Comunismo: Societa postcomuniste

Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)

Comunismo: Società postcomuniste

Bronislav Geremek

Sommario: 1. Postcomunismo: due opposte interpretazioni. 2. Lo sfacelo del comunismo. 3. Tentativi di analisi. 4. Modelli di postcomunismo. 5. La trasformazione economica. 6. La libertà e la grammatica della democrazia. 7. Patologie, minacce, possibilità. □ Bibliografia.

1. Postcomunismo: due opposte interpretazioni

La catastrofe del comunismo e l'implosione dell'impero sovietico hanno stupito il mondo sia per la loro rapidità che per il loro svolgimento pacifico. Uno stupore certamente connesso alla preoccupazione per i costi politici ed economici della trasformazione, ma causato soprattutto da una mancata preparazione intellettuale ad essa. Nei paesi comunisti, i circoli dell'opposizione democratica condividevano la convinzione che la fine del sistema comunista avrebbe comportato il ritorno a una normalità in cui l'economia e la vita pubblica si sarebbero liberate dal peso della realizzazione della visione ideologica marxista-leninista. Il comunismo appariva allora una sorta di vicolo cieco; era quindi ovvio dedurne che bisognasse al più presto tornare sui propri passi, rintracciare il sentiero precedente. Si trattava di un ragionamento estremamente ingenuo, ma non privo di razionalità. Ripristinare la proprietà privata, far ritorno a un'economia di mercato: ciò non significava solo rendere concreto il principio di libertà in ambito economico, ma anche svincolare l'iniziativa umana e il potenziale creativo dai ceppi di ingiunzioni e spartizioni e dall'amministrazione centralizzata. Una scelta razionale e inevitabile, ma che non garantiva un cambiamento immediato e indolore.

Il compito di fronte al quale si trovavano i paesi comunisti nel momento della caduta del comunismo non aveva precedenti storici. Il comunismo, infatti, era il più totale dei sistemi totalitari, in quanto abbracciava non solo la sfera del potere e della vita sociale e culturale, ma anche quella economica. Il fatto che alcuni dei paesi comunisti disponessero di un più ampio margine di libertà economica - si pensi al caso della Polonia, dove si era conservata la proprietà privata in agricoltura - faceva sì che la definizione di ‛totalitario' venisse loro attribuita con una certa esitazione. Si trattava però di fenomeni epidermici, che non intaccavano la natura sostanzialmente totalitaria di questi Stati, i quali erano infatti privi di libertà sia nell'ambito della vita pubblica che in quello della vita economica. Un semplice ritorno a ciò che era stato prima del comunismo era impossibile: quella che si profilava era una sfida senza precedenti, con un altissimo livello di rischio. In Polonia tale situazione veniva illustrata con un'amara facezia: è risaputo che con un acquario si può fare la zuppa di pesce; chissà però se con la zuppa di pesce si può fare un acquario.

A partire dal 1989, in decine di conferenze nei più svariati paesi del mondo, si è dibattuto sul passaggio alla democrazia dei paesi dell'Europa centrale e orientale. Ha lentamente preso forma la convinzione che, benché la fine del vecchio sistema e ‛l'uscita dal comunismo' potesse avvenire in modi diversi, in ogni caso un determinato periodo di transizione fosse necessario. I ragionamenti troppo semplificati andavano a scontrarsi con la realtà. La ‛guerra fredda' era terminata, ma non era facile andare oltre l'affermazione che il totalitarismo aveva perso la battaglia contro la democrazia. Era difficile un'analisi sociologica dei vincitori e dei vinti. Non era neanche possibile asserire che il capitalismo reale avesse trionfato sul socialismo reale, dal momento che tale constatazione, per quanto esatta su scala mondiale e se riferita alla concorrenza dei sistemi, non corrispondeva però affatto alla realtà dei paesi ex comunisti, nei quali la caduta del comunismo aveva prodotto soltanto la possibilità di sostituire il ‛socialismo reale' con il ‛capitalismo reale', ossia con l'economia di mercato. Persino in un ambito come quello del potere politico, dove le trasformazioni sono in apparenza più semplici, è risultato chiaramente quanto sia difficile imprimere alla libertà la forma della democrazia. Infatti, non basta aver messo in moto i meccanismi del pluralismo politico e delle libere elezioni: è ancora necessario formare una magistratura indipendente, creare mezzi di comunicazione autonomi e credibili, decentrare il potere, giungere a una chiara divisione dei poteri e alla tutela dei diritti civili garantite da una democratica carta costituzionale. Infine è indispensabile una diffusa cultura politica democratica, la quale costituisce la condizione di più difficile realizzazione. È proprio quest'ultima - una sorta di capitale accumulato di esperienze, abitudini e principî - che, nella sfera politica, consente di differenziare il bene dal male, il vero dal falso, l'onestà e la competenza dalla ciarlataneria. I tratti peculiari e i pericoli dell'uscita dal comunismo erano già stati illustrati da una delle più penetranti analisi di tale processo: il saggio di Ralf Dahrendorf (v., 1990) sulla rivoluzione in Europa orientale. L'ancien régime comunista non poteva venir semplicemente cancellato, era necessario uscirne: al comunismo succedeva il postcomunismo.

Con il termine ‛postcomunismo' non si intende affatto un proseguimento del comunismo. La parte più importante della parola è il prefisso: il comunismo è un fenomeno già concluso; sembra però che, nel periodo di trasformazioni che lo segue, continui a restare sulla pubblica scena l'organismo in putrefazione del vecchio sistema. Il postcomunismo è caratterizzato dalla volontà generale di sostituire il sistema totalitario con un sistema basato sulla libertà; l'economia di mercato e l'organizzazione democratica dello Stato vengono considerate un programma evidente e privo di alternative, ma allo stesso tempo permangono una certa nostalgia per l'onnipresenza protettiva dello Stato, la paura del rischio che nasce dalla concorrenza, l'avversione per il gioco di interessi collegato al pluralismo politico. Viene alla luce anche la contraddizione interna fra economia e politica. L'economia esige un concreto processo di trasformazione, la cui cadenza va misurata sulla scala dei decenni; la politica è invece sottoposta al ritmo breve e affannoso delle campagne elettorali che si susseguono lasciando, nel migliore dei casi, un periodo di appena due anni per tentare la realizzazione di programmi razionali, ma spesso impopolari. L'esempio della Polonia, dove dal 1990 al 1995 solo un anno è stato privo di campagne elettorali, indica che non è possibile mitigare questa contraddizione. Inoltre, l'impatto drammatico delle trasformazioni economiche rende necessario un governo forte ed efficiente, e ciò - a volte - può dar adito alla tentazione di rifiutare i governi democratici e parlamentari a favore di opzioni autoritarie. Oggi è però lecito asserire che nei paesi dell'Europa centrale - vale a dire in quell'area postcomunista in cui il processo di uscita dal vecchio regime ha già assunto un carattere irreversibile - la tentazione autoritaria non ha conseguito alcun successo. In due paesi che avevano scelto in modo esplicito un programma di trasformazioni radicali (definito dagli avversari, ma a volte anche dai sostenitori, una ‟terapia da shock"), cioè Polonia ed Estonia, benché le forze riformatrici abbiano perduto potere, i governi democratici sono rimasti in carica. Se vogliamo prescindere dalle polemiche sui termini e dai dibattiti sulla cronologia e sulla geografia del fenomeno in esame, un dato resta fuori discussione: il postcomunismo è una realtà del tutto diversa da quella identificata dalla parola ‛comunismo'.

Gli avvenimenti del periodo di transizione hanno comunque conferito al concetto di postcomunismo significati differenti. Nella maggior parte dei paesi dell'Europa centrale e orientale i vecchi partiti comunisti - che d'altronde si fregiavano spesso dell'aggettivo ‛operaio', ‛popolare' o ‛socialista' - hanno deciso di sciogliersi e di rifondarsi, oppure di cambiare denominazione, assumendo quella di partito ‛socialdemocratico', ‛socialista' oppure ‛democratico di sinistra'. Il cambiamento di nome poteva costituire un espediente tecnico, un adeguamento formale alla nuova situazione, oppure rappresentare la manifesta volontà di abbandonare l'ideologia e la pratica totalitaria per adeguarsi allo scenario democratico e al pluralismo politico. È comunque difficile tracciare una linea di demarcazione fra queste due tendenze - fra le quali non necessariamente sussiste una contraddizione radicale - ma in ogni caso è necessario chiedersi con quanta forza questi partiti vecchio-nuovi abbiano voluto tagliare i ponti con il loro passato, e in che misura abbiano invece inteso dare un seguito all'ideologia e alla pratica del vecchio sistema. Dopo il periodo di riforme iniziali, il ritorno sull'arena politica dei partiti ex comunisti ha infatti destato un certo stupore. Oltre all'elettorato più fedele, che persino nel periodo della più profonda debolezza nella maggior parte dei paesi dell'area andava dal 12 al 15%, questi partiti hanno conquistato in questi ultimi anni il consenso degli offesi e dei disillusi, imponendosi in Lituania, in Polonia, in Ungheria e in Bulgaria. In alcuni paesi essi hanno ottenuto la maggioranza in parlamento; in altri, come la Polonia, dove invece hanno raggiunto solo il 20% dei consensi, hanno creato delle coalizioni di governo. Per quanto riguarda le ex repubbliche sovietiche, l'elezione di Aleksandr Lukašenko a presidente della Bielorussia nel 1994 con una maggioranza dell'80% potrebbe essere vista come un sintomo sia della reversibilità delle trasformazioni del sistema, sia della possibilità che venga ripristinata l'antica struttura imperiale.

Si è resa così possibile un'interpretazione del postcomunismo nuova e opposta alla precedente: la sua essenza sarebbe - camuffata sotto altra veste - la rinascita del comunismo. Si tratterebbe di una sua resurrezione, di una nuova comparsa, dunque di un comunismo post mortem. La descrizione e l'analisi di fenomeni avvenuti in un breve arco di tempo crea ovvie difficoltà interpretative e rende necessaria l'assunzione di ipotesi di lavoro. Si può ragionevolmente affermare che niente nel panorama attuale stia a indicare la possibilità di un ritorno del comunismo, neanche prevedendo la rinascita della struttura imperiale. In Europa centrale - e persino in Europa orientale - i partiti che si definiscono comunisti o che propongono nei loro programmi un ritorno al comunismo hanno un carattere marginale e possono solo servire da appoggio a forze nazionaliste. Ammettendo quindi che anche i partiti postcomunisti partecipino alla vita politica postcomunista, non ci allontaniamo dalla convinzione che l'essenza del postcomunismo consista nella morte del comunismo stesso e nell'irreversibilità delle trasformazioni iniziate con il 1989: un dato di fatto che i figli postumi del comunismo non sono in grado di alterare. Tuttavia, riteniamo che gli spostamenti nella distribuzione del potere in ambito postcomunista non siano normali oscillazioni del pendolo politico a sinistra, al centro o a destra, sul modello di quanto avviene nei paesi democratici. Si tratta invece di movimenti più drammatici e più gravidi di minacce. Adam Michnik li definisce la ‟restaurazione di velluto". Certamente comparaison n'est pas raison, ma il paragone di Michnik sottolinea anche quanto queste trasformazioni siano irreversibili: così come la Restaurazione non ha cambiato il nuovo corso della storia francese iniziato nel 1789, allo stesso modo la restaurazione di velluto non cancella l'eredità del 1989.

2. Lo sfacelo del comunismo

La storia del disfacimento del sistema comunista è ancora tutta da scrivere e la sua interpretazione, allo stato attuale, resta più nella sfera intuitiva che in quella della riflessione analitica. Abbiamo una conoscenza limitata e imperfetta della reale situazione economica e politica. A tutt'oggi molti archivi non sono accessibili agli storici, mentre altri non sono ancora stati oggetto di analisi sufficientemente approfondite. La documentazione statistica risulta in gran parte priva di valore (come è stato dimostrato, per quanto riguarda le statistiche sovietiche, da N. Semelëv). Le analisi dell'economia sovietica condotte dalla CIA o da altri istituti occidentali specializzati si sono dimostrate non tanto eccessivamente ottimistiche sotto il profilo della valutazione, quanto totalmente inadeguate rispetto alla realtà. Con lentezza vengono progressivamente resi pubblici gli archivi politici e i protocolli delle sedute degli organi direttivi dei partiti comunisti; quel che ne emerge è una stupefacente miseria del pensiero politico, una debole conoscenza del reale, la priorità della dottrina sulla verità.

La ‟grande illusione" - così l'idea comunista è stata recentemente definita da François Furet (v., 1995) - ha subito una sconfitta morale e intellettuale; l'impatto con la realtà ha mostrato l'unione indissolubile fra comunismo e sistema concentrazionario. Si tratta di una verità che, sostenuta da alcuni già agli albori dell'esperienza bolscevica, negli anni settanta era diventata così diffusa da spogliare l'idea comunista di qualsiasi forza di attrazione. Il sistema di potere comunista, tuttavia, non si era mai certamente basato sulla forza di attrazione dell'idea, né sulla falsa coscienza; a monte della catastrofe stanno quindi le sconfitte della politica reale.

Sconfitte anzitutto in campo economico. Nikita Chruščëv aveva annunciato che l'Unione Sovietica avrebbe ‟raggiunto e superato" il livello di reddito nazionale degli Stati Uniti; un'affermazione che aveva per lungo tempo tenuto accese speranze reali, per quanto facesse parte della stessa retorica che caratterizzava frasi del tipo ‟non esiste al mondo fortezza che i bolscevichi non possano espugnare", e fosse inoltre palesemente priva di senso. Speranze che lo scorrere del tempo si è quindi incaricato di far sfumare crudelmente, rendendole ridicole. I tentativi di liberalizzare la politica economica erano in contraddizione con la natura del sistema stesso, costituivano - come ha scritto Martin Malia - una sorta di aberrazione rispetto alla sua logica interna: ‟è evidente che tre anni di comunismo di guerra, venticinque anni di Stalin e diciotto anni di Brežnev assommati formano la norma empirica della storia sovietica, mentre gli otto anni di NEP e le iniziative di Chruščëv ne costituiscono appunto un'aberrazione" (v. Malia, 1994, p. 148). L'economia sovietica era un elemento costitutivo dello Stato totalitario e in questo senso non era passibile di riforme, in quanto queste avrebbero richiesto l'abbattimento del sistema stesso. L'inefficienza dell'economia era diventata manifesta in quanto le risorse a buon mercato fornite dalle ricchezze naturali e dal lavoro si erano esaurite, e allo stesso tempo la Russia non partecipava - almeno al di là della sfera militare - alla rivoluzione elettronica e informatica. A partire dal 1979 e per tutto il decennio seguente la Russia era rimasta su un livello di crescita economica zero. Benché negli anni ottanta l'Impero sovietico avesse mantenuto la supremazia militare nell'ambito delle armi convenzionali, l'effetto della corsa agli armamenti, e in particolare il programma di ‛guerre stellari' del presidente Reagan, era stato letale per l'Unione Sovietica: l'economia improduttiva, piegata da questo sforzo, aveva subito un tracollo definitivo.

La seconda sconfitta riguardava il sistema di potere imperiale. Il richiamo ideologico alla lotta di classe e al ruolo storico della classe operaia - o piuttosto al ‟proletariato metafisico", come dice Leszek Kolakowski - doveva comportare il superamento non solo dei conflitti nazionali, ma anche delle singole aspirazioni nazionali alla sovranità politica. Decenni di comunismo al potere non erano riusciti a soffocare tali ambizioni né nell'area delle ‛democrazie popolari' più indipendenti, con funzione di paesi satelliti, né nelle repubbliche che facevano parte integrante dell'URSS. Dagli albori della perestrojka, infatti, le aspirazioni all'identità e all'indipendenza nazionale cominciarono a manifestarsi ovunque, diventando un fenomeno dalla forza sempre crescente. Se nel 1953 a Berlino Est, nel 1956 a Budapest, nel 1968 a Praga la risposta di Mosca non aveva lasciato adito a dubbi - rammentando in modo brutale che in nome della ‛solidarietà internazionalistica' ogni manifestazione di indipendenza nazionale sarebbe stata crudelmente soffocata -, nel 1980 e nel 1981 la reazione nei confronti del movimento polacco di Solidarność era stata diversa; dal 1986 in poi, inoltre, era venuta a mancare la forza sufficiente a soffocare in nuce la rivolta dei Tartari, i tumulti in Transcaucasia o il nascere dei ‛fronti popolari' nelle Repubbliche del Baltico. Lo Stato sovietico, la cui espansione imperiale aveva subito sconfitte solo in Polonia nel 1920 e in Afghanistan nel 1979-1988, aveva perduto la possibilità di ulteriori espansioni. Dal periodo della Rivoluzione bolscevica fino al 1989 il suo estendersi non aveva conosciuto sosta. Adesso la tendenza si invertiva: il potere iniziava a contrarsi.

La terza sconfitta è stata meno spettacolare perché ha avuto carattere interno. Nel 1986 Seweryn Bialer definì ‟paradosso sovietico" il netto contrasto fra espansione esterna e caduta interna. Proprio allora questo paradosso si risolse con il blocco dell'espansione esterna, ma - e qui sta il fattore essenziale - tale blocco era stato in realtà preceduto dal declino interno. Un declino che non va riferito solamente all'economia e allo Stato, ma che comprende anche la sfera della psicologia collettiva. Ogni forma di totalitarismo ha bisogno di partecipazione sociale, di una sorta di autorizzazione a governare. In questo campo il comunismo era eccezionalmente abile: applicava efficacemente ‟l'ingegneria delle anime", creava un'apparenza di legittimità. La lunga vita del fenomeno della dissidenza, però, e le ripercussioni morali del rifiuto di ‛partecipare alla menzogna' cominciarono a erodere le fondamenta del sistema. Le dimensioni di questo fenomeno - in Russia da una parte, e in Polonia o in Ungheria dall'altra - erano differenti, ma l'essenza era la medesima.

Negli anni ottanta finirono i governi dei vegliardi del Cremlino (pure assai più giovani dei leaders cinesi). Dopo Leonid Brežnev, decrepito da anni, nel 1982 assunse il potere Jurij Andropov. Era significativo che a capo dell'impero fosse giunto proprio l'ex capo del KGB, in quanto era nella sfera della polizia politica che si conosceva al meglio la situazione reale dello Stato e si era anche bene informati sulla realtà dell'Occidente. Fu allora che si fece strada l'idea di un cambiamento radicale, in grado di modernizzare il sistema. Dopo il breve interludio di Konstantin Černenko (1984-1985) assunse il potere Michail Gorbačëv, considerato il protetto politico di Andropov, e sarà proprio nello spirito del cambiamento che il nuovo leader formulerà il suo programma, imperniato sulla perestrojka e sulla glasnost′.

L'evoluzione della Russia negli anni di Gorbačëv conferma la verità delle parole di Tocqueville: per un cattivo governo non esiste periodo peggiore di quello in cui comincia a riformarsi. È difficile sottovalutare il ruolo di Gorbačëv nel processo di disfacimento del comunismo. Si può evitare di chiedersi se egli prevedesse le conseguenze derivanti dalla messa in opera del suo programma. Certamente voleva salvare l'impero esistente prima della caduta interna, forse voleva addirittura salvare il comunismo, adattandolo alle esigenze del tempo. Le parole che Gorbačëv disse a Erich Honecker durante la cerimonia per il quarantennale della Repubblica Democratica Tedesca, il 7 ottobre 1989 - ‟la vita punisce i ritardatari" - possono venir assunte a suo motto. È solo in apparenza paradossale affermare che il risultato del programma di ‛ricostruzione' del sistema comunista è rappresentato dalla caduta di quest'ultimo, e che l'esito del programma di razionalizzazione e modernizzazione dell'apparato statale è stato lo sfacelo dell'impero. Gorbačëv, così come in precedenza Nikita Chruščëv, aveva applicato al proprio sistema principî e norme che al di fuori di quello avevano dato dei buoni risultati: a modo suo aveva tentato di dargli un volto umano. Si era però ritrovato nella situazione dell'apprendista stregone, che, avendo messo in moto delle forze, non era più in grado di dominarle.

Gli eventi sembravano precipitare a valanga. Dopo la ‛tavola rotonda' e le elezioni polacche, parzialmente libere, ancora in quello stesso 1989 viene a cadere il monopolio dei governi comunisti in Cecoslovacchia e in Ungheria; è quindi il turno della Bulgaria e della Romania, infine delle repubbliche baltiche. Viene abbattuto il muro di Berlino e si giunge, nel 1990, all'unificazione delle due Germanie; viene sciolto infine il Patto di Varsavia, l'Unione Sovietica cessa di esistere. Raramente nella storia si è assistito a una accelerazione simile.

3. Tentativi di analisi

Fin dall'inizio attori e spettatori degli avvenimenti del 1989 ne hanno fornito interpretazioni di ogni tipo. Comprendere quanto stava avvenendo era infatti la condizione imprescindibile per ogni azione futura. La prima reazione era stata euforica: era la vittoria della libertà sulla sopraffazione, il totalitarismo aveva ceduto di fronte alla democrazia. In ambito politico ciò significava la dissoluzione dell'impero sovietico e il crollo del monopolio del potere detenuto dal Partito Comunista; in quello economico, l'abbandono di un'economia statale e centralizzata a favore di un'economia di mercato. Sembrava che, al di là di ogni dubbio, gli eventi avessero dato ragione ai ‛romantici' piuttosto che ai ‛realisti'. Questi ultimi ritenevano infatti che il compromesso con il sistema comunista fosse non solo l'unica strada per il mantenimento della pace e della stabilità nel mondo, ma anche il solo modo di fornire un aiuto effettivo agli abitanti dei paesi comunisti. Era un principio di ‛realismo politico' cui si manteneva fedele la SPD tedesca con la sua Ostpolitik, ma lo stesso si può dire della maggior parte dei governi occidentali. Con il termine ‛romantici' definiamo invece coloro che, all'interno dei paesi comunisti, avevano intrapreso una lotta all'apparenza disperata contro il totalitarismo e coloro che, convinti dell'utilità di tale atteggiamento, lo appoggiavano. L'anno 1989 non ha però portato una soluzione chiara. In economia si sono potuti osservare processi sfocianti in una sorta di ibridazione, in cui forme di ‛socialismo reale' si mescolavano a forme di capitalismo; in campo politico non è tuttora chiaro chi siano i vincitori e chi i vinti. I costi sociali della trasformazione hanno provocato frustrazione e avvilimento. La facciata esterna del fenomeno, visto con gli occhi dell'Occidente, ha inoltre mostrato che nel cuore stesso del sistema era intervenuto un ulteriore elemento di ambivalenza: a un uomo politico ritenuto araldo della democrazia e della modernizzazione succede un politico che ha fama di despota, a Gorbačëv segue Boris El′cin. Ciò non getta forse un'ombra sull'eredità del 1989?

La caduta del sistema comunista è stato l'avvenimento più drammatico della seconda metà del nostro secolo. In un primo tempo si è dissolta - senza alcuna guerra - l'autorità imperiale sui paesi ai quali il comunismo era stato imposto dopo la seconda guerra mondiale; quindi è stato il turno dei paesi annessi all'URSS durante la guerra; infine una delle due superpotenze mondiali è uscita dalla scena politica, abbandonando il proprio nome, prendendo commiato dai propri simboli, cancellando la propria mitologia storica. Il destino di centinaia di milioni di persone si è trasformato. Applicando à rebours l'interpretazione marxista della storia si potrebbe dire che così doveva essere. Ma il tempo è un comprimario determinante della storia. Persino se la disfatta del comunismo fosse stata inevitabile, e come iscritta nella sua genesi, il tempo in cui essa è avvenuta può essere stato il risultato o di processi interni o di un concorso di circostanze, oppure di una fusione, come spesso avviene nella storia, degli uni e dell'altro.

Il sistema comunista è stato edificato nella convinzione di portare a compimento una necessità determinata dalla ‛ragione storica': il programma politico definito dalla Terza Internazionale aveva infatti carattere di scienza esatta, era il ‛socialismo scientifico'. Il comunismo doveva rendere concreta questa sua pretesa missione, eliminando le contraddizioni e le patologie dell'economia liberale, da esso valutate come tipiche della democrazia parlamentare, e legittimando così di fatto la costruzione di un potere totalitario. Sostituendo il mercato e i suoi processi spontanei con la pianificazione razionale e la gestione centralizzata, il comunismo avrebbe dovuto affrancare l'economia dalle sue crisi, mentre avrebbe sconfitto la miseria grazie alla collaborazione armoniosa dei produttori. Avvenne esattamente il contrario: i paesi comunisti dovettero accontentarsi di un livello di sussistenza misero causato da un'economia sempre più insufficiente, in evidente contrasto con i paesi a economia di mercato, il cui ritmo elevato di crescita economica assicurava un'ampia prosperity. All'inefficiente democrazia parlamentare, in cui le élites governano la vita pubblica senza consentire l'accesso al potere alla maggior parte della società, era destinata a succedere la dittatura del proletariato, nella quale il potere è condiviso da più ampi strati sociali. Anche in questo caso si realizzò il contrario: il monopolio di governo era esercitato da un apparato partitico esclusivo sottratto a qualsiasi controllo sociale, mentre le masse restavano prive di reali diritti politici. Il campo di lavoro coatto, il ben noto ‛arcipelago Gulag', risultò essere il vero volto del sistema. Nel confronto con il reale, l'ideologia comunista aveva perduto completamente la propria identità. La sua bancarotta l'aveva ridotta a mero pensiero pragmatico, a confrontarsi, cioè, con i problemi reali in base a criteri a essa estranei. La dissoluzione dell'ideologia comunista significava dunque non solo il venir meno della forza di mobilitazione del sistema e del suo partito unico, ma anzitutto la perdita di qualsiasi loro legittimità.

La palese e chiara sconfitta economica del socialismo reale ha costituito il motore principale di questo svuotamento ideologico. Ciò ha avuto un significato tanto maggiore in quanto il marxismo misurava il progresso - e quindi anche la superiorità di un sistema sull'altro - basandosi proprio sulla crescita economica e sullo sviluppo delle forze produttive. La risposta era lampante, non lasciava dubbi. Il fallimento andava ricondotto a profondi vizi interni, e non solo alla convulsa crisi finale. Nei paesi dell'Europa centrale crisi simili si manifestavano a intermittenza, causando delle esplosioni di malcontento sociale che venivano soffocate con la forza. Così era successo in Polonia nel 1956, poi nel 1970 e nel 1976. Alle crisi facevano seguito dei tentativi di liberalizzazione politica e anche una certa applicazione dei principî dell'economia di mercato. Aveva dunque luogo una contraddizione fra le esigenze dell'economia e quelle del potere; il mantenimento di esso nelle mani del Partito Comunista doveva inevitabilmente condurre alla catastrofe economica. Alle soglie degli anni ottanta era in piena crisi l'intera regione dell'‛altra Europa': una crisi visibile nella caduta della crescita economica, nella bassa produttività del lavoro, nel crescente ritardo tecnologico. Si potevano riscontrare alcune diversità nella situazione o nelle tendenze di sviluppo, sia fra le singole repubbliche sovietiche che fra i vari paesi dell'Europa centrale. Dal punto di vista economico, l'Ungheria - grazie alle riforme di János Kádár - e la Repubblica Democratica Tedesca - grazie all'afflusso di fondi dalla Repubblica Federale - si distinguevano positivamente fra i paesi del blocco orientale, ma in questi paesi i segni del benessere erano stati cancellati dalla cattiva congiuntura economica internazionale degli anni settanta. In misura ancora maggiore questa cattiva congiuntura si era riflessa sulla situazione economica della Polonia, che pagava una politica di modernizzazione tecnologica inefficace con il peso enorme dell'indebitamento estero. Venne alla luce l'inerzia economica del blocco comunista, lo sperpero delle risorse materiali e umane. Il livello della mortalità infantile può essere assunto a simbolo generale dell'inettitudine del sistema: mentre nei paesi dell'Europa occidentale arrivava a circa l'8%, in Bulgaria toccava il 15%, in Ungheria il 17%, in Polonia il 18% e in URSS, Romania e Iugoslavia il 25%.

Un'altra delle interpretazioni possibili della caduta del comunismo e del disfacimento di una delle due superpotenze mondiali si rifà alla rivalità dei due sistemi, vale a dire alla guerra fra i due blocchi politico-militari. La guerra fredda è terminata nel 1989, e le guerre finiscono sempre con la vittoria degli uni e la sconfitta degli altri. È difficile inserire il concetto di guerra fredda fra le categorie delle scienze militari, dato che qui il termine ‛guerra' ha carattere metaforico. La guerra fredda significava in primo luogo lo scontro fra sistemi di valori differenti, ma esprimeva anche la rivalità tra due potenze economiche, politiche e militari. Da parte dell'Occidente era stato messo in moto un complesso insieme di iniziative politiche, a cominciare dal containement fino al Patto Atlantico. Anche i conflitti armati in Asia e in Africa avevano avuto luogo nella cornice della guerra fredda e venivano considerati come una prova di forza fra i due campi. Su tutti questi terreni di confronto l'anno 1989 ha attribuito all'Occidente la palma del vincitore. Inoltre, si può sostenere che la guerra fredda sia stata in grado di fare ciò che non era riuscito a nessuna ‛guerra calda', vale a dire ha contenuto la tendenza secolare della Russia all'ampliamento della propria sfera di azione e di influenza (nel 1985 il cancelliere Helmut Kohl aveva citato proprio questa tendenza a sostegno della tesi dell'inutilità di qualsiasi pressione sull'URSS). Se il bilancio della guerra fredda sia costituito dalla vittoria degli Stati Uniti sull'URSS, e persino dell'Occidente sull'Oriente, rimane, ciononostante, dubbio: le caratteristiche specifiche della guerra fredda rendono infatti difficile definirne i vincitori e i vinti.

Esiste infine la dimensione delle azioni umane, della resistenza contro il sistema comunista: un fattore sempre sottovalutato nelle diverse analisi politiche. Il comunismo richiedeva la partecipazione della società, si sforzava di conquistarsi almeno le apparenze dell'approvazione pubblica. E per un lungo periodo ci era anche riuscito, su vasta scala: lo sta a testimoniare la partecipazione di massa alle elezioni, comune a tutta l'area. In un paese come la Polonia, tuttavia, perdurava un'istituzione autorevole e indipendente, anche se vincolata al suo stesso enorme potere: la Chiesa cattolica. In tutti i paesi a regime comunista gli appelli alla resistenza partivano dai circoli intellettuali e artistici, e gli argomenti usati erano di carattere morale. L'appello di Alexandr Solženicyn a rifiutare la menzogna può esser considerato un esempio di questo tipo di ragionamento, ma è anche difficile non riconoscere che i suoi effetti furono assai limitati. Il fenomeno della dissidenza russa con la sua ‟Cronaca degli avvenimenti correnti", il giornale clandestino indipendente scritto a macchina, rimase comunque un fenomeno marginale par excellence, ben consapevole di essere condannato alla sconfitta. Sia durante la Conferenza di Helsinki (1975) che nel corso della realizzazione dell'‛Atto Conclusivo', il dibattito intorno al ‛terzo cesto' (basket three) - l'insieme delle questioni inerenti ai diritti dell'uomo - aveva dato un vitale incitamento alla resistenza, controbilanciando così il secondo effetto della Conferenza, la legittimazione di Brežnev e dello status quo comunista. I diritti dell'uomo, divenuti uno degli strumenti del pensiero politico internazionale, avevano creato le basi su cui la società civile dei paesi comunisti poteva iniziare ad agire. L'effetto di questo fenomeno si rafforzava in modo direttamente proporzionale al disfacimento dell'Unione Sovietica, soprattutto in relazione al programma di riforme di Gorbačëv, ma paradossalmente riguardava in misura assai minore la stessa Unione Sovietica ed era anzitutto visibile nei paesi satelliti dell'Europa centrale. Quanto più il regime era liberale e riformatore, tanto più erano forti la resistenza sociale e la rivolta. Ciò consente di capire lo sviluppo della società civile in Polonia, soprattutto negli anni settanta. La rete delle organizzazioni indipendenti era un fatto pubblico, così come il numero crescente di pubblicazioni che rifiutavano l'accusa di illegalità e si definivano ‟oltre la portata della censura". A volte veniva espressa l'idea che, seguendo questa evoluzione, sarebbe stato possibile ampliare le zone di autonomia della società rispetto al monopolio del partito al governo, e addirittura arrivare a limitarne il potere alla sfera della polizia e dell'esercito. Per quanto tale convinzione possa sembrare ingenua, fu proprio essa a indirizzare il movimento di emancipazione sociale. Un movimento culminato, in Polonia, nei cinquecento giorni di esistenza legale di Solidarność, dopo i sette anni di clandestinità. Il movimento - e ancor più la posizione pubblica da esso assunta - aveva carattere epidemico. Non bisogna forse individuare le forze responsabili della caduta del comunismo nel comportamento generalizzato di rifiuto di partecipazione al sistema?

Se tralasciamo la teoria del complotto, secondo cui la caduta del comunismo sarebbe stata soltanto un'operazione fittizia, pianificata e organizzata dal KGB - una teoria sostenuta da alcuni politologi -, si può asserire che le analisi della caduta del comunismo abbiano attribuito un significato particolare alle cause interne, alla patologia del sistema, ai processi di inefficienza e sfacelo, e in misura minore alle pressioni esterne. Ma i principali tratti caratteristici del postcomunismo in quanto fenomeno si erano delineati grazie al movimento di opposizione al sistema, che si andava disgregando.

4. Modelli di postcomunismo

Nell'interpretare il fenomeno del postcomunismo possiamo individuare tre concezioni generali: nel primo caso si tratterebbe della ‛fine della storia', una separazione netta fra due epoche; nel secondo caso si sarebbe aperta una strada che unisce il capitalismo al socialismo reale; nel terzo, infine, il postcomunismo coinciderebbe con una fase di passaggio fra un sistema totalitario abbattuto e un sistema basato sulla libertà politica ed economica.

La tesi sulla ‛fine della storia', presentata dal politologo americano Francis Fukuyama, si riallaccia alla filosofia della storia di Hegel (e ai lavori di Alexandre Kojève) e vede nella vittoria finale dell'economia di mercato e nella democrazia liberale la soluzione dei conflitti storici e la vittoria della libertà. Gli avvenimenti drammatici nell'Europa postcomunista dopo il 1989 hanno però mostrato che la libertà conquistata ha fragili radici nella realtà e che i problemi nazionali e sociali che emergono dalle rovine del comunismo creano nuovi pericoli e nuovi conflitti. Non esiste quindi una frattura netta fra due epoche: la storia non si ferma.

L'idea della terza via nasce invece dal pensiero di matrice cristiano-democratica e social-democratica. L'avversione al capitalismo, al profitto e alla ricchezza appartiene alla dottrina sociale delle Chiese cristiane. Le Chiese riformate sono riuscite a vincere questa ostilità dal punto di vista teologico e pratico (la celebre tesi di Weber attribuiva al protestantesimo un ruolo essenziale nella genesi del capitalismo), mentre la Chiesa cattolica si è mantenuta diffidente verso il liberalismo come programma e come movimento politico. La posizione di equidistanza dal socialismo e dal capitalismo era accompagnata dalla convinzione che fosse necessario trovare una strada a parte. L'atteggiamento della Chiesa nei confronti del liberalismo è mutato solo negli ultimi anni, mentre permane tuttora l'interesse per la terza via. La situazione è simile per quanto riguarda i partiti socialdemocratici europei, che, pur avendo in realtà rifiutato nettamente il sistema comunista, hanno ammorbidito il proprio atteggiamento anticapitalista solo in seguito al processo di abbandono del marxismo. Nell'ambito della socialdemocrazia, la ricerca della terza via era nata spontaneamente su questo terreno. Agli occhi dei paesi che si andavano liberando dal regime comunista era così apparsa la visione di un modello possibile di società, in grado di unire i lati positivi di entrambi i sistemi. L'esperienza stessa delle fallite riforme del socialismo reale indicava però come in sostanza la ricerca di una terza via fosse illusoria. A questo programma si legava il concetto di ‛economia sociale e di mercato', ripreso da Tadeusz Mazowiecki nel 1989 nel discorso di presentazione del suo governo. Si tratta di una concezione elaborata dai democratici cristiani tedeschi dopo la seconda guerra mondiale - e in seguito fatta propria anche dai socialdemocratici - la quale mette a fondamento dell'organizzazione economica la proprietà privata e i meccanismi di mercato, ma postula al tempo stesso una politica sociale a sostegno delle categorie più deboli. Ma non era certo questa la terza via.

In base alla terza interpretazione, il postcomunismo appare come l'antitesi del comunismo, come la sua negazione: è evidente la distanza fra il vecchio regime e il processo di trasformazione in atto. Ma abbandonare il regime comunista non significava semplicemente eliminare la crosta sotto la quale sarebbe apparso l'edificio della normalità. Era indispensabile una fase intermedia per poter creare le condizioni grazie alle quali l'Europa postcomunista avrebbe potuto adeguarsi al resto d'Europa, e ognuno dei paesi avrebbe potuto organizzare e difendere al meglio gli interessi dei propri cittadini; un periodo di transizione, nel corso del quale realizzare questi compiti specifici, era dunque indispensabile. Le esperienze degli anni seguiti allo slancio liberatorio del 1989 inducono ad accettare questo approccio.

Se dobbiamo considerare come una rivoluzione la caduta del comunismo in Europa centrale e orientale - e molti studiosi dell'età contemporanea rifiutano recisamente questa tesi - si è trattato certo di una rivoluzione sui generis. Vi riscontriamo la classica relazione fra insurrezione popolare e conflitto nel centro di potere, e vi è anche chiaro il ruolo svolto dall'intelligencija, simile a quello osservato durante la Rivoluzione francese o le rivoluzioni del 1848: la critica radicale al sistema considerato nel suo insieme - ouverture alla rivoluzione classica - aveva preso forma proprio negli ambienti intellettuali. La celebre formula di Lenin sulla situazione rivoluzionaria, come quella in cui ‟i vertici non possono più, e le basi non vogliono più", può essere usata anche per descrivere la situazione precedente alla caduta del comunismo. Si è trattato al di là di ogni dubbio di una trasformazione drammatica, benché sia avvenuta senza uso della violenza e in assenza di un contesto bellico (l'unica eccezione cruenta è stata la Romania).

Una differenza essenziale rispetto al processo rivoluzionario classico è invece costituita dal fatto che le trasformazioni del 1989 non possono essere ridotte a una interpretazione sociologica che risponda alla domanda: chi ha vinto, chi è stato sconfitto? La classe al governo in sostanza ha rinunciato a difendersi e ha invece iniziato immediatamente - e con successo - a cercarsi una collocazione all'interno del nuovo sistema. I vincitori non hanno preteso la repressione delle vecchie élites, e il problema della responsabilità per il passato è stato posto solo in misura limitata. Gli antichi leaders hanno partecipato ai governi formatisi dopo il cambiamento sia, come in Polonia, prendendo parte a coalizioni, sia (è il caso di Bulgaria e Romania) cambiando i propri colori politici. Fuori dei confini rumeni non ci sono state esecuzioni capitali e, tranne che nel caso della RDT, non si sono praticamente tenuti processi politici. Tutto ciò ha avuto un significato fondamentale, in quanto nella coscienza della società non si è venuto a creare un senso di separazione e di frattura psicologica, di distacco radicale dal vecchio sistema. Quest'ultimo aveva indubbiamente perduto, senza però venir condannato in modo spettacolare.

Rispetto al modello rivoluzionario classico, nelle trasformazioni del 1989 è mancata anche qualsiasi visione utopistica. La democrazia e l'economia di mercato a volte sono apparse in un'aura fantastica, ma venivano considerate in realtà come un modo per tornare allo status quo precedente il comunismo, oppure come il biglietto d'ingresso nella normalità dell'Europa contemporanea. Da ciò si deduce anche che nella rivoluzione del 1989 va vista piuttosto la volontà di restaurazione, di ritorno al passato, alla situazione antecedente la presa del potere da parte dei partiti comunisti. Punto di partenza del postcomunismo era la realizzazione di libere elezioni: le autorità democraticamente elette avrebbero quindi dovuto cambiare ciò che andava cambiato, smantellare il superfluo, creare il necessario e dirigere il processo di trasformazione.

Il saggio di Ralf Dahrendorf (v., 1990) sulle rivoluzioni del 1989 ha tentato - sul modello delle famose Reflections di Edmund Burke sulla Rivoluzione del 1789 - un'analisi a caldo delle trasformazioni in atto sulle macerie del comunismo. Il politologo tedesco-britannico attribuiva un significato particolare alla nuova definizione del ruolo dello Stato e quindi alla creazione di una cornice costituzionale volta a instaurare lo Stato di diritto, a ricostruire una magistratura indipendente e a creare un'economia libera dal monopolio e dall'amministrazione centralizzata. La riforma costituzionale doveva aprire la strada, secondo questa prospettiva, alla riforma dell'economia e della politica, avviando in tal modo un processo che si può paragonare al passaggio attraverso una valle di lacrime. Dahrendorf considerava così elevato il rischio di questa fase, da sostenere - benché con una certa esitazione - che in essa si poteva presentare il pericolo dell'avvento del fascismo. Quest'ultimo si sarebbe mostrato sotto forme differenti da quelle che ci sono note dalla storia, ma ne sarebbe rimasta identica l'essenza: una tirannia che sfrutta la nostalgia della comunità per costruire un monopolio del potere politico e sospendere lo Stato di diritto. Il periodo di transizione, tuttavia, avrebbe anche potuto consentire la costruzione di una società aperta, sul modello indicato da Karl Popper, libera da qualsivoglia sistema.

L'Europa occidentale, in tale prospettiva, avrebbe dovuto appoggiare questa soluzione, e allo stesso tempo mettere un argine ai pericoli, dedicando a tale scopo, per cinque anni, il 2% del reddito nazionale, così come avevano fatto gli Stati Uniti con il Piano Marshall. Sarebbe stato anche importante ridurre le tensioni che sorgono fra politica ed economia: era necessaria, infatti, una politica sociale che attenuasse gli effetti negativi dovuti all'introduzione dei meccanismi di mercato. Dahrendorf delineava infine la dimensione temporale dei processi di trasformazione: per una riforma costituzionale potevano bastare sei mesi, per poter avvertire gli effetti positivi delle riforme economiche sarebbe stato invece necessario attendere almeno sei anni; infine, perché queste trasformazioni economiche e politiche potessero diventare durevoli Dahrendorf prevedeva un periodo di tempo non inferiore a sessant'anni. Ma se consideriamo il postcomunismo come un tempo in cui avvengono delle trasformazioni reali, allora appare evidente che esso non può essere considerato un fenomeno effimero.

5. La trasformazione economica

La trasformazione dell'economia gioca un ruolo fondamentale nel processo postcomunista: si tratta di un compito senza precedenti e senza analogie storiche. La geografia economica dell'Europa orientale è complessa e differenziata, e il disfacimento dell'Unione Sovietica ha reso questo mosaico ancora più complicato. A prescindere comunque dai diversi livelli di sviluppo economico (benché a volte si tratti di differenze fondamentali e decisive nel contrasto fra sviluppo e sottosviluppo), il cambiamento di regime ha lasciato tutti i paesi dell'ex mondo comunista di fronte al medesimo compito: svincolarsi dagli intralci prodotti dall'‟economia della scarsità" (economics of shortage, secondo la definizione di János Kornai: v., 1980) e dall'amministrazione statale centralizzata, e sopperire alla mancanza di proprietari e padroni. I nuovi governi si sono spesso mostrati esitanti rispetto al ritmo delle riforme, a causa delle dimensioni di questa impresa e della reciproca dipendenza dei meccanismi economici che era necessario mettere in moto. Sia nei paesi coinvolti che nelle istituzioni internazionali (in particolare la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale) si è dibattuto a lungo sull'alternativa fra una realizzazione delle riforme, radicale e in tempi rapidi, e l'accettazione del principio di cambiamenti graduali e dilazionati. Sia l'oggetto di queste riforme che gli strumenti ritenuti indispensabili erano delineati con chiarezza.

In realtà, a causa della citata correlazione degli apparati economici, nel pacchetto delle riforme tutto sembrava aver diritto di precedenza; era comunque evidente come in primo luogo fosse necessario mettere in moto i meccanismi di mercato e raggiungere, con l'ausilio di un'adeguata politica statale, la stabilizzazione della macroeconomia. Era indispensabile arrivare alla liberalizzazione dei prezzi, alla riforma monetaria e al controllo dell'inflazione; in questo modo il mercato riconquistava i propri diritti, il prezzo iniziava a corrispondere al prodotto, la moneta diventava misura reale del suo valore e si guadagnava la fiducia sociale. La realizzazione di questi compiti dipendeva dalla volontà politica dei governi e dalla situazione in cui si affrontava la fase delle trasformazioni.

Sia la Polonia (nel 1989) che i paesi dell'ex Unione Sovietica e l'Albania (nel 1990-1991) erano caratterizzati da un'alta destabilizzazione macroeconomica che si manifestava sotto forma di inflazione aperta o nascosta. La Cecoslovacchia e l'Ungheria si distinguevano per un livello di instabilità macroeconomica relativamente basso, mentre la Bulgaria e la Romania si trovavano in una situazione intermedia.

Se i paesi dove la stabilizzazione macroeconomica non costituiva un problema acuto dovevano anzitutto badare a che la liberalizzazione dei prezzi non venisse a turbare questa situazione, i restanti paesi dovevano al tempo stesso stabilizzare e trasformare la propria economia. In Polonia questo fu uno dei fattori determinanti nella decisione di intraprendere una strategia di riforme veloci e radicali (il piano elaborato a fine 1989 dal ministro delle Finanze, Leszek Balcerowicz), che riguardasse nel contempo la liberalizzazione, la stabilizzazione e la ristrutturazione dell'economia; invece la Russia e le repubbliche postsovietiche che hanno intrapreso la via delle riforme hanno considerato separatamente ognuno di questi compiti, evitando ogni azione rapida. La divergenza fra i due diversi approcci era ben visibile anche in Cecoslovacchia, ma i fautori della strategia graduale (Valtr Komarek si dimise da ministro dell'Economia dopo le elezioni nel giugno 1990) dovettero cedere il passo al programma di riforme radicali sostenuto dal ministro delle Finanze, e in seguito capo del governo, Vaclav Klaus. Gli scopi di queste azioni stabilizzatrici erano difficili da raggiungere. Nel 1993 almeno 10 delle 15 ex repubbliche sovietiche si trovavano in una situazione di iperinflazione (più del 50% al mese), e fra 27 paesi postcomunisti il controllo sull'inflazione (vale a dire il suo contenimento al di sotto del 50% annuale) era stato raggiunto soltanto da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, Albania, Estonia e Lituania.

Restava comunque un problema rilevante: quello della proprietà. Come si è detto, in agricoltura, soltanto la Polonia, fra tutti i paesi comunisti, non aveva a suo tempo introdotto la collettivizzazione. Il problema principale era comunque il cambiamento del diritto di proprietà nell'industria e nel commercio, quasi interamente in mano allo Stato; il settore delle cooperative era solo una sorta di ‛villaggio Potëmkin', dietro il quale nella maggior parte dei casi si celava l'amministrazione statale. In Cecoslovacchia il 97% della produzione proveniva dal settore statale, in Ungheria l'86%, in Polonia l'82%. La privatizzazione del commercio era avvenuta in modo semplice e rapido; quella dell'industria si presentava invece come un processo assai arduo. La ristrutturazione economica, unita agli effetti dello sfacelo del mercato in questi paesi, aveva portato a una considerevole diminuzione del prodotto nazionale lordo, a un tasso drammatico di disoccupazione con relativo abbassamento del livello di vita. In una situazione così gravida di frustrazioni sociali il dibattito politico sulla privatizzazione iniziato in molti paesi postcomunisti poteva rallentare o deviare i processi in corso.

Nei paesi postcomunisti il bilancio delle privatizzazioni ha comunque già superato la massa critica. Nel 1994, nella Repubblica Ceca il 61% del prodotto nazionale lordo proveniva dal settore privato, in Ungheria il 55%, in Polonia il 54%, in Lituania e persino in Russia il 50%. In questo processo i più avanzati sono i Cechi (benché la privatizzazione in questo paese venga criticata, in quanto non ha creato dei proprietari reali), che hanno applicato un programma di privatizzazione generale ‛a tagliandi', elaborato - fra l'altro - già nel 1988 da un gruppo di economisti polacchi. Anche la Polonia si sta muovendo sulla strada della privatizzazione generale: verso la fine del 1994 erano state registrate 1,9 milioni di imprese private, e nel settore privato lavoravano oltre 9 milioni di persone, vale a dire il 61% del totale degli impiegati. L'Ungheria ha scelto la strada della privatizzazione ‛a capitale', tenendo conto anche delle pretese degli ex proprietari del patrimonio nazionalizzato (buoni di restituzione). Circa la metà delle industrie statali è già stata venduta. Si tratta di una forma di privatizzazione meno spettacolare ma autentica. Secondo l'economista ungherese Kornai, ‟in Ungheria è avvenuta una crescita organica dell'industria privata e ciò che in questo paese viene definito privato lo è veramente".

Dopo un periodo iniziale di caduta della produzione industriale, durante il quale tutti i paesi postcomunisti hanno registrato una diminuzione della crescita economica, i paesi che avevano intrapreso le riforme economiche hanno iniziato a uscire dalla crisi. La Polonia è stata la prima a raggiungere, nel 1992, un indice favorevole del livello di crescita economica, aumentato in seguito ogni anno, per raggiungere nel 1995 un risultato collocabile fra il 6 e il 7%. Anche l'Albania mostra una rapida dinamica di crescita economica, ma il suo livello di partenza era estremamente basso. La stessa tendenza alla crescita - per quanto ancora inferiore rispetto alla Polonia - caratterizza la Repubblica Ceca e la Slovenia, e in misura ancora maggiore l'Estonia. L'Ungheria che, grazie alle riforme del periodo di Kádár, nel 1989 si distingueva per la buona situazione economica, aveva inizialmente optato per una strategia graduale; nel 1995 però la coalizione social-liberale ha scelto di intraprendere una drastica operazione mirante alla diminuzione del deficit statale e al risanamento della finanza pubblica.

Nel processo di passaggio all'economia di mercato, le disuguaglianze nella distribuzione dei redditi sono aumentate in una misura sconosciuta nel periodo dei governi comunisti, durante i quali le disparità (già descritte da sociologi cechi e polacchi negli anni sessanta) derivavano dai privilegi e dal posto occupato nella gerarchia del potere. Durante la fase del tramonto dei governi comunisti era comunque aumentata l'aspirazione delle élites al potere a una maggiore ricchezza personale. A Gierek in Polonia e a Kádár in Ungheria si attribuisce di aver assunto il motto di Luigi Filippo, ‟enrichissez-vous", come programma emergente del comunismo pragmatico.

Quindi, già prima del 1989, aveva avuto inizio un peculiare processo di conversione della nomenklatura in élite finanziaria, che - rafforzatosi poi nel periodo iniziale delle trasformazioni - ha acuito il senso di amarezza della società rispetto alle trasformazioni in atto. Allo stesso tempo è aumentato il numero di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà: in Ungheria nel 1989 si calcolava che appartenessero a questa categoria un milione di persone (il 10% della popolazione); nel 1990 erano già un milione e mezzo, nel 1991 due milioni, e nel 1992 due milioni e mezzo. In Polonia, un rapporto pubblicato nel 1995 sulla situazione delle famiglie accertava che gli introiti reali delle famiglie rispetto a quelli del 1989 erano diminuiti del 30%; che il numero delle famiglie in grado di vivere del proprio lavoro era drasticamente diminuito (circa la metà si manteneva grazie alle agevolazioni sociali) e che una famiglia su cinque viveva sulla soglia di povertà o al di sotto di essa.

Mentre nel socialismo reale la disoccupazione era tenuta nascosta, dopo il 1989 i programmi di stabilizzazione l'avevano inevitabilmente fatta emergere e portata a dimensioni drammatiche. In Polonia la disoccupazione ha superato il 15%, in Ungheria è arrivata al 13% ed è alta anche in Russia e nei paesi dell'ex Unione Sovietica. In alcune regioni la disoccupazione tocca addirittura un terzo della popolazione attiva, il che è dovuto alla necessità di ristrutturare l'economia ereditata dal vecchio sistema. Questa situazione ha reso necessario dar forma a una politica sociale finora sconosciuta in questi paesi (già nel 1989 Kornai aveva sostenuto che, per mettere in atto le operazioni di stabilizzazione, sarebbe stato necessario creare una ‟riserva umanitaria"). Volendo dare una stima delle dimensioni reali del fenomeno in tutti questi paesi (nella Repubblica Ceca, d'altro lato, la disoccupazione è rimasta a un livello molto basso e non ha superato il 4%) è necessario tenere conto del fatto che la ‛zona grigia' dell'economia - per quanto non valutabile esattamente dalle statistiche - riguarda una parte considerevole dei disoccupati che usufruiscono dei sussidi sociali.

I costi sociali delle riforme - com'è del tutto evidente - hanno considerevoli effetti socio-psicologici, sono causa di frustrazione e creano un terreno favorevole alla demagogia e ai programmi populistici.

6. La libertà e la grammatica della democrazia

Se il 1989 ha segnato un punto cruciale, questo è stato certamente la conquista della libertà. Una conquista che sarebbe potuta avvenire con un colpo di scena, con un evento storico clamoroso, e in un solo istante. Tuttavia, la traduzione politica di uno slancio del genere nella prosa delle istituzioni e delle procedure democratiche richiedeva un processo a tempi lunghi. Nella maggior parte degli ex paesi comunisti sono state votate nuove costituzioni (la Polonia si serve tuttora di un atto temporaneo che unisce alla vecchia Costituzione rinnovata una parte nuova riguardante le istituzioni supreme degli organi di Stato), ma forse in nessuno di questi paesi la nuova Costituzione è divenuta realmente un atto di fondazione del nuovo sistema.

In Polonia alla fine del 1989 la Costituzione in vigore dal 1952 è stata modificata radicalmente. Ne sono state rimosse le norme inerenti al ruolo del Partito Comunista, all'alleanza con l'Unione Sovietica, alla supremazia della proprietà socialista (vale a dire statale), al monopolio di Stato del commercio estero. Sono stati cancellati anche tutti i riferimenti ideologici al socialismo. Secondo la nuova formulazione la Repubblica Polacca è uno Stato di diritto: si tratta di un principio che evidentemente non descrive l'attuale situazione legale e politica, ma che piuttosto indica la direzione in cui lo Stato deve muoversi. È stata certamente l'immagine della società civile e della ‛Repubblica autonoma' formulata negli anni precedenti (e sostenuta dalle convenzioni internazionali sui diritti dell'uomo) a suggerire l'introduzione di questo principio. Alcuni, tuttavia, si sono chiesti se una simile decisione non sia stata troppo affrettata, se le parole non abbiano preceduto con troppo anticipo la realtà.

Nella sua struttura fondamentale lo Stato polacco non era mutato profondamente: la legislazione restava quella ereditata dal regime precedente, i tribunali erano un'istituzione corrotta dal sistema totalitario e una situazione simile si riscontrava anche nell'amministrazione statale. L'assunzione del principio dello Stato di diritto rendeva impossibile, inoltre, ammettere una particolare sospensione della legalità nel periodo di transizione - giustificata dalla necessità di creare in tempo breve nuove istituzioni economiche, mettere immediatamente in moto i meccanismi di trasformazione (per loro natura in contrasto con la legge ereditata dal vecchio regime), individuare infine le colpe e le responsabilità delle élites politiche del sistema comunista. Nonostante queste critiche possiamo sostenere che l'assunzione del principio dello Stato di diritto ha consentito di definire in modo corretto la via della trasformazione politica, escludendo l'applicazione di metodi non democratici per la costruzione della democrazia. Questa scelta costituisce un'autentica negazione del sistema totalitario nei suoi elementi costitutivi essenziali e rappresenta il rifiuto definitivo dell'eredità bolscevica oltre che giacobina. L'esempio polacco, anche se con qualche modifica, può venir esteso alla maggior parte dei paesi postcomunisti, benché le sorti della Romania all'indomani della rivoluzione si siano delineate in maniera differente, così come in Russia durante il Putsch antidemocratico dell'agosto 1991 e il conflitto fra El′cin e il Parlamento nel 1993.

La battaglia per il pluralismo è stata il motto programmatico dell'opposizione democratica nei paesi comunisti: esso rivendicava il diritto al pluralismo delle opinioni e delle organizzazioni sociali, in primo luogo dei sindacati e dei partiti politici. Quest'ultimo era già un compito rivoluzionario, giacché richiedeva l'abbattimento o la dissoluzione del comunismo. Tuttavia, dopo il 1989, la costruzione del pluralismo dei partiti è stato un processo semplice soltanto nella ex Repubblica Democratica Tedesca, dato che i suoi cinque Länder si sono uniti al sistema politico della Repubblica Federale. Invece la Polonia, il paese dove era iniziato il processo di cambiamento, ha conosciuto un ritardo nella realizzazione di un equilibrato pluralismo politico. Alle elezioni del giugno 1989, infatti, contro il Partito Comunista si era presentato il fronte di Solidarność, che vinse quelle elezioni perché pur avendo ottenuto al Sejm (camera bassa) il 35% dei voti - l'intera percentuale dei seggi parlamentari eleggibili - al Senato si era guadagnato tutti i seggi meno uno, conquistato da un uomo d'affari indipendente: ciò era avvenuto in un periodo in cui esistevano ancora l'Unione Sovietica, il Patto di Varsavia, il muro di Berlino. Non ha poi avuto buon esito il tentativo di conservare l'unità delle forze democratiche e riformatrici, che avrebbe potuto essere utile per il primo periodo delle trasformazioni. Una malintesa dimensione parlamentare del pluralismo dei partiti ha preso il sopravvento e ha portato addirittura a un considerevole frazionamento della rappresentanza politica. Alle elezioni del 1991 sono entrati nel Parlamento più di 15 partiti; se ne erano registrati oltre 200. Alle elezioni del 1993 era già in vigore una nuova normativa elettorale, che introduceva la soglia del 5% dei voti (su scala nazionale) per l'ingresso in Parlamento, il che riduceva la frammentazione della rappresentanza politica, ma allo stesso tempo premiava il partito ex comunista, cioè l'Alleanza della Sinistra Democratica (SLD). Quest'ultima, infatti, col suo 20% dei voti, era in grado di formare il governo insieme al suo alleato, il Partito Contadino Polacco (PSL), che otteneva il 15% dei voti. I nuovi partiti, formatisi nella cornice delle trasformazioni democratiche, hanno tuttora un debole radicamento sociale.

L'Ungheria è stato il primo paese a dar forma alla struttura pluralistica dei partiti. Accanto al partito ex comunista e ai partiti storici risorti (come il Partito dei Piccoli Proprietari), si sono formati tre nuovi partiti, dei quali uno, il Forum Democratico, ha vinto le elezioni nel 1990, e il secondo, l'Unione dei Liberi Democratici, nel 1994 si è coalizzato con il Partito Socialista (ex comunisti), che ha vinto le elezioni di quell'anno. Anche in Cecoslovacchia è nata una serie di partiti, dopo un'iniziale unità del fronte democratico, espressa dal Forum Civico, e dopo la separazione fra Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca.

Il principio delle libere elezioni, condotte d'altronde sotto controllo internazionale, in particolare del Consiglio Europeo, ha portato al pluralismo dei partiti politici in tutti i paesi postcomunisti. Il sistema partitico, però, resta ovunque debole, con un profilo ideologico incerto e una fragile struttura organizzativa. Un'ombra su questo sistema viene gettata anche dal livello relativamente basso di impegno sociale nella vita politica, che si esprime nell'alta percentuale di assenteismo alle elezioni (quest'ultimo fenomeno arriva addirittura a coinvolgere metà dell'elettorato) e nella generale sfiducia nei confronti dei partiti politici. La crisi dei partiti politici, che riguarda l'intera Europa, sembra avere un effetto potenziato nel caso dei paesi postcomunisti. L'accusa di ‟dittatura della faziosità", di ‟Stato delle ombre all'interno dello Stato", che Václav Havel rivolge ai partiti politici va situata appunto in questo contesto.

Su questo sfondo i partiti ex comunisti sfruttano la loro superiorità organizzativa, di esperienza e di mezzi materiali. Immediatamente dopo le trasformazioni del 1989 essi avevano tentato di trincerarsi sulle proprie posizioni. Erano persino stati intrapresi dei tentativi di creare legami internazionali, di dar forma a una sorta di ‛internazionale' dei paesi postcomunisti. Si erano quindi adeguati alla nuova situazione, cambiando il nome e i modi dell'attività politica. Sfruttando l'inquietudine prodotta dai costi sociali delle riforme e dalla disillusione popolare nei confronti dei nuovi governi, nella maggior parte dei paesi questi partiti sono stati in grado sia di tornare nell'arena politica, che di cercare e trovare, attraverso le elezioni, il successo e una via per il ritorno al potere. Ma anche quando questi partiti hanno raggiunto il potere, in nessuno dei paesi dove il processo di trasformazione è abbastanza avanzato ci sono stati dei cambiamenti nella rotta intrapresa, perché il sistema democratico e l'economia di mercato hanno continuato a svilupparsi. Il ritorno sulla scena delle antiche élites, comunque, fa sì che tornino in auge alcune pratiche di governo nelle quali il principio della maggioranza politica è trattato secondo canoni ereditati dal sistema del partito unico e del monopolio di potere.

7. Patologie, minacce, possibilità

I periodi di trasformazione danno vita ad alcune patologie specifiche, che riguardano non solo l'economia e la politica, ma anche le interazioni fra questi due ambiti. Il formarsi di meccanismi di mercato crea l'occasione per l'emergere della cosiddetta ‛zona grigia', che opera al limite della legge. Diminuisce la sicurezza pubblica, aumenta la criminalità comune e compare la criminalità organizzata. Insieme a questa il commercio di narcotici e il ‛commercio di merce viva' diventano un elemento del paesaggio postcomunista. Non si tratta di fenomeni del tutto nuovi per questi paesi - esistevano infatti già prima del 1989 - ma con la libertà il loro raggio d'azione è aumentato. Tuttavia, è innegabile che si siano innescati processi inquietanti, nella zona al limite fra economia e politica. Accanto al fenomeno assai esteso di personaggi della nomenklatura di partito passati all'attività economica privata (che hanno quindi sostituito il monopolio del potere con ricchezze materiali, diventate poi strumento o di pressione sul governo, o di partecipazione ad esso), abbiamo assistito allo sviluppo di un fenomeno criminale che viene assimilato alla ‛mafia'. In una fase di disorganizzazione oppure di debolezza dello Stato, come accade in particolar modo in Russia e nelle ex repubbliche sovietiche, il ruolo di simili consorzi economico-politici si ingigantisce: essi sembrano occupare i posti lasciati vuoti dall'apparato di partito, che aveva esercitato un reale monopolio nel processo politico decisionale.

Le patologie sono sempre pericolose e non debbono mai essere sottovalutate. Ad alcune di esse si può attribuire un carattere transitorio, se ne individuiamo la genesi nello sfacelo delle strutture di controllo totalitario e nella mancata formazione dei meccanismi che regolano la società civile. Queste patologie sono il risultato della libertà ottenuta e anche se una parte di esse si ridurrà o scomparirà, se ne svilupperanno altre, che i paesi postcomunisti condivideranno con quelli del ‛primo mondo'. L'interrogativo più importante è se queste patologie politico-economiche porteranno o meno a gravi anomalie nel processo di trasformazione. Se nei paesi dell'ex Unione Sovietica le organizzazioni mafiose, grazie soprattutto ai proventi legati alle attività illegali di sfruttamento delle ricchezze naturali e al traffico d'armi, riuscissero a raggiungere un'influenza politica determinante, è ovvio che non si avrebbe né la formazione di un libero mercato né di un sistema democratico.

Un altro pericolo si delinea all'orizzonte del processo di trasformazione: alcuni - forse abusando della parola - lo definiscono con il termine ‛fascismo', altri con quello di ‛populismo'. Si tratta comunque di due concetti strettamente apparentati. Già nel 1990 Michnik aveva rammentato la lezione del passato: era stata proprio l'unione di nazionalismo e populismo a condurre al fascismo. Le esplosioni di odio nazionale nei Balcani, i pogrom di Zingari o di portatori di AIDS, la propaganda antisemita in Russia, in Polonia e in Ungheria, hanno gettato un'ombra sulla libertà conquistata. Alcuni di questi fatti possono venir considerati epifenomeni, ma l'intolleranza verso ‛l'altro' o ‛il diverso' è sempre la materia politica più facile a trovarsi, soprattutto all'interno di democrazie fragili.

La situazione dei paesi postcomunisti è spesso paragonata a quella della Repubblica di Weimar, alla vigilia dell'avvento del nazismo. In effetti è possibile riscontrare nella situazione postcomunista alcuni fenomeni analoghi, anche se meno consistenti: lo stato di frustrazione sociale, il marasma politico derivante dalla mancanza di esperienza democratica e la crisi economica. La genesi di questi fenomeni nei paesi postcomunisti, però, è sufficientemente diversa da indurre a considerare i rischi che compaiono in questi ultimi come una sindrome specifica del postcomunismo. Un tratto caratteristico di questa sindrome è che il comunismo, come ‟la tunica avvelenata di Nesso" (Martin Malia), si mantiene ancora vivo non solo sul piano ideologico, ma anche in quanto sistema di potere del quale non si riesce a liberarsi definitivamente. Ciò va attribuito non solo al fatto che il regime comunista ha avuto vita assai più lunga dei governi fascisti in Germania, Italia e Spagna, ma anche e soprattutto al fatto che la sua fine non ha avuto carattere drammatico: si sono accese le luci, ma il sipario non si è abbassato. La caduta del comunismo non si è accompagnata a una ‛grande guerra', né alla morte di un dittatore, né a un periodo di rese dei conti e di terrore. Havel parla di una ‛rivoluzione interrotta'; ciò non significa che a questa rivoluzione spetti un epilogo, una qualche seconda fase; essa ha piuttosto un carattere di incompletezza, che ne spiega la peculiarità. Nel fare la diagnosi dei pericoli del postcomunismo è necessario tenerne conto.

L'esplosione dei nazionalismi in Europa centrale e orientale ha suscitato sgomento in Occidente. Dopo la ‛festa della libertà' si è improvvisamente avvertita la minaccia di un ritorno dei fantasmi del XIX secolo, vale a dire dei conflitti nazionali e dell'intolleranza verso le minoranze; si è addirittura detto che all'orizzonte compariva lo spettro di una ‛Europa tribale'. In questo modo però si confondono fenomeni differenti. Anzitutto, la caduta di strutture imperiali risveglia necessariamente le aspirazioni dei popoli all'indipendenza: si tratta quindi di un fenomeno connesso alla liberazione dal comunismo. Di fronte al drammatico precipitare della situazione nei territori della ex Iugoslavia, invece di cercare spiegazioni nella ‛storia maledetta' dei Balcani, bisogna individuare le fonti reali del conflitto. Una situazione analoga sussiste nei territori dell'ex Unione Sovietica. Oltre alla posizione chiara delle repubbliche baltiche, e forse anche dell'Ucraina, nei restanti paesi si possono osservare crescenti conflitti etnici, ma le previsioni apocalittiche di una grande ‛guerra etnica' nell'intera regione non si stanno affatto avverando.

I successi del nazionalismo vanno ricondotti al lascito del regime comunista. La distruzione della società civile e delle istituzioni democratiche, avvenuta all'interno di questo sistema, ha fatto sì che insieme al suo disfacimento si creasse un particolare vuoto sociale e morale. Il nazionalismo è l'elemento più facilmente in grado di riempire tale vuoto, grazie al fatto che spesso nella storia ha ricoperto una funzione essenziale nella strada verso la democrazia e ha avuto un ruolo nel processo di trasformazione dei sudditi in cittadini. Quando però le tradizioni democratiche sono state estirpate, il nazionalismo consente una facile aggregazione intorno a programmi di integrazione interna, generalmente ostili nei confronti di un nemico esterno. È significativo che i più acerrimi nazionalisti siano proprio gli ex leaders comunisti; è un fatto che possiamo riscontrare non solo nel caso della ex Iugoslavia, ma anche nell'intero panorama dei paesi postcomunisti.

Il nazionalismo compare - in una commistione molto singolare - come programma politico, come visione ideologica e come pratica. L'alleanza fra le due tendenze totalitarie, quella fascista e quella comunista, e la minaccia rosso-bruna sono un tema ricorrente nei giornali e nelle riviste russe, così come nelle conversazioni quotidiane in tutta l'Europa orientale post-sovietica. Nell'Europa centrale questo fenomeno non si presenta in forma così acuta, ma è possibile osservare una certa tendenza che unisce xenofobia ed etnocentrismo al modello giacobino statalista e centralista.

Anche la propaganda dell'autoritarismo ha una genesi simile. La necessità di introdurre riforme difficili e dolorose causa la nascita di tensioni sociali e minaccia la destabilizzazione dello Stato. Ciò crea un terreno fertile per quella demagogia politica che voglia promuovere la figura di un leader carismatico, capace di adempiere a una missione provvidenziale. In tale demagogia rientra come naturale elemento costitutivo l'avversione diffusa contro le istituzioni democratiche, i partiti e il parlamento, con la scusa della loro inefficacia. D'altronde, persino nelle soluzioni costituzionali prescelte dalla grande maggioranza dei paesi postcomunisti è significativa la preferenza accordata a modelli di governo presidenziale. In ciò si può individuare una sorta di continuazione del modello di potere del segretario del partito unico (‛primo' segretario o anche segretario ‛generale') proprio dell'antico apparato politico. In questo modello non scevro di rischi autoritari si crea un insieme peculiare di procedure e di abitudini, che fanno dipendere il processo decisionale da élites di corte, più prossime alle monarchie assolute che alle repubbliche democratiche. È altresì significativo il legame di questo sistema autoritario con l'esercito e i servizi segreti. È una tendenza che si delinea in generale sull'orizzonte postcomunista, ma sarebbe difficile parlare di una sua piena vittoria in uno qualsiasi dei paesi in esame. A trovarvisi più vicina è comunque la Russia, seguita da Serbia, Croazia e Romania.

Tutti questi pericoli derivano dall'eredità del comunismo, dalla paralisi e dalla debolezza dello Stato democratico, nonché dalla fragilità della società civile: tutto ciò non sta a indicare, però, la minaccia di un'inversione del processo storico e di un ritorno al comunismo. Si tratta piuttosto del rischio di una forma di statalismo con un potere autoritario e centralizzato, un notevole interventismo statale in nome del ruolo tutelare dello Stato, un ritmo più lento nelle trasformazioni del mercato e una tendenza alla stagnazione in economia. Ad avere meno opportunità è la tentazione della ‛via cinese', vale a dire una trasformazione verso l'economia di mercato che però conservi inalterato il monopolio politico; almeno nei paesi europei postcomunisti il susseguirsi delle trasformazioni economiche è troppo rapido perché questo modello di sviluppo possa essere preso in esame.

Nel fare un bilancio delle opportunità e dei rischi di fronte ai quali si trovano i paesi postcomunisti, la realtà del quinquennio trascorso permette di parlare di una supremazia delle prime sui secondi. Il postcomunismo non è un fenomeno isolato dal resto del mondo. Il suo destino è strettamente intrecciato ai processi di integrazione con l'economia europea, alla formazione di strutture di sicurezza, al funzionamento delle organizzazioni internazionali e particolarmente a quelle che tutelano i diritti civili in ogni Stato del mondo. I rischi che compaiono sulla via dello sviluppo dei paesi postcomunisti sussistono, anche se in altra forma e su altra scala, per i paesi dell'Europa occidentale. Le opportunità si realizzeranno se la trasformazione economica avrà buon esito; in particolare, se la Russia non lascerà la strada delle riforme, se l'Ucraina resterà indipendente, se alla Polonia (e all'Europa centrale) riuscirà l'unione fra economia di mercato e politica democratica. A queste possibilità di riuscita, vale a dire al successo delle riforme in questa regione d'Europa, sono legati gli interessi dell'Occidente. Proprio perché non si possono considerare estranei i problemi dei paesi in via di trasformazione - in quanto l'Occidente non può separarsi dall'Europa centrale e orientale con una ‛cortina di ferro' o con un muro - e proprio perché sono in gioco interessi comuni e un razionale senso di solidarietà, il postcomunismo costituisce una parte decisiva della storia europea contemporanea, e dal modo in cui si svilupperà il rapporto tra opportunità e rischi dipenderà certamente anche una notevole parte della storia del XXI secolo.

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