COMUNE ITALIANO

Federiciana (2005)

Comune italiano

Enrico Artifoni

All'aprirsi del sec. XIII il mondo comunale italiano continua ad essere fortemente segnato dalle caratteristiche che avevano guidato la sua stessa origine. È utile seguire gli sviluppi di queste caratteristiche per comprendere come il conflitto tra Federico II e le città comunali poté configurarsi anche come un'opposizione fra concezioni antagonistiche della politica e del gioco sociale.

Il comune fu la forma istituzionale che assunse in Italia sul finire del sec. XI una tradizione di libertas che si riteneva connaturata nella penisola ai centri urbani, e della quale l'ente comunale si dichiarava erede (Bordone, La società cittadina, 1987). La sua affermazione rientra nel fenomeno dell'emergere su base locale di poteri autonomi nell'Europa che aveva visto il dominio carolingio, ma all'interno di questa categoria il comune italiano afferma varie specificità che ne dettano l'intera storia successiva. La prima è la sua genesi composita dal punto di vista sociale, una genesi che vede agire insieme, nella prospettiva di emancipazione dal potere vescovile, membri delle aristocrazie militari già vassalli del vescovo, uomini del commercio ed esperti del diritto come giudici e notai. Portato a pieno compimento nel sec. XII l'autogoverno cittadino, è nella prima metà del Duecento che la pluralità di partenza assume forme nuove. I contrasti interni tra milites e populus, che si intrecciano con la politica delle città nei confronti dello Svevo, non riproducono meccanicamente la composizione sociale che fu alle origini del comune; sono però il prodotto di una società che in quella particolare composizione iniziale trovò come un codice di sviluppo verso una fisionomia articolata delle cittadinanze e verso possibilità, sia pure limitate, di mobilità e di promozione tra i ceti. Si aggiunga, secondo elemento da tenere presente, la dimensione immediatamente territoriale assunta dagli organismi comunali, tesi dalla loro fondazione ad affermare e accrescere all'intorno un'area di propria pertinenza, dapprima sotto egida vescovile e poi in prima persona, una volta raggiunta la necessaria maturità di elaborazione politica e documentaria. Dagli ultimi decenni del sec. XII tale area, ovviamente variabile secondo le singole vicende cittadine, vede una intensificazione nel processo di costruzione politica del territorio con l'uso di strumenti di-sparati: concessioni di cittadinanza a singoli signori e intere comunità, fondazione di borghi nuovi e borghi franchi, riassetto giurisdizionale e militare delle zone controllate. In una parola, l'espansione nel contado si traduce più compiutamente nella formazione di quelli che possono ormai essere chiamati distretti comunali, la cui salvaguardia e dilatazione sono determinanti nella logica delle alleanze intercittadine o anti e filoimperiali. A un diverso livello di rapporto con il territorio, non si può sottovalutare il ruolo svolto dalla prima Lega lombarda nel consolidare sistemi di relazioni intercomunali: la sua costituzione, nel 1167, attinse in parte a collegamenti già esistenti, ma segnò un salto di qualità in direzione del coordinamento sovracittadino in campi diversi (dal militare al politico al commerciale), e a tale esperienza periodicamente i comuni si rifaranno anche dopo la vittoria sul Barbarossa (Bordone, 1992). Infine, la capacità di costruire ideologia e di presentarsi come una piena realizzazione della libertas civitatis fu fin dalle origini una delle chiavi di volta del successo dei comuni. La lotta vincente, conclusa con la pace di Costanza (1183), contro i tentativi di restaurazione del Barbarossa fu un momento importante nella messa a punto di una retorica politica cittadina. Il secondo Federico incontrò su questo piano una situazione ulteriormente evoluta. Il periodo che lo vide più intensamente impegnato nel confronto con il mondo comunale (1226-1250) coincise con una trasformazione di fondo nel personale intellettuale e nella cultura delle città. Raggiunse la maturità e cominciò ad agire verso la fine di questi decenni una generazione di intellettuali pragmatici pienamente organici al mondo comunale e al sistema politico podestarile. Si pensi ad alcuni testi prodotti dal notariato bolognese, come il proemio allo Statuto dei cambiatori (1245), prima opera conosciuta del notaio Rolandino Passageri, o come la risposta ‒ della quale non si può escludere la paternità rolandiniana ‒ redatta nel 1249 a una lettera imperiale sulla prigionia in Bologna di re Enzo, lettera scritta forse da Pietro da Prezza nella tradizione stilistica di Pier della Vigna. Nel primo caso in modo implicito, nel secondo apertamente, i due testi bolognesi si misurano con la cultura della Magna Curia usando un'alta retorica politica di matrice dettatoria che non sfigura di fronte allo stilus supremus imperiale. Sarebbe quindi opportuno considerare, insieme alla conosciuta guerra di cancellerie scatenata tra la Curia papale e l'imperatore, anche un meno studiato conflitto culturale tra notariato delle città antisveve e cancelleria imperiale (Giansante, 1999). D'altra parte alcuni di quegli intellettuali lavorarono consapevolmente in questi anni a un programma di educazione dei cives. Si pensi ‒ passando a una scrittura più dimessa ma ambiziosa nelle sue finalità ‒ al giudice bresciano Albertano, collaboratore di podestà, che fu uno dei testimoni al giuramento dei rettori della Lega lombarda effettuato a Brescia il 7 aprile 1226 e cadde prigioniero delle truppe imperiali nel 1238, comandando la resistenza della fortezza di Gavardo. Incarcerato nella ghibellina Cremona, Albertano compose durante la prigionia il suo primo trattato morale, a cui altri sarebbero seguiti insieme a cinque sermoni: un'opera che disegna nel suo insieme una sorta di grande 'libro della cittadinanza', una pedagogia di valori e di comportamenti per l'uomo comunale. Anche con questa nuova generazione intellettuale, erede in modi diversi del connubio fra politica e cultura iscritto dalle origini nella storia comunale, Federico II dovette misurarsi.

Abbiamo visto fin qui lo svolgersi nella prima metà del Duecento di taluni caratteri originari degli organismi comunali. Tale svolgimento si verificò tuttavia all'interno di una forma costituzionale la cui affermazione non è riconducibile all'eredità delle origini, rappresentando di fatto la novità più rilevante dell'intera storia del comune: il reggimento podestarile. La transizione verso il comune dei podestà, che ‒ nella sua forma compiuta, quella appunto che incontrò Federico II, e che possiamo ritenere ovunque affermata tra il secondo e il terzo decennio del sec. XIII ‒ sostituiva alla collegialità consolare il governo annuale di un magistrato esterno alla città, fu la parte più visibile di una grande trasformazione che investì a più livelli le città comunali. Il governo podestarile segnò un indebolimento della corrispondenza diretta fra potenza sociale e autorità politica che aveva caratterizzato una gran parte del sec. XII, perché si configurò come una trasposizione mediata, sul piano delle istituzioni, di una società internamente più articolata e mobile. Sarebbe schematico ritenere, nella prima metà del Duecento, il governo podestarile una vittoria democratica: fu semmai altra cosa, un certo affrancarsi della politica dall'aderenza rigida alle egemonie sociali. Intorno al vertice prese forma infatti un sistema di consigli che furono il teatro principale di nuove modalità nella competizione politica, ora fondata anche sul confronto tra partes organizzate. Sia l'originalità sia i limiti della nuova costituzione trovano un riscontro nel cambiamento dei gruppi dirigenti che accompagnò la trasformazione istituzionale. È constatabile all'incirca nel periodo 1175-1220 (lo provano, fra le altre, ricerche su Genova, Asti, Modena) la formazione di un ceto dirigente urbano risultante dall'amalgama tra alcune vecchie famiglie dell'aristocrazia consolare e famiglie dalla storia pubblica più recente, emerse solo alla fine del sec. XII o all'inizio del XIII. Sotto questo rispetto ci fu dunque una novità, che va però ponderata con la constatazione che questo amalgama che giunse a compimento intorno al 1220 ebbe poi lunga tenuta, perché le nuove accessioni al ceto politico nel periodo successivo, fino alla prevalenza del 'popolo' nelle istituzioni (da metà secolo circa in avanti), furono in genere alquanto limitate (Cammarosano, 1997, pp. 18-22). In un rapporto delicato, analizzabile nel dettaglio solo caso per caso, tra l'irrigidimento dei gruppi dirigenti e la parziale ma effettiva apertura del sistema politico, il fatto podestarile fu forse l'elemento più importante che conferì al mondo delle città italiane l'aspetto di una civiltà unitaria. Che il "regimen Latinorum", come lo chiama l'arcidiacono dalmata Tommaso da Spalato (Artifoni, 1995, p. 163), fosse avvertito come il contrassegno di uno spazio politico omogeneo poté avvenire anche perché ogni singola storia cittadina, in questo sistema, era sempre proiettata, in virtù della circolazione continua dei podestà e dei loro ufficiali, in una storia più ampia. Per il periodo che qui ci interessa, la prima metà del secolo, Milano esercita una egemonia netta come fornitrice di podestà. Lo si dovette alla sua capacità di usare lo strumento podestarile per estendere il suo controllo nell'Italia padana, ma anche allo spontaneo attingere podestà a Milano da parte dei comuni settentrionali, come riconoscimento al centro lombardo di una superiorità politica e ideale guadagnata nell'occasione, la lotta contro il Barbarossa, che aveva fondato una sorta di nuova epoca della storia comunale. Il mondo dei comuni, fornito di una sua armatura istituzionale assolutamente specifica, di suoi intellettuali, di un suo sistema di relazioni e di una ormai lunga tradizione di autonomia, si presentava nella prima metà del Duecento con una fisionomia complessiva ben diversa dalle città meridionali e tedesche che Federico II aveva imparato a conoscere. Lo Svevo, cresciuto in un ambiente come il Regno di Sicilia, politicamente accentrato e di tradizione statuale, ebbe difficoltà a comprendere sia il particolarismo comunale sia il fatto che quel particolarismo alimentava una civiltà cittadina unitaria.

È possibile collocare nel 1225-1226 un salto di qualità rilevante nella politica federiciana rispetto ai comuni. Negli anni precedenti, e ancor più dall'incoronazione imperiale (22 novembre 1220), il sovrano aveva seguito verso le città comunali una condotta basata per lo più sulla distinzione: riconoscimento di diritti a singole realtà fedeli a discapito di altre inaffidabili, conferma selettiva di privilegi, senza che esistano prove tali da far pensare a un definito piano di intervento nell'assetto del Regnum. Il caso di Cremona, costantemente favorita per la sua fedeltà e per la sua opposizione alla rete di alleanze che faceva capo a Milano, è l'esempio più chiaro di questa politica: nel 1213, nel 1219 e nel 1226 il sovrano conferma i privilegi già elargiti a Cremona dai suoi antenati, e tra questi "il possesso di Crema e dell'Insula Fulcheria, perpetuo oggetto di contesa con Milano" (Menant, 1999, p. 20). È vero che le costituzioni approvate il giorno stesso dell'incoronazione, che imponevano ai magistrati cittadini la persecuzione degli eretici e l'abrogazione delle norme statutarie contrarie alle 'libertà' ecclesiastiche, rappresentano un'intromissione precoce da parte dello Svevo nell'operato e nelle leggi dei governi urbani; ma esse, che pure indicano un'importante direzione interventista, erano state redatte nella cancelleria papale ed emanate su richiesta di Onorio III, e non possono essere assunte come segno di una volontà imperiale di affrontare in quel momento, per così dire, il 'problema comunale' nella sua globalità. Lo stesso può dirsi della constitutio emanata nel 1224 sugli eretici di Lombardia, risalente questa a un'elaborazione imperiale, ma comprensibile solo sullo sfondo dell'unità di intenti fra papato e Impero che caratterizza buona parte del terzo decennio del secolo. Il fatto è che dopo l'incoronazione l'Italia dei comuni non è il primo problema che Federico sceglie di affrontare, privilegiando piuttosto il riassetto del Regno di Sicilia.

Un'attenzione più sistematica al Regno italico prende il via nel luglio 1225, come seconda parte di un disegno complessivo nei confronti della penisola. La convocazione di una dieta a Cremona, città fedelissima, per il 19 aprile 1226, giornata di Pasqua, ne costituisce l'inizio: alla riunione sono invitati i principi tedeschi, i signori e le città dell'Italia settentrionale, i fideles dell'imperatore, i quali dovevano convenire ‒ dice la lettera di convocazione ‒ per discutere "pro succursu et itinere Terre [Sancte], pro honore quoque et reformatione status Imperii" (Simeoni, 1963, p. 301; Fasoli, 1976, p. 45; Voltmer, 1987, p. 102). Mentre è ben chiaro il primo riferimento, che è alla crociata promessa a papa Onorio III e fino ad allora sempre rimandata, non altrettanto si può dire per il secondo, che allude più genericamente a una volontà di cambiamento dello stato di cose presente. In altri documenti successivi collegati all'iniziativa della dieta la reformatio status Imperii acquista fisionomia più precisa, abbinandosi all'evocazione di iura imperiali conculcati. Su quale fosse davvero il progetto federiciano nei confronti delle città le discussioni sono aperte e contemplano varie possibilità, dalla pura e semplice abolizione di quanto stabilito nella pace di Costanza al ritorno al tenore letterale del trattato con il Barbarossa (largamente disatteso nei decenni successivi al 1183), fino a una sorta di volontà di monetizzazione delle regalie usurpate dai comuni. Se si muove dai soli elementi certi di cui si dispone, costituiti da un intento di reformatio associato da un certo punto in avanti alla rivendicazione di prerogative imperiali non più osservate, il riferimento sembra andare in effetti a un ritorno al trattato di Costanza, nella forma che era stata stabilita nel 1183 ma era poi andata disattesa di fronte allo sviluppo totalmente autonomistico delle città: i rettori comunali (ora, i podestà) non ricevevano certamente investitura imperiale, se mai l'avevano ricevuta; non si erano stabiliti i censi sostitutivi delle regalie; l'appello alla giustizia imperiale per cause superiori alle 25 lire era un'eccezione. Rievocare questi e forse altri iura che la formula volutamente generica non escludeva significava, al di là di una realizzabilità pratica tutta da verificare, porre una base di discussione importante: il ruolo delle autonomie cittadine nell'ordinamento del Regno italico doveva essere ripensato secondo lo schema elaborato a Costanza, che lo riconosceva entro una gerarchia di poteri in cui la sovranità imperiale funzionava teoricamente da sanzione suprema di un universo politico fondato su consuetudini e pattuizioni (Tabacco, 1970; Keller, 1994).

La situazione permane incerta fino all'inizio del 1226, quando alcune iniziative sembrano provare che, fermo restando l'obiettivo della crociata, la dieta è concepita da parte imperiale anche come l'occasione per un intervento nei confronti delle città. Verso gennaio Federico invita cavalieri e baroni di Puglia a prepararsi a seguirlo in Lombardia e li convoca a Pescara per l'8 marzo; poco dopo invita alla mobilitazione le città dello Stato pontificio perché gli forniscano milizie in vista del viaggio, e appunto in questa occasione allude agli iura di spettanza dell'Impero. Si trattasse di un reale intento di esercitare la forza o della volontà di condurre con i comuni una sorta di contrattazione armata, il tutto fu inteso come una minaccia. Il 6 marzo 1226, non a caso immediatamente prima del termine stabilito per il concentramento delle truppe imperiali a Pescara, procuratori di Milano, Brescia, Mantova, Vicenza, Padova, Treviso e Bologna si incontrano a S. Zenone al Mozzo presso Mantova e si impegnano in un giuramento preventivo a nome delle città che rappresentano: come consentito dalla pace di Costanza, sarà rinnovata per venticinque anni la Lega lombarda. Immediatamente dopo, forse il giorno stesso, la Lega è giurata dagli stessi rappresentanti nel consiglio di Mantova. Una certa rapidità di esecuzione, il numero in fondo ancora limitato di città partecipanti, la riservatezza dell'incontro preliminare fanno pensare che tra S. Zenone e Mantova prendesse forma un progetto maturato non con la prima notizia sulla volontà di Federico di convocare la dieta a Cremona, che risaliva al luglio 1225, bensì da quando, dal gennaio 1226, l'imperatore richiese la mobilitazione di truppe e si riferì esplicitamente a diritti da restaurare, da quando cioè fu più chiaro di quali contenuti egli intendeva riempire l'auspicata reformatio status Imperii. Una volta avviato, il processo fu però rapido e seguì per lo più linee di alleanza consolidate, anche se non mancano casi di città che aderirono solo dopo cambiamenti di fazione al vertice. Nel mese di aprile si aggiungono Vercelli e Alessandria, da decenni coinvolte nella politica pattizia milanese nell'Italia occidentale; Faenza, che era alleata di Bologna; Verona; Piacenza e Lodi anch'esse alleate di Milano (Chiodi, 1996). A maggio compare nella Lega Bergamo e nel corso dell'anno aderiscono Torino, Crema e Ferrara, per limitarci alle presenze del 1226. All'imperatore, che sembra avere imboccato la via di una considerazione unitaria della situazione cittadina nel Regno italico, i comuni lombardi rispondono in sostanza rilanciando la partita sullo stesso terreno, con la costituzione di quello che è stato definito un "soggetto politico collettivo sovraregionale" (Vallerani, La politica degli schieramenti, 1998, p. 450).

Parlare di seconda Lega lombarda, come talvolta si fa, può essere giustificato solo nel senso che l'alleanza varata nel 1226, al pari della Lega stretta contro il Barbarossa nel 1167, mise in campo strutture di resistenza antimperiale stabili e altamente definite, che rimasero operanti di fatto fino alla sconfitta di Cortenuova nel 1237; ma in realtà già nel 1185, nel 1195 e nel 1208 la societas Lombardie aveva conosciuto dei rinnovamenti ufficiali, in momenti di particolare tensione dei rapporti con il Barbarossa, con Enrico VI, con Ottone IV. D'altra parte la Lega del 1226 ereditava anche una lunga tradizione di esperienze pattizie intercomunali strette nei decenni precedenti, che implicavano in misura variabile la collegialità di alcune decisioni. Rimane però indubitabile che dalle comuni alleanze la Lega differiva, oltre che per l'ampiezza, per la precisa distinzione del livello unitario da quello delle singole città associate: essa non era la pura somma dei suoi membri, ma un organismo superiore in grado di decidere autonomamente rispetto ai componenti della societas, e il collegio dei rettori della Lega (di solito due per comune) godeva nei confronti delle città aderenti di poteri rilevanti sul piano normativo, giurisdizionale e del controllo politico. Questa volontà di tenere distinti i piani operativi, quasi a mostrare che nella Lega si esprimeva un ideale unitario che stava al di sopra delle divisioni locali, caratterizza l'insieme dei modi di funzionamento dell'esperienza: l'analisi dei membri milanesi facenti parte del collegio dei rettori dal 1226 al 1235 mostra che si tratta di personaggi (in prevalenza giudici) di lunga esperienza politica e diplomatica, ma non coincidenti con i milanesi che alimentavano nel frattempo la circolazione podestarile (Chiodi, 1996). D'altra parte la normativa interna via via approvata, subordinando le adesioni alla società all'approvazione del collegio dei rettori e impegnando questi ultimi in un'attività di mediazione delle tensioni interne fra città, tendeva a fare della Lega un ente che si presentava almeno programmaticamente con una sua unità politica.

Come prova il seguito degli avvenimenti, il giuramento della societas radicalizza immediatamente le posizioni perché rende evidente l'impossibilità di un'operazione normalizzatrice, in qualunque modo l'imperatore avesse l'intenzione di condurla. La discesa di principi tedeschi in Italia era prevista dalla lettera stessa di convocazione della dieta di Cremona, ma è probabile che, appresa la costituzione dell'alleanza, forse già a marzo, Federico ne affrettasse la venuta. Fatto sta che essa avviene in una forma preoccupante: si muovono alla volta dell'Italia forti contingenti militari guidati da Enrico di Svevia, figlio di Federico, a cui la Lega oppone il blocco militare della Val d'Adige alle chiuse di Verona; costretto a fermarsi a Trento, Enrico è obbligato a rimanervi fino alla metà di giugno, quando fa ritorno in Germania. Parallelamente, all'inizio di giugno, si svolgono trattative senza esito, condotte dai vescovi al seguito dell'imperatore, tra cui anche vescovi di città aderenti alla Lega: le garanzie richieste dai comuni sul piano militare e politico, che puntano a ridurre drasticamente le truppe sulle quali Federico avrebbe potuto contare e a inibirgli la possibilità di bandire le città, sono giudicate indegne dai mediatori, che esprimono anzi parere favorevole alla possibilità di scomunica per i membri della Lega. Altri tentativi di mediazione falliscono e si giunge così al pronunciamento imperiale contro la Lega emanato il 12 luglio 1226 da Borgo S. Donnino (ma si badi che lo Svevo evitò accuratamente di riconoscere la societas, nominandola come tale, e si riferì invece a illeciti giuramenti stretti fra città). Esso costituisce un'offensiva di durezza estrema ma anche, come vedremo, un'articolata costruzione politico-ideologica. L'insieme di disposizioni formato dalla scomunica emessa dal vescovo di Hildesheim, legato papale in Germania per la crociata, dal bando imperiale e dalla condanna per lesa maestà relega tutte le città che hanno condiviso il giuramento in una condizione illegittima. Il privilegio di Costanza, con tutto ciò che ne poteva derivare in termini giurisdizionali, è formalmente abrogato così come ogni privilegio successivamente concesso, sono annullati i diritti derivanti da dazi, feudi, donazioni, privilegi, regalie, si dichiarano decaduti tutti gli ufficiali comunali e si vieta di nominarne altri, si annullano gli statuti passati, presenti e futuri, si chiudono scuole e studia. Si disconosceva insomma, sul piano teorico e declarativo, l'ultimo cinquantennio di vita comunale, ivi compreso il suo momento fondante sul piano della legittimità, il trattato con il Barbarossa. Il tutto non poteva divenire realtà nella situazione di allora, ma costituiva l'impostazione di una durissima base di rapporto, una svolta di principio fondamentale che fornisce parecchi elementi sul progressivo costituirsi dell'idea imperiale federiciana. Il primo elemento sta nell'irrigidimento delle posizioni. Come già abbiamo visto non ci sono prove che tra gli obiettivi iniziali della dieta di Cremona potesse esserci la revoca di Costanza, ma semmai l'applicazione fedele di quanto là era stato stabilito ed era stato poi superato dagli sviluppi autonomistici urbani. Adesso, di fronte a una reazione cittadina organizzata su vasta scala, la condotta imperiale appare ben diversa.

In secondo luogo, la declaratio dei vescovi della Curia imperiale, che rigetta le garanzie chieste dai collegati e si pronuncia favorevolmente sulla loro scomunica, anteriore di circa un mese (10 giugno 1226) al bando di Borgo S. Donnino, lamenta esplicitamente la limitazione posta in quest'occasione dalle città all'imperatore nell'esercizio della giustizia: gli alleati impediscono che il legis dator completi nella prassi il suo dovere e che la iurisdictio si abbini, come è giusto, alla coercizione. Se pensiamo al rilievo che questi temi acquisteranno di lì a poco nel grande proemio cosmologico-giuridico delle Costituzioni di Melfi o Liber Augustalis (1231), è ben chiaro che si pongono le premesse per rappresentare l'attività dei comuni antimperiali come una turbativa dell'ordine del mondo e una lesione del principale diritto-dovere del sovrano, quello di essere portatore di legge e giustizia (Kantorowicz, 1989, pp. 84-93). Infine il bando, in cui si intrecciano scomunica e sanzione politica, fa discendere l'insieme delle misure contro i comuni collegati dalla duplice offesa che essi avrebbero commesso: contro l'autorità imperiale ma al tempo stesso contro la Chiesa romana, perché si erano opposti a un'iniziativa che aveva come obiettivo la crociata e nasceva da una collaborazione stretta fra papato e Impero (Kantorowicz, 1976, p. 136). Anche qui la posta ideologica è alta: la strada è tracciata per un inquadramento della ribellione comunale sotto la specie di uno sconvolgimento politico-religioso della societas christiana, quello dell'eresia della disobbedienza, non citata nel bando ma in qualche modo evocata dalla sua logica interna (Baietto, 2001). La richiesta federiciana a papa Onorio III di intervenire come arbitro nella contesa è coerente con questa strategia. Nell'impossibilità di imporre una soluzione militare, Federico vuole sottolineare con questo atto che la ribellione comunale è cosa che riguarda entrambi i poteri universali, e si premura d'altra parte di ribadire le cristiane intenzioni con cui aveva convocato la dieta a Cremona. In realtà il lodo emanato dal papa il 5 gennaio 1227 non affronta per nulla i temi delle prerogative comunali di fronte alle prerogative imperiali, in una parola la questione di quali fossero i confini da porre alle autonomie cittadine e di quale ruolo attribuire al trattato di Costanza in questa definizione. Onorio III stabiliva che l'imperatore doveva revocare le pene comminate contro le città della Lega, e a queste ultime imponeva di fare pace con le città filoimperiali, ma soprattutto ‒ e si constata qui il vero interesse del papa nella questione ‒ di fornire cavalieri per la crociata e di inserire negli statuti le norme contro gli eretici, cassando al contempo tutto ciò che appariva lesivo delle libertà ecclesiastiche. In un trionfo di pragmatismo, un compromesso che si limitava a risolvere le questioni immediate e lasciava impregiudicate e aperte a ogni soluzione futura quelle di fondo fu accettato appunto per questo da tutti, sia pure con ritardo da parte lombarda.

Nel periodo successivo la questione comunale subisce più intensamente l'evoluzione dei rapporti tra Federico e il papato. Il lodo di Onorio III, che imponeva ai comuni la contribuzione di armati da inviare in soccorso alla Terrasanta, aveva ribadito ancora una volta che la questione crociata da parte papale era irrinunciabile, e d'altro canto incombeva la scadenza del termine da tempo fissato a Federico per il passaggio d'Oltremare (agosto 1227). Il compromesso fu l'ultima iniziativa rilevante di papa Onorio, che morì a marzo e al quale succedette sul soglio Gregorio IX, il cardinale Ugolino d'Ostia, dalla lunga esperienza diplomatica e grande conoscitore del mondo comunale. Gli avvenimenti appena trascorsi nel negotium Lombardie e il delinearsi di un progetto federiciano verso il Regno italico, per ora non realizzato ma sufficientemente definito come una volontà di restaurazione, inserirono un nuovo motivo nella politica pontificia: il timore che il Patrimonio di S. Pietro, stretto fra un Regno meridionale riorganizzato e un Regno italico del quale l'imperatore voleva riassumere il controllo, potesse essere preso in una morsa e sottoposto a una minaccia territoriale concreta. Ne derivò una condotta papale verso l'imperatore incline a soluzioni drastiche e, sia pure non immediatamente, un tendenziale avvicinamento fra il papa e i comuni antimperiali. Il primo aspetto si poté constatare quando l'ennesimo ritardo nell'organizzazione della crociata, dovuto questa volta a ragioni oggettive (difficoltà nella raccolta delle truppe a Brindisi, un'epidemia che colpì anche l'imperatore), fu presentato da parte papale come un segno di colpevole incuria e di doppiezza e portò alla fine del settembre 1227 alla scomunica dell'imperatore. Com'è noto, il sovrano scomunicato intraprese comunque la crociata, che lo tenne lontano dall'Italia per un anno, dal giugno 1228 allo stesso mese dell'anno successivo, e proprio in quei mesi è constatabile ‒ veniamo al secondo aspetto ‒ l'avvenuta convergenza tra lo schieramento leghista e la politica papale. Le città della Lega presero parte con le truppe pontificie al tentativo di invasione del Regno meridionale promosso dal papa durante l'assenza di Federico: la pace che ne scaturì dopo il ritorno del sovrano (San Germano, 23 luglio 1230) concesse genericamente il perdono a tutti coloro, ivi compresi i lombardi, che si erano schierati con la Chiesa contro lo Svevo e non dedicò attenzione specifica ai rapporti tra le città e l'imperatore. Ma era chiaro che la situazione andava mutando, e la connessione lombardo-papale in funzione antimperiale, conseguenza della rottura dell'unità di intenti fra papa e imperatore, costituiva il dato più rilevante della novità. Al di là dei mille avvenimenti, spesso non coerenti né lineari, che contrassegnarono gli anni successivi, la contrapposizione fra i due poteri entrò da allora nel vivo delle dinamiche interne comunali dando un impulso decisivo a collegare i dissidi locali tra fazioni a "un problema di respiro universale" (Tabacco, 1994, p. 341). L'instaurarsi di un simile collegamento aggiunse una dimensione nuova ai conflitti nelle città, nei primi decenni del Duecento dominati principalmente dal tema dell'egemonia delle aristocrazie nei governi comunali e dalle varie forme di opposizione organizzata a tale egemonia, e d'ora in avanti più saldamente imperniati invece su solidarietà di carattere politico-ideologico (Cammarosano, 1996, p. 380). Ebbe per tutti i protagonisti un ruolo importante nella chiarificazione del quadro l'emanazione delle Costituzioni di Melfi nell'agosto 1231. Esse, mettendo a punto in forma solenne per il Regno meridionale il modello federiciano di potere politico, consentirono di fare i conti non più con intenzioni da decifrare ma con un progetto che prendeva forma scritta, compiuta e da tutti constatabile: affermazione piena e indiscussa della necessità dell'autorità sovrana, suprema regolatrice della vita dello stato, organizzazione di una gerarchia funzionariale nominata e controllata dal re, intolleranza verso le autonomie cittadine. Non ci sono prove di una volontà di espansione della normativa del Liber Augustalis al Regno italico, ma l'idea di stato che vi si esprimeva, la cui funzione era in sostanza di disciplinare dall'alto la società con la massima energia, non poteva non inquietare il mondo pluralistico dell'Italia centrosettentrionale. Il proclama melfitano, e la notizia di una nuova dieta programmata per il novembre 1231, riattivarono i collegamenti leghisti e provocarono un rinnovamento solenne della societas Lombardie nell'ottobre 1231 e, come nell'occasione di Cremona, il blocco delle vie d'accesso in Italia per le truppe tedesche. Secondo un copione già visto, la dieta viene rimandata e nel gennaio 1232 nuovamente il sovrano emana il bando contro le città e nuovamente si va a una mediazione papale. Tuttavia diverso, perché diversa era la geografia di rapporti che si era disegnata nel frattempo, è il ruolo svolto in questa occasione da Gregorio IX, del quale si è detto che sembra offrire alla Lega in questa fase "una sorta di protettorato politico nei confronti dell'impero" (Vallerani, Le città lombarde, 1998, p. 460), confermato da espressioni di particolare dilezione.

Il lodo del pontefice (5 giugno 1233) arriva alla fine di una lunga fase di trattative e sancisce la generale remissione di tutte le offese da entrambe le parti, la liberazione dei comuni dal bando imperiale e per questi ultimi l'obbligo di pagare per due anni cinquecento cavalieri da inviare in Terrasanta. Si ricalca dunque a grandi linee lo schema già proposto da Onorio III, anche nell'accurata elusione dei problemi davvero scottanti, unica condizione del resto per cui l'arbitrato potesse essere accettato come tale, vista l'inconciliabilità assoluta delle posizioni. Gli atti preparatori, in cui i contendenti sottomettono le loro richieste ai legati papali, mostrano infatti una opposizione frontale tra le parti. L'imperatore richiedeva il giuramento di fedeltà, lo scioglimento di tutti i giuramenti fatti in suo pregiudizio (dunque anche quello della Lega), l'accettazione di tutte le sentenze emesse dall'imperatore e dai suoi vicari, la riparazione delle ingiurie, la restituzione delle regalie e di quanto era stato sottratto agli aderenti alla parte imperiale dalle città della Lega. Quasi nulla, sia pure con gradi diversi di determinazione, era accettato dai collegati, che rivendicavano invece in toto la piena legalità del loro operato sulla base della pace di Costanza. Solamente sul punto del giuramento di fedeltà le città si espressero quasi tutte a favore, ma si può ben capire: da un lato accettarlo permetteva un ulteriore richiamo esplicito o implicito al privilegio del 1183, che lo prevedeva, e dunque ciò consentiva ai comuni di rafforzare la loro presentazione in termini pienamente legali; e d'altro canto era chiaro che, lasciate insoddisfatte le altre richieste imperiali, quel giuramento avrebbe avuto sul piano concreto un significato puramente formale. In realtà non vi era una possibilità di composizione effettiva e infatti, attraverso un complesso iter procedurale, al papa è sottoposta dai legati una materia del contendere ridotta alle sole questioni immediate. Che sia la procedura sia il lodo finale vengano accettati dimostra che le parti sono disposte per il momento a soluzioni dilatorie: l'imperatore deve domare una rivolta in Sicilia e d'altro canto il passaggio di Ezzelino da Romano al fronte imperiale ha sguarnito la Lega lombarda di alcuni punti di forza nella Marca trevigiana. Lo scontro viene sentito come inevitabile ma il momento è probabilmente giudicato prematuro.

Divenne invece propizio agli occhi dell'imperatore nel 1236, dopo due anni dedicati soprattutto alla situazione tedesca. Domata la ribellione del figlio Enrico, che era giunto a stringere alleanza con la Lega, alla dieta di Magonza del 1235 Federico aveva ricostituito la solidarietà della nobiltà di Germania intorno a un programma di pace pubblica. Aveva anche esposto in quell'occasione un piano di intervento militare nella penisola per l'anno seguente, invitando i principi tedeschi ad affiancarlo contro i lombardi. Mosse da Augusta con un esercito di tremila cavalieri alla volta dell'Italia alla fine di luglio 1236, dando inizio alla campagna che sarebbe culminata l'anno successivo nella dura sconfitta inferta all'esercito della Lega, composto soprattutto di milanesi, a Cortenuova, non distante da Bergamo (27 novembre 1237). Ne seguirono il progressivo sfaldamento dell'alleanza e la sottomissione delle principali città negli anni 1238-1239, tanto che rimasero estranee al controllo imperiale le sole Milano, Piacenza, Brescia e Bologna. Ma colpisce, ancor più che la vittoria militare, la rovente ideologizzazione innescata dagli ambienti federiciani. La ribellione delle città è presentata come eresia in quanto nemica di un potere di diritto divino, l'intervento militare imperiale è doveroso in quanto durissima e legittima executio iuris, compare sempre più spesso nella propaganda federiciana il tema dell'eredità romana e del ruolo eterno dei Cesari (quest'ultimo era costitutivo dell'idea imperiale ma era anche più pragmaticamente utile a indurre il comune di Roma a creare difficoltà alla politica filolombarda di Gregorio IX). La gestione dell'evento di Cortenuova, amplificato in numerose lettere imperiali, solennizzato in un trionfo a Cremona a cui segue l'invio delle spoglie del carroccio a Roma, dove furono collocate in Campidoglio, aggiunge alla sconfitta l'umiliazione del nemico in un quadro di scontro tra princìpi: ai fautori della libertas cittadina si opponeva la forza di una maiestas erogatrice inflessibile di giustizia e restauratrice di un passato aureo.

È stata spesso notata un certa intransigenza dell'imperatore nel periodo successivo a Cortenuova, secondo una logica drastica che vedeva nella resa incondizionata delle città ostili l'unica soluzione possibile; ciò era connaturato del resto alla sua cultura politica, nella quale le categorie di tradimento e di fedeltà avevano un peso determinante (Keller, 1994). Anche in questa durezza, oltre che nelle comprensibili difficoltà del fronte leghista, sta la spiegazione degli avvenimenti seguenti, nei quali i dati salienti sono un crescente impegno a viso aperto del papa contro Federico e il deciso passaggio di iniziativa dai comuni alla Curia pontificia. Fu un'iniziativa che da un lato culminò nella scomunica scagliata contro l'imperatore nel 1239 e dall'altro cercò di ricostruire capillarmente il coordinamento cittadino antifedericiano soprattutto attraverso l'opera politico-militare del legato pontificio Gregorio da Montelongo. Si trattò di anni convulsi e fitti di avvenimenti, con subitanei cambiamenti di fronte di vari comuni e rivolgimenti interni impossibili da seguire analiticamente. Scomparso Gregorio IX nell'agosto 1241, esauriti i pochi giorni del pontificato di Celestino IV, la Sede papale rimase vacante fino all'elezione di Innocenzo IV nel giugno 1243, con il quale proseguì la radicale contrapposizione all'Impero: la conferma nell'incarico in Lombardia di Gregorio da Montelongo contro l'esplicita richiesta di sostituzione avanzata da Federico fu un segno di continuità di linea politica, la deposizione dell'imperatore proclamata nel luglio 1245 costituì il più alto grado di scontro pensabile. In una situazione che mette fuori gioco paci, mediazioni o trattative, il mondo delle città è pienamente coinvolto nel conflitto guelfo-ghibellino, che lo attraversa nella sua globalità e all'interno dei singoli comuni. Nel 1248 il fallito assedio di Parma passata al partito guelfo segna un primo rovescio per l'imperatore: gli assediati effettuano una sortita e si impadroniscono della città-accampamento dei nemici, a cui era stato imposto il nome di Vittoria. Nel maggio 1249 a Fossalta si ha la sconfitta dei modenesi per mano delle truppe bolognesi; re Enzo di Sardegna, figlio prediletto di Federico, è condotto prigioniero a Bologna, dove rimarrà fino alla morte. In una situazione ancora aperta Federico scompare improvvisamente nel dicembre 1250, nel giubilo della parte papale.

Va detto ora che l'offensiva imperiale mostrò anche una rilevante pars construens, perché l'aggressione ai comuni lombardi ribelli era pur sempre una mossa, certo quella fondamentale, entro un disegno più ampio il cui obiettivo di fondo era il riassetto globale del Regno italico. Su questo terreno Federico portò a termine, fra Cortenuova e gli anni Quaranta nei territori che era pervenuto a controllare, un progetto di distrettuazione amministrativa quale l'Italia non aveva più conosciuto dall'età carolingia. Non esistendo una legge costitutiva della ristrutturazione, il piano va individuato attraverso la prassi, che ne mostra un'attuazione progressiva ma piuttosto rapida. Sottoposto tutto il territorio del Regno al legato generale Enzo, che agiva come una sorta di viceré, furono costituiti dieci vicariati generali nel Regno e nelle aree sottratte al Patrimonio pontificio: "a Papia superius", "a Papia inferius", la Lunigiana, la Marca trevigiana (controllata da Ezzelino), la Romagna, la Marca di Ancona, il ducato di Spoleto, la Tuscia, le terre "ab Amelia usque Cornetum et per totam Maritimam" e quelle "a finibus Regni usque ad Narniam" (Ohlig, 1936). Al vicario generale della circoscrizione sottostavano funzionari minori la cui titolazione e le cui prerogative potevano variare (vicari o capitani o castellani) e, nelle città, podestà di nomina imperiale, come era di nomina imperiale l'intero apparato. Al di là delle definizioni che sono state date del riassetto, per lo più usando la categoria schematica dell''assolutismo', il progetto mostra un'ispirazione di governo opposta alle pratiche che reggevano di fatto il funzionamento normale del Regno: alla sovrapposizione di livelli diversi di raccordo fra nuclei di potere urbani e rurali, alle relazioni multiple e intrecciate, si voleva sostituire un energico coordinamento dall'alto. Il pluralismo era sottomesso a una gerarchia burocratica che collegava per gradi successivi il potere imperiale alle città. Non tanto il dominio o l'intervento eversivo negli assetti cittadini sembrano stare a cuore all'imperatore, quanto la creazione di un modello politico ispirato alla subordinazione della complessità alla sovranità imperiale. Ciò posto, si spiega perché i vari podestà di nomina federiciana non frantumarono in genere gli ordinamenti municipali: erano funzionari imposti soprattutto per garantire la fedeltà all'Impero e la subalternità gerarchica degli enti cittadini al principe nel nuovo schema di ispirazione statale. Il riassetto, sulla cui efficacia si continua a di-scutere, non sopravvisse alla scomparsa dell'imperatore. Sopravvisse invece in tutta l'Italia dei comuni e divenne incandescente nei decenni successivi un altro lascito dell'età di Federico: la polarizzazione guelfo-ghibellina del mondo comunale, nell'interno delle singole città e nelle sue coordinazioni sovracittadine. Nel secondo Duecento la tendenza a raggrupparsi sotto nome papale o imperiale entrò stabilmente nel gioco politico urbano come elemento rilevante di una competizione generale: servì a connotare tradizioni politiche familiari, a favorire raccordi organizzati tra gruppi di parentela, a mantenere la solidarietà di fazioni vincitrici da un lato e di fazioni sconfitte ed esiliate dall'altro, a conferire identità specifiche a singole città o leghe di città in contrapposizione ad altre; e si intrecciò con la polarizzazione indotta dall'emergere dei governi di 'popolo' e dalle reazioni aristocratiche ad essi. Il drastico tentativo, portato avanti da Federico II, di semplificare il pluralismo comunale aveva condotto infine a moltiplicarne gli aspetti.

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