Comunismo

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2006)

Comunismo

Lidia Santarelli

All'inizio degli anni Novanta del 20° sec. la disintegrazione dell'Unione Sovietica e il collasso dei regimi satelliti nell'Europa orientale si imposero nell'opinione comune come la fine del comunismo. Negli Stati Uniti F. Fukuyama, considerato uno dei più autorevoli studiosi di politica contemporanea a livello mondiale, avanzò la teoria secondo la quale la caduta del muro di Berlino e il crollo dell'URSS avrebbero condotto a esaurimento la concezione della storia come lotta tra ideologie contrapposte: in tale prospettiva, nel più noto e, al tempo stesso, più controverso dei suoi libri, The end of history and the last man (1992), egli paragonò il trionfo del capitalismo occidentale sul sistema sovietico alla "fine della storia". Contrariamente alle previsioni, il disfacimento del blocco sovietico non coincise con la definitiva scomparsa dalla scena mondiale dei partiti e dei regimi politici che si richiamavano all'ideologia comunista, anche se, dopo il crollo dell'URSS, la loro storia si svolse entro un contesto internazionale profondamente mutato rispetto a quello dei decenni precedenti. Mentre, infatti, da un lato, vennero meno gli equilibri politici, economici e sociali che avevano dominato l'epoca della guerra fredda, dall'altro, emersero conflitti legati alla formazione di un nuovo ordine globale. L'attentato terroristico dell'11 settembre 2001 contro la sede del World Trade Center a New York, percepito come l'inizio di una nuova fase storica, contribuì a consolidare le teorie, ispirate in particolare alle tesi dello studioso statunitense S. Huntington, dello 'scontro di civiltà' tra il liberalismo occidentale e l'integralismo islamico. Tale antitesi oscurò definitivamente la polarizzazione tra c. e anticomunismo, sulla quale si era retta la politica internazionale nei decenni della guerra fredda. La storia dei partiti e dei regimi comunisti seguita al crollo dell'Unione Sovietica, pertanto, può essere letta come una storia di sopravvivenze, mutazioni e adattamenti allo scenario del nuovo ordine globale.

Nel 2005 circa un miliardo e mezzo di persone, pari a un quinto della popolazione mondiale, viveva ancora sotto i regimi retti dai partiti comunisti in Cina, Vietnam, Laos e Corea del Nord, mentre alla periferia degli Stati Uniti Cuba continuava a rappresentare l'eccezione dell'unico regime comunista nel continente americano. Più di quindici anni dopo il crollo dell'Unione Sovietica, oltre quattrocento milioni di abitanti dei Paesi dell'Europa orientale sperimentavano ancora gli effetti del lungo e tormentato processo di superamento del 'socialismo reale': evidenze storiche confermavano come nell'immenso spazio geografico che va dall'Europa orientale all'Asia centrale, il processo di transizione dal c. a un sistema basato, da un lato, sulle istituzioni rappresentative della democrazia liberale e, dall'altro, sui principi dell'economia di mercato, risultava ancora controverso e, per molti versi, incompleto. La stessa definizione di transizione al postcomunismo, invalsa nel linguaggio giornalistico e nelle scienze sociali, è apparsa imprecisa e problematica, soprattutto in relazione al fatto che i passati regimi dell'ex blocco sovietico, pur essendo stati dominati dal monopolio politico dei partiti comunisti, adottarono nel corso della loro storia la definizione ufficiale di Stati socialisti.

Dopo il 1989, nei Paesi dell'Europa orientale i partiti comunisti che avevano dominato la vita politica nazionale nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale si divisero generalmente in due componenti, le quali diedero vita a formazioni politiche autonome: quella riformista d'ispirazione socialdemocratica, e quella comunista o neocomunista. Nel corso degli anni Novanta del 20° sec., in tutti i Paesi appartenuti all'ex blocco sovietico i neocostituiti partiti socialdemocratici ottennero un consenso crescente nelle elezioni politiche, facendosi interpreti del malcontento popolare suscitato dalla crisi economica, dalla disoccupazione e dai fenomeni di nuova povertà che accompagnarono la transizione all'economia di mercato. Al contrario, i partiti comunisti divennero senza eccezioni soggetti marginali nell'ambito dei rispettivi sistemi politici nazionali.

Nell'Europa occidentale la fine della guerra fredda e la disgregazione dell'Unione Sovietica impressero una rapida accelerazione al processo, iniziato nel corso degli anni Settanta e Ottanta, di generale riassestamento della cultura politica dei partiti e dei movimenti eredi della tradizione comunista. I partiti comunisti sopravvissuti al crollo del muro di Berlino, o i nuovi partiti comunisti nati dalla scissione interna alle formazioni politiche della sinistra postcomunista, incentrarono la propria identità politica sulla ricerca di nuove vie di superamento della società capitalistica, oltre la tradizione del movimento comunista internazionale, con forti accenti critici nei confronti dell'eredità del socialismo reale e dello stalinismo. Dall'inizio degli anni Novanta del 20° sec., in Europa, in America Latina e in Australia i partiti comunisti ricostituitisi dopo la fine della guerra fredda tentarono di combinare i fondamenti del marxismo con il radicalismo politico dei movimenti sociali, i quali, in nome dei principi dell'ambientalismo, del pacifismo, dei diritti umani e della differenza di genere, assunsero posizioni di antagonismo nei confronti delle politiche della cosiddetta globalizzazione capitalistica. Uno dei principali terreni di mobilitazione politica dei nuovi partiti comunisti nell'ambito del più ampio panorama dei movimenti antiglobalizzazione fu rappresentato dalla critica radicale nei confronti delle nuove guerre di fine secolo, in particolare in occasione della prima guerra del Golfo (1991), dell'intervento della NATO in Kosovo (1999), dell'intervento militare statunitense in Afghānistān (2001) e della seconda guerra del Golfo (2003). Al di là delle specifiche varianti politico-culturali, i partiti comunisti sopravvissuti alla fine della guerra fredda declinarono l'opposizione alla dottrina della guerra umanitaria nei termini di una contrapposizione al neoimperialismo statunitense. In generale, però, essi rimasero forze minoritarie nell'ambito dei movimenti new global, caratterizzati al loro interno da una molteplicità di ispirazioni politico-ideologiche e culturali.

Nel corso della conferenza internazionale svoltasi a Roma l'8 e il 9 maggio 2004, i partiti comunisti europei lanciarono il progetto di fondazione di un nuovo Partito della sinistra europea. Al progetto, concepito con l'obiettivo di riunire "partiti e organizzazioni politiche di ispirazione comunista, socialista, femminista, democratica, ambientalista, antiliberista e per la trasformazione sociale", aderirono come membri di pieno diritto il Partito della rifondazione comunista (Italia), i Partiti comunisti francese, austriaco e slovacco, i Partiti del socialismo democratico ceco e tedesco, il Partito comunista spagnolo, la Sinistra unita (Spagna; in Catalogna, la Sinistra unita e alternativa), la Coalizione della sinistra, dei movimenti e della ecologia (Grecia), il Partito socialdemocratico del lavoro estone, il Partito dei lavoratori (Ungheria), il Partito dell'alleanza socialista (Romania), la Rifondazione comunista (San Marino), il Partito del lavoro (Svizzera). Proiettato verso l'obiettivo strategico del superamento della società capitalista, il manifesto programmatico del costituendo Partito della sinistra europea assunse come punti qualificanti, tra gli altri, l'opposizione alla linea politica di G.W. Bush e all'idea della guerra permanente al terrorismo; la ripresa del conflitto sociale contro la "globalizzazione capitalista"; l'opposizione alle politiche di smantellamento dello Stato sociale, di "criminalizzazione dell'immigrazione" e di deregolamentazione del mercato del lavoro.

Sul versante dei regimi comunisti sopravvissuti al crollo dell'Unione Sovietica, gli anni Novanta del 20° sec. furono caratterizzati dall'avvio di massicce politiche di liberalizzazione del mercato. In modi e tempi diversi, principi di libero mercato furono gradualmente introdotti in Cina, a Cuba e in Vietnam, con la conseguenza di innescare significativi mutamenti nella struttura produttiva e nel tessuto sociale dei Paesi dove i partiti comunisti continuavano a detenere il monopolio del potere politico. In Asia la fine della guerra fredda favorì l'integrazione dei Paesi socialisti nell'economia globale. L'adesione della Cina alla World Trade Organization (WTO) ratificò i rapporti di cooperazione economica intessuti a partire dalla fine degli anni Ottanta dalla Repubblica popolare cinese con gli Stati Uniti e con l'Unione Europea. Nello stesso periodo in Vietnam vennero smantellati i pilastri dell'economia pianificata, in favore di un'apertura dell'economia nazionale, da un lato, agli investimenti stranieri e, dall'altro, all'intervento del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Con la sola significativa eccezione della Corea del Nord, la cui economia continuò a svilupparsi in una condizione di relativo isolamento dal contesto internazionale, nel corso degli anni Novanta, tutti i Paesi del continente asiatico retti da partiti comunisti abbandonarono il modello dell'economia centralizzata, incentivando la crescita di un sistema di economia mista ispirato al pragmatismo del cosiddetto socialismo di mercato.

A Cuba, dopo la drammatica fase di recessione economica della seconda metà degli anni Ottanta, culminata con l'esaurimento degli aiuti sovietici sui quali si era retta l'economia dell'isola negli anni Sessanta e Settanta, nel 1990 il regime comunista presieduto da F. Castro varò la prima di una lunga serie di riforme, le quali, in deroga ai principi dell'economia pianificata, crearono i presupposti per una graduale apertura agli investimenti stranieri. Questi ultimi assunsero prevalentemente la forma di joint venture e furono diretti soprattutto nel settore del turismo, considerato strategico per la ripresa dell'economia cubana, tradizionalmente ancorata alla coltivazione della canna da zucchero. Alla parziale liberalizzazione del mercato non fece seguito tuttavia l'avvio di processi di democratizzazione politico-istituzionale, nonostante le prime ampie contestazioni di piazza contro il regime svoltesi nel 1993 e l'esodo dei profughi verso le coste statunitensi. L'unica significativa apertura da parte del regime nel campo delle libertà civili riguardò la concessione di una relativa libertà di culto, in coincidenza della visita ufficiale di papa Giovanni Paolo ii a L'Avana, il 21 gennaio 1998.

Dall'Asia ai Carabi, i regimi comunisti sopravvissuti all'esaurimento della guerra fredda sono stati investiti tra la fine del 20° e l'inizio del 21° sec. da una crescente crisi di legittimità, alimentata, da un lato, dal radicamento di forti movimenti di opposizione politica interna, e, dall'altro lato, dall'emergere di una nuova allarmante questione sociale, scaturita da dilaganti fenomeni di impoverimento che hanno accompagnato la transizione all'economia mista, con effetti devastanti soprattutto nelle campagne. Tale quadro ha ispirato una nutrita letteratura scientifica, soprattutto in ambito politologico, sulla crisi strutturale che ha investito i regimi comunisti, in particolare in riferimento ai casi cubano e cinese, alimentando le previsioni di un loro eventuale 'collasso'. Parallelamente, tuttavia, la scienza politica ed economica ha manifestato un interesse crescente nei confronti degli sviluppi della transizione cinese, la quale rappresenta un caso unico nel panorama mondiale.

Negli anni Novanta del 20° sec., sotto la leadeshirp di Jiang Zemin, la Cina ha conosciuto una rapida crescita economica, incentrata sul modello del cosiddetto stalinismo di mercato, caratterizzato da un'inedita combinazione tra il monopolio politico del partito comunista, l'imposizione di forti limitazioni delle libertà civili, la negazione di sfere di autonomia della società civile e lo sviluppo di un sistema di economia mista, basato sulla coesistenza tra la proprietà statale o collettiva dei mezzi di produzione, da un lato, e la libera impresa, dall'altro. Un accentuato nazionalismo, soprattutto in riferimento alla riunificazione di Hong Kong e alle rivendicazioni sull'isola di Taiwan, l'aumentato peso diplomatico di Pechino sulla scena mondiale e il rafforzamento della potenza militare del Paese, il quale dispone attualmente di un esercito composto da 2,5 milioni di effettivi, costituiscono gli altri decisivi aspetti del crescente protagonismo della Cina nel nuovo ordine globale.

bibliografia

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