Complessita biologica

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Complessita biologica

RRicard V. Solé

di Ricard V. Solé

Complessità biologica

sommario: 1. Introduzione. 2. Complessità e riduzionismo. 3. La complessità all'opera: le patologie complesse. 4. La complessità ecologica. 5. Reti neurali e linguaggio umano. 6. L'intelligenza collettiva. 7. Le reti nella dinamica evolutiva. 8. Conclusioni. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Si ritiene che l'architettura della complessità biologica sia strettamente connessa ai percorsi seguiti dall'evoluzione naturale. Osservando le intricate strutture che caratterizzano i sistemi biologici presenti a diversi livelli della scala evolutiva, si notano differenti livelli di organizzazione che appaiono difficilmente comprensibili sulla base di teorie semplici. È difficile descrivere in termini elementari il meccanismo molecolare che dà energia alle nostre cellule. In questo contesto, la biologia ha ampiamente utilizzato l'approccio analitico alla complessità, osservando le singole parti (cellule, molecole, specie o individui) al fine di capire, e talvolta anche spiegare, proprietà di ordine superiore. Il successo del cosiddetto 'approccio riduzionista' è stato notevole e non c'è dubbio che in alcuni campi esso rappresenti il primo passo da compiere (v. Wilson, 1998). Tuttavia, molto spesso la complessità biologica sfugge a una visione così restrittiva e richiede che venga adottata una prospettiva molto più ampia.

Sin dagli albori della scienza è noto che le proprietà delle singole unità non sempre riescono a spiegare la totalità. In questo senso, si dice spesso (rifacendosi ad Aristotele) che "il tutto è più della somma delle sue parti", intendendo che il comportamento complessivo mostrato da un dato sistema presenta caratteristiche diverse da quelle attribuibili ai suoi singoli componenti. Un'affermazione più appropriata sarebbe che "il tutto è qualcosa di diverso rispetto alla somma delle sue parti", dal momento che nella maggioranza dei casi dall'interazione tra le componenti emergono proprietà completamente nuove. Ad esempio, le proprietà dell'acqua che rendono questa molecola così unica e necessaria per la vita, come l'ampio intervallo di temperature entro cui essa rimane allo stato liquido, non possono essere spiegate sulla base delle proprietà separate dell'idrogeno e dell'ossigeno. Gli stessi limiti si incontrano in campo biologico: una proprietà come la memoria non è deducibile dalla semplice conoscenza dei singoli neuroni che formano il cervello (v. Solé e Goodwin, 2000). Negli ultimi decenni del XX secolo i limiti dell'approccio riduzionista sono apparsi sempre più evidenti, per cui si è andato affermando un nuovo tipo di prospettiva, nota come 'biologia integrativa'.

Le strutture biologiche sono estremamente complesse e non sorprende che gli scienziati abbiano mirato ad analizzarne sottocomponenti ben definite, in via di principio più adatte a un'analisi dettagliata. Si pensi ai successi della biologia molecolare, tra i quali la scoperta della struttura del DNA: analizzando gli schemi di diffrazione dei raggi X di campioni cristallizzati, James Watson e Francis Crick riuscirono a chiarire lo schema dell'organizzazione molecolare del DNA, trovando così anche la chiave per comprendere i meccanismi dell'ereditarietà (v. Watson e Crick, 1953). È importante ricordare che una significativa fonte di ispirazione venne da un breve saggio intitolato Cos'è la vita?, scritto dal grande fisico Erwin Schrödinger, nel quale egli analizzava il problema di quali molecole potessero fungere da depositarie dell'informazione genetica. Schrödinger predisse che l'informazione genetica doveva essere immagazzinata in un qualche tipo di cristallo aperiodico, una struttura molecolare che associa uno schema regolare a una certa casualità. Entrambe queste caratteristiche si riscontrano nella molecola del DNA: il motivo a elica definisce uno schema periodico regolare, mentre la sequenza in sé è estremamente variabile. Nella realtà questo tipo di organizzazione è assai diffuso (v. Hofstadter, 1979).

L'esempio del cristallo aperiodico è paradigmatico. Utilizzando semplici argomentazioni fisiche, senza possedere alcuna conoscenza diretta della biologia molecolare che è alla base dell'informazione genetica, Schrödinger fu in grado di prevedere una proprietà assolutamente fondamentale della vita. Qualcosa di simile avvenne quando il matematico ungherese John von Neumann scoprì, all'inizio degli anni cinquanta, le regole che permettono a un sistema arbitrario di autoreplicarsi. Pur ignorando la struttura delle reti cellulari, von Neumann trovò una soluzione che si dimostrò estremamente vicina a quella riscontrata nell'organizzazione cellulare, sebbene all'epoca non si avesse alcuna idea dell'importanza del DNA (v. von Neumann, 1966). Questi esempi illustrano la potenza dei modelli teorici quando si abbia a che fare con realtà complesse. Essi indicano che per arrivare a capire la complessità biologica a un determinato livello può non essere necessaria la conoscenza completa dei minimi dettagli.

Negli ultimi decenni un numero sempre crescente di prove sperimentali indica che molte importanti caratteristiche dei sistemi biologici complessi emergono dalle interazioni tra le loro parti costituenti e che tali proprietà non possono essere spiegate analizzando isolatamente queste componenti. In altri termini, devono essere considerate le proprietà a livello di rete. La teoria della complessità dimostra che molte caratteristiche essenziali dei sistemi biologici possono essere spiegate in modo soddisfacente nei termini di modelli assai semplici, nei quali l'esatta descrizione delle singole unità è irrilevante. Ciò che conta sono le interazioni tra unità e, talvolta, solo i loro aspetti più importanti. Le strutture a rete presentano fenomeni inattesi - talvolta facilmente intuitivi, ma talaltra piuttosto sorprendenti - che sono alla base della complessità osservata nei sistemi biologici, ma anche della loro fragilità.

Incorporando il concetto di reti biologiche nella nostra spiegazione della natura, scopriamo che noi stessi facciamo parte di queste reti complesse e giungiamo a una visione più completa della loro complessità. Nei seguenti capitoli illustreremo alcune delle teorie sul modo in cui la complessità emerge in diversi sistemi (dalla biologia molecolare alle neuroscienze), evidenziando i limiti della prospettiva riduzionista in questo contesto.

2. Complessità e riduzionismo

Analizzando gli schemi complessi dei sistemi biologici si possono individuare diversi livelli di organizzazione, che solitamente corrispondono all'esistenza di diversi schemi funzionali. Nel caso dei processi molecolari che si verificano all'interno della cellula, il flusso d'informazione che va dal DNA alle proteine e le interazioni di queste con i processi metabolici assumono un ruolo dominante. Ma passando a un livello di organizzazione superiore, ad esempio quello del sistema nervoso, emergono nuove proprietà: una rete di neuroni è dotata di memoria e la memoria deriva in gran parte dalle interazioni tra neuroni. Anche se all'interno di ciascun neurone esiste una ben definita biochimica dei neurotrasmettitori, per capire la natura della memoria occorre adottare una nuova prospettiva che vada oltre gli eventi molecolari e consideri proprietà espresse a livello cellulare e tissutale.

La comprensione degli schemi a livello molecolare talvolta può farci capire la biologia funzionale, con conseguenze anche in campo terapeutico. Ne è un esempio lo studio delle malattie da prioni, patologie infettive che colpiscono uomini e animali, caratterizzate dalla formazione e dall'accumulo nel sistema nervoso centrale della forma patologica della proteina prionica; questa deriva da proteine prioniche normali presenti nelle cellule che sono convertite in una isoforma anomala dall'agente infettante. Lo scrapie, una malattia delle pecore, appartiene a questo gruppo di malattie. Non si conosce in dettaglio come questa proteina parassita sia in grado di indurre l'ospite a produrre nuove molecole patologiche di prioni, ma pare accertato che l'infezione si trasmetta tramite agenti infettivi che non contengono DNA e che i prioni patologici, pur non contenendo acidi nucleici, siano in grado di infettare e di riprodursi.

Come dicevamo, i prioni patologici entrano nelle cellule e trasformano le proteine prioniche normali che si trovano al loro interno in prioni alterati. Le proteine prioniche normali (v. fig. 1A) e quelle patologiche sono formate dagli stessi componenti, ossia dagli stessi amminoacidi, ma si ripiegano in modo differente assumendo una diversa struttura tridimensionale. Nella forma normale dominano le sequenze ad α-elica, mentre le sequenze a foglietto β sono più rare; nella forma patologica (v. fig. 1B), invece, predominano i foglietti β. Sembra che la proteina anomala sia in grado di modificare quelle normali mediante un'interazione fisica diretta in conseguenza della quale le proteine alterate crescono esponenzialmente. Prima che si verifichi questo fenomeno può trascorrere un lungo periodo di incubazione. Le proteine prioniche anomale tendono ad aggregarsi formando strutture fibrillari insolubili che si accumulano nel sistema nervoso centrale e alle quali sembra debbano attribuirsi gli effetti nocivi sui soggetti affetti dalla malattia.

Oltre a questa descrizione molecolare, bisogna considerare un altro livello di complessità; infatti, non sono le singole molecole di prioni a determinare la malattia, ma è la formazione delle strutture fibrillari che in qualche modo porta allo stato patologico associato alla distruzione del tessuto nervoso. Per capire la dinamica e l'evoluzione di queste strutture occorre considerare la cinetica delle interazioni tra prioni, e il ricorso a modelli matematici ha aiutato a comprendere questo processo (v. Wills, 1991; v. Eigen, 1996; v. Payne e Krakauer, 1998). Solo partendo dallo studio delle interazioni tra proteine prioniche possiamo comprendere le caratteristiche macroscopiche della malattia (quelle osservabili clinicamente). Grazie alla combinazione di analisi molecolare, informazioni cliniche e modelli teorici sarà possibile raggiungere una comprensione più approfondita della malattia e della sua progressione.

Questo è solo un esempio fra tanti delle informazioni che si possono ottenere partendo dall'osservazione delle proprietà microscopiche di un dato sistema. Nel caso precedente, in questo modo si è scoperto che viene modificata una proprietà molecolare essenziale. L'approccio riduzionista integrato dall'uso di modelli matematici consente di individuare i principali fattori responsabili della progressione della malattia. La comprensione delle loro dinamiche permetterà di esplorare possibili metodi di cura, anche se ciò è reso difficile dal fatto che la maggior parte delle malattie implica un'intricata trama di fattori interagenti. Nel capitolo seguente esamineremo alcuni esempi di tali malattie complesse.

3. La complessità all'opera: le patologie complesse

Le attività molecolari che hanno luogo in una cellula e gli scambi di informazione che si instaurano tra cellule vicine sono densi e coordinati. Essi determinano lo stato della cellula e la sua stabilità. Grazie al controllo genetico e ai continui segnali ricevuti dall'ambiente che le circonda, le cellule mantengono il loro stato differenziato (cioè restano, ad esempio, neuroni o epatociti) e contribuiscono all'omeostasi necessaria a ciascun tessuto od organo. Per evitare anomalie di funzionamento, nelle cellule operano meccanismi molteplici. In seguito a mutazioni di natura diversa, il DNA cellulare può essere non correttamente replicato e un dato gene di fondamentale importanza può erroneamente essere inattivato o attivato. Quando ciò avviene, la cellula così mutata può morire. Esistono però vari punti di controllo utilizzati dal sistema cellulare per verificare che tutto funzioni correttamente. Se viene prodotto un segnale che indica che la stabilità cellulare è in pericolo, determinati meccanismi possono promuovere la morte della cellula stessa (processo di 'apoptosi').

Talvolta il sofisticato meccanismo che mantiene la stabilità delle cellule si guasta e si alterano i meccanismi interni ed esterni che ne regolano la crescita: le cellule iniziano a proliferare in maniera incontrollata dando origine a un tumore (v. Varmus e Weinberg, 1993). In altri casi le cellule non riescono a differenziarsi in cellule specializzate, oppure non muoiono una volta invecchiate perché i segnali che dovrebbero innescarne la morte non vengono inviati o non vengono riconosciuti, o ancora geni fondamentali per il mantenimento dell'integrità cellulare non riescono a funzionare e si instaura il caos. La situazione anomala è osservabile a tutti i livelli, dai geni ai tessuti. Una cellula tumorale (fig. 2A) presenta chiare differenze rispetto alle cellule normali, tra cui anomalie nelle proprietà della membrana, nella comunicazione tra cellule o nel numero di cromosomi.

Un ulteriore problema è rappresentato dal fatto che molto spesso il sistema immunitario non riesce a rispondere all'aggressione rappresentata dalla crescita incontrollata di un tumore e non viene messa in atto un'adeguata risposta immunitaria. Benché l'immunoterapia contro i tumori costituisca un'area di ricerca molto attiva, finora sono stati ottenuti pochi risultati significativi, perché è l'organismo stesso a generare le cellule tumorali e quindi la risposta immunitaria è debole o addirittura assente. Talvolta, però, si riesce a indurre una adeguata risposta immunitaria che in alcuni casi consente la completa regressione del tumore, anche in stadi avanzati della malattia (v. Rosenberg, 2001). Tale regressione può anche essere spontanea e indica che l'organismo è in grado di attivare una risposta immunitaria efficace.

Ancora una volta, sembra che all'origine di questi processi vi siano alcuni geni chiave. Uno di questi, che risulta mutato in più della metà dei tumori umani, è quello che codifica per la proteina p53 (v. Vogelstein e altri, 2000). I tumori associati a mutazioni di questo gene - che comprendono neoplasie della vescica, della mammella, del colon, del polmone, del fegato e della cute - sono tra i più aggressivi e letali. Esso appartiene alla famiglia dei cosiddetti geni oncosoppressori, che codificano proteine capaci di bloccare la divisione cellulare. Quando uno di questi geni muta o viene soppresso, viene a mancare il controllo che esso esercita sul ciclo cellulare e si sviluppa il tumore; in questo contesto, p53 ha un ruolo centrale nel controllo sia del ciclo cellulare sia della morte cellulare, e la sua importanza nel meccanismo cellulare emerge chiaramente se si considera la rete di interazioni tra questa proteina e altri fattori cellulari, come mostrato nella fig. 2B. Come si può vedere, essa regola l'attività di un gran numero di funzioni cellulari; il suo mancato funzionamento provoca un difetto di molte di esse e può innescare una crescita incontrollata.

L'esempio precedente suggerisce che un'osservazione attenta delle interazioni geniche può aiutare a identificare i geni fondamentali e forse a capire il ruolo di alcuni di essi nei tumori. Di fatto, sembra che la maggior parte dei geni interagisca solo con uno o pochi altri geni, e che siano rari i geni aventi un elevato numero di interazioni. Inoltre, mentre la mutazione di alcuni geni ha un effetto rilevante, in molti altri casi gli effetti sembrano essere trascurabili. Nell'ambito delle malattie tumorali, le complesse reti biologiche presentano una straordinaria capacità omeostatica nei confronti degli errori casuali di una data unità, cosa difficilmente spiegabile sulla base di una diretta estrapolazione dalla situazione sopra descritta. Richiamandosi in parte all'esperienza dei sistemi tecnologici, si è spesso pensato che tale capacità fosse essenzialmente dovuta alla ridondanza, per cui il fallimento di una data unità (un gene in una rete di geni) verrebbe compensato dalla presenza di una sua copia. Tuttavia, l'analisi delle reti biologiche indica che la loro efficacia è associata principalmente a caratteristiche diverse dalla ridondanza (v. Wagner, 2000; v. Edelman e Gally, 2001). Si è dimostrato, infatti, che in molti casi componenti completamente diversi tra loro possono svolgere funzioni simili, una caratteristica nota come 'degenerazione' (v. Tononi e altri, 1999; v. Edelman e Gally, 2001), la quale riguarda elementi strutturalmente diversi che svolgono funzioni uguali o diverse a seconda del contesto, a differenza della ridondanza che implica invece elementi strutturalmente identici. Un numero crescente di dati sembra confermare che questa sia una proprietà ubiquitaria nelle reti biologiche.

Come conciliare queste due caratteristiche apparentemente divergenti delle reti cellulari? La risposta potrebbe arrivare da un confronto tra il genoma e Internet (v. Vogelstein e altri, 2000). È stato dimostrato che Internet presenta un'architettura per molti versi simile a quella osservata in alcune reti biologiche (v. Albert e altri, 2000; v. Barabási, 2002). Più specificamente, se si immagina la rete come un gruppo di utenti connessi tra loro, si deve pensare a una rete complessa costituita da migliaia di elementi, la maggior parte dei quali ha solo un numero ridotto di connessioni, mentre una minoranza è connessa a molti altri elementi. Questo tipo di rete è nota come rete scale-free ('indipendente dalle dimensioni', ossia con un numero di connessioni talmente variabile che non è possibile attribuire alla connettività un valore medio in grado di descrivere il sistema) e possiede molte proprietà interessanti. La prima è che il sistema è molto ben connesso: per raggiungere un qualsiasi nodo a partire da un altro è necessario soltanto un esiguo numero di passaggi (nell'ordine di dieci o meno) attraverso differenti computer, nonostante il fatto che una data rete locale o globale è composta da migliaia o milioni di nodi. Questa proprietà è nota come 'fenomeno dello small-world ' ('mondo di dimensioni ridotte': l'espressione è stata coniata dallo psicologo statunitense Stanley Milgram, il quale alla fine degli anni sessanta condusse una serie di esperimenti per verificare l'ipotesi che tutti i membri di una rete sociale sufficientemente estesa possono essere connessi gli uni con gli altri attraverso un numero limitato di rapporti interpersonali; v. Watts e Strogatz, 1998).

Un'altra caratteristica di questa struttura a rete ha un ruolo chiave nel traffico tra computer, come è stato dimostrato dal gruppo di Lazslo Barabási, e ha conseguenze estremamente rilevanti per le moderne reti di comunicazione: se alcuni nodi scelti a caso in Internet non funzionano per una qualche ragione, le conseguenze di questa disfunzione saranno sostanzialmente limitate (come avviene per molte mutazioni casuali nella cellula). Ciò indica che il sistema nel suo complesso è altamente stabile. La ragione è facilmente spiegabile: dal momento che la maggior parte delle unità è connessa solo a un piccolo numero di elementi, la loro disfunzione non si propaga al sistema. Tuttavia il 'tallone d'Achille' di una rete di questo tipo (v. Albert e altri, 2000) è rappresentato dal fatto che la rimozione di una frazione anche molto piccola di centri altamente connessi provoca il collasso del sistema. Nel nostro esempio, lo scambio tra computer diventa impossibile e le disfunzioni aumentano in modo esponenziale. La rete si frammenta e non è più in grado di funzionare. Sorprendentemente, qualcosa di molto simile sembra avvenire nelle reti cellulari (v. Jeong e altri, 2000 e 2001). Secondo alcuni studiosi, nella cellula la proteina p53 potrebbe fungere da nodo centrale e, poiché controlla funzioni fondamentali nel sistema, la sua assenza ha gravi conseguenze.

L'esistenza di una siffatta organizzazione delle connessioni nelle reti cellulari ha importanti implicazioni. La prima è di ordine teorico, e riguarda l'ipotesi che l'evoluzione abbia conformato le reti cellulari in modo tale da consentire un'efficiente comunicazione riducendo la distanza media tra componenti. In questo senso, le reti cellulari sono 'mondi di dimensioni ridotte'. Dal momento che la maggior parte delle componenti è scarsamente connessa con le altre, le mutazioni avranno tipicamente un effetto ridotto e il sistema rimarrà stabile. Tuttavia, un'efficiente comunicazione è associata alla presenza di centri altamente connessi, e in questo senso prima o poi le mutazioni interesseranno uno dei nodi chiave. Il cancro è forse una conseguenza inevitabile della presenza di questi centri altamente connessi (e della estensione temporale della vita dell'uomo). La seconda implicazione ha un'evidente rilevanza sul piano terapeutico. Dal momento che queste reti presentano un elevato grado di degenerazione, le manipolazioni genetiche riguardanti singoli geni spesso non avranno successo perché questo tipo di strutture presenta proprio le caratteristiche tipiche di una rete. Un dato elemento mancante può essere rimpiazzato da altri componenti della rete. D'altro canto, la conoscenza di queste reti potrebbe facilitare l'individuazione del 'tallone di Achille' del cancro.

In un analogo contesto, negli ultimi decenni sono state identificate altre patologie 'complesse' o 'multifattoriali', ossia derivate dall'azione combinata di un gran numero di geni, fattori ambientali e comportamenti a rischio. Attualmente, una delle maggiori sfide per la ricerca biomedica è quella di capire in che modo interagiscano i fattori coinvolti al fine di approntare strategie efficaci per la diagnosi, la prevenzione e la cura di queste patologie. È probabile che per migliorare queste strategie si debba ragionare in termini di reti complesse. L'identificazione e il sequenziamento dei geni che determinano alcune caratteristiche delle patologie complesse costituiscono un passo importante per la loro comprensione, ma il recente sequenziamento del genoma umano dimostra che "il sequenziamento è solo il primo livello di comprensione del genoma" (v. Venter e altri, 2001). Il successivo passo fondamentale dovrà essere lo studio delle proprietà e delle interazioni delle proteine codificate da questi geni.

4. La complessità ecologica

Oltre alle interazioni che determinano la complessità biologica a livello cellulare e tissutale, anche la complessità degli ecosistemi è da tempo materia di analisi teorica (v. May, 1974; v. Pimm, 1991). I sistemi ecologici costituiscono reti tra le più complesse esistenti in natura e forniscono un esempio di come queste siano alla base della biodiversità. Comprendere le leggi che regolano l'associazione di ecosistemi complessi è importante per diverse ragioni. Una di queste è la possibilità di valutare la velocità e le future conseguenze della perdita di biodiversità che si sta verificando nella biosfera (in gran parte a causa dell'azione antropica). Molte specie sono già scomparse e molte altre rischiano l'estinzione. Per citare l'ecologista Stuart Pimm: "L'estinzione è veramente irreversibile; le specie estinte sono perse per sempre. Non è come in Jurassic Park. Non possiamo più riportarle indietro".

L'estinzione è una componente intrinseca dell'evoluzione. È stato stimato che il 99,9% delle specie animali apparse sulla Terra si sia estinto. Questo fenomeno è quindi parte integrante della vita: alla fine tutte le specie si estingueranno. Ma il tasso di estinzione nel passato è stato molto variabile, e un numero crescente di dati sembra confermare che effetti non lineari e proprietà a livello di rete possono svolgere un ruolo estremamente importante. Due esempi risultano particolarmente illuminanti al riguardo. Il primo concerne gli effetti dell'eliminazione di specie da una data rete alimentare, il secondo l'importanza dei cosiddetti effetti indiretti sulle dinamiche ecologiche.

Poiché le reti ecologiche possono propagare gli effetti della perdita di una data specie attraverso la catena alimentare (v. Wilson, 1992), è importante sapere se i fenomeni a livello di rete possano accelerare la velocità di eliminazione delle specie. Ciò è stato osservato di frequente nel contesto di studi sul campo, benché in molti casi gli effetti si propaghino attraverso la rete alimentare a un ritmo assai lento e quindi non risultino immediatamente visibili. Un esempio è fornito dalla diminuzione dei 'predatori alla sommità' (ossia non predati da altri) nell'America Centrale e Meridionale (ibid.). Dato che alcune di queste specie (come i giaguari e i puma) predano una gran varietà di specie di piccola taglia, la loro eliminazione determina cambiamenti enormi nelle popolazioni di tali animali. Un esempio è dato dagli studi effettuati nell'isola di Barro Colorado, a Panama, dove la scomparsa dei predatori ha condotto in prima istanza alla decuplicazione delle popolazioni delle loro prede. Ciò a sua volta ha causato un aumento della pressione esercitata sulle specie arboree con semi grandi di cui si nutrono le popolazioni non più predate e quindi in espansione (come gli aguti), che si è tradotto in una diminuita competitività di queste piante rispetto ad altre specie arboree a semi piccoli, le quali, alla fine, hanno preso il sopravvento nella composizione della foresta. Edward Wilson ha così descritto lo scenario generale: "Sembra inevitabile che anche le specie animali che si nutrono di tali piante prosperino, che i predatori che attaccano questi animali aumentino, che i funghi e i batteri che parassitano gli alberi a semi piccoli e gli animali ad essi associati si diffondano, che gli animali microscopici che crescono su funghi e batteri si moltiplichino, che i predatori di queste creature aumentino, e così si ripercuota sull'intero ecosistema l'eliminazione di specie chiave" (ibid., pp. 165-168).

Gli effetti dell'eliminazione di specie chiave possono essere simulati al computer utilizzando i dati disponibili sulle reti alimentari. Un esempio di questo tipo di rete è riportato nella fig. 3A, che mostra la struttura delle interazioni tra specie nella rete di Silwood Park, nel Berkshire, Regno Unito (v. Solé e Montoya, 2001; v. Montoya e Solé, 2002). Silwood Park è una rete ecologica molto dettagliata (tutti i nodi eccetto uno rappresentano specie reali) di specie associate a una data pianta, la ginestra dei carbonai (Cytisus scoparium): molte specie sono connesse solo a una o due altre specie (in questo caso le 'connessioni' sono rapporti di predazione), mentre alcune altre sono connesse a molte specie diverse. Questa caratteristica è già stata menzionata parlando delle reti di cellule: le reti di interazioni ecologiche sono estremamente eterogenee. È possibile effettuare al computer due diversi esperimenti di rimozione di specie. Nel primo le specie vengono eliminate a caso, scegliendole in un punto qualsiasi della rete. L'eliminazione di una specie comporta la scomparsa di altre specie che dipendono da essa e non possono più sfruttarla come risorsa (si parla in questo caso di estinzione secondaria). Nel secondo esperimento, le specie vengono eliminate sulla base del loro numero di collegamenti: a ogni passaggio viene eliminata quella che di volta in volta presenta il maggior numero di collegamenti.

I risultati di questi esperimenti di eliminazione simulata sono mostrati nella fig. 3B, nella quale viene riportata la quota di specie estinte (comprese le coestinzioni). La linea tratteggiata indica il lento ritmo di impoverimento della rete determinato dall'eliminazione di specie scelte a caso. In questa situazione la coestinzione è quasi assente e quindi l'eliminazione di una specie ha un impatto ridotto. Ma la situazione cambia drasticamente via via che si eliminano specie altamente connesse. Nel protocollo di eliminazione selettiva, il sistema perde specie a un ritmo molto rapido e si può vedere (come indicato dalla freccia) che tutte le specie sono estinte dopo l'eliminazione mirata di circa il 10% delle specie con elevato numero di connessioni. Questa è una conseguenza della frammentazione della rete che si verifica allorché viene eliminata una piccola quota di specie 'chiave' (v. Solé e Montoya, 2001).

Da tali risultati si possono trarre due importanti conseguenze. La prima è che la formazione di reti ecologiche complesse può generare strutture estremamente resistenti alla perdita di una data specie, ma estremamente fragili se si tratta di specie che costituiscono nodi particolarmente sensibili, cioè con il maggior numero di connessioni. La seconda conseguenza è di particolare importanza ai fini della conservazione: la complessità delle reti alimentari ha un punto debole rappresentato dalle alterazioni degli equilibri ecologici che possono essere causate dall'uomo. In questo contesto, ci sono molti esempi di specie che hanno il ruolo di specie chiave e che possono essere bersaglio diretto dell'intervento umano. Secondo alcune stime l'estinzione procede al ritmo tipico dei fenomeni di estinzione di massa (come quello che causò la scomparsa dei dinosauri 65 milioni di anni fa), ma se la complessità delle reti ecologiche aggiunge un ulteriore elemento di instabilità a questo quadro, forse tali stime potrebbero risultare troppo ottimistiche.

Un altro esempio dell'importanza delle strutture a rete è fornito dai cosiddetti 'effetti indiretti'. Benché vi sia una certa propensione a pensare a una data interazione ecologica (come il rapporto preda-predatore) in termini di effetti diretti, gli studi teorici e i dati ottenuti dalle ricerche sul campo indicano che ai fini della stabilità ecologica gli effetti indiretti possono essere altrettanto importanti di quelli diretti. Ad esempio, un aumento della popolazione di un dato predatore porta a un aumento della popolazione di una delle sue prede. Poiché i predatori hanno un'influenza diretta negativa, l'unica spiegazione è che essi di fatto abbiano un effetto positivo per vie indirette, magari predando un competitore di quella specie e riducendo così l'interazione competitiva.

Talvolta, le strutture organizzate in rete degli ecosistemi possono condurre a strane catene di eventi. Nonostante questa sia una regola più che un'eccezione, solo poche di queste catene sono state analizzate dettagliatamente. Si consideri un esempio tra i tanti: quello della farfalla azzurra Maculinea arion, una specie in via d'estinzione che in Inghilterra è scomparsa nel 1979. L'insetto era una delle cinque specie europee di Maculinea, un genere noto in Europa per la sua bellezza e la sua rarità. La farfalla azzurra viveva nelle praterie dal clima caldo e asciutto dell'Inghilterra, dove la femmina deponeva un unico uovo su un bocciolo di timo selvatico. La larva si nutriva dei fiori e dei semi per due o tre settimane, dopodiché cadeva sul terreno e aspettava di essere trovata dalle formiche rosse di un qualche nido nelle vicinanze. Si stabiliva quindi una relazione mutualistica tra le formiche e il bruco: questo produceva una secrezione simile a quella delle larve di formica della quale si cibavano le formiche, le quali accoglievano il bruco nella loro tana e a loro volta lo nutrivano. Dopo circa un anno il bruco completava la metamorfosi e usciva in superficie.

A un certo punto il numero delle farfalle azzurre iniziò a diminuire e alla fine la specie si estinse. Le ragioni di questo fenomeno, che inizialmente apparve inspiegabile, vennero in seguito chiarite da una serie di ricerche sul campo. La catena fondamentale di eventi è sintetizzata nella fig. 4, nella quale le frecce indicano connessioni causali tra i componenti (nel nostro caso sia interazioni che transizioni tra stati diversi). Il processo ebbe inizio allorché, per frenare la crescita delle popolazioni di conigli presenti in diverse zone d'Europa, venne introdotto il virus della mixomatosi. Questa strategia ebbe uno straordinario successo e il numero di conigli diminuì rapidamente, raggiungendo livelli molto bassi. Ma i conigli spostandosi e cibandosi di arbusti legnosi favorivano la crescita di alcune erbe che altrimenti sarebbero state da questi soppiantate. Le formiche costruivano i loro nidi nelle radici di queste erbe ed erano così in grado di accudire i bruchi che poi si sarebbero trasformati in farfalle adulte. La diminuzione del numero di conigli provocata dal virus fece sì che gli arbusti legnosi prendessero il sopravvento sulle erbe, e ciò determinò a sua volta un declino delle formiche e successivamente il declino e infine l'estinzione della farfalla azzurra. Sebbene le interazioni dirette tra i membri di un ecosistema possano essere interpretate nei termini classici di coevoluzione e adattamento, le interazioni indirette hanno un ruolo estremamente importante. La reazione di alcune specie a perturbazioni che avvengono in altre specie molto distanti nella rete alimentare può essere estremamente complessa e talvolta imprevedibile. In questi casi, ciò che davvero conta è la struttura a rete e non le interazioni dirette tra specie e specie. Ancora una volta, un approccio semplice alla complessità biologica fondato su una prospettiva analitica (nella quale le varie specie sono considerate come entità isolate, senza tener conto della catena alimentare di cui fanno parte) non è in grado di cogliere il processo nel suo insieme.

5. Reti neurali e linguaggio umano

Il cervello umano rappresenta l'esempio più spettacolare di complessità biologica: "Può sognare, inventare poesie e scherzare. E, cosa più sorprendente, possiede una dote unica, la consapevolezza della propria identità e della propria collocazione nel tempo e nello spazio. Sia lode al cervello umano, cattedrale della complessità!" (v. Coveney e Highfield, 1996, p. 102). Il cervello fornisce un significativo esempio di come differenti livelli gerarchici di organizzazione possano essere intrecciati in un dato sistema. Nella corteccia cerebrale di un primate si riscontra la presenza di un'organizzazione modulare (parti differenti del cervello sono coinvolte in processi differenti) associata a un elevato grado di intercomunicazione. Nonostante tipi di informazioni diverse provenienti da fonti differenti siano elaborati separatamente nel nostro cervello, alla fine dalla loro combinazione si ottiene un quadro complessivo del nostro ambiente (v. fig. 5).

Gli studiosi hanno fatto ricorso a varie metafore nel tentativo di comprendere le funzioni del cervello, paragonandolo di volta in volta a macchine, a reti telegrafiche o telefoniche e, cosa non sorprendente, a un computer. È interessante notare che con il progredire dell'innovazione tecnologica le metafore si sono avvicinate sempre più al quadro reale. Ovviamente, esistono molte differenze tra una rete telefonica e un cervello, e anche il computer costituisce una metafora inadeguata per un sistema dotato di una tale plasticità e stabilità. Particolarmente interessante a questo riguardo è l'esistenza di una stretta analogia tra le mappe corticali (ossia le reti che descrivono le interazioni tra le diverse regioni del cervello) e le architetture di computer paralleli (v. Nelson e Bower, 1990). Nelle architetture di computer paralleli (PCA) la velocità di calcolo introduce dei vincoli all'architettura che derivano dal tipo specifico di informazioni in ingresso. L'architettura ottimale dipende quindi dal tipo di calcolo da effettuare e le categorie fondamentali delle architetture di computer paralleli riproducono con buona approssimazione i tre tipi fondamentali di mappe cerebrali. Questa è un'osservazione importante, perché suggerisce che l'evoluzione naturale e quella artificiale sono giunte (attraverso percorsi molto diversi) a soluzioni finali simili.

Secondo alcuni studiosi, mente e cervello sono entità differenti e la prima non può essere spiegata attraverso la conoscenza del secondo. Per altri, il cervello umano dovrebbe essere analizzato in base allo schema stimolo-reazione utilizzato per studiare il comportamento dei topi da laboratorio in un labirinto. Alcuni psicologi hanno proposto di considerare il cervello come una scatola nera, sostenendo che se si utilizzano gli stimoli appropriati e si osservano le risposte, si possono decifrare alcuni dei suoi meccanismi interni. Purtroppo la situazione non è così semplice. Cercare di capire il funzionamento del cervello servendosi della metafora della scatola nera sarebbe come cercare di desumere i dettagli di un film osservando le reazioni degli spettatori che escono dal cinema.

Forse una delle caratteristiche più interessanti del cervello umano è la presenza di una mente simbolica in grado di rappresentare l'informazione proveniente dal mondo esterno sotto forma di simboli interni. La comparsa del linguaggio umano è uno dei principali passaggi dell'evoluzione, e gli esseri umani hanno una mente simbolica unica, con una capacità di linguaggio che nessun'altra specie possiede. Nel corso dei due milioni di anni di evoluzione degli Ominidi si è verificato uno scambio coevolutivo tra linguaggio e cervello (v. Deacon, 1988). Questo processo ha comportato la transizione (forse repentina) dalla comunicazione non sintattica a quella sintattica. Il linguaggio umano consente la costruzione di una gamma pressoché infinita di combinazioni a partire da una serie limitata di unità di base che l'uomo è in grado di associare per formare proposizioni in modo incredibilmente rapido ed efficace.

Analizzando la struttura del linguaggio umano si scopre che anche la flessibilità e la ricchezza di questa struttura si fondano sull'esistenza di reti. Il linguaggio presenta numerose caratteristiche sorprendenti. Ad esempio, siamo in grado di costruire frasi complesse con grande facilità senza conoscere in anticipo l'esatto insieme di parole che useremo. Il numero di combinazioni tra parole è astronomico, ma riusciamo a utilizzare qualche organizzazione presente nel nostro cervello che è alla base dell'architettura del linguaggio e che ci consente di formare le frasi effettuando una rapida ricerca nei nostri archivi di parole. Dal momento che in questi archivi sono immagazzinati in media da 50.000 a 100.000 termini, è affascinante constatare la rapidità con cui si riesce a raggiungere questo obiettivo. Ma in che modo?

La risposta si ottiene in parte grazie all'analisi su larga scala della struttura delle frasi di un ampio numero di testi (v. Ferrer i Cancho e Solé, 2001). In sintesi, si assume che in una data frase due termini appaiono vicini perché sono collegati tramite qualche regola sintattica sottostante. I due termini sono definiti co-ricorrenti e saranno considerati collegati tra loro. Si può quindi costruire in modo sistematico una rete di termini collegati mediante questa regola. In qualche modo, quando si costruisce una frase, si segue un percorso di questa rete. Qual è l'architettura che ne risulta? Sorprendentemente, la rete di parole si rivela un 'mondo di dimensioni ridotte': per poter giungere a un dato termine partendo da un termine qualsiasi scelto arbitrariamente nella rete (e passando da una parola all'altra seguendo le loro connessioni) in media sono necessari meno di tre passaggi. Detto altrimenti, nonostante la rete sia formata da migliaia di elementi, è molto facile connetterne due seguendo un percorso assai breve. Ancora una volta, la struttura di questa rete è simile a quella di Internet: la maggior parte dei termini ha solo una o due connessioni, ma alcuni costituiscono centri nodali con molte connessioni. Tali centri nodali in questo caso sono costituiti tipicamente da preposizioni, che di per sé non hanno un significato, ma vengono usate come 'collante' per connettere velocemente le parole. Nella fig. 6 è rappresentato parte di un grafico corrispondente ad alcune delle parole che ricorrono più di frequente nel romanzo Moby Dick di Herman Melville e alle loro connessioni. Anche in questo caso, l'evoluzione ha modellato queste reti al fine di raggiungere due risultati: un efficiente meccanismo di comunicazione e un sistema in grado di sfruttare facilmente la natura potenzialmente combinatoria del linguaggio.

6. L'intelligenza collettiva

L'emergere di un comportamento è ben illustrato anche da alcuni dei complessi schemi di comportamento collettivo mostrati dagli insetti sociali. Gli enormi nidi creati dalle termiti o gli schemi di incursione delle formiche che attraversano la foresta pluviale sono due esempi di tale complessità. In entrambi i casi, strutture di grandi dimensioni emergono come risultato di interazioni locali che avvengono su scala assai più ridotta: i singoli individui raccolgono informazioni dai compagni tramite contatti delle antenne o mediante segnali chimici, ma le strutture complessive che ne risultano (nidi, percorsi, ecc.) trascendono la comprensione dei singoli individui.

È guardando a livello microscopico che si percepisce nei più minuti dettagli la complessità degli individui. Una singola formica presenta un repertorio di schemi comportamentali non sempre facili da comprendere, ma generalmente gli individui che fanno parte di una grande colonia tendono ad avere schemi di comportamento piuttosto semplici. Solo nel contesto del gruppo (la colonia d'insetti) ordine e intelligenza emergono come proprietà collettive. Talvolta le dimensioni delle strutture che si sviluppano da interazioni locali sono di diversi ordini di grandezza superiori alle dimensioni dei singoli individui che le realizzano (come ad esempio nel caso dei nidi di termiti). Inoltre, osservando certi schemi spaziali, come quello di un alveare di api, alcune regolarità fondamentali mostrate da tipi differenti di strutture indicano l'intervento di meccanismi comuni di auto-organizzazione. La creazione di una data struttura spaziale spesso implica una situazione in cui ci sono due livelli di organizzazione che non possono essere separati (v. fig. 7).

Sia nelle colonie di formiche, sia nel cervello, le singole unità (formiche o neuroni) non raccolgono, immagazzinano e trattano l'informazione in modo individuale, ma interagiscono l'una con l'altra in modo tale che l'informazione è elaborata dalla collettività. La colonia nel suo complesso è un organismo, l'entità di base che dobbiamo comprendere. E come nel caso del cervello, la colonia è formata da molti individui che interagiscono, le singole unità possono passare da determinati tipi di attività ad altri, possono non funzionare o essere eliminate senza danni per la collettività (stabilità) e possiedono un repertorio comportamentale limitato, in quanto raccolgono informazioni su scala locale. Le somiglianze fondamentali sono riassunte nella tab. I, nella quale sono indicate situazioni tipiche (alcune specie di formiche possono formare anche colonie di dimensioni ridotte). La stabilità indica la capacità omeostatica di un dato sistema in caso di disfunzione o eliminazione di singole unità (in questo caso neuroni o formiche).

Poiché gli individui raccolgono informazioni dai loro vicini, in che modo possono essere prodotte strutture complesse (come i nidi) sulla base di regole locali? In qualche modo, i contatti su piccola scala (sia tra individui che tra questi e il loro microambiente) devono essere amplificati in modo tale che l'informazione viene propagata e stabilizzata su scala più ampia. Ancora una volta ci troviamo di fronte a reti di comunicazione, ma con una nuova caratteristica: queste reti sono costituite da individui che interagiscono tra loro solo per un breve periodo di tempo e operano senza l'ausilio di un'architettura o di un progetto. Le connessioni tra due determinate unità sono perciò temporanee. Si tratta di "reti neurali fluide" (v. Solé e Miramontes, 1995). Le origini della complessità collettiva, in particolare di strutture come i nidi, in un sistema composto da molte unità, potrebbero essere spiegate facendo riferimento al meccanismo ipotizzato nel 1952 da Alan Turing per spiegare lo sviluppo degli organismi viventi, un meccanismo basato su processi di reazione e diffusione chimica (v. Turing, 1952).

Turing voleva trovare una spiegazione dei meccanismi fondamentali che controllano eventi precoci della morfogenesi e propose un semplice meccanismo che coinvolge due tipi di molecole (i morfogeni) che si presupponeva fossero capaci di interagire localmente e di diffondersi nello spazio. L'idea fondamentale è che un'elevata concentrazione locale di una sostanza morfogena, in grado cioè di indurre un determinato schema (qualcosa che, ad esempio, attira gli individui) induca un ulteriore accumulo locale, e che un'elevata concentrazione locale in un dato punto abbia anche l'effetto di inibire l'accumulo della sostanza a qualche distanza. In questo modo possono emergere schemi complessi, dando luogo a strutture che vanno ben oltre la distanza caratteristica a cui si verificano le interazioni.

Alcuni semplici esperimenti consentono di dimostrare che nel comportamento collettivo degli insetti sociali tali meccanismi di amplificazione dell'auto-organizzazione hanno effettivamente luogo (v. Theraulaz e altri, 2002). In uno di questi è stato utilizzato uno speciale sistema per misurare accuratamente tutte le variabili coinvolte. Le formiche avevano accesso a un'arena circolare lungo il cui perimetro erano distribuiti in modo omogeneo i cadaveri di altre formiche. Le formiche avevano una forte tendenza a seguire la parete (e quindi effettuavano fondamentalmente un movimento unidimensionale). Analizzando il sistema di formazione dei mucchi di formiche morte e la dinamica della loro distribuzione spaziale (un esempio in quattro passaggi di questo processo è mostrato nella fig. 8) è emerso un risultato sorprendente. Invece di scegliere rapidamente una o poche posizioni fisse per ammucchiare i cadaveri, le formiche formavano molti cumuli, alcuni dei quali crescevano, mentre altri scomparivano dopo essere stati parzialmente eretti. Il numero di cumuli inizialmente aumentava, raggiungendo un picco massimo dopo tre ore. Successivamente decresceva per rimanere costante quando finalmente veniva fissato uno schema spaziale stabile. Il numero medio di cumuli risultava pressoché uguale in tutti gli esperimenti e raddoppiava se venivano raddoppiate le dimensioni dell'arena.

Queste osservazioni indicano che in questo caso opera un meccanismo di attivazione a corto raggio e di inibizione a lungo raggio simile a quello ipotizzato da Turing. L'attivazione consisterebbe in una tendenza comportamentale ad accumulare formiche morte con una probabilità che aumenta in proporzione alla densità con cui queste sono presenti nelle immediate vicinanze (più sono i cadaveri, maggiore è la probabilità che altri ne vengano ammucchiati). Questo meccanismo porta a un'amplificazione locale della densità delle formiche morte, a meno che non prenda il sopravvento il meccanismo di inibizione. L'inibizione deriva dalla tendenza delle formiche a raccogliere i corpi delle compagne morte e a trasportarli per notevoli distanze, causando l'impoverimento dei cumuli a largo raggio. Benché le formiche possiedano solo informazioni raccolte localmente, la dinamica globale della colonia porta alla formazione di una struttura ordinata. La rete è in grado di organizzare la disposizione spaziale degli oggetti producendo una struttura macroscopica. È probabile che meccanismi simili siano alla base dei comportamenti costruttivi di altri insetti sociali. È molto facile simulare lo stesso schema al computer utilizzando formiche e cadaveri virtuali e inserendo dati molto schematici dei movimenti e della probabilità di interazione delle formiche con i cadaveri: gli schemi che si ottengono sono gli stessi osservati nelle colonie sperimentali (v. fig. 8, sequenza a destra). Il fatto che il modello incorpori solo un insieme molto semplice di regole (e quindi le formiche virtuali siano praticamente degli automi piuttosto semplici) convalida l'idea che non sia necessaria una descrizione dettagliata dei singoli individui.

Una delle principali ragioni per cui gli schemi di auto-organizzazione sono così diffusi è che gli stessi comportamenti a livello individuale possono essere usati per creare risposte collettive differenti in ambienti differenti. In questo senso, non c'è bisogno di chiamare in causa la complessità dei singoli per comprendere le origini della complessità dei nidi. Le strutture globali che emergono dall'interazione di semplici individui non possono essere comprese partendo dall'analisi del comportamento individuale: gli individui non hanno idea di come costruire il nido e le regole non possono essere riducibili all'analisi dei loro genotipi. Forze selettive operano su uno spazio parametrico in cui c'è un numero limitato di schemi dinamici e di regole non lineari. Di conseguenza, è possibile ottenere solo un numero limitato (ma assai diversificato) di strutture di livello superiore. I vincoli cui sono soggetti i sistemi fisici che generano schemi agiscono anche in questo caso. Solo se si considerano la collettività nel suo insieme e il ruolo giocato dalle interazioni è possibile cominciare a comprendere le origini della complessità nelle società di insetti.

7. Le reti nella dinamica evolutiva

Nei capitoli precedenti abbiamo analizzato le proprietà di vari tipi di rete e la loro importanza per comprendere l'evoluzione della biocomplessità. Un ultimo problema che merita di essere discusso riguarda il ruolo dei modelli di rete nell'evoluzione stessa. In che modo le proprietà a livello di rete riescono a modellare il processo evolutivo su larga scala? Lo studio dei paleoclimi indica chiaramente che il nostro pianeta non era affatto una sorta di stagno caldo e stabile, ma un luogo soggetto a continui cambiamenti. In questo senso, appare chiaro che qualsiasi teoria della macroevoluzione deve tener conto delle fluttuazioni esterne, di origine sia astronomica che geologica. Anche gli ecosistemi non sono entità lineari che reagiscono in modo automatico all'ambiente esterno, e diverse osservazioni dimostrano che (almeno a certi livelli) gli eventi biologici, da soli o in associazione con cambiamenti fisici, possono aver avuto uguale importanza.

Per esplorare la possibilità che fenomeni di estinzione sia su piccola che su larga scala siano prodotti da un meccanismo di interazioni ecologiche, si può costruire un semplice modello di evoluzione su vasta scala che coinvolge un insieme di N specie (v. Solé, 2002). In questo modello, le interazioni tra specie sono introdotte mediante una matrice di connessione e l'evoluzione è rappresentata dalle variazioni nei suoi elementi.

Lo 'stato' di ciascuna specie è descritto da una variabile binaria: Si = 1 oppure Si = 0 se l'i-esima specie è, rispettivamente, vivente o estinta. Quindi l'intero ecosistema può essere descritto nei termini di un semplice grafico in cui le connessioni sono stabilite inizialmente secondo valori casuali. Ciascuna specie riceve degli input da alcune altre. Un input può essere positivo o negativo, a seconda che quella data specie sia favorita o danneggiata dalla specie che lo fornisce. Il primo caso sarebbe, ad esempio, quello di una preda o di un cooperatore, mentre il secondo corrisponderebbe a quello di un predatore o di un parassita. In questo modello le specie di fatto sono descritte dai loro insiemi di connessioni.

Si introduce poi un limitato numero di semplici regole (v. Solé e altri, 1996). 1) Cambiamenti casuali nella matrice di connessione: a ogni stadio si sceglie una connessione per ciascuna specie e le si assegna a caso un nuovo valore, indipendentemente dallo stato di connessione precedente; questa regola introduce nel sistema dei cambiamenti che possono essere dovuti a risposte evolutive o a mutamenti ambientali di qualche tipo. 2) Estinzione: i cambiamenti nella rete di connessioni alla fine porteranno all'estinzione. In questo modello, si calcola la somma totale degli input per ciascuna specie, e questa somma definisce la condizione per l'estinzione: se la somma è negativa, la specie è estinta e tutte le sue connessioni vengono eliminate; se è positiva non accade nulla. 3) Diversificazione: un certo numero di specie può scomparire come conseguenza della regola precedente e gli spazi lasciati vuoti verranno colmati mediante la diversificazione. Ciascuna specie estinta viene sostituita da una sopravvissuta scelta a caso; la sostituzione si effettua semplicemente copiando le connessioni della specie sopravvissuta nello spazio vuoto.

Nonostante la sua semplicità (ricordiamo che un modello di biocomplessità non richiede che vengano incorporati tutti i dettagli, ma solo alcune caratteristiche fondamentali), questo modello presenta una dinamica complessa ed è in grado di riprodurre molte importanti caratteristiche che emergono dallo studio dei fossili. La fig. 9B mostra un esempio del tipo di schema di estinzione che si ottiene utilizzando l'insieme di regole presentato sopra. Si può notare che piccole estinzioni si verificano pressoché di continuo (come avviene nella realtà), ma di tanto in tanto si verificano fenomeni di estinzione su vasta scala che possiamo assimilare a estinzioni di massa. La causa di queste estinzioni su vasta scala è connessa con gli effetti a cascata che hanno luogo negli ecosistemi. Quando una specie fondamentale si estingue, scompaiono anche gli input positivi che essa inviava alle altre e di conseguenza altre specie scompaiono. Questa situazione può propagarsi a tutto il sistema. L'evento scatenante può essere interno o esterno, ma la struttura dell'ecosistema gioca un ruolo chiave nella sua amplificazione.

I risultati precedenti hanno un'implicazione molto importante per l'evoluzione. Negli ultimi decenni del XX secolo vi è stato un acceso dibattito sui meccanismi fondamentali che operano nel breve e nel lungo periodo. Per alcuni autori (soprattutto tra i genetisti di popolazione) le regole che operano su piccola scala (i cosiddetti 'eventi microevolutivi') possono essere trasposte direttamente alla macroevoluzione. Per altri autori, tra cui Stephen Jay Gould, in fenomeni evolutivi su scala diversa sono all'opera processi differenti. Questa tesi è stata criticata da alcuni biologi evoluzionisti, perché non è stato indicato alcun meccanismo ben definito responsabile di questa distinzione. Di fatto, però, essa potrebbe essere spiegata dall'organizzazione a rete dei sistemi ecologici. Poiché le specie non sono entità isolate, i cambiamenti nella struttura della rete alimentare possono propagarsi al suo interno, provocando alla fine fenomeni di estinzione su vasta scala. La dinamica di questi cambiamenti non è specie-dipendente, ma rete-dipendente. Ciò che conta sono le caratteristiche globali della rete alimentare, non le particolari proprietà delle specie che costituiscono la rete. Nel lungo periodo, quando si deve tener conto di estinzioni e sostituzioni, il fattore determinante per il comportamento collettivo del sistema è costituito dalla rete e dalle proprietà emergenti dalla dinamica di rete. Allo stesso modo, la selezione naturale e l'adattamento agiscono sulle specie di ecosistemi complessi, ma per avere un quadro completo occorre considerare le interazioni tra specie. Nel lungo periodo, gli effetti delle pressioni selettive sulle singole specie vanno tenuti in considerazione, ma non possono spiegare i processi su vasta scala.

8. Conclusioni

Secondo un famoso detto, attribuito dai più a Ernst Rutherford, "la scienza o è fisica o è una collezione di francobolli". Oggigiorno pochi concorderebbero con l'opinione che tutti i problemi scientifici possano essere spiegati nei termini della fisica. Ciò nonostante, questa affermazione ci ricorda in che misura i vari campi della scienza siano interconnessi. Come abbiamo accennato nei primi capitoli, nel campo della scienza l'approccio dominante è quello riduzionista: la chimica fisica può essere compresa in termini di fisica delle particelle o di atomi, la biologia molecolare studiando il funzionamento delle molecole biologiche, gli organismi investigando le interazioni dei sistemi cellulari che li costituiscono. Come abbiamo visto, ciò non è sempre così ovvio. L'approccio riduzionista può funzionare quando le interazioni tra le parti di un sistema non sono così importanti o quando un dato sottosistema è sostanzialmente indipendente dal resto (o gioca un ruolo primario nel funzionamento del sistema). Tuttavia, dal momento che nella maggior parte dei casi è proprio dalle interazioni che emerge la complessità biologica, un'analisi basata sulla considerazione di tutti i dettagli di una singola unità spesso è destinata all'insuccesso.

Gli esempi precedenti, e molti altri ancora, indicano chiaramente che quando si studiano sistemi complessi bisogna tener conto che si ha a che fare con una data scala di grandezza e che i fenomeni osservati derivano da interazioni tra elementi su scale di grandezza inferiori. Le proprietà di questi elementi sono importanti, ma potrebbero essere irrilevanti quando si considera il sistema su una scala di grandezza maggiore. L'esatta fisiologia dei singoli individui potrebbe essere di modesta importanza a livello di popolazione e l'esatta neurochimica di un singolo neurone potrebbe essere scarsamente informativa sulla memoria al livello del cervello. La natura dimostra che le principali transizioni avvengono quando le parti di un sistema sono in grado di raccogliere ulteriori informazioni dall'ambiente al fine di effettuare previsioni più attendibili. Queste transizioni richiedono innovazioni, e le innovazioni sono, per definizione, proprietà nuove che prima non esistevano: l'insieme diventa qualcosa di diverso dalla somma delle sue parti.

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