetto di uomo all'interno delle forme di vita sociale (v. Taylor, Sources of ..., 1989; tr. it., pp. 78-125), dove esso si manifesta come "concetto funzionale fondamentale" degli argomenti morali (v. MacIntyre, 19842; tr. it., p. 78) capaci di orientare, come asserzioni empiriche, le azioni e la vita verso il 'buono'. Perché, nella tradizione della filosofia morale premoderna, prima dell'adozione acritica del principio della cosiddetta 'fallacia naturalistica', l'uso del termine 'buono' ha di mira la funzione specifica di una cosa o di un'azione all'interno di un 'contesto' ordinato teleologicamente. "Perciò definire buono qualcosa è fare un'asserzione empirica. All'interno di questa tradizione le asserzioni morali e assiologiche possono essere vere o false esattamente come tutte le asserzioni empiriche. Ma una volta che il concetto di funzioni o scopi umani essenziali scompare dalla morale, comincia a sembrare poco plausibile considerare i giudizi morali come asserzioni empiriche" (ibid., p. 79). Questo processo di defunzionalizzazione dell'uomo con la relativa perdita di riferimento alla 'vita buona' è la premessa necessaria alla 'invenzione' dell'individuo. L'individualismo e l'emotivismo moderni ("L'emotivismo è la dottrina secondo cui i giudizi morali, non sono altro che espressioni di una preferenza, espressioni di un atteggiamento o di un sentimento; [... essi] non sono né veri né falsi; e l'accordo nel giudizio morale non può essere garantito da nessun metodo razionale"; ibid., p. 24) producono le due 'finzioni morali' dell'etica dei diritti umani o naturali e dell'utilità: la prima è finzione perché universalizza ed eternizza quanto è irrintracciabile nella storia occidentale premoderna e nelle storie non occidentali, la seconda lo è perché vorrebbe ridurre l'eterogeneità indomabile dei desideri umani a una somma che li rappresenti tutti (ibid., pp. 89 ss.). Non è difficile vedere in queste due 'etiche' gli obiettivi polemici fondamentali della filosofia morale dei comunitaristi: il liberalismo e l'utilitarismo.

Anche quando questo pensiero della comunità, come nel caso di Sandel (v., 1982), è ricavato soprattutto da una critica serrata al liberalismo (come concezione indifferente al bene e ai valori costitutivi dell'identità e della comunità) - di cui Rawls (e, per alcuni aspetti, Ronald Dworkin) rappresenta l'applicazione più consona al contemporaneo - tale critica è inseparabile dal recupero più o meno esplicito dell'etica aristotelica. E tale recupero avviene tanto a livello di critica dell'approccio 'epistemologico' alla sfera morale - attraverso la rivendicazione della specificità e peculiarità del ragionamento pratico come deliberazione-azione basata su un giudizio coinvolgente l'esperienza del proprio io - quanto a livello ontologico, dove la comunità del linguaggio valutativo (il riferimento al bene come ciò che ci accomuna) viene compresa come radice dell'identità personale. La 'vita buona' non è soltanto il fine di una vita felice, ma costituisce anche il riferimento fondamentale per la definizione di 'uomo' nella sua specificità. Senza l'orizzonte costitutivo della 'vita buona', la nozione di uomo appartiene soltanto alle scienze per le quali non è altro che un 'oggetto' di studio 'naturalistico' e, perciò, manipolabile: non un soggetto di 'esperienza' ma un oggetto di esperimento. La sfida di questo pensiero della comunità è quella appunto di ricostruire questo orizzonte di pensabilità dell'uomo, e pertanto della filosofia e delle scienze sociali e antropologiche, al di là della desertificazione assiologica della modernità.

Per quanto concerne più specificamente la concezione dello Stato, il pensiero comunitarista oscilla, nei suoi confronti, tra accettazione e sospetto. Accettazione, là dove lo Stato sia in grado di proporsi (al di là delle comunità face to face, delle 'comunità parziali', delle 'nazioni', ecc.) esso stesso come comunità fusa attorno al 'bene comune'; sospetto, invece, allorché lo Stato si configuri come strumento burocratizzato e 'neutrale' (rispetto alla 'vita buona' dei cittadini) di procedure di giustizia formale o di massimizzazione di utilità, nonché di problematiche (per i comunitaristi) 'libere scelte' individuali o di dispotismo omologatore del 'naturale' pluralismo delle comunità e tutore di singoli atomizzati. Repubblicanesimo democratico (armonicistico) e patriottismo sono la dottrina e la virtù (v. MacIntyre, 1992) necessarie all'inclusione dello Stato nel novero delle comunità (v. Taylor, Cross-purposes ..., 1989; tr. it., p. 159: "Il patriottismo comporta qualcosa di più che principî morali convergenti: è una comune dedizione a una comunità storica particolare"). Esse sono capaci di rendere palese la differenza tra "strumentalità collettiva" e "azione comune", riferita la prima ai beni semplicemente "convergenti" (che lasciano gli individui uti singuli: ad esempio la sicurezza) e la seconda ai "beni comuni" (che fondono gli individui nel noi che precede ciascun io). La libertà democratica fondamentale non è quella assicurata dai 'diritti', ma quella che dà senso al termine stesso di democrazia, ossia l'attiva partecipazione politica: la rivendicazione dei diritti (ai quali i comunitaristi preferiscono doveri e responsabilità) porterebbe all'apatia politica (e al già ricordato dispotismo tutelare di tocquevilliana memoria), mentre la comunità democratica e repubblicana esige essenzialmente azione politica comune (anche conflittuale, all'interno di storie, tradizioni e valori peraltro condivisi). Dove il senso di 'partecipare' non è soltanto quello di 'prendere parte a', ma soprattutto quello di sentirsi parte di un tutto. Olismo e ontologia diventano così la via non soltanto per comprendere la vita politica come parte dell'etica, ma anche per legittimare le stesse istituzioni liberali come parte di una storia di valori comuni e condivisi (v., ad esempio, Pazé, 2002, pp. 49 ss.).

Riassumendo, la visione comunitarista della comunità presenta una componente cognitivista forte, anzi primaria, del bene, e pertanto dell'etica, che impone il rigetto di ogni concezione 'naturalistica' (v. Taylor, Sources of ..., 1989; tr. it., pp. 110-111 e nota 47, p. 123) della morale, nonché il rifiuto della indeducibilità dei valori dai fatti. Anzi, a tal proposito si potrebbe argomentare che il rimprovero riassunto nella formula "fallacia naturalistica" di humiana memoria sia esso stesso viziato di 'naturalismo' perché inapplicabile al mondo dei valori, così come l'antropocentrismo, essenziale a questo mondo, non si adatta al mondo delle scienze naturali (ibid., p. 82). La sfera dell'essere e quella del dovere nella vita umana appaiono collegate in un orizzonte onto-teleologico all'interno del quale la relazione tra l'io e il bene è ridefinita in termini di 'funzione' (v. MacIntyre, 19842, cap. V). La radicale problematizzazione della priorità del giusto sul bene (che implica la concezione di una pluralità indefinita di beni diversi perseguibili dagli uomini uti singuli, la quale, pertanto, esige soltanto di ordinare lo spazio della perseguibilità nella assoluta indifferenza alle preferenze individuali, e dunque libere) ha, inoltre, una doppia funzione: il rifiuto del convenzionalismo (la comunità non si stipula) e il rifiuto dell'individualismo (l'identità di ciascuno è immersa e radicata in, nonché condizionata da, una comunità costitutiva di valori, di senso, di strumenti e prestazioni di tipo semiotico e affettivo). Aristotele (senza la metafisica), Hegel (e, in genere, il pensiero della storia e della storicità), il primo Heidegger (l'esserci come Mit-sein all'interno del Gespräch che noi siamo) e l'ultimo Wittgenstein (l'uso del linguaggio e la pragmatica linguistica) possono essere considerati i riferimenti classici più significativi, anche se non sempre tutti esplicitati.

Dal punto di vista della critica all'ideologia comunitarista, l'accusa più frequente, e immediata, è quella di aver fatto fare un passo indietro alla filosofia morale e politica riconducendola verso l'organicismo irrazionalista, di proporre un rifiuto reazionario della modernità e dei suoi valori individualisti e liberali, di privilegiare le appartenenze e i particolarismi conflittuali all'etica universale e pacificatrice della tradizione razionalistica occidentale (v. Pazé, 2002; v. Bovero, 2002). L'ultimo rilievo, in particolare, pone in evidenza il pericolo di convertire il 'multiculturalismo', necessario all'epoca della globalizzazione, in 'multicomunitarismo'; dove la comunità diventa una 'trincea fortificata' contro tutti i 'diversi' (v. Bauman, 2001, pp. 105-138).

3. Comunità e comunicazione

Con la 'svolta linguistica' della filosofia - caratterizzante gli esiti più innovativi del pensiero occidentale del XX secolo, da Heidegger a Wittgenstein a Peirce a Gadamer - la comunità, nel pensiero che a tale svolta si ricollega, appare fatta non più di soli corpi ma soprattutto di voci linguisticamente articolate; non caratterizzata dall'organicità, ma dalla comunicazione; non fusa nella sim-patia e nell'identità, ma costituita sulle leggi dell'argomentazione; non coesa attorno a beni e forme di vita, ma ordinata in base alla giustizia. Ogni tentazione irrazionalistica o decisionistica appare fugata proprio perché l'argomentazione ripristina nella comunità la funzione normativa della ragione che il contratto (con i suoi connotati convenzionalistici e fattualistici) non riesce più a sostenere. L'appartenenza alla comunità è stabilita dalla partecipazione a tale razionalità, e pertanto, essendo questa la razionalità del discorso (di ogni discorso argomentativo), essa è di tipo universalistico: la comunità è comunità dei parlanti, condivisione di un logos senza barbarie. L'etica della comunicazione o del discorso che ripropone la comunità (della comunicazione) come 'apriori', al pari di quella dei comunitaristi, si propone, dunque, come 'cognitivistica' e 'post-convenzionalistica', ma, a differenza di quelli, essa, nel solco della tradizione kantiana, si propone al contempo come 'formalistica e universalistica': indifferente, perciò, ai 'beni', pur fondamentali per le diverse 'forme di vita', nessuna delle quali, tuttavia, può essere privilegiata o emarginata (v. Apel, 1987). Problema non marginale di tale etica resta quello del suo costitutivo connotato deontologico (indifferenza alla felicità come finalità di una vita buona) che renderebbe difficile, nella sua assoluta purezza da ogni contenuto o valore materiale, una macroetica all'altezza delle 'responsabilità' globali dell'uomo nell'epoca 'post-convenzionalistica'. Per 'macroetica' deve intendersi un'etica non limitata al microambito (famiglia, matrimonio, vicinato) né al mesoambito (nazione, Stato e politiche connesse), ma estesa al macroambito del pianeta, la cui finitezza e vulnerabilità, rivelatesi nel compimento della modernità, impongono contenuti prescrittivi relativamente agli scopi e alle conseguenze (anche secondarie) delle azioni (ibid., p. 31).

Nel pensiero di Apel un ruolo centrale, per introdursi alla concezione della comunità, gioca la critica al 'solipsismo o individualismo metodico' (come si sarebbe sviluppato nella filosofia moderna da Cartesio a Husserl). Tale espressione stigmatizza la visione dicotomica tra la realtà costitutivamente sociale dell'uomo e la sua presunta essenza di soggetto pensante e conoscente, dove la prima viene deproblematizzata come mero dato empirico e completamente risolta, o astratta, nella Soggettività autonoma dell'Io autocosciente. Apel vuole rettificare la 'filosofia della coscienza' con l'ausilio del linguistic turn: il linguaggio in uso dentro una comunità diventa, così, la necessaria condizione di possibilità di ogni conoscenza valida. Pertanto, la validità della formazione del giudizio e della volontà non può essere più compresa come prestazione costitutiva della coscienza individuale, ma solo sul presupposto trascendental-logico di una comunità della comunicazione. " 'Uno da solo' non può 'seguire una regola' (Wittgenstein), dunque 'pensare'; nel far questo si deve necessariamente presupporre o Dio o 'il gioco linguistico trascendentale'" (v. Apel, 1973; tr. it., p. 234, nota 50). L'essere-conoscente dell'uomo, per Apel, è essenzialmente co-soggetto da sempre coinvolto nella ricerca di un consenso solo co-operativamente conseguibile: ciò che tale essere anticipa, pertanto, non è una semplice comunità di parlanti, bensì una comunità del discorso argomentativo che presuppone la validità universale delle sue regole. È impossibile, perciò, pensare e decidere in maniera significativa (dotata di un senso condivisibile), senza riconoscere, almeno implicitamente, le regole dell'argomentazione come le regole, appunto, di una comunità della comunicazione. La stessa volontà di argomentare, in tale contesto (quello della ricerca del consenso), non può essere considerata, per Apel, empiricamente condizionata; essa, piuttosto, è la condizione trascendentale della possibilità di ogni spiegazione-comprensione di condizioni empiriche. Volontà, peraltro, che obbedisce a una norma non desunta da qualsivoglia 'fatto' (quale potrebbe essere il fatto dell'accettazione o del consenso liberi; ibid., p. 252): all'accettazione delle regole dell'argomentazione significativa - nel suo essere condizione di possibilità e di validità di ogni argomentazione e di ogni autocomprensione valida - "spetta di per sé il carattere modale del dovere" (ibid., p. 253). Ma tale norma non è nemmeno riducibile a un mero 'imperativo ipotetico' (che imponga cioè solo un comportamento conforme al dovere e non, come l'imperativo categorico, un'azione in base al dovere): "La distinzione di Kant - in questo caso, per Apel - non è rilevante per il nostro proposito di fondazione, se si può dimostrare che la norma fondamentale da noi accertabile per il comportamento 'conforme al dovere' non può essere distinta praticamente da quella del comportamento 'in base al dovere'. Sulla base di questo presupposto, rilevante è non l'argomento kantiano secondo cui anche i diavoli che sanno usare il loro intelletto possono comportarsi per principio 'in maniera conforme al dovere', bensì l'argomento per cui anche i diavoli debbono, se vogliono diventare partecipi della verità, comportarsi conformemente al dovere" (ibid., p. 243). Ciò perché l'imperativo in questione non sarebbe motivato da un interesse strumentale ("patologico") per una finalità empirica, ma esclusivamente "dall'interesse pratico della stessa ragione teoretica" (ibid.). Perciò la logica ha da essere una 'scienza normativa', ma non nel senso di una 'tecnologia' (teoria dell'uso normativamente corretto dell'intelletto) avalutativa dal punto di vista morale - che si disporrebbe perfettamente nel sistema di complementarità, costituito da filosofia analitica ed esistenzialismo, caratterizzante l'esito del pensiero ('ideologia') occidentale, che polarizza oggettività avalutativa e posizione soggettiva di valore -, perché allora non si potrebbe nemmeno dire che essa 'implichi' un'etica. La logica, piuttosto, per quanto detto "presuppone come condizione di possibilità un'etica" che esige nella comunità dell'argomentazione il riconoscimento reciproco del pari diritto di tutti i suoi partners alla discussione. "Poiché tutte le manifestazioni linguistiche e, oltre a esse, tutte le azioni dotate di significato e le espressioni fisiche degli uomini (in quanto sono verbalizzabili) si possono concepire come argomenti virtuali, allora alla norma fondamentale del riconoscimento reciproco dei partners della discussione è implicata virtualmente quella del 'riconoscimento' di tutti gli uomini come 'persone' nel senso di Hegel", anzi, "tutti gli esseri capaci di comunicazione linguistica debbono essere riconosciuti come persone [...] partners virtuali della discussione e la giustificazione illimitata del pensiero non può rinunciare ad alcun partner della discussione, né ad alcuno dei suoi virtuali contributi alla discussione" (ibid., p. 239).

La comunità degli scienziati e dei filosofi, dunque, è solo pars pro toto. L'autosacrificio dell'egoismo dell'individuo, che Charles S. Peirce considerava necessario perché, in una sorta di 'socialismo scientifico', la verità poteva e doveva appartenere all'intera comunità degli scienziati, ha per Apel una portata generale: essa riguarda la comunità (potenzialmente universale) degli argomentanti: "Nell'Apriori dell'argomentazione è insita la pretesa di giustificare non solo tutte le 'affermazioni' della scienza ma, al di là di queste, tutte le pretese umane [...]. Chi argomenta riconosce implicitamente tutte le possibili pretese di tutti i membri della comunità della comunicazione che si possono giustificare tramite argomenti razionali [...] ed egli s'impegna al tempo stesso a giustificare tramite argomenti tutte le proprie pretese nei confronti degli altri [...]; i membri della comunità della comunicazione ([...] tutti gli esseri pensanti) sono, a mio avviso, obbligati anche a tener conto di tutte le pretese virtuali di tutti i membri virtuali - vale a dire di tutti i 'bisogni' umani in quanto essi potrebbero porre pretese al prossimo [...]; nella disposizione richiesta per la giustificazione dei bisogni personali in quanto pretese interpersonali è insita una analogia con il self surrender richiesto da Peirce, in quanto la 'soggettività' dell'imporsi egoistico degli interessi deve venire sacrificata appunto a vantaggio della 'trans-soggettività' della rappresentanza argomentativa degli interessi" (ibid., pp. 259-260).

La comunità 'presupposta' dall'etica del discorso è, tuttavia, una comunità 'ideale' in "contraddizione dialettica", sostiene Apel, con quella 'reale' in cui ciascun argomentante è di fatto inserito. Da tale contraddizione si determina la teleologia che contenutizza, ma in senso universalistico, il formalismo deontologico (in sé universale) della stessa etica, come responsabilità di ciascuno (v. Apel, 1990; tr. it., pp. 5-47) in vista di un 'bene' ultimo: "in primo luogo, ciò che deve essere in questione in ogni agire è l'assicurazione della sopravvivenza del genere umano come sopravvivenza della comunità reale della comunicazione; in secondo luogo, è in questione la realizzazione della comunità ideale della comunicazione entro quella reale. La prima meta è la condizione necessaria della seconda; e la seconda dà alla prima il suo senso [...]. In altre parole, la strategia della sopravvivenza riceve il suo significato attraverso una strategia a lungo termine dell'emancipazione" (v. Apel, 1973; tr. it., p. 265).

L'etica del discorso, di cui Apel è il 'filosofo' più cospicuo, incontra, a partire dai primi anni settanta del XX secolo, un partner di rilievo in Jürgen Habermas. Già da Wahrheitstheorien (1973) a Theorie des kommunikativen Handelns (1981) egli prende posizione contro il non-cognitivismo con la tesi della 'capacità di verità' delle questioni pratiche che, pertanto, risultano suscettibili di decisione razionale, sfuggendo tuttavia agli 'errori' generati dai tentativi ontologici e naturalistici di ridurre pretese di giustezza a pretese di verità. Ferme restando le differenze inaggirabili fra la logica del discorso teoretico e quella del discorso pratico, esse non autorizzano, per Habermas, l'esclusione di quest'ultima dall'ambito della razionalità: le questioni pratiche possono venir decise 'a ragione' dalla coazione del miglior argomento e il risultato di un discorso pratico può venire motivato razionalmente come prodotto di una 'volontà razionale' (critica al decisionismo irrazionalistico) e luogo di un consenso fondato e giustificato. Ciò che accomuna la posizione di Habermas a quella di Apel è la convinzione di poter conseguire, attraverso l'etica del discorso, "il tentativo di riformulare la teoria morale kantiana, in relazione alla questione della fondazione delle norme, attraverso le categorie della teoria della comunicazione" (v. Habermas, 1986; tr. it., p. 59). Tale etica - a carattere deontologico, cognitivistico, formalistico e universalistico - si basa, per Habermas, su quattro pretese di validità del discorso stesso: comprensibilità (correttezza delle espressioni simboliche), verità (del contenuto preposizionale o dei suoi presupposti), veridicità (sincerità degli intendimenti espressi), esattezza (Richtigkeit o giustezza normativa dell'atto linguistico eseguito) - pretese che convalidano 'presupposti' e 'risultati' della comunicazione; esse non ne costituiscono la base trascendentale, bensì condizioni aprioristiche e inevitabili di una comunicazione finalizzata all'intesa - nonché sul procedimento dell'argomentazione morale basata sul principio "che possono pretendere validità solo quelle norme che potrebbero trovare il consenso di tutti i soggetti coinvolti quali partecipanti ad un discorso pratico" che, da un lato, sostituisce proceduralmente l'imperativo ipotetico, e dall'altro lo abbassa normativamente a principio di universalizzazione (che assume il ruolo di una regola dell'argomentazione nei discorsi pratici). Tale principio suona: "nelle norme valide devono poter essere accettati senza costrizione, da parte di tutti, i risultati e le conseguenze secondarie che derivano da una loro universale osservanza per il soddisfacimento degli interessi di ciascuno" (ibid., p. 61; v. Habermas, 1983, tr. it., pp. 49 ss.).

Ciò che invece differenzia Habermas da Apel è, soprattutto, la rinuncia a ogni pretesa di fondazione ultima dei discorsi (sia teoretici che pratici): la stessa fondazione del principio di universalizzazione appena citato si svolge "attraverso due passi": primo, lo si fonda, come regola, partendo dal contenuto dei presupposti pragmatici dell'argomentazione in genere in rapporto con l'esplicazione del senso delle rivendicazioni normative di validità. E, a questo livello, tale principio può essere inteso "come una ricostruzione di quelle intuizioni quotidiane che stanno alla base della valutazione imparziale dei conflitti morali d'azione"; secondo, lo si fonda, per provarne la validità universale che oltrepassa la prospettiva di una determinata civiltà, "sulla dimostrazione trascendental-pragmatica dei presupposti universali e necessari dell'argomentazione. Ma a questi argomenti non si può più attribuire il significato aprioristico di una deduzione trascendentale [...] essi fondano semplicemente il fatto che non esistono alternative possibili al 'nostro' tipo di argomentazioni. Pertanto anche l'etica del discorso [...] si fonda semplicemente su ricostruzioni ipotetiche ex post, per le quali dobbiamo cercare conferme plausibili" (v. Habermas, 1983; tr. it., pp. 123-124). In tale posizione appare evidente il ripercorrimento del tentativo kantiano di fondare una morale universale a partire dalla coscienza morale comune, ma la svolta linguistica, cui anche Habermas aderisce, non solo gli permette di sbarazzarsi della coscienza morale solitaria del soggetto monologico a favore della comunità di discorso dei soggetti morali, ma gli rende anche possibile collaudare formalismo, universalismo, deontologismo di fronte alle obiezioni di Hegel alla morale astratta dalla humus etica che determina storicamente le diverse forme di vita. La 'concretezza' dell'eticità, che incorpora il bene della vita e la responsabilità di ciascuno e di tutti per le conseguenze delle azioni al di là delle intenzioni pure della volontà buona, viene attraversata e custodita dall'istanza procedurale della morale della comunicazione che, pur considerando 'il giusto' criterio preliminare per ogni decisione razionale e responsabile per il bene nell'epoca post-convenzionale, vuole evitare le due unilateralità speculari dell'universalismo astratto della giustizia individualistica e del particolarismo concreto, tendenzialmente olistico, del bene comune (paleo- o neoaristotelico). "La strategia dell'etica del discorso, di ricavare i contenuti di una morale universalistica dai presupposti universali dell'argomentazione, è promettente proprio per il fatto che il discorso costituisce una forma di comunicazione più esigente, che travalica le concrete forme di vita, e in cui le presupposizioni di un agire orientato all'intesa vengono universalizzate, astratte e sottratte alle limitazioni, cioè estese ad una comunità di comunicazione ideale, che include tutti i soggetti capaci di parlare e di agire" (v. Habermas, 1986; tr. it., pp. 64-65).

Per concludere, Habermas, dell'etica del discorso, propone una "autocomprensione modesta"; che cioè "deve il suo concetto morale relativamente ristretto ad energiche astrazioni" dal momento che, pur riuscendo a isolare i problemi di giustizia dai contesti di volta in volta particolari della vita buona; pur senza abdicare ai propri principî a favore di una facoltà di mero giudizio prudenziale ancorata al contesto e alla situazione; per essere tradotta nella prassi, nonostante la sua irrinunciabile determinazione universalistica, "tale morale è infatti dipendente da una forma di vita che la 'assecondi' ". Essa, in più, incontra seri problemi a determinare effettivamente un agire politico che miri a creare rapporti sociali in cui possano essere condotti discorsi pratici, e perciò possano essere acquisite discorsivamente e diventare praticamente efficaci le cognizioni morali. Ancora: "L'etica del discorso non può fare ricorso ad una teleologia oggettiva, in particolare ad un potere che supera l'irreversibilità delle conseguenze di eventi storici" ossia, come si 'redimono' le sofferenze e le ingiustizie del passato? "Non è osceno - si chiede Habermas, con l'occhio forse rivolto all'angelo di Benjamin - che i beneficiari postumi si aspettino dagli umiliati e offesi un consenso controfattuale post mortem per norme che possono apparire giustificate alla luce del loro presumibile futuro? Altrettanto difficile è rispondere alla domanda fondamentale dell'etica ecologica: come prende partito per la vulnerabilità della creatura muta una teoria la cui cerchia di destinatari è limitata a quella dei soggetti capaci di parlare e agire? Nella compassione per la bestia martoriata, nel dolore per biotopi distrutti, s'esprimono intuizioni morali che non possono essere seriamente soddisfatte dal narcisismo collettivo di una forma di trattazione in ultima istanza centrata antropologicamente" (v. Habermas, 1986; tr. it., pp. 72-73).

4. Essere comunità

Un ruolo diverso gioca la comunità nel pensiero della fine della razionalità operativa e della filosofia - dove fine non significa cessazione o estinzione, bensì l'occasione di pensare nel congedo dell'epoca (nel tempo non puntuale della fine), al cospetto della finitezza di entrambe (posizione, questa, che appare come massima apertura su tutto l'impensato della razionalità e del discorso filosofico) lo spazio che, inindagato, è involontariamente indicato e disegnato dai loro confini. Ruolo diverso gioca qui la comunità soprattutto perché viene pensata dopo l'umanesimo e al di là dell'umano: essa è intesa come ciò che riguarda costitutivamente l'esistenza (prima e al di là del logocentrismo), e non solo l'essere-Uomo legato al fondamento metafisico della Soggettività cosciente, autonoma e assoluta.

Per Jean-Luc Nancy la comunità ancora ha da essere pensata come il problema cruciale dell'ontologia, in particolare ancora deve essere pensato fino in fondo il 'con'. Questo prefisso indicherebbe l'essenza dell'essere in quanto co-esistenza; l'essere è essere-con, ma non nel senso che il 'con' si aggiunge all'essere, bensì, piuttosto, "nell'essere-con è il 'con' a fare l'essere", senza aggiungersi a esso perché il 'con' è "al cuore dell'essere" (v. Nancy, 1996; tr. it., p. 45, ma anche pp. 43 ss.). Dove l'essere non è altro che esistenza nella sua costitutiva es-posizione/com-parizione della singolarità plurale (ibid., p. 48) degli esistenti: "la com-parizione è più originaria del legame [vale a dire, legame sociale]. Non si instaura, non si stabilisce né emerge tra soggetti(oggetti) già dati. Consiste nell'apparire del fra come tale: tu e io (il fra noi); in questa formula l'e non ha il valore di una giustapposizione ma di una esposizione. Nella com-parizione si espone questo: 'tu e io; tu sei (completamente altro da) me'. O ancora più semplicemente: tu spartisce me" (v. Nancy, 19902; tr. it., p. 68). Se l''es-' indica il porsi fuori (l'affacciarsi del '-posto' con il suo bordo che ne segna l'esser-fuori, la soglia di apertura, come ciò che più lo concerne in quanto finito), il 'con' indica che il cuore dell'essere è rapporto e non assoluto (ibid., pp. 24 ss.), e che l'esistenza è 'insieme'. Ma, a sua volta, 'insieme' (nella sua funzione avverbiale che modalizza il verbo) non va inteso né come un insieme collettivo né come un insieme fusionale, ma solo come un insieme temporale: 'insieme' è la simultaneità che espone l''essere-insieme', non l'essere come insieme (v. Nancy, 1996; tr. it., p. 84). Tale simultaneità è, inoltre, la simultaneità dell'aver-luogo nello spazio, partagé, del ritrarsi dell'essere: è "la distinzione dei luoghi presi insieme" (ibid., p. 85). Se 'insieme' è "struttura assolutamente originaria" (ibid.), il partage (con una semantica che va dal dividere, spartire, al fare e prendere parte) è modalità fondamentale dell'esistenza che determina il rapporto come 'fra' che singolarizza, senza individuare (l'individuo è 'residuo' del disincanto del mondo delle comunità, gli appartiene una inesperibile indivisibilità - identità e interiorità - implosiva che occulta il carattere es-ponente dell'esistenza) né accomunare (nel senso delle fusioni olistiche o delle collazioni insiemistiche). Dunque, la singolarità, finita nella sua esposizione e in comparizione, lascia pensare la comunità proprio in virtù della 'comunicazione' - se intesa non come un metter-fuori volontaristico del 'soggetto', ma come esser-comunicante in quanto 'essere-fuori-di-sé' (ossia predicamento trascendentale dell'essere; v. Nancy, 19902, tr. it., p. 59); la singolarità, perciò, non va confusa con l'individuo, perché "come individuo sono chiuso ad ogni comunità, e non sarebbe eccessivo dire che l'individuo [...] è infinito. Il suo limite, in fondo, non lo concerne - lo circonda soltanto [...]. L'individuazione stacca entità chiuse da un fondo informe" (ibid., p. 64): l'individuo è 'opera' come la comunità impossibile.

Su queste premesse è da leggersi l'affermazione di Nancy secondo cui "la comunità" andrebbe pensata come "l'essere estatico dell'essere stesso" (ibid., p. 28) - più precisamente, estasi e comunità sono ciascuna il 'luogo' dell'altra, secondo quella che Nancy chiama una 'topologia atopica': la 'arealità' di una comunità (la sua perimetrazione come area e spazio formato) non è localizzazione territoriale ma arealità di un'estasi; mentre la forma di un'estasi (la festa, l'orgia, la rivoluzione, gli amanti) è quella di una comunità (ibid., pp. 51-52). Perciò l'essere non è e non ha immanenza, perché l'immanenza (diversamente dall'ek-stasis) non (è)ha luogo, non (è)ha esistenza, non (è)ha essere. Ogni pensiero dell'immanenza è condannato a lasciare impensati essere e comunità per il ni-ente del definito o dell'operato (l'uomo come faber et artifex di sé e della comunità, opere entrambi) che occulta l'indisponibile finitezza dell'esposizione fino all'annullamento della morte che, invece, se riassorbita nell'immanenza, è proprio la destinazione e la verità dell'immanenza stessa: "la comunità dell'immanenza umana, dell'uomo divenuto eguale a sé stesso o a Dio, alla natura e alle sue proprie opere, è una comunità di morte - o di morti. L'uomo compiuto dell'umanesimo, individualista o comunista, è l'uomo morto" (ibid., pp. 38-39). Per Nancy la morte è, invece, "l'eccesso irriducibile della finitezza" (ibid.) che, anche, "eccede irrimediabilmente le risorse di una metafisica del soggetto" (ibid., p. 41), perché essa manifesta l'impossibilità dell'immanenza dei membri della comunità 'operata' (che metabolizza i suoi morti nella totalità di Stato, nazione, classe, partito, ecc.), nonché dell'individuo autonomo (ricondotto alla sua infungibile, esposta, finita singolarità). La morte, nell'esporre la non soggettività dell'io-soggetto e la non comunione della comunità, va compresa come l'inoperabile per eccellenza (si può fare opera di morte ma non opera con la morte) e come l'autrui della singolarità (l'io non si può mai dire morto senza negarsi come io, ma nello stesso tempo è l'altrui che più mi spetta). Essa perciò apre la possibilità di pensare rettamente la comunità: "Una comunità è la presentazione ai suoi membri della loro verità mortale [...]. Essa è la presentazione della finitezza e dell'eccesso irrimediabile che costituiscono l'essere finito" (qui Nancy è particolarmente vicino a Bataille, da cui trae apertamente spunto; v. anche Blanchot, 1983, tr. it., pp. 19-20).

L'Occidente è la nostalgia di una comunità che non c'è mai stata e, in esso, la modernità è il progetto di una comunità impossibile; di ciò il comunismo è la testimonianza estrema. Se si vuole 'fare opera' della comunità si produce la comunità di morti. "Comunità: né opera da produrre, né comunione perduta, ma lo spazio stesso, e lo spaziamento dell'esperienza del fuori, del fuori-di sé" (v. Nancy, 19902; tr. it., p. 49). Ciò perché "la comunità non può appartenere alla sfera dell'opera. Non la si produce, se ne fa l'esperienza (o meglio l'esperienza di essa ci fa) come esperienza della finitezza". Essa sempre e da sempre è "al di qua o al di là dell'opera, ciò che si ritrae dall'opera, ciò che non ha più a che fare né con la produzione né con il compimento, ma incontra l'interruzione, la frammentazione, la sospensione. La comunità è fatta dell'interruzione delle singolarità e della sospensione che gli esseri singolari sono" (ibid., p. 71). La comunità, infine, non è nemmeno 'degli uomini' a esclusione di altri esistenti. La comunità désoeuvrée che, per Nancy, è la comunità, ancora impensata, dell'esistenza, dunque, non è né perduta né a venire, essa è, piuttosto, "ciò che ci accade [...] a partire dalla società" intesa proprio come Gesellschaft (ibid., pp. 36-37). Essa "ci è data con l'essere e come l'essere, ben al di qua di tutti i nostri progetti, volontà e tentativi. In fondo, perderla ci è impossibile" (ibid., p. 78); la società più 'atomizzata' o il 'campo', dove si persegue l'annullamento della comunità, manifestano invece la sua persistenza come 'resistenza all'immanenza': in tale resistenza la comunità, contro ogni violenza della soggettività (individuale o collettiva), si lascia essere come trascendenza senza 'sacro'. "La comunità ci è data - o noi siamo dati e abbandonati secondo la comunità: non è un'opera da fare, ma un dono da rinnovare, da comunicare" (ibid., p. 79).

Nel percorso di Giorgio Agamben, consonante con quello di Nancy, la singolarità si specifica come 'qualunque' nel senso di quodlibet, dove 'libet' esprime tutta la forza affettiva (l'amabilità e la desiderabilità) dell'entità 'tal quale è' (la "quodlibetalità"; v. Agamben, 1990, p. 15) da cui va pensata la comunità. Comune è l'aver-luogo della cosa che non rimanda ad alcun "ente sommo al di sopra di tutte le cose: piuttosto l'aver-luogo di ogni cosa è il trascendente puro" (ibid., p. 11). L'estensione è, pertanto, ciò che rende comunicanti le singole esteriorità, nel con-venire senza essenza della comunità. Esse, infatti, non sono unite in una essenza, ma "sparpagliate nell'esistenza" (ibid., p. 14). Dove esistenza è esposizione dell'essere, è l'intima esteriorità (il limite come soglia e apertura del finito) della singolarità che accomuna gli esistenti nell'indifferenza rispetto a ciò che è proprio; questa indifferenza al proprio è la quodlibetalità della singolarità, rispetto alla quale universale e individuale sono 'transiti' inversi e senza sosta di appropriazione del comune e di comunicazione del proprio: "Comune e proprio, genere e individuo, sono solo i due versanti che precipitano ai lati del crinale del qualunque" (ibid., p. 15). Ma se per Nancy l'essenza dell'essere è "il colpo" (v. Nancy, 1996; tr. it., p. 48), per Agamben, invece, l'essere è 'maniera' (intesa non come manentia o mansio, ma come manare) che indica "l'essere nella sua sorgività. Questo non è, secondo la scissione che domina l'ontologia occidentale, né un'essenza, né un'esistenza, ma una maniera sorgiva; non un essere che è in questo o quel modo, ma un essere che è il suo modo di essere e, pertanto, pur restando singolare e non indifferente, è multiplo e vale per tutti" (v. Agamben, 1990, p. 21). La non indifferenza, qui, sembra alludere alla munificità affettiva del manare.

La donatività come stigma della comunità trova un ascolto particolarmente attento nei contributi al tema di Roberto Esposito. A suo avviso, infatti, l'inadeguatezza (al nostro presente) di tutti i paradigmi interpretativi della comunità (dalla sociologia tönniesiana e, anche, weberiana, al neocomunitarismo nordamericano, alle etiche della comunicazione) risiede nell'aver sovrapposto alla semantica della comunità quelle della soggettività, della sostanza, della proprietà, dell'appartenenza e, perciò, nell'aver assunto comunità e nichilismo come termini irriducibilmente opposti (v. Esposito, 1999): ciò significa lasciare impensata la comunità. "Tutte queste concezioni sono unite dal presupposto irriflesso che la comunità sia una 'proprietà' dei soggetti che accomuna: un attributo, una determinazione, un predicato che li qualifica come appartenenti a uno stesso insieme. O anche una 'sostanza' prodotta dalla loro unione. In ogni caso essa è concepita come una qualità che si aggiunge alla loro natura di soggetti, facendone soggetti anche di comunità" (v. Esposito, 1998, p. X). Un'aporia, pertanto, inficerebbe tutte le definizioni che ancorano la comunità a una semantica del proprium, della proprietà, sia pure collettiva: ciò che è comune, ossia, per Esposito, 'improprio', 'non privato', 'non particolare', viene pensato solo a partire dal suo opposto speculare, il proprio. "Che ci si debba appropriare del nostro comune (per comunismi e comunitarismi), o comunicare il nostro proprio (per le etiche comunicative), il prodotto non cambia: la comunità resta legata a doppio filo alla semantica del proprium [...] è comune ciò che unisce in un'unica identità la proprietà - etnica, territoriale, spirituale - di ciascuno dei suoi membri. Essi hanno in comune il loro proprio; sono i proprietari del loro comune" (ibid., pp. XI-XII). Così procedendo si opera, a giudizio di Esposito, una significativa riduzione della complessità semantica di communitas mettendo in ombra la derivazione etimologica del lemma - oltre che dal prefisso cum- - dal sostantivo munus, il cui valore basico rinvia allo spettro semantico del dovere, del debito, della doverosità più intensa perché non biunivoca, non sinallagmatica, ma interamente fondata sulla gratitudine verso qualcuno e risolta nell'"atto transitivo del dare" (ibid., p. XIV). La semantica del munus coincide con quella della perdita, dello spossessamento, della depropriazione; ma essa si rivela, ancor più radicalmente, una semantica della 'relazione' o, meglio, della 'compensazione', della 'restituzione', tra l'obbligato (il munis) e il destinatario della riconoscenza. È dunque il munus - ossia un dovuto, una cessione, una privazione - a 'correlare' in un rapporto comunitario che assume la forma della donazione reciproca. Ne consegue, in Esposito come in Simone Weil, che la comunità è sempre 'impropria', nel senso che essa è comunità di debiti e di obbligati, non di diritti soggettivi e di 'persone' titolari di diritti 'propri'. Il che comporta un ulteriore spostamento del baricentro della comunità dall'avere (comune o in comune) all'essere-comune, all'essere-relazione, all'interesse, come costitutiva esposizione al non-identico, al fuori-di-sé; come estasi (Hin-aus-stehen) e come offerta: la relazione che ci fa essere non accade secondo modalità acquisitive ma deiettive. Con Nancy, da Heidegger e dal Bataille lettore di Heidegger, Esposito ricava che l'essere si dà in origine come 'mancanza', apertura originaria - ripiegamento sul proprio nulla, sull'im-proprietà del Dasein.

Da qui l'accento posto sulla coppia oppositiva communitas-immunitas: se la comunità è co-obbligazione alla donazione reciproca, l'immunitas è la dispensa, l'esonero (anche nel senso gehleniano della Entlastung) da quest'obbligo donativo. La potenza isolatrice dell'immunitas - e l'intera semantica del diritto e della politica moderni è ricostruita da Esposito in termini immunitari - consiste nel negare il negativo del rapporto comunitario, nel sottrarre l'immunis alla sottrazione che il munus comune imporrebbe. "Quello di 'immunità', oltre che privativo, è un concetto essenzialmente comparativo: è la diversità rispetto alla condizione altrui - più che l'esenzione in se stessa - il suo fuoco semantico. Al punto che si potrebbe ipotizzare che il vero antonimo di immunitas non sia il munus assente, bensì la communitas di coloro che, viceversa, se ne fanno portatori [...] l'immunità è una condizione di particolarità: che si riferisca a un singolo o a un collettivo, essa è sempre 'propria', nel senso specifico di 'appartenente a qualcuno' e dunque di 'non comune'" (v. Esposito, 2002, p. 8).

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