COLONIZZAZIONE

Enciclopedia Italiana (1931)

COLONIZZAZIONE

Gennaro MONDAINI
Giuseppe MOLTENI
Giorgio LEVI DELLA VIDA Plinio FRACCARO Gino LUZZATTO

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La colonizzazione fenicia. - La storia della colonizzazione può a buon diritto, come vuole la tradizione, iniziarsi con gli stanziamenti fenici. Poiché, se anche l'immenso estendersi della nostra conoscenza della storia dell'antichità in seguito alla scoperta e alla lettura dei documenti geroglifici e cuneiformi, non consente più di collocare le prime navigazioni dei Fenici agli albori della storia, e se molti secoli prima di esse il Mediterraneo, il Mar Rosso e l'Oceano Indiano erano stati solcati, per motivi di commercio e di conquista, da Egiziani, Babilonesi, Cretesi e Asiani, tuttavia soltanto con le prime stazioni fenicie si costituisce (almeno per quanto finora si sappia) quel tipo di occupazione territoriale che corrisponde al concetto moderno di colonia. In che tempo precisamente e per quali cause i Fenici, che durante tutto il 2° millennio a. C. ci sono noti come popoli litoranei ma non come navigatori, abbiano cominciato a esercitare il commercio per mare, è ancora ignoto: per le varie ipotesi fatte al riguardo, come per i particolari di quanto è qui esposto sommariamente, v. fenici: Storia.

La più antica documentazione della navigazione fenicia è data dai poemi omerici, i quali parlano di navi e di mercanti "sidonî" (il termine è, qui come altrove, sinonimo di Fenici), dediti, oltre che al commercio, anche alla pirateria; a quale età queste notizie si riferiscano non può dirsi con sicurezza, data l'incertezza della cronologia omerica. Se i prodotti di arte orientalizzante che si riscontrano sul suolo greco sono, come sembra, d'importazione fenicia, le relazioni commerciali con la Grecia saranno da collocarsi nel periodo cosiddetto submiceneo, circa il sec. X o IX a. C. Ma di una vera e propria colonizzazione in Grecia, checché ne abbiano favoleggiato gli antichi e, fino a tempi recenti, abbiano congetturato i moderni, non può parlarsi se non per Cipro, dove si riscontrano, in varie città, veri e proprî "regni" fenici, dai quali l'isola venne a poco a poco assoggettata in concorrenza coi Greci, i quali finirono con l'avere il sopravvento, ma solo in epoca abbastanza tarda. Di stanziamenti fenici a Rodi e in altre isole dell'arcipelago si ha notizia, ma tutt'altro che sicura.

Una vera e propria espansione coloniale si ha soltanto nel Mediterraneo occidentale, e in primo luogo in Spagna e sulle coste settentrionali dell'Africa. Anche qui la cronologia è quarito mai incerta, ma i sincronismi con la guerra di Troia posti dalla storiografia greca posteriore, per quanto artificiosi, colgono forse nel segno, e ci riportano alla fine del 2° e al principio del 1° millennio. Cadice e Tartesso in Spagna, Utica, Cartagine, Hadrumetum, Ippona, Leptis in Africa sono le colonie che la tradizione, probabilmente veridica, menziona come fondate da Tirî e da Sidonî, principalmente dai primi. Altre colonie dirette dei Fenici furono Malta (forse anche Pantelleria) e varie località in Sardegna, specialmente Olbia e Tharros. Le colonie della costa atlantica dell'Africa furono fondate probabilmente da Cadice, donde sembra che movessero anche i viaggi verso le coste della Gallia e fino alle Cassiteridi (Isole Shelley) alla ricerca dello stagno; la Sicilia occidentale fu colonizzata da Cartagine.

Carattere tipico delle colonie fenicie è quello di essersi sviluppate da punti di deposito e di rifornimento, appunto come le colonie portoghesi e olandesi dei secoli XV-XVII. Soltanto Cartagine (se la tradizione non mente) sarebbe sorta in seguito a una vera e propria migrazione dalla madrepatria. Per quanto ci è noto, le città coloniali seguirono nella loro ubicazione l'esempio delle città della costa fenicia, e si stanziarono in località di facile approdo e, viceversa, di difficile accesso dalla parte di terra, a difesa contro gli indigeni. Esse servivano soltanto da emporio degli scambî con questi ultimi: di una espansione verso il retroterra non si ha esempio che a proposito della fondazione dell'impero cartaginese. Quale fosse la costituzione politica delle colonie fenicie non ci e noto: certo i loro vincoli con le rispettive metropoli dovettero essere molto più stretti che non, p. es., quelli delle colonie greche, se la stessa Cartagine, dopo secoli d'indipendenza, faceva ancora capo, sia pure soltanto formalmente, alla propria metropoli, Tiro.

Che i Fenici abbiano navigato anche nel Mar Rosso è reso possibile dal racconto biblico intorno alle spedizioni di Salomone al paese di Ophir, ma non si ha notizia che essi possedessero colonie sulle coste di esso; come piuttosto carattere di spedizioni commerciali che di colonizzazione hanno le navigazioni sulla costa occidentale dell'Africa, le quali del resto appartengono alla storia cartaginese.

Col decadere delle città fenicie dopo la conquista babilonese e quella persiana, le colonie mediterranee rimangono abbandonate a sé stesse, e cadono sotto l'egemonia di Cartagine: la storia delle lotte di questa prima coi Greci e poi con Roma esula dal campo della storia della colonizzazione fenicia.

Non meritano il nome di colonie in senso stretto gli stanziamenti di Fenici, per ragioni di commercio, in centri politicamente indipendenti: tali stanziamenti conosciamo in Egitto, fin da tempi antichissimi, in Grecia, dove la presenza di mercanti fenici è attestata fino a epoca tarda (cfr. l'iscrizione fenicia del Pireo, del sec. IV a. C.), in Asia Minore e altrove. Esse rimasero in vita fino a che, nel sec. II e I a. C., la stessa Fenicia perdette il suo carattere nazionale, e successori dei Fenici nel commercio mediterraneo furono i Siri, di razza e lingua aramaica (v. aramei).

L'importanza della colonizzazione fenicia è stata, in passato, alquanto esagerata: essa non lasciò (tranne che per Cartagine) tracce durevoli di civiltà; tuttavia, oltre ad offrire il primo esempio di colonizzazione sistematica, essa contribuì non solo a facilitare gli scambî commerciali, ma anche a diffondere elementi di civiltà (in primo luogo l'alfabeto), e promosse notevolmente l'unità culturale del mondo mediterraneo.

Bibl.: v. fenici.

La colonizzazione greco-romana.

Colonizzazione greca preisiorica. - Gli Elleni che invasero dal nord la Grecia durante la prima metà del II millennio a. C. saturarono presto il paese povero di risorse. Movendo allora (sec. XV) dall'Attica, gruppi di Greci occuparono le Cicladi settentrionali e centrali; altri, partendo dall'Argolide, posero piede nelle Cicladi meridionali o si gettarono su Creta e occuparono quasi tutta l'isola, ove alla fine dell'età micenea si installarono anche i Dori. Lungo la via del commercio con la Siria e l'Egitto, i Greci si stabilirono in varî punti della costa meridionale dell'Asia Minore, specialmente nella Panfilia, ove pare che Achei ed altre stirpi greche si trovassero già al tempo del re hittita Mursil II (circa 1344-1320); l'isola di Cipro, ricca di metalli, fu quasi interamente occupata da coloni che parlavano un dialetto arcadico e partiti quindi dalle coste della Laconia e della Messenia prima che l'invasione dorica ricacciasse gli Arcadi nel centro del Peloponneso. Oltre Cipro, i Greci si trovarono dinnanzi a stati potenti e poterono stabilirsi solo in alcuni punti della Cilicia. Nel sec. XII, dalle Cicladi, da Creta e dalla Tessaglia attraverso le Sporadi, i Greci passarono nelle isole orientali dell'Egeo e poi sulle coste egee dell'Asia Minore, ove occuparono una serie di città dei Carî e dei Lelegi e altre ne fondarono, tutte sul mare o a poca distanza da esso. Queste nuove città erano autonome, ma in base all'affinità di stirpe, di dialetto e di istituzioni, formarono varî gruppi, che avevano centri di culto comuni; a sud le città della Doride, che veneravano l'Apollo del promontorio Triopico, presso Cnido; nel tratto centrale le città della Ionia, fondate dagli Attici e dagli Euboici, avevano come centro di culto il tempio di Poseidone Eliconio al promontorio Mycale; a nord le colonie tessaliche veneravano l'Apollo di Gryneion. Questa colonizzazione, opera di gruppi singoli e spesso misti di stirpi diverse, avvenne gradualmente in un periodo di tempo lungo e i coloni non conservarono con i luoghi d'origine alcun legame, tranne il senso della comunanza di stirpe, forte specialmente fra gli Ionî disseminati dall'Attica alla Ionia. La ricchezza del paese, lo stimolo della vita avventurosa e il contatto con le più evolute civiltà orientali promossero lo sviluppo economico e intellettuale di queste colonie, specialmente di quelle della Ionia, che si trovarono presto alla testa della civiltà greca.

La colonizzazione greca dei secoli VIII-VI. - Dalle coste dell'Asia Minore era impossibile estendersi verso l'interno tenuto da stati forti; perciò, quando la pressione dell'eccesso di popolazione con le sue conseguenze (fame di terre, lotta di classe, guerre) si fece nuovamente sentire, i Greci furono spinti a cercare altrove e più lontano nuovi terreni da occupare. L'allargarsi delle cognizioni geografiche e i progressi della nautica favorirono il nuovo movimento d'espansione. Nel quale gl'interessi commerciali ebbero dapprima parte subordinata, e principale la fame di terre; e se effettivamente la colonizzazione partì soprattutto da città nelle quali l'industria e il commercio cominciavano a fiorire, bisogna tener presente che in esse specialmente gli emigranti potevano trovar navi e guide e più forti si facevano sentire i contrasti sociali. Ebbe così principio nel sec. VIII il secondo e più grande periodo della colonizzazione greca, che costellò di città elleniche le coste di quasi tutto il Mediterraneo e avviò la civiltà greca a divenire mondiale. I centri principali dell'irradiazione coloniale, che fino agli ultimi anni del sec. VII è d'iniziativa privata, non furono più ora la Beozia, l'Attica, o l'Argolide, ma Corinto e Megara sull'Istmo, Calcide ed Eretria nell'Eubea, Rodi, Lesbo, e le città della Ionia con alla testa Mileto. Le fertili coste dell'Italia e della Sicilia, con il loro clima simile al greco e alle quali si poteva arrivare navigando rasente terra, tranne che sui 75 km. di mare che dividono l'Epiro dall'Italia, si offrirono per prime ai coloni greci, ai quali erano del resto già note per rapporti commerciali risalenti all'età micenea.

Secondo la tradizione antica, le colonie più vetuste furono quelle di Sicilia (la prima Nasso, nel 736 o poco avanti), cui tennero dietro quelle sul continente, tranne Cuma che si voleva far risalire al sec. XI; ma alcuni moderni ritengono invece che le prime fondazioni siano avvenute nell'Italia meridionale. Comunque, sulle coste del golfo di Taranto e della Calabria coloni Achei del Peloponneso (e con loro sovente frammisti altri elementi) fondarono dalla metà del sec. VIII Metaponto, Sibari, Crotone e Caulonia, e queste città si svilupparono così, che i Sibariti alla loro volta fondarono nell'interno Pandosia, e scendendo sulla costa tirrena Scidro, Laos e Posidonia; Siris, d'origine incerta (per alcuni fondazione di Metaponto), edificò sulla stessa costa Pixunte (Πυξοῦς) e Crotone Scylletion sulla costa ionia. Contemporanea, o di poco posteriore, è la fondazione, per opera degli Spartani, di Taranto sul più bel porto del golfo. Nelle nuove città si sviluppò presto una vita così rigogliosa e su basi così larghe, che il nuovo mondo fu detto la "Grande Grecia". Ai Calcidesi spetta invece la fondazione della prima colonia in Sicilia, Nasso, e quindi, più a sud, di Catania, Leontini e delle minori Callipoli e Eubea; più a nord essi si stabilirono a Zancle (Messina) e a Reggio. Sicuri dello stretto, essi avanzarono sul Tirreno, occuparono l'isola di Pitecusse (Ischia), dalla quale essi sarebbero per alcuni moderni passati sul continente a fondare Cuma (che gli antichi però, e alcuni moderni, fanno risalire ad epoca molto più remota) e più tardi, intorno al 600, la "città nuova", Neapolis. Fra le due città si stabilirono nel 527 esuli samî a Dicearchia. Calcidesi si stabilirono anche a Capri, Pandotira e Ponzia; e anche Ercolano e Pompei furono forse loro fondazioni. Più a nord gli Etruschi impedirono ulteriori progressi, come i Cartaginesi sbarrarono ai Greci la via verso la Sicilia occidentale: Himera, fondata da Zancle (circa 650), fu l'unica colonia greca della costa settentrionale della Sicilia. Fondazione dei Locresi Opunzî fu Locri Epizefirî, presso il capo Spartivento, che, divenuta potente, fondò sull'opposta sponda tirrenica Hipponion, Medma e Metauron. I Corinzî si stabilirono prima a Corcira, e di qui si spinsero poi in Sicilia ove fondarono, verso il 700, sul più bel porto dell'isola, Siracusa, la futura metropoli siciliana, che alla sua volta dedusse all'interno Acre e Casmene e poi (circa 600) Camarina, sulla costa meridionale. Intorno al 600, i Corinzî fondarono da soli o con i Corciresi tutta una serie di colonie sulla costa nord-ovest della Grecia e orientale dell'Adriatico: Amoracia nell'Epiro, Apollonia e Epidamno nell'Illiria erano le più famose. Anche i Megaresi si volsero alla Sicilia e vi fondarono, verso il 700 Megara Iblea, dalla quale si partiparono i coloni di Selinunte, che fondò poi Minoa alla foce del Platani. Gela fu invece fondata intorno al 680 da Rodi e Cretesi; e dette circa il 580 i coloni di Acragas (Agrigento). Non riuscirono invece i Rodî e i Cnidî a mantenersi contro i Cartaginesi e gli indigeni a Lilibeo, i cui coloni passarono a Lipari. Ai Focesi d'Asia spetta il vanto della fondazione (circa il 600) di Massalia (Marsiglia), faro della civiltà greca nella Gallia; altre colonie focesi e marsigliesi sorsero sulle coste della Liguria, della Gallia e dell'Iberia fino a Menace, presso Malaga, la più occidentale delle colonie greche, poi distrutta. Non resse invece contro Etruschi e Cartaginesi la colonia focese di Alalia in Corsica, i cui coloni si trasferirono a Hyela (Velia) sulle coste d'Italia, e quella di Olbia in Sardegna.

I Calcidesi furono nel sec. VIII all'avanguardia nella colonizzazione delle coste settentrionali dell'Egeo, ove la penisola Calcidica, con le sue tre minori penisole di Acte, Sitonia e Pallene, prese da essi il nome. Torone era la principale delle loro colonie, ma essi confluirono poi specialmente ad Olinto. Gli Eretriesi colonizzarono Mende nella Pallene e Metone e Dicea sul golfo di Salonicco. Gli isolani di Andros fondarono colonie nell'Acte e più ad est (Acanto, Sane, Stagira ecc.). Fondazione corinzia fu Potidea sull'istmo della Pallene. I Parî si stabilirono (metà del sec. VII) nell'isola di Taso, di dove partirono coloni per varî punti della sponda del continente a nord, sulla quale i Chioti fondarono Maronia e i Clazomenî Abdera, che, occupata dai barbari, fu ristabilita dai Tei (543) fuggiti al giogo persiano. Più ad est i Megaresi fondarono intorno al 680 Calcedone sulla riva asiatica del Bosforo, e una ventina di anni dopo, sull'europea, Bisanzio, che tanto avvenire aveva dinnanzi a sé: le chiavi. del Bosforo erano così in loro potere. Posteriore (circa 550) è la colonia megarese di Eraclea Pontica, madre di Callatis sulla costa orientale della Tracia e di Chersoneso nella Crimea. Gli Eoli di Lesbo e di Tenedo fondarono nel sec. VIII una serie di piccole colonie sulle coste della Troade; i Lesbî entrarono quindi nell'Ellesponto e fondarono Sesto e Madito sulla costa europea: anche Enos, alla foce dell'Ebro di Tracia, era loro colonia. Samo fondò Perinto sulla Propontide, Focea Lampsaco sull'Ellesponto. Ma colonizzatori per eccellenza furono i Milesî, le cui fondazioni sono numerosissime, circa novanta, dicono gli antichi. Cizico sulla Propontide sarebbe stata da essi edificata nel 757 (per altri nel 676), Abido, sulla costa asiatica dell'Ellesponto, nel 670 circa; e con queste tutta una serie di minori città all'intorno (Proconneso, Peso, Parion, Apollonia sul Rindaco, Cio, Limne, Cardia ecc.). Ma il campo della colonizzazione milesia fu soprattutto il Ponto, che per opera loro da inospitale (ἄξεινος) divenne "l'ospitale" (εὔξεινος). Essi vi sarebbero penetrati agli inizî del sec. VII, ma la vera colonizzazione cominciò intorno alla metà del secolo. La principale colonia milesia sulla sponda meridionale del Ponto era Sinope (circa 630); più tardi essi fondarono più ad est, fra altre città, Amiso e Trapezunte e infine Phasis e Dioscurias sull'estrema insenatura del mare. Per sfruttare le risorse granarie della costa settentrionale del Ponto, essi si piantarono nella prima metà del sec. VI ad Apollonia, Odesso, Tomi ed Istro a sud delle bocche del Danubio, e quindi a Tyras (foce del Dnestr), Olbia (foce del Bug e del Dnepr) e Teodosia sulla costa meridionale della Crimea. Sul Bosforo Cimmerio, che metteva in comunicazione il Ponto con il lago Meotide (mare d'Azov), essi fondarono Panticapeo di fronte a Fanagoria fondazione dei Tei, e Ninfeo alla foce del Don (Tanais). Però la resistenza delle tribù barbare impedì a queste città di avere uno sviluppo paragonabile a quello delle colonie d'Italia e di Sicilia; inoltre il clima era per i Greci inclemente e dura perciò in esse la vita, e nessun contributo apprezzabile esse diedero al progresso intellettuale della nazione.

Sulle coste della Siria, saldamente dominate dagli Assiri, i Greci non poterono stabilirsi; anzi le città cipriote dovettero subire dal sec. VIII la supremazia dei grandi potentati orientali. Così nella Cilicia i Samî riuscironoo a stabilirsi appena a Nagidos e a Celenderis, e i Rodî a Soli (anche Holmi era fondazione greca); e sulle coste della Licia la rodia Phaselis fu l'unica città greca. Ai Milesî spetta la fondazione in Egitto del Μιλησίων τεῖχος sulla foce bolbitina del Nilo, e quindi, entro la bocca canopica, di Naucratis, ove Amasi concesse l'impianto di fattorie anche ad altre città greche e che divenne florida, poiché vi si concentrava tutto il commercio greco con l'Egitto, vietato altrove. La navigazione verso l'Egitto avveniva dalla Grecia per Creta alla costa libica, e poi rasente la costa alle foci del Nilo; di qui l'importanza della Libia, ove coloni di Tera occuparono, circa il 630, l'isolotto di Platea e fondarono quindi sul continente Cirene, centro del commercio del silfio; Barce più all'interno e Euesperide e Taucheira sulla costa furono edificate circa il 560. Ad est l'Egitto, ad ovest Cartagine vietarono ai Greci ogni ulteriore progresso in Africa.

Così in due secoli i Greci si erano stabiliti su quasi tutte le coste del Mediterraneo e alcuni mari, come lo Ionio, la Propontide e il Ponto, erano divenuti loro esclusivo dominio. Le conseguenze della colonizzazione furono di grande portata: la madrepatria fu chiamata a fornire ai coloni i prodotti ai quali essi erano abituati, e sorse quindi in essa un'industria per l'esportazione e si sviluppò un attivo commercio transmarino. Delle colonie, molte rimasero prevalentemente agricole (specie nell'Italia, nella Calcidica e in Tracia); altre assunsero carattere commerciale, come Taranto e in genere le colonie megaresi, o lo ebbero fin dall'inizio, come le milesie.

Dalla metà del sec. VI, la colonizzazione greca fu arrestata dai Persiani in Oriente, dai Cartaginesi in Occidente, e sino alla fine del sec. IV si condussero colonie soltanto o su suolo già occupato da Greci o nell'Adriatico dai signori di Siracusa o nella Tracia da Filippo di Macedonia. In parecchi punti, specie nell'Italia meridionale, diverse colonie furono occupate dagl'indigeni.

Di questo periodo è notevole la colonia panellenica di Thurioi (Thurii). I discendenti dei cittadini di Sibari, distrutta da Crotone verso la fine del sec. VI, dopo un vano tentativo di ricostruire la loro città (453-448 a. C.), si rivolsero per aiuto alla Grecia, dalla quale accorsero molti coloni capitanati degli Ateniesi e fu fondata una nuova Sibari (444-43). I nuovi coloni finirono però con lo scacciare i Sibariti e la colonia panellenica fu detta, dal nome della fonte Thuria che le dava l'acqua, Thurioi, e divenne una città florida. L'elemento non ateniese vi prese però presto il sopravvento, e non si volle più riconoscere Atene per madrepatria. Poco dopo, Pericle, per estendere il dominio ateniese sulla costa settentrionale dell'Egeo, occupò il paese alla foce dello Strimone e con coloni ateniesi e calcidesi fondò nel 437-36 Amfipoli che dominava la strada dalla Macedonia all'Ellesponto e il vicino monte Pangeo, ricco di miniere d'oro. La colonia divenne la capitale dei possedimènti ateniesi nella Tracia. Anche ad Astaco nella Propontide, a Sinope e ad Amiso vennero in questi anni (435) inviati coloni ateniesi. Sembra che si debbano ascrivere alla serie delle colonie (o almeno delle ἐποικίαι; v. più avanti) ateniesi, e non a quella delle cleruchie, come molti fanno, le colonizzazioni ateniesi a Oreos, nel territorio della città euboica di Istiea ribellatasi (445), a Brea (443) e a Potidea (429) in Tracia, a Egina (431) e a Melos (415). Le colonie dei Dionisî di Siracusa furono popolate con mercenarî, molti dei quali non greci, che non possedevano la cittadinanza siracusana, ma solo quella della rispettiva colonia, e che costituivano una riserva dell'esercito di Siracusa.

La colonia greca in generale. - La fattoria commerciale, che alle volte precedette la colonia, è ἐμπόριον; la colonia è invece detta dai Greci ἀποικια, quasi "nuova famiglia", e ἄποικοι i coloni. Il concetto greco della colonia è fondamentalmente diverso dal moderno perché la colonia greca è in genere (tranne le colonie dei tiranni, come i Cipselidi, i Pisistratidi e Dionisio di Siracusa, la cleruchia ateniese e pochi altri casi, per es. le colonie di Sinope che pagavano ad essa tributo) in diritto e in fatto interamente indipendente dalla madrepatria. I coloni perdono la cittadinanza della vecchia e acquistano quella della nuova patria, la quale ha le sue istituzioni e le sue leggi, per quanto di solito modellate su quelle della madrepatria. La separazione era però temperata da norme, che corrispondevano al legame sentimentale che univa colonia e madrepatria. Esse potevano concludere trattati di isopolitia; i coloni potevano (di solito a condizione di lasciare un figlio o un fratello nella colonia) riacquistare la cittadinanza originaria tornando nella madrepatria; al cittadino di questa era concessa la cittadinanza della colonia, se vi si trasferiva. I rapporti giuridici privati erano regolati dalle leggi della colonia e da trattati. Colonie e metropoli non si combattevano e si aiutavan invece a vicenda in guerra (le guerre fra Corinto e Corcira furono eccezioni) e nei commerci. Per la deduzione della colonia, si consultava di solito l'oracolo delfico, i cui sacerdoti, per le loro estese relazioni, potevano effettivamente dare utili indicazioni. Il capo della spedizione (οικοστής "eciste"), che aveva poteri assai lati, era eletto dalla città o dai coloni secondo che la colonia era inviata per iniziativa pubblica o privata. Dopo la morte, l'eciste riceveva onori e culto di eroe. Le colonie più antiche, che avevano perduto il ricordo del fondatore, si attribuivano come ecisti divinità e personaggi mitici e leggendarî. I coloni erano di solito volontarî. L'occupazione del territorio poteva avvenire pacificamente o gl'indigeni erano cacciati o ridotti a servi della gleba (per es. a Siracusa, Bisanzio, Eraclea Pontica). Il terreno della nuova città veniva misurato e assegnato a sorte in parcelle (κλῆροι), che in colonie aristocratiche erano più estese per i nobili, e delle quali era vietata la vendita; alcune porzioni (τεμένη) erano riservate agli dei e alla comunità. 'Εποικία era una colonia che veniva inviata a rinforzo d'una colonia preesistente o ad occupare parte del territorio d'una città.

Una forma particolare di colonizzazione è quella delle cleruchie fondate specialmente dagli Ateniesi, con lo scopo di presidiare punti militarmente o commercialmente importanti e per provvedere nello stesso tempo di terreni i cittadini poveri, in modo che essi potessero avere il censo richiesto per prestare servizio come opliti. Esse venivano dedotte o in paesi nuovamente conquistati, o in terreni tolti ad alleati colpevoli di ribellione, e si distinguevano dalle ἀποικίαι per il fatto che esse non costituivano nuove città indipendenti dalla madrepatria, ma i loro coloni continuavano a formare parte della cittadinanza ateniese. Le più antiche sono quelle di Salamina e di Calcide (fine del sec. VI); le più importanti dedotte in seguito furono quelle di Caristo nell'Eubea (472), nelle isole di Sciro (473), Lemno (452), Imbro (443) e nel Chersoneso (448) per dominare la via marittima del Ponto, a Nasso e Andro nelle Cicladi (circa 450) e a Lesbo (427), dopo la ribellione di Mitilene. Esse caddero con l'Impero ateniese dopo la guerra peloponnesiaca; solo più tardi furono in parte rinnovate (a Sciro, Lemno e Imbro nel 394, nel 366 a Samo, nel 361 a Potidea e nel 353 nel Chersoneso), e durarono sino alle vittorie della Macedonia. Si calcola che al principio della guerra del Peloponneso ci fossero 10.000 cleruchi ateniesi. I cleruchi o lavoravano essi stessi le loro parcelle o le affittavano ad abitanti del paese. Essi non potevano esercitare i diritti politici ad Atene, non essendo loro concesso di allontanarsi dalla cleruchia, tranne che per ambascerie, in occasione specialmente di feste religiose, o per affari giudiziarî. Potevano essere però adoperati per spedizioni militari all'estero. Avevano poi una certa costituzione autonoma che aveva dell'organizzazione comunale e miliare insieme. Gl'indigeni ne erano esclusi, ed erano rispetto ai cleruchi nella posizione di meteci o formavano un comune tributario della cleruchia. Questa aveva un'assemblea comunale, che veniva detta demos degli Ateniesi abitanti nella tale o tal'altra località, e alle volte anche un consiglio (βουλή); i magistrati o erano eletti dai cleruchi dal loro seno o inviati da Atene (specie gli epimeletai). Le cause giudiziarie, tranne quelle di scarsa importanza, venivano discusse ad Atene. Le celeruchie cdebravano i culti della madrepatria, ma accolsero a volte culti indigeni.

Analoghe alle cleruchie ateniesi, cioè guarnigioni, erano le colonie della lega achea, p. es. Mantinea e Orcomeno.

Colonizzazione ellenistica. - Già nel sec. IV a. C., alcuni pensatori greci attribuivano le tristi condizioni del paese all'eccesso di popolazione e auspicavano una ripresa della colonizzazione; perciò Isocrate spingeva Filippo alla guerra contro la Persia. E infatti, dopo la spedizione di Alessandro, fiumane di Greci si stabilirono in Oriente e nelle innumeri città fondate dal conquistatore e dai suoi successori.

Si ebbe quindi un nuovo grande periodo di colonizzazione greca, ma in forma diversa da quella dei secoli VIII-VII. Le nuove città greche non erano ἀποικίαι, dedotte da città o da privati in territorî da conquistarsi, ma fondazioni per decreto di monarchi su loro territorio; erano dotate d'una certa autonomia, senza la quale i Greci non avrebbero concepito una πόλις, ma non di autonomia completa, come le antiche colonie. Alcune dovevano essere le capitali delle nuove monarchie, altre avevano scopo specialmente militare, altre specialmente commerciale; a tutte era comune la funzione di ellenizzare il paese e di servire da centri urbani alla popolazione greca o ellenizzata, su cui poggiavano le monarchie ellenistiche.

L'opera di colonizzazione fu energicamente iniziata dallo stesso Alessandro, con la fondazione delle due Alessandrie, alle foci del Nilo e del Tigri-Eufrate, come grandi emporî commerciali, d' una serie di città stazioni sulle grandi vie carovaniere verso l'India e la Battriana e di città-fqrtezze di confine sull'Iassarte, l'Idaspe e l'Indo. Le fondazioni di Alessandro a noi note sono circa trenta. Antigono Monoftalmo iniziò la serie delle fqndazioni greche nella Siria, ove edificò la sua capitale Antigoneia e parecchie altre città, e il suo esempio fu seguito da Lisimaco in Tracia (quivi la nuova capitale Lisimacheia) e nell'Anatolia occidentale. Ma la più intensa attività colonizzatrice fu svolta dai Seleucidi, che cosparsero di città greche la Siria, la Mesopotamia e la Babilonia, che formavano il centro del loro dominio, a cominciare dalla nuova capitale Antiochia sull'Oronte, coi due porti commerciali di Seleucia Pieria e di Laodicea e la città militare di Apamea. Molte altre città greche sorsero nella valle dell'Oronte, sull'Eufrate, sul Khabūr e sui suoi affluenti. Seleucia sul Tigri, la seconda città della monarchia, prese il posto della decadente Babilonia, e altre fondazioni seleucidiche si ebbero nella Susiana, nella Media, nella Partica, nell'Ariana, nella Persia, nella Battriana, nella Sogdiana e più oltre sino all'oasi di Merv e all'Indo. Nella Cilicia i Seleucidi fondarono alcune nuove città e molte ne ricostituirono con nuovo nome; ma grandiosa fu la loro opera colonizzatrice nell'Asia Minore a nord del Tauro. Forti gruppi di colonie dei Seleucidi sorsero nella Frigia, nella Lidia e nella Caria; ricordiamo Celene, capitale della Grande Frigia, trasformata da Antioco Sotere in città greca col nome di Apamea Cibotos, e Laodicea sul Lycos, fondazione di Antioco Teo; intere regioni, come la Frigia, furono cosi ellenizzate. Sardi era il centro delle colonie più occidentali. Anche gli Attalidi iniziarono già nel sec. III la fondazione di città greche; la piccola Pergamo preellenica fu rifondata come capitale del regno, e il loro esempio fu seguito dai re della Bitinia. Molto meno fecero i Tolomei, che in Egitto fondarono una sola città greca, Tolemaide presso Abido, ridussero a colonie greche poche città della Ziria meridionale e qualche altra fondarono sulla costa meridionale dell'Asia Minore; stabilirono però alcune fattorie commerciali sulle coste del Mar Rosso. I re di Macedonia si limitarono pure a fondare qualche città greca, come Antipatreia nell'Illirio e Antigoneia nella Peonia. Partîcolare carattere avevano le colonie militari dei κληροῦχοι in Egitto e dei κάτοικοι in Asia, riservisti dell'esercito provvisti dai re di terreni da coltivare con l'obbligo di accorrere alle armi in caso di chiamata.

Le città ellenistiche erano organizzate alla greca, con consiglio, assemblea popolare e magistrati da essa eletti; greca la lingua (la κοινή), greci i culti più importanti e l'architettura. Però i Greci rion erano così numerosi da poter assimilare le popolazioni indigene, specie delle campagne, e le tradizioni e la civiltà dell'Oriente reagirono sui centri dell'ellenismo, lo trasformarono e infine lo spensero.

Le colonie di Roma. - Colonia è in Roma l'azienda agricola e nello stesso tempo una comunità stabilita dallo stato romano su un determinato territorio e con propria organizzazione cittadina (celebri definizioni in Servio, Ad Aen., I, 12 e in Varrone, De ling. lat., V, 143). Lo stato romano assegnò ordinariamente sino al principio del sec. II a. C. le terre conquistate, e destinate a divenire privata proprietà romana, ai cittadini romani individualmente (viritim), in parcelle, e formò così nuovi distretti amministrativi dell'agro romano (tribù) o accrebbe gli antichi. Ma essendo necessario presidiare stabilmente un punto importante del territorio, specialmente le coste, lo stato, che non ha esercito permanente, colloca in quel punto una colonia, cioè un numero fisso di cittadini (di solito 300, tre centurie, a immagine delle tre tribù originarie di Roma), organizzati in una comunità, alla quale è garantita una certa autonomia e magistrati proprî. Ai coloni lo stato assegna delle parcelle di terra in proprietà, in genere molto piccole (2-6 iugeri), e l'uso del territorio comune della colonia e impone loro l'obbligo di risiedervi. Erano queste le coloniae civium romanorum, dette anche maritimae, che si dedussero fino al principio del sec. II a. C., e la cui importanza era militare più che economico-sociale. Invece, quando una confederazione di città, come la latina, conquistava un territorio, poiché per ragioni pratiche non poteva dividerlo fra tutte le città socie, preferiva costituire su di esso una nuova comunità, formata con cittadini provenienti da tutte le città socie; la nuova comunità entrava a far parte della confederazione come comune autonomo e sovrano al pari degli altri. Erano queste le coloniae latinae o Latinorum: Cora e Signa erano le più antiche. Sciolta nel 338 la lega latina, Roma continuò a dedurre colonie latine, cioè a costituire nei territorî conquistati, che essa non credeva di assegnare viritim a cittadini romani (di solito perché troppo lontani) o di lasciare nella condizione di ager publicus, nuove comunità autonome, con le quali essa stringeva un rapporto d'alleanza regolato da un foedus modellato su quello che Roma aveva concesso alle comunità alleate dei consanguinei Latini. Poiché quasi tutti i Latini erano stati fatti nel 338 cittadini romani, i coloni di queste nuove comunità erano in generale cittadini romani (vi partecipavano però anche alleati italici) che perdevano naturalmente la cittadinanza romana ed acquistavano quella della nuova città. Le colonie latine avevano proprie leggi e quasi completa autonomia nei limiti del proprio territorio: non pagavano cioè tributo alcuno, ma dovevano fornire a Roma contingenti militari e rimettersi ad essa per la politica estera. I coloni in esse dedotti erano molto numerosi (si va da 2500 per Cales e Luceria nel 334 e 314 a. C., a 20.000 per Venusia nel 291), e queste colonie furono il vero strumento della romanizzazione dell'Italia e avevano importanza, oltre che militare, anche econonomico-sociale. Mentre nel 194 si erano dedotte ancora otto colonie marittime di 300 cittadini romani e due nel 184, nel 183 si decise, dopo discussione, di fondare ancora come colonia latina la lontana Aquileia, ma a Parma, a Mutina e a Saturnia, cioè in località entro terra, si dedussero in quell'anno stesso cittadini romani e nelle due prime 2000 coloni. L'innovazione fu imposta dalla democrazia romana, poiché evidentemente non si voleva più perdere la cittadinanza romana per arruolarsi nelle colonie latine. Si ritornò alle colonie latine nel 180 per Luca, l'ultima dedotta in Italia, ma nel 177 si dedussero a Luna 2000 cittadini romani. Queste nuove colonie di cittadini romani assunsero da questo momento la funzione romanizzatrice ed economico-sociale già esercitata dalle colonie latine. Le colonie latine esistenti rimasero tali sino alla guerra sociale (e alcune anche dopo) e furono allora convertite in municipî; nello stesso tempo, con una finzione giuridica, si eressero a colonie latine le città costituite a centri urbani delle popolazioni galliche, liguri e venete dell'Italia superiore fino alla Livenza, che ebbero alla loro volta nel 49 la cittadinanza romana da Cesare, cosicché il nomen latinum sparì dall'Italia. Lo stesso procedimento di attribuire la latinità coloniaria fu adottato da Cesare per le comunità non romane della Narbonense e forse anche altrove; ma Augusto riserbò il titolo di coloniae solo a quelle di cittadini romani. Le città provinciali che ebbero in seguito il diritto latino (per es. quelle della Spagna da Vespasiano) si dissero municipia latina e solo i loro abitanti erano detti Latini coloniarii. La democrazia romana diede anche il primo impulso alla colonizzazione extra-italica; oltre il mare, una colonia fu dedotta a Cartagine nel 122 da C. Gracco, ma fu tosto soppressa; la prima colonia transalpina, Narbo Martius, è del 118. Ma i Gracchi preferirono in Italia l'assegnazione viritana, e soltanto Gaio fece approvare la deduzione di poche colonie.

La colonizzazione romana entrò in una nuova fase in seguito alla riforma dell'esercito al tempo di Mario. I proletarî chiamati a formarlo non avevano né fortune né, dopo la lunga ferma, professione civile, e al momento del congedo si doveva provvedere ad essi con assegnazioni di terreni. Ebbero così inizio le coloniae militares, per le quali i terreni si procurarono (essendo ormai quasi esaurito l'agro pubblico in Italia) con acquisti da parte dello stato e soprattutto con la confisca totale o parziale dei terreni delle città o dei privati che nelle guerre civili avevano preso posizione contro i vincitori. Ciò portò sotto Silla e poi con i triumviri (Cesare dedusse poche colonie in Italia e riprese invece la colonizzazione transmarina) a un profondo rivolgimento della proprietà fondiaria in Italia. Con Augusto la deduzione di queste colonie divenne regolare; egli le dedusse specialmente in Italia e per vie legali, indennizzando i proprietarî dei terreni incamerati. Colonie augustee extra-italiche furono dedotte in Dalmazia, Illiria, Lusitania, Mauretania e Pisidia, per romanizzare queste regioni di recente conquistate. L'istituzione con Augusto (13 a. C.) dei praemia veteranorum in denaro venne in parte a sostituire le colonie militari, che non fecero buona prova; si continuò tuttavia a dedurne, finché Adriano si limitò ad assegnazioni viritane accanto ai premî in denaro. Dopo Adriano, eccettuate alcune di Settimio Severo, le colonie imperiali sono titolari e fittizie. Secondo un uso risalente a Cesare, interrotto da Augusto, ma ripreso da Claudio e Nerone, si concedeva cioè il titolo di colonia e lo stato di diritto relativo, che veniva ritenuto più onorifico, a municipî, a città di peregrini o anche a località senza costituzione urbana. Nelle provincie il titolo preludeva alla concessione dell'immunità e del ius italicum, in Italia era puramente onorifico. Le colonie titolari continuarono fin oltre Costantino.

Diamo qui infine un elenco delle colonie romane e latine dell'epoca repubblicana. La serie delle colonie cittadine fino all'epoca di Mario è la seguente: le date sono quelle della deduzione; fra parentesi il numero dei coloni, quando ci è tramandato, e degli iugeri assegnati ad ogni colono. 1. Ostia, alla foce del Tevere, fondata già nell'epoca regia; 2. Antium, nel Lazio riconquistato sui Volsci: 338 a. C.; 3.Tarracina, nel Lazio meridionale: 329 a. C. (300-2 iug.); 4. Minturnae e 5. Sinuessa nel paese degli Aurunci: 296 a. C.; 6-7. Castrum novum, secondo Livio, Per. 11, fra il 290 e il 286, e Velleio Patercolo, I, 14, 8, circa il 264, pare nel Picenum; ma in Livio XXXVI, 3, 6 è ricordato fra le colonie marittime della costa tirrenica un altro Castrum novum, che era sulla via Aurelia, 4 miglia a sud di Civitavecchia, e della cui deduzione non sappiamo l'epoca; 8. Sena gallica, nell'Umbria: 283 a. C.; 9. Aesis o Aesium, nell'Umbria: 247 a. C.; 10. Alsium, in Etruria: 247 a. C.; 11. Fregenae, in Etruria: 245 a. C.; 12. Pyrgi, in Etruria: 191 a. C. (Castra Hannibalis nel Bruzio, ove nel 199 furono dedotti 300 coloni, non pare avesse organizzazione coloniale); 13. Volturnum, 14. Liternum, 15. Puteoli e 16. Salernum, tutte e quattro in Campania: 194 a. C. (300 per ciascuna); 17. Buxentum, in Lucania, 194 a. C.; 18. Tempsa e 19. Croton nel Bruzio: 194 a. C.; 20. Sipontum, nell'Apulia: 194 a. C.; 21. Potentia, nel Piceno: 184 a. C. (6 i.); 23. Mutina nell'Emilia: 183 a. C. (2000-5 i.); 24. Parma nell'Emilia: 183 a. C. (2000-8 i.); 25. Saturnia, in Etruria: 183 (10 i.); 26. Graviscae, in Etruria: 181 a. C. (5 i.); 27. Luna, in Liguria: 177 a. C. (2000-51/2 i.); 28. Auximum, nel Piceno: 157 a. C.; 29. Tarentum, colonia Neptunia: 122 a. C.; 30. Scolacium, colonia Minervia, nel Bruzio: 122 a. C.; 31. Carthago, colonia Iunonia, in Africa: 122 a.C.; 32. Dertona, nella Liguria: c. 120 a. C.; 33. Narbo Martius nella Gallia Narbonense: 118 a. C.

Segue la lista delle colonie latine: fra parentesi il numero dei coloni: 1. Cora, 2. Suessa Pometia, dedotte dalla Lega Latina nell'età regia; 3. Signia, dedotta dal re Tarquinio e daccapo nel 495 a. C.; 4. Velitrae, dedotta la prima volta nel 494 e parecchie volte in seguito, dal 393 o 338 a. C. municipio sine suffragio; 5. Norba: 492 a. C.; 6. Antium, dedotta nel 467 a. C. come colonia latina, nel 338 colonia romana; 7. Ardea: 442 a. C.; 8. Vitellia: 395 a. C., distrutta nel 393; 9. Circei, dedotta già da Tarquinio il Superbo e poi nel 393 a. C.; 10. Satricum: 385 a. C., distrutta nel 381, ricostruita nel 348 e quindi ancor distrutta nel 346. La storia di quasi tutte queste più antiche colonie latine è oscura e molto discussa. 11. Nepete e 12. Sutrium, nell'Etruria meridionale: 383 a.C.; 13. Setia, nel paese dei Volsci: 382 a. C.; 14. Cales, in Campania: 334 a. C. (2500); 15. Fregellae, nel paese dei Volsci: 328 a. C., distrutta nel 125, fu sostituita da Fabrateria nova; 16. Luceria in Apulia: 314 a. C., o 315 o 323, secondo le diverse fonti (2500); 17. Suessa Aurunca, nel paese degli Aurunci: 313 a. C.; 18. Pontiae (isole Pontine): 313 a. C.; 19. Saticula, nel Sannio: 313 a. C.; 20. Interamna Lirenas, nel paese dei Volsci: 312 a. C. (4000); 21. Sora, nel paese dei Volsci: 303 a. C. (4000); 22. Alba, nel paese dei Marsi: 303 a. C. (6000); 23. Narnia, nell'Umbria: 299 a. C.; 24. Carsioli, nel paese degli Equi: 298 a. C.; 25. Venusia, nell'Apulia: 291 a. C. (20.000); 26. Hadria, nel Piceno: fra il 290 e il 286 a. C.; 27. Cosa, in Etruria: 273 a. C.; 28. Paestum, in Lucania: 273 a. C.; 29. Ariminum, nell'Emilia: 268 a. C.; 30. Beneventum, nel Sannio: 268 a. C.; 31. Firmum, nel Piceno: 264 a. C.; 32. Aesernia, nel Sannio: 263 a. C.; 33. Brundisium, nella Calabria: 246 (o 245) a. C.; 34. Spoletium, nell'Umbria: 241 a. C.; 35. Cremona, nella Cisalpina: 218 a. C. (6000); 36. Placentia, nella Cisalpina: 218 a. C. (6000, di cui 200 cavalieri); 37. Copia (Thurii), nel Bruzio: 193 a. C. (3000, di cui 300 cavalieri: 20 i. i fanti, 40 i cavalieri); 38. Vibo Valentia, nel Bruzio: 192 a. C. (4000, di cui 300 cavalieri, 15 i. i fanti, 30 i cavalieri); 39. Bononia, nell'Emilia: 189 a. C. (3000: 50 i. i fanti, 70 i cavalieri); 40. Aquileia, ai confini dell'Istria: 181 a. C. (3000:50 i. i fanti, 100 i centurioni, 140 i cavalieri); 41. Luca, in Etruria: 180 a. C.; 42. Carteia, nella Spagna Ult.: 171 a. C.; 43. Valentia, nella Spagna Cit., probabilmente colonia latina dal 138 a. C.

Le città della Gallia Cisalpina che furono costituite in colonie latine dopo la guerra sociale (89 a. C., legge di Pompeo Strabone) sono probabilmente le seguenti: Albingaunuim, Alba Pompeia, Aquae Statiellae, Genua, Veleia, Tigullia, Libarna, Vercellae, Novaria, Ticinum, Mediolanium, Laus Pompeia, Comum, Bergomumn, Brixia, Verona, Mantua, Tridentum, Ateste, Patavium, Vicetia. Queste colonie furono convertite nel 49 in municipia civium Romanorum. Le colonie di veterani ebbero inizio l'anno 100 a. C. con la colonia mariana di Eporedia (Ivrea) nella Transpadana e con la colonia Mariana in Corsica. Le città italiane nelle quali Silla dedusse colonie dei suoi veterani furono molte; ma solo di poche si può dire con sicurezza, o molta probabilità, che furono colonie Sillane, e queste sono (in ordine alfabetico): Abella, Arretium, Clusium, Florentia, Hadria, Interamnia Praetuttianorum, Nola, Paestum, Pompeii, Praeneste, Urbana (per altre meno probabili vedi Mommsen, Die ital. Bürgercolonien, citato nella bibl.). Cesare dedusse solo le tre colonie di Capua, Calatia e Casilinum (nel 59 a. C.): molte ne dedussero dopo di lui i triumviri e Augusto, in Italia e fuori d' Italia. In Italia, le città che sicuramente, o molto probabilmente, i triumviri o Augusto convertirono in colonie di veterani o fondate come colonie, sono: Ancona, Ariminum, Ateste, Augusta Praetoria, Augusta Taurinorum, Beneventum, Bononia, Brixia, Capua, Concordia, Cremona, Dertona, Fanum, Firmum, Hispellum, Luca, Lucus Feroniae, Minturnae, Nola, Nuceria, Parma, Pisae, Pisaurum, Pola, Sora, Suessa, Sutrium, Tergeste, Tuder, Venafrum, Venusia.

La colonia romana in generale. - La fondazione d'una colonia romana è un atto del potere sovrano; quindi sotto la repubblica avveniva in forza di una lex rogata. Invece i magistrati con poteri dittatoriali della fine della repubblica le dedussero in base a questi poteri, senza bisogno di leggi. Sotto l'impero è un diritto del principe. Incaricati della deduzione sotto la repubblica, almeno dal sec. III a. C., erano dei IIIviri coloniae deducendae (collegi più numerosi erano in genere incaricati di assegnazioni viritane), eletti dal popolo e forniti di larghi poteri. I dittatori del sec. I le dedussero essi stessi o per mezzo dei loro legati, e si ebbero in quel tempo anche colonie dedotte da consoli o proconsoli. Sotto l'impero il principe deduce le colonie per mezzo deì suoi legati. I IIIviri invitavano gli aspiranti a dare il nome per la colonia, e, se il numero non era sufficiente, si poteva procedere ad un arruolamento forzato. Per partecipare a una colonia di cittadini si richiedeva nel periodo più antico l'appartenenza alle classi, come conseguenza del carattere militare della colonia; ai proletarî si doveva provvedere o con colonie latine e con assegnazioni viritane. I Latini potevano essere ammessi in una colonia romana, ma a determinate condizioni e in numero limitato e non divenivano per questo senz'altro cittadini romani. C. Gracco reclutò ancora i suoi coloni fra i classici, ma in seguito si dedussero, specialmente nelle colonie militari, quasi esclusivamente proletarî e libertini. Quanto al nome, le colonie del periodo più antico lo assumevano dalla località in cui venivano fondate; alla fine del sec. III a. C. cominciarono i nomi augurali (Placentia, Bononia), ai quali seguono nell'età graccana i nomi locali uniti all'aggettivo formato dal nome d'una divinità (Tarentum Neptunia, Narbo Martius). Più tardi si hanno nomi astratti (Laus, Pietas, Concordia) o nomi aggettivali di varia origine (Romula, Victrix, Gemella) o dal nome del fondatore (Cornelia, Felix per le colonie di Silla, Iulia, Augusta) o dal numero della legione dedotta (Decumanorum) e infine dal nome dell'imperatore; e spesso varî nomi per una sola colonia (Iulia Augusta Florentia Vienna).

I coloni venivano deducti in coloniam in formazione militare, col vexillum in testa. Presi gli auspici, il deducente tracciava con l'aratro un solco, la futura fossa della città, e le zolle rovesciate verso l'interno erano l'inizio del murus (v. Varrone, De ling. lat., V, 143). In precedenza il territorio coltivabile della colonia era stato misurato da agrimensori secondo l'uso romano e la divisione segnata con cippi (v. agrimensura); in terreno pianeggiante e se la colonia si fondava ex novo, il centro della misurazione era la colonia stessa: se no si sceglieva fuori. Una parte, spesso considerevole, del territorio veniva lasciata senza misurazione e destinata all'uso comune. Fatta la divisio si passava all'assegnazione (datio, assignatio) delle parcelle, sortes (perché tratte a sorte) o acceptae, che variavano secondo i tempi, la bontà del terreno, la qualità della colonia e il grado del colono; es.: colonie cittadine, Tarracina (239 a. C.) 2 iugeri, Potentia (184) 6 iugeri, Parma e Mutina (183) 8 e 5 iug., Luna (177) 51/2 iug.; colonie latine: Copia (193) fante 20, cavaliere 40 iug.; Bononia (189) 50 e 70; Aquilea (181) fante 50, centurione 100, cavaliere 140. Le divisioni e assegnazioni erano segnate sul terreno e riportate su una mappa (forma) della colonia, nella quale erano indicati i confini della colonia, i terreni centuriati e assegnati e i non assegnati, ecc. Un esemplare in bronzo della forma era esposto con la lex coloniae (la costituzione fondamentale data dal deduttore) nel foro della colonia, e uno su tela (mappa, linteum), che faceva testo, veniva depositato nell'archivio pubblico a Roma. In varî registri si teneva poi nota delle parcelle e dei nomi dei proprietarî, dei subseciva (spazî non assegnati), dei beneficia. Il deduttore faceva poi il primo solenne censimento e nominava i primi magistrati e sacerdoti e il primo consiglio. Il terreno assegnato ai coloni romani in Italia diveniva loro privata proprietà. Però Silla e Cesare limitarono la proprietà nelle loro colonie dichiarando le parcelle inalienabili (Cesare per 20 anni). Nelle colonie latine in Italia la proprietà era ex iure Latinorum; il territorio non era più romano, ma vi valeva la comunanza di diritto fondiario fra Roma e i Latini. Le colonie romane dell'età imperiale nelle provincie erano divise in due categorie: quelle nelle quali il terreno era sottoposto a stipendium o tributum e quelle che avevano avuto per concessione particolare l'immunità dall'imposta fondiaria o anche da altre imposte o addirittura il ius italicum, che rendeva possibile la proprietà quiritaria del suolo. Queste ultime colonie avevano per simbolo una statua di Marsia simile a quella che sorgeva nel foro di Roma, e che esprimeva la loro ideale uguaglianza con la metropoli. La costituzione delle colonie era modellata su quella di Roma. La cittadinanza era divisa in tribù; più di rado in curie. Dai coloni si sceglievano i decurioni, cioè il senato della colonia (30 nelle colonie romane di 300 coloni). A capo della colonia stavano magistrati con vario titolo a seconda dell'epoca della deduzione; o un dictator annuale, o due praetores, o, per un certo tempo, anche due consoli; poi, praetores duoviri e infine IIviri; di regola nei municipî i quattro magistrati supremi, due giudici e due edili, formano un solo collegio di IIIIviri, nelle colonie due, uno di IIviri (iure dicundo) e uno di IIviri (aediles), meno importanti.

Bibl.: Per la colonizzazione greca vedi F. Lenormant, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des Antiquités gr. et rom., I, p. 1297 con letteratura più antica; J. Beloch, Griechische Geschichte, 2ª ed., I, i, Strasburgo 1912, pp. 126, 229; ii, 1913, pp. 96, 218; E. Meyer, Geschichte des Altertums, II, Stoccarad 1893, p. 433 seg. e 2ª ed., II, i, 1918, p. 544; G. Busolt, Griechische Geschichte, 2ª ed., I, Gotha 1893, p. 262 seg.; id., Griech. Staatskunde, Monaco 1920, pp. 115, 174, 1264 (con ricca letteratura); E. Pais, Storia della Sicilia e della Magna Grecia, Torino 1894; id., Storia dell'Italia antica, I, Roma 1925, p. 235; A.W. Byvanck, De Magnae Graeciae historia antiquissima, L'Aia 1922; G. Giannelli, Culti e miti della Magna Grecia. Contributo alla storia più antica delle colonie greche in Occidente, Firenze 1924; id., La Magna Grecia da Pitagora a Pirro, I, Milano s. a.; E. Ciaceri, Storia della Magna Grecia, I-II, Milano-Roma 1924-27; F. Bilabel, Die Ionische Kolonisation, in Philologus, XIV vol. di suppl., I (1920); R. Carpenter, The Greeks in Spain, Bryn Mawr 1925; A. Schulten e P. Bosch, Fontes Hispaniae antiquae, I-II, Barcellona-Berlino 1922-25; P. Bosch, Problemi della colonizzazione greca in Ispagna, in Historia, III (1929), p. 571; M. Rostovtzeff, Iranians and Greeks in South Russia, Oxford 1922 e la letteratura ivi citata; per Turioi e Amfipoli, vedi Beloch, op. cit., II, i, p. 198 seg. Sulle cleruchie: O. Schulthess, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XI, 1921, col. 814 e spec. Busolt, Staatskunde cit., p. 1271 seg., con ricca letteratura; per la colonizzazione ellenistica, J. Beloch, op. cit., IV, i, Berlino 1925, p. 251; V. Tscherikower, Die hellenistischen städtgründungen von Alexander dem Grossen bis auf die Römerzeit, in Philologus, XIX vol. di suppl., I (1927). Per le colonie romane: Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II, 3ª ed., Lipsia 1887, p. 624; III, pp. 620, 793; Die italischen Bürgercolonien von Silla bis Vespasian, in Hermes, XVIII (1883), p. 161 = Gesamm. Schriften, V, p. 202; E. De Ruggiero, art. Le colonie dei Romani, in Dizionario epigrafico di antichità romane, II, p. 415; E. Kornemann, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., IV, 1900, col. 511; G. Humbert e F. Lenormant, in Daremberg e Saglio, op. cit., II, ii, p. 1303 con la letteratura più antica; J. Beloch, Der Italische Bund unter Roms Hegemonie, Lipsia 1887, passim; id., Römische Geschichte, Berlino 1926, passim; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I-IV, i, Torino 1907 seg., passim; M. Rostowtzeff, The Social and economic History of the Roman Empire, Oxford 1926, passim; E. Pais, Storia della colonizzazione di Roma antica, I, Roma 1923.

La colonizzazione nel Medioevo.

I primi secoli del Medioevo, in particolare dal sec. III al VII, sono un periodo d'intenso e tumultuario movimento di popoli, che, partendo dal centro dell'Asia, si spinse fino all'estremo sud della Penisola Iberica e alle coste settentrionali dell'Africa, ma che difficilmente si può considerare come un movimento coloniale, trattandosi di popoli che abbandonano totalmente e definitivamente le loro vecchie sedi per cercarne di nuove. Così pure solo in minima parte si può riconoscere il carattere d'un movimento coloniale alla mirabile espansione dell'Islam nel sec. VII, la quale non assume, se non in casi isolati, la forma di stanziamenti di singoli gruppi di Arabi lontani dalla sede nazionale, ma è invece la rapida conquista d'un vasto impero fatta da un popolo bellicoso.

Vere colonie di popolamento agricolo, in parte spontanee, in parte coatte, sono invece quelle che si costituiscono nell'Impero bizantino: o sono elementi cristiani dell'Asia Minore o della Siria che si trasferiscono al di qua del mar di Marmara e dell'Egeo; o sono schiavi che si manomettono per colonizzare i temi semideserti dell'Italia meridionale; o sono, in numero assai maggiore, tribù barbariche del Basso Danubio e dell'Oriente europeo che si attirano con concessioni di terre entro i confini dell'impero. Taluni di quegli stanziamenti, come quelli degli Ostrogoti in Tracia e in Illiria, dei Longobardi nella Pannonia fra Sava e Drava, furono soltanto temporanei; altri invece diventano definitivi, e fra questi sono soprattutto gli Slavi i quali forniscono il contingente più numeroso alla colonizzazione agricola. In una sola volta Giustiniano II stabilì 70.000 prigionieri di questa razza nel bacino della Struma e nella Macedonia orientale. Il movimento continua fino al sec. X; in modo che non solo la Tracia e la Macedonia, ma gran parte della Tessaglia, della regione del Pindo, l'Attica e soprattutto il Peloponneso sono stati ripopolati grazie a queste colonie slave, alcune delle quali si trasferirono anche nell'Italia meridionale.

All'estremo opposto dell'Europa, le ardite popolazioni marinare delle isole danesi e dei fiordi norvegesi, spinte molto probabilmente da un vero fenomeno di sovrapopolazione, compiono, tra il sec. IX e l'XI, una vasta opera di colonizzazione, che assume carattere diverso a seconda dei varî paesi di destinazione o di provenienza e del carattere sociale dei gruppi che vi si stanziano. Naviganti e guerrieri arditissimi, essi compaiono dapprima lungo le coste della Germania settentrionale e della Francia e ne risalgono per breve tratto i fiumi, come razziatori i quali, carichi di bottino, si affrettano a riprendere la via del loro paese. Altrove invece essi fondano degli stanziamenti di carattere permanente, come quelli dei Vichingi lungo le coste della Scozia e dell'Irlanda, che sembrano aver avuto un carattere prevalentemente marittimo e commerciale e non solo non determinarono conflitti, ma permisero una convivenza pacifica con le popolazioni celtiche indigene. Carattere invece di vera occupazione territoriale e di conquista politica hanno l'invasione dei Danesi in Inghilterra e la fondazione del ducato di Normandia per opera di Vichingi (o Normanni) danesi sotto direzione norvegese, dai quali si staccano un secolo più tardi quei gruppi di audacissimi avventurieri che penetrano nel Mediterraneo e in breve tempo costituiscono il ducato di Puglia e il Regno di Sicilia, mentre poco dopo il duca stesso di Normandia passa la Manica e conquista definitivamente l'Inghilterra. Ma l'espansione dei navigatori del Nord non si era chiusa entro questi limiti vastissimi che dalle isole Ebridi si spingono fino al canale d'Otranto: fra l'870 e il 930 altri loro gruppi avevano occupato definitivamente le coste dell'Islanda, fondandovi alcune colonie stabili, e di là avevano istituito alcuni stanziamenti sulla costa occidentale della Groenlandia, di dove pare che avessero qualche rapporto con le popolazioni del continente americano.

All'estremo opposto questa meravigliosa espansione, che si chiude con la metà del sec. XI, si manifesta nella penetrazione degli Svedesi in Russia, dov'essi fondano numerose colonie, specialmente nell'Ucraina, spingendosi fino al Mar Nero.

Di poco posteriore e di carattere diverso, sebbene determinato anch'esso da un eccesso della popolazione in rapporto alla potenzialità economica delle terre da essa occupate, è il movimento di colonizzazione agricola che, dopo il Mille, si manifesta dalle regioni del Basso Reno verso le pianure dell'Elba e della Vistola. Dapprima i Fiamminghi, gli Zelandesi, i Frisoni, dopo avere, mercé una dura lotta contro la natura, messo in valore le zone acquitrinose e deserte dei Paesi Eassi e della Frisia, dopo aver colonizzato i territori di Brema e del Holstein, si spingono assai più in là verso Oriente, per dissodare estese zone della Turingia, Sassonia, Lusazia, Brandeburgo e Meclemburgo. Essi fondano alcune loro colonie anche lungo le coste del Baltico e nella Boemia. Quei coloni, che si erano staccati, emigrando, dai loro antichi signori, non solo costituirono in mezzo alle campagne della bassa e media Germania delle isole di lavoratori agricoli quasi completamente liberi, ma vi determinarono sensibili progressi nell'agricoltura, introducendovi sistemi di coltivazione intensiva, i prati artificiali e forme assai più perfette di allevamento del bestiame.

Ai Fiamminghi e agli Olandesi fecero seguito nella marcia verso l'Oriente i coloni tedeschi: Sassoni e Turingi popolarono il territorio fra Elba e Saale; contadini della Sassonia e della Vestfalia emigrarono nel Brandeburgo, nel Meclemburgo e nella Lusazia; abitanti della Baviera e della regione renana nei paesi del Danubio e delle Alpi (Boemia, Moravia, Slesia, Tirolo). In molti documenti del sec. XII si confessa che le eccessive prestazioní d'opera e di tributi gravanti sul ceto dei coltivatori obbligavano questi a lasciare la loro zolla e ad emigrare in paesi stranieri. I paesi orientali offrivano loro la possibilità di avere delle terre in enfiteusi, in compenso dei dissodamenti e delle migliorie che essi vi portavano. Questa emigrazione si protrae dai primi del sec. XI alla fine del XIV; e ne deriva la formazione di numerose colonie tedesche nel Tirolo, nella valle dell'Adige fino ai Monti Lessini e ai Sette Comuni, alla periferia della Boemia e della Moravia, nella Slesia, dove nel 1350 esistevano già più di 1500 raggruppamenti di popolazione tedesca, nella Posnania, nella Pannonia, nell'Austria, nell'Ungheria occidentale, soprattutto nella Transilvania, dove i coloni sassoni s'unirono e si sovrapposero ai più antichi gruppi di coloni "fiamminghi", provenienti in realtà dal bacino della Mosella.

Mentre in tal modo nel centro d'Europa si compiva tra l'XI ed il XIV secolo un movimento a ritroso di quello delle invasioni barbariche e si costituivano in mezzo ai paesi popolati da Slavi, Magiari e Rumeni quei nuclei numerosi di popolazione tedesca, molti dei quali sopravvivono intatti anche ai giorni nostri, un movimento analogo, da Occidente ad Oriente, sembrava dovesse iniziarsi, nell'ultimo decennio del sec. XI anche sulle rive del Mediterraneo. Ma qui, per la più densa popolazione e per il più alto grado di civiltà dei paesi arabi e bizantini, un movimento migratorio di masse, dopo i primi e tumultuarî tentativi, si rivela subito impossibile e al suo posto subentra, accanto alla formazione di un certo numero di signorie feudali cristiane, in cui la massa degli abitanti e dei lavoratori seguita ad essere data dagl'indigeni, uno sviluppo assai più considerevole di vere colonie commerciali.

Le maggiori città marittime italiane, che dopo aver concorso con le loro flotte alla prima crociata, seguitano poi ad aiutare i principi cristiani nella conquista delle città costiere, rimaste ancora nelle mani dei nemici, ottengono in compenso ampli privilegi di carattere fiscale, giurisdizionale e commerciale. I Genovesi, in premio dei servizî resi nella conquista di Acri, ottengono da re Baldovino il possesso d'una località in Gerusalemme, d'una strada di Giaffa, d'un terzo di Arsūf, di Cesarea, di Acri, comprese le sue rendite e il suo territorio sino al raggio d'un miglio all'intorno, e l'esenzione da ogni specie di tributo commerciale in tutto il regno. In seguito riescono a farsi concedere condizioni press'a poco uguali nei porti siriaci di Gibelletto, di Beirut e di Laodicea.

Meno favoriti nel regno di Gerusalemme, i Pisani ottengono da Tancredi, principe di Antiochia, un quartiere commerciale nella città stessa, una strada e una chiesa in Laodicea, piena libertà di commerci ed esenzioni da tributi in tutto il principato, e più tardi un certo numero di case a Tripoli e a Tiro. Concessioni dello stesso genere, e spesso anche più larghe, ottenevano i Veneziani, fra il 1110 ed il 1123, in Acri, Tiro, Ascalona e Gerusalemme.

Si fondano così nei primi decennî del sec. XII numerose colonie di Veneziani, Genovesi e Pisani, a cui più tardi qualche altra se ne aggiunge di Provenzali e di Catalani, nelle città costiere della Siria e della Palestina e in alcune città dell'interno a poca distanza dal mare. Le nuove colonie presentano un carattere del tutto speciale, per cui possono ravvicinarsi alle antiche colonie dei Fenici, dalle quali però si differenziano profondamente per il fatto che questi erano approdati quasi sempre in paesi ignoti e barbari, in cui le loro piccole fattorie costituirono il primo nucleo di future città, mentre gl'Italiani del sec. XII fondarono le loro colonie entro città fiorenti e popolose, di cui non modificarono mai sostanzialmente né la struttura etnica, né quella economica. Veneziani, Genovesi, Pisani ottenevano per lo più dai nuovi principi cristiani la concessione in feudo di un terzo o di un quarto della città; talvolta, ma assai di raro, la concessione si estendeva all'intera città; più spesso invece si limitava a una strada soltanto, con un edificio pubblico d'uso comune, con alcune case d'abitazione privata, con un magazzino per le merci (fondaco), una chiesa, un forno, un molino e un bagno. Nelle citta marittime si aggiungeva quasi sempre la concessione di una banchina d'approdo e di uno spazio per tenervi il mercato. Spesso infine si concedeva anche una certa estensione di terreni coltivati intorno alle mura della città.

Tutte queste concessioni di case e di terre non sono determinate dalle necessità d'una numerosa popolazione che fosse emigrata in Oriente dalle città marittime italiane, ma sono semplici concessioni feudali, di contenuto sostanzialmente fiscale, destinate a soddisfare in parte i bisogni commerciali, in parte quelli amministrativi della piccola colonia prevalentemente fluttuante. Quello che importava soprattutto alle città marittime italiane era di aver nelle loro mani dei luoghi in cui potessero esercitare liberamente tutte le operazioni commerciali di carico e scarico, deposito e compravendita, senza essere in alcun modo disturbate dalle potenze rivali o dalla popolazione indigena.

Dal punto di approdo, riservato alle proprie navi, esse vogliono avere una strada che conduca i mercanti alle loro abitazioni, ai loro luoghi di riunione, al loro fondaco, alla loro chiesa. Dov'esse esercitano la propria attività vogliono evitare l'intervento d'ogni potere estraneo e perciò ottengono, per lo più, il privilegio che i loro cittadini, sia per affari civili e commerciali, sia per processi criminali, siano esenti dalla giurisdizione del principe e siano giudicati da magistrati proprî secondo le leggi della madrepatria (v. capitolazione). All'infuori di queste, tutte le concessioni di quartieri, di chiese, di terre, hanno un carattere esclusivamente finanziario; sono le entrate di carattere pubblico provenienti da quelle terre o da quei quartieri che si cedono alle città italiane ma gli abitanti seguitano ad essere Siriaci o Ebrei.

A poco a poco, naturalmente, con l'intensificarsi dei rapporti commerciali, vennero a raggrupparsi entro quei quartieri dei nuclei di popolazione stabile genovese, pisana o veneziana, chiamatavi direttamente o indirettamente da ragioni di commercio, e si costituirono delle vere e proprie colonie, paragonabili sotto molti aspetti alle colonie europee che si sono oggi costituite nelle maggiori città dell'antico Impero ottomano e della Cina.

A capo di quelle colonie si trovano, fin dal 1104, dei magistrati speciali designati col nome di visconti o balivi, e poi, più comunemente, col nome di consoli, riproducendo nel nome e nelle attribuzioni gli analoghi magistrati della madrepatria, con giurisdizione non solo sui loro concittadini, ma anche sugl'indigeni abitanti nel quartiere assegnato in feudo alla loro città.

L'espansione coloniale delle città marittime italiane, e in particolare di Venezia, nell'Oriente bizantino raggiunge il suo punto culminante dopo la quarta crociata. Il quartiere veneziano di Costantinopoli diventa una vera città autonoma con una densa popolazione immigrata e col suo podestà o bailo, che era il capo supremo della colonia e il rappresentante di Venezia in tutti i possedimenti orientali. In terraferma l'occupazione veneziana si limita ad alcuni punti strategici della costa, Durazzo, Modone e Corone, nei quali, accanto alle colonie commerciali, si costituiscono anche delle colonie militari. Gli sforzi veneziani si concentrano invece sulle isole, delle quali, dopo lunga resistenza dei signori locali, sono occupate Corfù, le Cicladi, Negroponte, e più importante di tutte Creta, che diventa il più prezioso fra i dominî veneziani nel mar di Levante. In quest'isola, importantissima per la sua posizione non meno che per la ricchezza agricola, l'opera di colonizzazione veneziana assume un carattere assai diverso da quello delle solite colonie commerciali. Oltre alle fattorie mercantili che vi sorsero in grande numero lungo la costa, furono stabilite anche numerose colonie agricole nell'interno, non nel senso che si fosse attuata o incoraggiata una emigrazione di coltivatori veneti nell'isola, ma che a molti ricchi veneziani furono concesse delle terre, per intensificarne la coltura, e che a poco a poco, almeno per il personale dirigente, queste imprese agricole divennero tanti nuclei di popolazione veneziana. Si spiega così come Creta assumesse un'importanza decisiva non solo per il commercio e per i rifornimenti alimentari di Venezia, ma anche nella vita stessa delle sue famiglie patrizie, e come a Creta si incontrino ancora ad ogni passo le tracce del dominio veneto e sembri spesso di trovarsi in un ambiente schiettamente veneziano.

Come Venezia, anche Genova si assicura estesi possedimenti di terre a Scio, a Lesbo, nell'isola di Cipro, lo sfruttamento dei quali è affidato talvolta a società di creditori dello stato (maone). Così accanto a colonie puramente commerciali vi furono colonie che, con nome moderno, potremmo chiamare di piantagione, in cui con un'organizzazione mezzo feudale e mezzo capitalistica, valendosi del lavoro di coltivatori legati alla terra o di schiavi, si ottenevano, oltre ai caratteristici prodotti mediterranei, anche alcune materie prime industriali (cotone e canna da zucchero) che oggi sono appunto prodotte dalle piantagioni tropicali.

Frattanto la colonizzazione si era estesa anche nel Mar Nero: dapprima vi penetrarono i Genovesi, i quali, dopo la caduta dell'Impero latino, dominavano gli stretti, e fondarono in Crimea l'importante colonia di Caffa, che raggiunse presto una completa autonomia, con proprio statuto e con un console assistito da due consigli. Ad essi tennero dietro i Veneziani, che si stanziarono nella stessa regione a Soldaia e soprattutto alla Tana, accanto a una preesistente e più modesta colonia genovese; mentre sulla riva opposta una fiorente colonia veneziana si stabilisce a Trebisonda.

Numerose colonie commerciali, di Veneziani, Genovesi e Pisani, si stanziano nello stesso tempo lungo le coste arabe dell'Africa settentrionale, ad Alessandria, a Tripoli di Barberia, a Tunisi e nei centri vicini, in modo che lungo tutte le rive del Mediterraneo i nostri mercanti e le nostre navi avevano dei luoghi sicuri di rifugio e d'appoggio in cui potevano trovarsi come in casa propria.

Non molto diversa dall'azione che le città marittime italiane esercitano lungo le coste del Mediterraneo e in particolare nei mari di Levante, è quella che le città anseatiche esercitano, nei secoli XIII e XIV, lungo le coste del Baltico, e in forma diversa lungo quelle del mare del Nord. Nel Baltico l'espansione degli Anseatici si può considerare come un'ulteriore manifestazione di quella spinta verso oriente delle popolazioni tedesche, che si era iniziata fin dal sec. X. Al posto delle colonie agricole si costituiscono ora, o per volontà di principi, di signori, di ordini religiosi militari o per azione spontanea di mercanti, dei piccoli nuclei urbani, alcuni dei quali sono destinati a diventare fiorenti centri mercantili. Così si popolano di minuscole città le coste della Pomerania e delle due Prussie e fra esse primeggiano Lubecca, Stettino e Danzica. Da questi nuclei l'azione colonizzatrice si spinge più a nord nei golfi di Riga e di Finlandia, di dove gli Anseatici penetrano nell'interno della Russia, ottenendo larghissimi privilegi e sicuro predominio nei mercati di Pskow e di Novgorod.

Sull'altra sponda essi pongono piede stabilmente sulla costa svedese e in tutte le isole, in modo che il Baltico può considerarsi per due secoli come un golfo anseatico.

Alquanto diversa si presenta la loro espansione nel Mare del Nord, dove non si trattava di stabilire delle colonie lungo coste semidisabitate e prive di città, ma dove invece esisteva ormai un floridissimo sviluppo di vita cittadina, come nei Paesi Bassi, o uno stato saldamente organizzato, come in Inghilterra. Ma anche in queste regioni essi riescono a stabilire delle colonie fiorenti, con proprî edifici separati, con propria giurisdizione e privilegi di ogni genere, come, più importanti di tutte, a Bruges e a Londra, dov'essi s'incontrano con altre colonie dello stesso genere che dal Trecento in poi vi han creato le maggiori città mercantili d'Italia, e che nella seconda metà del Quattrocento, alla vigilia delle grandi scoperte geografiche, cominceranno ad esservi create anche da Spagnoli e Portoghesi.

Bibl.: Belgrano, Manuale di storia delle colonie, 2ª ed., Firenze 1889; Morris, History of colonisation, Londra 1901; Boissonade, Le travail dans l'Europe chrétienne au Moyen âge, Parigi 1921; Kötschke, Allgemeine Wirtschaftsgeschichte des Mittelalters, Jena 1924; Kulischer, Allgemeine Wirtschaftsgeschichte, I, Monaco e Berlino 1928; Arnold, Ansiedlungen und Wandlungen der deutschen Stämme, Lipsia 1875; Meitzen, Siedelung und Agrarwesen der Germanen, Slaven, Finnen und Römer, Lipsia 1895; Imbart de la Tour, Les colonies agricoles et l'occupation des terres désertes à l'époque Carolingienne, in Mélanges Fabre, Parigi 1902; Grenier, L'Empire byzantin, évolution sociale et politique, Parigi 1904; Diehl, Histoire de l'Empire byzantin, Parigi 1909; Bugge, art. Wikinger, in Real-Lexikon d. germanisch. Altertümer; Heyd, Storia del commercio di Levante, dal ted., in Bibl. d. economista, s. 5ª, X; Schaube, Storia del commercio dei popoli latini sino alla fine delel Crociate, dal ted., in Bibl. d. economista, s. 5ª, XI; Desimoni, Memoria sui quartieri dei Genovesi in Costantinopoli, in Giorn. ligustico, I (1874); Bertolotto, Nuova serie di documenti sulle relazioni di Genova con l'Impero bizantino, in Atti d. Società lig. di st. pat., XXVIII (1897); Armingaud, Venise et le bas-Empire, in Arch. d. missions archéol. et littér., s. 2ª, IV (1867); Norden, Kreta als venetianische Kolonie, in Hist. Jahrb., XX (1899); Gerola, Candia all'epoca veneziana, in Rassegna internazionale, VII (1901); R. Cessi, Le colonie ed i commerci dell'Europa occidentale in Oriente dal Medioevo all'età moderna, Padova 1922; Püschel, Das Anwachsen der deutschen Städte, in Der Zeit der mittelalterlichen Kolonialbewegung, Berlino 1910.

Colonizzazione nell'epoca moderna e contemporanea.

La spartizione iberica del mondo extra-europeo (1492-1529). - L'epoca delle grandi scoperte geografiche segna, per opera della Spagna e del Portogallo, l'inizio della colonizzazione moderna e con essa dell'espansione europea nel mondo intero. Posizione geografica, priorità di scoperta, preponderanza di forze marittime e militari sono le cause di questa specie di monopolio coloniale che le due nazioni iberiche esercitano sulle due nuove vie oceaniche del commercio mondiale (dall'Europa alle Americhe e dall'Europa alle Indie). L'investitura dell'autorità papale, che costituiva ancora - ufficialmente almeno - la fonte della sovranità, sui paesi di una nuova scoperta veniva a perfezionare, se pure non lo creava, il diritto delle due nazioni su tali paesi. Tale investitura fu fatta, essenzialmente, con la bolla Inter coetera di Alessandro VI (1493).

Essa spartiva tra Spagna e Portogallo l'intero mondo extraeuropeo scoperto e da scoprire, mediante la famosa raya o linea divisionale, fissata empiricamente a 100 leghe ad ovest delle Azzorre e delle Isole del Capo Verde: alla Spagna l'emisfero occidentale, al Portogallo quello orientale. La linea divisionale veniva in seguito portata 270 leghe più in là, cioè a 370 leghe a ponente dell'arcipelago del Capo Verde (le Azzorre non eranoo più tirate in campo), col trattato ispano-portoghese di Tordesillas (1494), approvato da Giulio II nel 1509. Naturalmente la bolla non fu sufficiente a dirimere la questione, e le acque e le isole dell'Insulindia, specialmente le ambite Molucche, in cui i Portoghesi pervenivano per la via orientale ancora nel 1511 e gli Spagnoli per quella occidentale, videro attorno al 1520 un grave conflitto ispano-portoghese per la spartizione effettiva del mondo: solo nel 1529 veniva risolta la controversia col trattato di Saragozza, per il quale la linea orientale di divisione tra l'(emisfero spagnolo e quello portoghese veniva fissata a 17 gradi a oriente delle Molucche, fatta riserva alla Spagna delle isole Filippine, e previo disborso portoghese di 300 mila ducati, in compenso delle Molucche: somma da restituirsi (il che però non avvenne mai) il giorno in cui risultasse aver il Portogallo pieno diritto a quell'arcipelago in virtù della raya.

Contro questa spartizione insorgeranno gli altri grandi stati dell'Occidente, sia cattolici, come la Francia, sia protestanti, come l'Inghilterra, che, con Elisabetta, dichiarerà di non riconoscere in materia il diritto del "vescovo di Roma". E contrapporranno all'investitura universale del papato il diritto di scoperta e più ancora della presa effettiva di possesso delle singole terre. Ma tali rimostranze non attenueranno l'autorità della raya, né impediranno il monopolio marittimo e coloniale del mondo a favore della Spagna e del Portogallo per un secolo.

La colonizzazione iberica (1492-1598). - L'impero coloniale portoghese (secoli XV-XVIII). - Lo spirito di conquista, di signoria politica e di proselitismo religioso, che aveva presieduto alla grande epopea nazionale del Portogallo, insieme col desiderio di trovare una via diretta alle Indie per i commerci marittimi, portava per logica conseguenza la costituzione d'un impero oceanico che assicurasse il monopolio di questi commerci con l'Oriente. Le spedizioni ripetute di Vasco da Gama, di Francisco d'Almeida, di Alfonso d'Albuquerque e d'altri estendevano in un quindicennio su basi territoriali la potenza del Portogallo dalle coste orientali dell'Africa alle occidentali dell'India cisgangetica, a Malacca presa nel 1511, a Giava, a Borneo, alle Molucche, fino alle coste della Cina (concessione cinese ad uso commerciale, se non in piena sovranità, di Macao nel 1557) e a quelle del Giappone (a cominciare dal viaggio di Fernando Mendez Pinto nel 1542). Mentre, nel continente americano, il viaggio di Pedro Alvarez Cabral del 1500-1501 dava al Portogallo la signoria del Brasile.

Più che sulla dominazione effettiva di tutta l'immensa distesa di terre rivendicate, la potenza coloniale del Portogallo - giunta al suo apogeo nella seconda metà del Cinquecento - si fondò sul controllo delle vie di comunicazione e sul monopolio naturale dei prodotti più ricercati d'Africa e d'Asia. Infatti l'impero portoghese consisteva in una ventina di stabilimenti fortificati, con ordinamenti giuridici eguali a quelli della metropoli, e con autonomie locali pure simili alle metropolitane, a beneficio di tutti gli abitanti, purché cristiani. Nel resto dell'immenso dominio si esercitava o una potestà politica indiretta, o una semplice influenza commerciale. Goa, sulla costa del Malabar, presa dall'Albuquerque nel 1510, era la capitale dei possessi portoghesi nell'India e la sede del viceré, il quale godeva, specie nei primi tempi, di poteri illimitati durante la gestione (dapprima a tempo indeterminato e poi triennale), ma vedeva l'opera sua sottoposta, quando usciva di carica, a rigoroso sindacato. Siffatte caratteristiche politico-territoriali erano in armonia con quelle economiche d'una colonizzazione prevalentemente commerciale o di fattorie nell'Asia, commerciale e più di piantagione nell'Africa, almeno nei primi tempi. Farà invece, sotto molti punti di vista, eccezione al resto dell'impero portoghese il Brasile, col suo carattere di colonia di popolamento bianco che esso via via assumerà nel Seicento, grazie alla maggiore abbondanza d'immigrazione, alla deportazione dalla metropoli, allo sfruttamento agricolo prima (introduzione della canna da zucchero da Madera) e più tardi minerario (oro e diamanti): destinato, perciò, a diventare il capolavoro della colonizzazione portoghese.

La sproporzione fra la piccola metropoli e il vastissimo dominio coloniale portoghese e quindi la difficoltà di difenderlo, determinava il crollo dell'impero oceanico del Portogallo: a prescindere anche dagli elementi interni di dissoluzione, come la mancanza di comunicazioni continue con la metropoli, l'accentramento di organi e di funzioni, la rivalità di governo coloniale e metropolitano; la corruzione di funzionarî; l'intolleranza religiosa, specialmente dopo l'unione personale del Portogallo con la Spagna, imposta a quello nel 1580 e durata fino al 1640, con la conseguenza di attirare sopra l'impero portoghese gli odî europei contro la Spagna.

Alla pace di Aquisgrana nel 1668, al Portogallo, riconosciuto indipendente sotto la nuova dinastia di Braganza, non rimanevano che gli stabilimenti di Goa, Diu e Damão nell'India; Timor nella Malesia; Macao nella Cina; tratti costieri del Congo, dell'Angola e del Mozambico e le isole di San Tomé e Fernando Po nell'Africa; il Brasile in America. Ma di questi territorî (eccezion fatta dell'isola di Fernando Po passata alla Spagna nel 1778 e del Brasile indipendente dal 1822) esso potrà servirsi, verso la fine dell'Ottocento per dare una base anche territoriale alle sue rivendicazioni storiche e per ricostituire in Africa il suo moderno dominio coloniale.

L'impero coloniale spagnolo (secoli XVI-XVIII). - La costituzione della Spagna, sulla fine del Quattrocento, in una monarchia nazionale, la prestanza militare e lo spirito di conquista territoriale e di proselitismo religioso, la sete d'oro nei privati e nello stato spiegano come, in poco più d'una generazione dalla scoperta colombiana, la maggiore nazione iberica potesse costituirsi un impero coloniale su cui il sole non tramontava mai: dalle coste settentrionali dell'Africa (Tangeri, Orano, Melilla, Tripoli stessa all'epoca di Carlo V) alle Filippine attraverso il continente americano: le coste meridionali del Nord-America; l'America Centrale continentale e insulare; tutta l'America Meridionale, escluso il Brasile. Al periodo tumultuario della conquista, condotta, nella massima parte dei casi, in virtù d'una delega speciale concessa dalla Corona di Castiglia a soldati e avventurieri correnti a proprie spese e rischio l'alea dell'impresa per raccoglierne i profitti, segue il periodo della organizzazione, nel quale l'iniziativa individuale è ridotta in più limitati confini dall'autorità e dagli organi statali.

Il 1542, epoca delle Nuove leggi di Carlo V e della riforma di quella Casa de contratación creata nel 1503 per regolare i commerci e gli affari coloniali, può considerarsi come l'anno di transizione fra i due periodi; pur non mancando già prima ordinamenti locali e perfino grandi unità politiche coloniali (il vicereame del Messico nel 1540 e quello del Perù nel 1542), ogni giorno più strettamente dipendenti dalla corona di Castiglia e dagli organi generali (il Consiglio di Castiglia) o particolari di essa (la Casa de contratación sopra ricordata e il Consiglio supremo delle Indie). Il Consiglio supremo delle Indie, sedente a Madrid, corpo consultivo per la preparazione delle leggi da emanarsi dal sovrano; corpo amministrativo per il regolamento e la sorveglianza delle amministrazioni coloniali; corpo infine giudiziario in sede contenziosa dapprima e poi corte giudiziaria suprema per le colonie; la Corte di commercio e giustizia, organo giurisdizionale per le cause relative agli affari coloniali e marittimi, e la Casa de contratacion, organismo economico amministrativo per il regolamento dei commerci e degli affari economici nelle colonie, vennero a costituire gli organi del potere coloniale centrale risiedente nella Corona. Rappresentanti del potere centrale nelle colonie erano dei viceré (i due vicereami suddetti del Messico e del Perù, cui venivano ad aggiungersi due secoli dopo quelli di Nuova Granata, nel 1739, e di Buenos Aires nel 1778), o dei capitani generali (le capitanerie generali più antiche di Guatemala, di Portorico e di Manilla, cui venivano ad aggiungersi nel tardo Settecento quelle di Avana - 1777 - di Caracas o Venezuela - 1773 - di Santiago del Chile - 1778): sotto di essi stavano dei governatori o dei capitani alla testa delle circoscrizioni corrispondenti. Organi consultivi e ispettivi completavano l'impalcatura politico-amministrativa dell'immenso impero. La popolazione, ad eccezione dei Bianchi di Spagna, era totalmente esclusa da ogni partecipazione al governo e all'amministrazione della colonia: se se ne eccettui qualche autonomia amministrativa locale, lasciata alle popolazioni nelle sole località della costa o degli altipiani, dove venne accentrandosi l'elemento coloniale spagnolo: organi di essa i cabildos o consigli municipali.

L'ordinamento fondiario, in particolar modo, e quello commerciale costituivano il vizio fondamentale dell'organizzazione spagnola dei dominî d'oltremare. Il primo invero, di carattere feudale, era fondato sull'assegnazione gratuita di enormi concessioni di terra (repartimientos o encomiendas) con giurisdizione sugli indigeni e larghe facoltà di reclutamento e sfruttamento; il secondo, mirante all'isolamento assoluto delle colonie più che dettato da considerazioni economiche, si basava sul monopolio nemmeno nazionale ma addirittura (nei primi tempi) castigliano ed era sottoposto alla più minuziosa e inceppante regolamentazione per opera della Casa de contratación, arbitra in materia. Un solo porto, quello di Siviglia (sostituito col 1720 da quello di Cadice), poteva fare il commercio con le Americhe. Il commercio diretto fra colonia e colonia era proibito.

Limitazione degli scambî; monopolio di fatto delle due coalizioni mercantili costituitesi a Siviglia nella metropoli, a Lima e Messico nelle colonie, per elevare al massimo i prezzi tenendo sottoapprovvigionato il mercato; impulso irrefrenabile al contrabbando; mancanza di stimolo alla produzione nelle colonie e al consumo coloniale nella metropoli furono gli effetti rovinosi per la madrepatria e le colonie d'una siffatta politica commerciale. La Spagna se ne convinse nel Settecento: il sistema dell'isolamento commerciale veniva pezzo per pezzo e colonia per colonia demolito (cominciando però, contro ogni logica economica ma non politica, dalle colonie meno popolate e più arretrate anziché dalle altre) fra il 1748 e il 1788, per lasciare il passo a una relativa libertà di scambî commerciali fra la madrepatria e la colonia, e fra colonia e colonia. Col 1790 la Casa de contratación fu soppressa. Nonostante i benefici effetti della nuova politica commerciale la condanna coloniale della Spagna era già segnata nell'incapacità sua a rimediare in tutto il resto ai mali del passato, specie dopo la morte di Carlo III.

Molti colpi ebbe a subire, dal '600 al '700, il dominio coloniale spagnolo: conquista inglese della Giamaica nel 1655; cessione di Gibilterra e diritto di assiento, cioè di fornitura degli schiavi negri, all'Inghilterra nella pace di Utrecht del 1713; occupazione del Honduras col trattato di Parigi del 1763 e sovranità inglese su di esso con quello di Versailles del 1783; cessione all'Inghilterra della Florida (riavuta nel 1782, ma ceduta agli Stati Uniti nel 1819) nel 1763, e così via. Alla fine del '700 e nei primi dell'800, si aggiunsero le influenze perturbatrici dell'insurrezione vittoriosa delle 13 Colonie Unite del Nord-America contro l'Inghilterra e quella della Rivoluzione francese. I moti di Caracas nel 1806 aprivano il periodo rivoluzionario dell'America spagnola, Nel 1822 alla Spagna non rimanevano più che Cuba e Portorico in America, le Filippine nell'Asia, qualche minuscolo arcipelago nel Pacifico e qualche lembo o isola costiera nell'Africa: quasi tutto destinato pur esso a scomparire, con la guerra di Cuba tra Spagna e Stati Uniti, nel 1898.

La colonizzazione mercantilista anglo-franco-olandese (1598-1815). - La colonizzazione olandese (secoli XVII-XVIII). - Nata politicamente, può dirsi, con l'atto d'abiura del 1581, che segnava il distacco definitivo dalla Spagna dei protestanti Paesi Bassi del Nord, l'Olanda trovava nella lunga guerra d'indipendenza la prima spinta a battere le vie coloniali. L'unione personale delle due corone iberiche (1580), con la conseguente chiusura agli Olandesi del mercato di Lisbona, dove essi si rifornivano per il mercato nazionale e per quelli stranieri delle derrate preziose dell'Oriente, li spingeva a provvedersele direttamente, approfittando della incipiente debolezza militare ed economico-finanziaria della Spagna. La riuscita spedizione commerciale-militare (1595) comandata da Cornelio Houtman dischiudeva la via delle Indie agli Olandesi che soppiantarono i Portoghesi nei traffici e nell'influenza commerciale e politica: tanto più facilmente, in quanto, superiori militarmente e tecnicamente ai rivali sul mare, gli Olandesi si presentavano in Oriente in veste di mercanti più che di conquistatori. Solo che, da una parte il bisogno di grandi mezzi militari e finanziarî per condurre e presidiare tali traffici, dall'altra i danni della libera concorrenza fra armatori e piccole compagnie private, spingevano gli Olandesi a creare nel 1602 una grande compagnia (la Compagnia unita delle Indie orientali), cui gli Stati Generali davano, insieme col monopolio marittimo commerciale e coloniale per tutti i mari e le terre a oriente del capo di Buona Speranza (sino allo stretto di Magellano), anche l'esercizio dei poteri sovrani di pertinenza dello stato olandese, sulle acque e sulle terre di giurisdizione della Compagnia (v. compagnia: commercio). Un Governatore generale, investito di tutti i poteri civili e militari in rappresentanza della Compagnia, governava le colonie con sede in Batavia. L'attività mercantile della Compagnia olandese si sostituiva così rapidamente a quella portoghese nell'Oceano Indiano (dal Coromandel nell'India anteriore al Capo di Buona Speranza occupato nel 1651, dall'isola di Maurizio occupata permanentemente dal 1640 al 1712 a Ceylon occupata nel 1658) e nei mari dell'Asia Orientale (in Cina gli Olandesi apparivano nel 1624, al Giappone nel 1638), pure esplicandosi più largamente nelle grandi e nelle piccole isole della Sonda (a Giava e alle Molucche in particolare). L'Olanda esercitava la sua attività coloniale per il tramite d'un intelligente sistema di protettorato sui principi e le popolazioni indigene piuttosto che con un sistema di governo diretto. Al Capo di Buona Speranza soltanto si inizierà fino dal 1652, per iniziativa del Van Riebeck, e si sviluppano lentamente una colonizzazione di razza, sulle basi di un'amministrazione coloniale diretta della Compagnia. Questa Compagnia, dopo aver ritratto nel primo secolo di vita grandi profitti, cominciava già nell'ultimo quarto del Seicento a decadere, specialmente sotto i colpi delle compagnie rivali inglesi e francesi. Nel 1795 la Compagnia doveva rinunciare ai suoi territorî in favore dello stato, e nel 1800 era definitivamente sciolta. Maurizio, le fattorie commerciali dell'India anteriore, Ceylon, il Capo di Buona Speranza passavano all'Inghilterra; rimanevano all'Olanda la massima parte delle terre e isole della Malesia.

La Compagnia delle Indie orientali, sorta nel 1617 sulla falsariga della precedente, con gli stessi privilegi per i mari e le terre ad O. del Capo di Buona Speranza, nel mezzo secolo circa di attività effettiva (1621-1674) creò fattorie a scopo di commercio e di tratta negriera sulle coste dell'Africa occidentale (specie nella Guinea); a scopo di commercio e di piantagione, ma più assai di corsa a danno dei vascelli e di contrabbando a danno dei possedimenti spagnuoli, nelle Piccole Antille; di commercio alle foci del Hudson, dove sorgevano, a datare dal 1623, i cosiddetti Nuovi Paesi-Bassi col centro di Nuova Amsterdam, la futura New York; sulle stesse coste dell'America meridionale, nella Guiana e nel Brasile. Ma anche questa compagnia piegava sotto i disastri finanziarî subiti nella vana difesa dei suoi possedimenti americani contro l'Inghilterra (a questa passavano, col trattato di Breda del 1667, i Nuovi Paesi Bassi; conquistati tre anni prima dalle armi e più dai coloni înglesi confinanti); col 1674 essa veniva sciolta, passando in ereditò alla Repubblica olandese i suoi possedimenti delle Piccole Antille (Bonaire, Aruba, Sant'Eustachio e Curaçao), della Guinea e dell'America Meridionale (Guiana olandese o Surinam).

L'antico impero coloniale francese (secoli XVII-XVIII). - Più varia e complessa di quella olandese si presenta nel secoli XVII-XVIII l'espansione coloniale della Francia; ispirata a criterî prevalentemente politici, ma non meno per questo svoltasi in una molteplicità di forme e di elementi politico-territoriali, cui solo la deficienza di elementi colonizzatori nella metropoli e, più, le sfortunate vicende politiche e militari di questa impedirono di coordinarsi in un impero coloniale duraturo al pari di quello britannico. Le prime manifestazioni di un'iniziativa e finalità coloniale statale e politica si hanno già in Francesco I coi viaggi di esplorazione e scoperta di Giovanni da Verrazzano lungo le coste dell'America Settentrionale, dalla Florida al capo Bretone, e poco più tardi di Giacomo Cartier, che rimonta il fiume San Lorenzo e prepara alla Francia la sua prima colonia di popolamento, il Canada. Vi è un arresto, nella prima metà del Cinquecento, di questa azione coloniale dello stato; nella seconda metà vi sono tentativi privati di colonizzazione contro la volontà dello stato, ad opera soprattutto di dissidenti religiosi e politici, in Brasile, nelle Caroline, ecc. Ma, con la pace politica e religiosa e con il risorto prestigio francese per opera di Enrico IV, si ha una ripresa coloniale che inizia effettivamente l'espansione politico-territoriale della Francia oltre gli oceani. Rivendicata intanto alla Francia tutta la regione nordamericana a settentrione del 40° lat. Nord, la cosiddetta Nuova Francia, si gettano in essa, mercé l'opera di Samuele di Champlain, le prime basi della colonizzazione canadese, cui darà poi impulso definitivo il Richelieu, con la Compagnia del Morbihan o dei Cento associati. Si fanno al tempo stesso, a più riprese, mercé l'opera di individui privati e, più assai, di compagnie, tentativi varî di commercio e colonizzazione, nelle Indie orientali e nel continente africano; dove - all'epoca appunto del Richelieu (1624-1642) - si procede a una prima occupazione nel Madagascar e nel Senegal. Da questi tentativi si passa, con la seconda metà del Seicento, alla fondazione sistematica di emporî transmarini e di colonie per impulso del Colbert (1661-83), della cui politica economica mercantilistica la politica coloniale è parte integrante (v. colbert); e poi dello stesso Luigi XIV. Nell'America Settentrionale, il dominio francese si allarga dal basso Canada ai Grandi laghi e da questi per tutto il corso del Mississippi, sino al Golfo del Messico. Sulle coste occidentali dell'Africa, gli stabilimenti commerciali francesi si moltiplicano. Nelle Antille si gettano le basi di fiorenti colonie di piantagioni per la coltura del caffè e dello zucchero (la Guadalupa e la Martinica, in particolare, nelle Piccole Antille, la parte occidentale di San Domingo nelle Grandi Antille). Nel Sudamerica, fondata Caienna nel 1637, si occupa parte della Guiana. Nell'Oceano Indiano si creano colonie di piantagione nell'isola di Borbone, una delle Mascarene, e a Maurizio; che, abbandonata dagli Olandesi nel 1712, verrà occupata dai Francesi nel 1721 e ribattezzata in "Isola di Francia". Nell'Asia infine la Compagnia delle Intdie orientali, rinnovata ai tempi del Colbert (1664), spiana la via con la fondazione di fattorie commerciali (importanti fra le altre Chandernagor e Pondichéry) a quella penetrazione commerciale che un mezzo secolo dopo, grazie all'opera di grandi governatori coloniali (La Bourdonnais, Dumas e Dupleix), diventerà influenza politica e perfino dominazione territoriale su una terza parte dell'India anteriore (v. india).

Ma alla superba fioritura dei secoli XVII-XVIII non seguirono, per un complesso di cause interne ed esterne, effetti durevoli. Mancava all'espansione francese il popolamento delle colonie o, quanto meno, l'occupazione effettiva, laddove i coloni inglesi avanzavano metodicamente con la scure e l'aratro dall'Atlantico fino agli Allegani e oltre. Si aggiunga poi il sistema politico amministrativo adottato dai Francesi anche in America: accentramento rigido, intolleranza religiosa, sistema feudale di proprietà e di lavoro, ecc. Così già ai primi anni del 1700, gl'Inglesi conquistavano nell'America Settentrionale l'Acadia francese (Nuova Scozia attuale e possedimenti inglesi della baia di Hudson), riducendo le stesse aspirazioni territoriali francesi su parte di Terranuova a un diritto esclusivo di pesca sulla French Shore o Treaty Shore (trattato di Utrecht, 1713). Durante la Guerra dei sette anni (1756-1763) passava agli Inglesi anche il Canada. Col trattato di Parigi del 1763, che confermava la conquista, la Francia perdeva anche la Luisiana, di cui la parte orientale, sino al Mississippi, toccava all'Inghilterra, la parte occidentale toccava alla Spagna. Il trattato di Sant'Ildefonso retrocederà nel 1800 la Luisiana occidentale alla Francia; ma questa nel 1803, anziché vederla cadere in mani inglesi, preferiva venderla per 80 milioni di franchi agli Stati Uniti. La guerra dei sette anni liquidava altresì il dominio indiano della Francia (v. india: Storia). Il trattato di Parigi (1763) non restituiva alla Francia nell'India che i cinque stabilimenti commerciali di Pondichéry, Karikal, Yanaon, Mahé, Chandernagor, con l'obbligo di non fortificarli. Così andavano perdute le due basi del primo impero coloniale francese, quella americana e quella indiana, l'una di popolamento bianco, l'altra di sfruttamento commerciale e politico.

Tuttavia il duello anglo-francese continuerà implacabile dopo la Guerra dei sette anni, attraverso la guerra d'indipendenza americana (1776-1783) e le guerre della Rivoluzione francese e dell'Impero (1793-1815). La Francia però perde, col dominio del mare, anche i residui possedimenti transmarini, cioè quelle colonie di piantagione delle Antille e dell'Oceano Indiano in cui si era tipicamente incarnato ed espresso il sistema coloniale francese dell'ancien régime. Creato par la métropole pour la métropole col fine esclusivo di fornire alla madrepatria "di prima mano" e quindi "a basso prezzo" le derrate non producibili sul territorio nazionale, questo sistema di esclusività obbligava quelle terre non solo ad orientare la qualità ma a limitare la quantità stessa della loro produzione ai bisogni esclusivi della madrepatria: donde una vita economica che, se in un primo momento poteva avere uno slancio grande in qualche zona, come le Antille, portava con sé i germi della decadenza. Così le Mascarene, l'Isola di Francia e le Seicelle nell'Oceano Indiano, dopo aver raggiunto all'epoca di Luigi XV un alto grado di sviluppo economico, cadevano, nel 1810, nelle mani dell'Inghilterra: e la stessa sorte subirono i possedimenti francesi della costa occidentale dell'Africa (Saint-Louis in primo luogo), tagliati fuori dalla madrepatria. La prima emancipazione degli schiavi negri, decretata nel 1794 dalla Convenzione, portava in pochi anni (1803) alla perdita definitiva della parte occidentale dell'isola di San Domingo erettasi in Repubblica di Haiti, mentre anche la parte orientale - dopo essere stata per qualche anno occupata dalla Francia - si rivendicava a libertà col nome di Repubblica Dominicana.

Quando l'astro napoleonico toccava l'apogeo, il primo impero coloniale della Francia era ormai completamente demolito; né valevano a ristorarlo i trattati di Parigi del 1814-15, coi quali la Francia coloniale era ridotta agl'isolotti di Saint-Pierre e Miquelon nell'Atlantico settentrionale; alle ormai decadute colonie di piantagione della Guadalupa e Martinica nelle Antille, e di Borbone, detta Réunion, nell'Oceano Indiano; alla Guiana francese nell'America Meridionale; alle cinque fattorie commerciali di Pondichéry, Karikal, Yanaon, Mahé Chandernagor nell'India anteriore; a Saint-Louis e Gorea sulle coste occidentali del continente africano: in tutto dai 6 ai 7 mila kmq. di superficie (esclusa la Guiana; compresa questa un 38 mila) con 400 mila abitanti, di cui meno di un quarto bianchi.

Il primo impero coloniale dell'Inghilterra (secoli XVI-XVIII). - Della politica coloniale che l'Inghilterra seguì, dei risultati da essa ottenuti, si è già ampiamente detto altrove (v. britannico, impero). Qui basti ricordare come i germi seminati nella seconda metà del secolo XVI sotto il regno di Elisabetta maturarono vigorosi nel corso del sec. XVII. Fino dal 1583 si era fondata San Giovanni di Terranova e dal 1584 occupate la Virginia e qualcuna delle Piccole Antille. Tra il 1585 e il 1592 si erano create e munite di carte regie per l'esercizio monopolistico del commercio e la tratta africana tre compagnie di cosiddetti "mercanti avventurieri": per il Marocco. per il Senegal e la Gambia, per la Costa fra la Gambia e la Sierra Leone. Nel 1600, infine, si era fondata la Compagnia inglese delle Indie orientali. Durante i regni di Giacomo I e di Carlo I (1603-1648) l'iniziativa coloniale della Corona viene attenuandosi; ma più vigorosa si fa quella privata di individui e, specialmente, quella di gruppi o di associazioni cui la Corona rilascia speciali concessioni per l'esercizio del commercio e la giurisdizione dei sudditi britannici, per l'occupazione coloniale, per l'organizzazione politico-amministrativa e per il governo delle comunità britanniche sorgenti su nuove terre. Col 1607 si inizia la colonizzazione inglese della Nuova Inghilterra per opera di puritani, mentre nel frattempo si occupano le Bermude, la costa della Guiana (1617-18) nell'America Meridionale, e bucanieri inglesi (1619) vengono annidandosi nelle Piccole Antille, in breve trasformate in rigogliose colonie di piantagioni. Alla metà poi del sec. XVII il programma coloniale della regina Elisabetta veniva ripreso, aggiornato e allargato dalla prima Rivoluzione inglese (1649-1660) con la conquista della Giamaica a danno della Spagna (1655), mentre l'Atto di navigazione del 1651 poneva le basi della superiorità marittima dell'Inghilterra sull'Olanda e apriva con questa quel periodo di guerre per il primato commerciale e coloniale, che la stessa Restaurazione stuardica (1660-1688) non poteva interrompere. La pace di Breda del 1667, se escludeva definitivamente l'Inghilterra dalle Molucche, le riconosceva i cosiddetti "Nuovi Paesi Bassi" permettendole l'unificazione politica dell'intera costa atlantica del Nordamerica, dal Canada allora francese alla Florida allora spagnola. Tre anni dopo, il Trattato di Madrid del 1670 riconosceva all'Inghilterra il possesso di tutti i paesi da lei fino allora occupati.

Infranta la superiorità coloniale ispano-portoghese, veniva poi successivamente piegata, nel corso del sec. XVIII, la Francia. Attraverso le guerre di successione e quella dei Sette anni, l'Inghilterra coloriiale si arricchiva della Nuova Scozia, del Canada, della Luisiana, della Florida, mentre stroncava definitivamente la dominazione francese nell'India anteriore.

Vero è che la guerra d'indipendenza delle 13 Colonie Unite d'America (1776-1783) sembrava dare un colpo mortale alla dominazione coloniale britannica. Intatta però rimaneva la preponderanza marittima e commerciale dell'Inghilterra; la quale poteva così nel decennio seguente (1783-1793) non solo rifarsi territorialmente delle perdite subite nel Canada superiore e nell'India, ma anche gettare le basi di nuovi dominî britannici nella penisola di Malacca (1785), sulle coste occidentali dell'Africa (Sierra Leone, 1787) e soprattutto nel continente australiano (1788).

Il periodo ventennale di guerra pressoché ininterrotta contro la Francia della Rivoluzione e dell'Impero (1793-1815) offre anzi all'Inghilterra l'occasione di schiacciare ogni concorrente e di arricchire il suo impero oceanico delle spoglie migliori dei vinti. Al periodo anglo-franco-olandese della storia coloniale (1598-1815) succede quello che può dirsi britannico, non solo perché dalla caduta di Napoleone alla scoperta del Congo (1815-1876) l'Inghilterra è la potenza coloniale predominante, ma per il fatto che nello sviluppo ulteriore del suo impero quasi esclusivamente si compendiano l'espansione e il progresso coloniale del mondo.

Il monopolio coloniale britannico (1815-1876). - Nel terzo e quarto decennio del sec. XIX, la Gran Bretagna procede all'occupazione coloniale dell'Australia. Al tempo stesso il dominio inglese diretto o indiretto va estendendosi nel Nordamerica, a settentrione degli Stati Uniti, dall'Atlantico al Pacifico; mentre nell'Africa meridionale un risultato non dissimile di espansione si ha nel Capo e nel Natal. Si completa pure nella prima metà dell'Ottocento la conquista dell'India anteriore.. Né minori sono i successi coloniali dell'espansione commerciale inglese nella Malesia, dove si fa di Singapore un grande emporio britannico del commercio mondiale e si ottiene Malacca; nell'Africa occidentale, dove si allargano, si unificano antiche fattorie e stabilimenti, specie per la Costa d'Oro, e altri se ne acquistano dai Danesi e Olandesi; nello stesso Estremo Oriente, dove l'Inghilterra fonda in Hong-kong (1840) il maggior emporio commerciale dell'Estremo Oriente. Nel 1851 l'impero britannico si estende già su quasi 22 milioni e tre quarti di kmq.

Contemporaneamente l'Inghilterra trasforma la sua politica coloniale, deponendo via via l'armatura protezionistica. Essa modifica e riforma la politica fondiaria nelle colonie per facilitare agl'immigrati l'accesso alla terra ed estendere alle colonie di razza le libertà civili e politiche della madrepatria. Ed ecco, così, l'abolizione del patto coloniale che trionferà con l'abolizione degli atti di navigazione (1849); ecco la concessione delle terre pubbliche a chi possa impiegarvi capitali e lavoro; ecco le concessioni d'autonomia coloniale, d'istituzioni rappresentative, ecc. Ma il monopolio marittimo, commerciale, industriale, finanziario dell'Inghilterra dopo il 1870 va declinando e in breve tramonta, pure mantenendo l'Inghilterra sino alla guerra mondiale (1914-18) un primato sensibile fra tutte le maggiori nazioni del mondo. Lo stesso movimento che le toglie il dominio assoluto nel campo economico, pur lasciandole in questo il primato, toglie pure all'Inghilterra il dominio assoluto della colonizzazione; ché vecchie e nuove potenze coloniali, spinte da necessità demografiche, economiche, finanziarie e politiche, sorgono a contenderle i territorî extra-europei non ancora politicamente occupati. Oggetto delle maggiori competizioni coloniali sarà quel continente africano, di cui ancora al 1870 l'occupazione coloniale effettiva non oltrepassava brevi zone costiere.

L'espansione coloniale euro-americana-nipponica (1876-1914). - Il 1876, data della scoperta del bacino del Congo, iniziando virtualmente la spartizione politica dell'Africa, inizia l'ultimo periodo della storia coloniale prima della guerra mondiale (1876-1914). La gara e la lotta fra l'imperialismo coloniale britannico e quello russo nell'Asia, francese nell'Africa, tedesco infine in ogni parte del mondo; il risorgimento coloniale francese; l'entrata di nuove potenze europee nell'arringo coloniale (la Germania, l'Italia, il Belgio); la liquidazione coloniale della Spagna e la nascita coloniale degli Stati Uniti d'America e del Giappone sono i fatti caratteristici e salienti della politica coloniale in tale periodo.

La ripresa imperialista britannica. - L'Inghilterra, che durante il precedente trentennio aveva seguito una politica coloniale di relativo raccoglimento, dopo il 1880 ritorna alla politica imperialista davanti alla prospettiva di venire altrimenti prevenuta da altri in territorî ancora vacanti, o di venire minacciata nelle stesse posizioni acquisite. Direttamente così con l'occupazione militare o indirettamente mercé l'opera soprattutto di compagnie di colonizzazione con poteri sovrani, pacificamente o violentemente, sempre nuovi territorî entrano nei quadri dell'Impero britannico: l'Egitto (1882), la Somalia Britannica (1884), il Bechuanaland (1884), l'Africa Orientale Inglese (1887-89), Zanzibar (1890), l'Africa centrale inglese (1891), la Nigeria (1880-89), la Rhodesia (1889-91), l'Uganda (1894), il Sūdān anglo-egiziano (1799), l'Orange (1900) e il Transvaal (1902) nell'Africa; il Belucistan (1879) nell'Asia; la Nuova Guinea inglese (1884) nell'Oceania. Nel 1911 l'Impero britannico risulterà di oltre 29 milioni di kmq. di area con circa 418 milioni e tre quarti di abitanti.

La creazione del nuovo impero coloniale francese. - Un nuovo impero mondiale, inferiore solo a quello inglese, veniva infatti un'altra volta costituendosi per opera e a beneficio della Francia. Data iniziale, la presa di Algeri nel 1830. Più chiare e coscienti erano le finalità coloniali della Monarchia di luglio (1830-1848), la quale non solo conservava Algeri alla Francia, ma conquistava l'intera Algeria ribellatasi con Abd el Kader, cercava, quantunque invano, di far rivivere gli antichi diritti francesi sul Madagascar, accordando la sua protezione ai Sakalavas, prendeva possesso, presso la grande isola, degli isolotti costieri di Nossi Bé, Nossi Cumba, Nossi Nitsin, ecc., e, nel 1843, dell'isola di Maiotta nelle Comore (i cosiddetti "Stabilimenti francesi del canale di Mozambico"); imponeva in Oceania, nel 1842, il protettorato francese sulla parte orientale dell'arcipelago polinesiano delle Isole della Società, prevenendo in esse di poco l'Inghilterra con la quale cinque anni dopo (1847) stipulava, per la parte occidentale dello stesso arcipelago, una convenzione impegnante reciprocamente le due potenze ad astenersi da ogni occupazione o assunzione in protettorato; prendeva infine possesso dell'estuario del Gabon nel Congo e di qualche breve tratto costiero sulla Costa d'Avorio e moveva nel Senegal i primi passi verso l'interno. Moventi economici si aggiunsero poi ben presto ai moventi politici.

Dopo l'effimera seconda repubblica del 1848-1852, fu notevole la definitiva abolizione della schiavitù, con le disastrose ripercussioni che ciò ebbe sull'economia delle colonie a piantagione. Napoleone III quasi preannunciò la ricostituzione d'un impero coloniale francese, con una serie di spedizioni militari, d'interventi, di prese di possesso o assunzioni di protettorato, fatte in ogni parte del mondo. Ché, se nelle Americhe tali disegni caddero con l'infelice spedizione del Messico, negli altri continenti essi lasciavano segni duraturi. Nell'Africa, anzitutto, s'iniziò la penetrazione francese dal Senegal al Niger, durante l'amministrazione del generale Faidherbe (1854-65), che estendeva il dominio francese su tutto il corso del Senegal e sulla costa dal capo Bianco alla Gambia inglese, e si occupò la costa delle Rivières du Sud (la cosiddetta Guinea Francese), fra la Guinea Portoghese e la Sierra Leone; si assunse il protettorato sul Reame di Porto Novo nel Dahomey; si comperò da capi indigeni la baia di Obok all'imboccatura del Golfo di Aden (1862); si portò infine all'apogeo l'influenza francese in Egitto col taglio dell'istmo di Suez. Più vasta e lungimirante la politica imperiale nell'Asia, nell'India posteriore in particolare, dove la conquista della Cocincina (1862-1867) e l'assunzione nel 1863 del protettorato sul Cambogia preparavano una delle due tenaglie (l'altra sarà, vent'anni dopo, il Tonchino) che dovevano stringere nelle mani della Francia l'Annam. Nell'Oceania infine, volendosi trovare una colonia penitenziaria più sana della Guiana, si occupò sino dal 1853 la Nuova Caledonia, cui furono annesse nel 1861 le vicine Isole della Lealtà.

Tendenze innovatrici il Secondo Impero ebbe anche nella politica interna coloniale. Ché se già i Borboni, dopo il 1815, avevano adottato col ministro Portal misure più liberali, specie in materia doganale, il Secondo impero operava una rivoluzione completa nei rapporti fra madrepatria e colonie con la soppressione definitiva del patto coloniale, cioè con l'abolizione (legge 3 luglio 1861) degli atti di navigazione, conforme alla viva aspirazione delle antiche colonie francesi, specie di piantagione, e con un nuovo assetto piu liberale dell'amministrazione coloniale (senaticonsulti 1852 e 1854) in virtù del quale si divisero le colonie francesi in due categorie, a seconda del loro grado di civiltà e di sviluppo, dando a quelle della prima categoria una maggiore autonomia amministrativa e un regime di leggi anziché di decreti.

La terza Repubblica, spinta a trovare nell'espansione territoriale un compenso all'influenza perduta nel 1870-71, venne attuando nel decennio 1871-1880 un nuovo programma coloniale, balenato già alla mente di qualche politico, come Gambetta.

Nell'Asia ottenne la cessione delle provincie tonchinesi e il protettorato sul regno dell'Annam, e con i trattati franco-annamiti di Hué (1883-1884) si creò territorialmente l'Indocina Francese alla cui unione sostanziale, se non formale, si spianava in seguito la via. Il possesso veniva poi integrato con la selvaggia e spopolata regione del Laos, grazie al trattato col Siam del 1893 che riconosceva alla Francia il confine del medio Mekong. La dichiarazione anglo-francese del 15 gennaio 1895, meglio precisata con la convenzione dell'8 aprile 1904, fece anzi dello stesso Siam una specie di stato-cuscinetto fra l'Impero anglo-indiano e l'Indocina Francese. Tutto questo metteva la Francia in immediato contatto territoriale e in rapporti con la Cina e ne incoraggiava le mire d' espansione e d'influenza sulle tre provincie cinesi confinanti (Kwang-tung, Kwang-si e soprattutto Yün-nan). Nel 1898, durante quel vasto movimento internazionale che ebbe a centro la Cina, i Francesi, sostenitori con i Russi della politica delle sfere d'influenza, in contrapposizione all'Inghilterra e agli Stati Uniti che caldeggiavano quella della porta aperta, si fecero cedere in affitto dalla Cina, per 99 anni, la baia di Kouang-Tchëou, di fronte all'isola di Hai nan, e impegnarono il governo cinese a non alienare a terzi la stessa isola e le tre provincie limitrofe del Tonchino, a garanzia del golfo omonimo e della frontiera sino-annamita. La superba creazione dell'Indocina Francese, un dominio d'oltre 800 mila kmq., con più di 17 milioni d'abitanti, era il premio dell'attività coloniale francese nel continente asiatico, già prima della guerra mondiale.

Nell'America, la terza Repubblica si limitava all'acquisto dell'isoletta di San Bartolomeo nelle Piccole Antille, comprata dalla Svezia (1877); al regolamento dei confini della Guiana Francese con l'Olanda e col Brasile (1891 e 1900); alla definizione infine con l'Inghilterra, mediante la convenzione dell'8 aprile 1904, della questione della French Shore o Treaty shore nell'isola di Terranova, che involveva un diritto di servitù a favore della Francia ogni giorno più in contrasto con lo sviluppo demografico, economico e costituzionale di quella colonia britannica. Poco più di 91 mila kmq. di superficie con un 451 mila abitanti era quanto la Francia possedeva nel nuovo mondo allo scoppiare della guerra mondiale (1914). Nell'Oceania la Francia integrava nel 1887 il suo possesso della Nuova Caledonia; trasformava nel 1880 in piena sovranità il protettorato sulle isole Sopravento, e così nel 1898 per le isole Sottovento, dopo che l'Inghilterra (1887) aveva rinunciato ai diritti riconosciuti ad essa nel trattato del 1847; sistemava infine (convenzioni del 1887 e 1904) il condominio anglo-francese sulle Nuove Ebridi, dove la vicinanza della Nuova Caledonia e l'afflusso di coloni francesi, davano una solida base alle aspirazioni della Francia. A 24.225 kmq. di superficie con circa 90 mila ab., sommavano così i punti, più che altro d'appoggio, che la Francia possedeva in Oceania allo scoppiare della guerra mondiale (1914).

Ma il centro vivo e pulsante del risorto impero coloniale francese, fu, dalla terza Repubblica, creato nel continente africano e più precisamente, nella parte orientale la Francia doveva limitarsi ad ampliare e trasformare il possesso di Obok nella colonia della Costa francese dei Somali, porta di penetrazione nell'Impero Etiopico, e ad assicurarsi, con la conquista militare del 1895, la grande isola del Madagascar. Nell'Africa nord-occidentale, per converso, la Francia, specialmente dopo il 1880, mirava diritto al cuore del continente e alla costituzione d'un gigantesco impero arabo-negro a territorio continuo dal Mediterraneo al Golfo di Guinea puntando dai tre lati liberi dell'orizzonte: nord, ovest e sud. A settentrione, sul Mediterraneo, essa, dopo aver portato i confini dell'Algeria ai limiti del Sahara, metteva il piede in Tunisia (trattato del Bardo, 1881) e vi stabiliva definitivamente il suo protettorato (1883). A occidente, dall'Atlantico, essa estendeva sempre più verso l'interno; nel Sūdān, i suoi dominî arrivando nel 1894 a Timbuctù, centro naturale d'un impero coloniale ovest-africano, e ricollegando all'interno tutti i disgiunti possessi costieri mediante una lunga serie di convenzioni, accordi e protocolli con le potenze installate esse pure lungo quelle coste dell'Africa: il Portogallo, la Liberia, la Germania e soprattutto l'Inghilterra (accordi anglo-francesi del 10 agosto 1889, 5 agosto 1890, 21 gennaio 1895, e 14 giugno 1898). A S. estendeva sulla costa i possessi del Golfo di Guinea e li allargava verso l'interno facendo del Congo Francese in specie la grande porta di penetrazione verso il Sūdān centrale e orientale.

La dichiarazione anglo-francese del 21 marzo 1899 appianava un conflitto, che era sul punto di degenerare in guerra aperta, fra le due maggiori potenze coloniali africane a causa appunto del Sūdān orientale, separando in questo la sfera d'influenza francese da quella inglese lungo il confine tra il Uadai, riservato alla Francia, e il Dar Fur rimasto al Sūdān anglo-egiziano. La successiva dichiarazione anglo-francese di Londra dell'8 aprile 1904, relativa all'Egitto e al Marocco, ripartiva l'Africa in sostanza in due grandi imperi coloniali - il francese all'ovest e l'inglese all'est - intercalati qua e là lungo le coste dai minori possessi africani della Germania, del Portogallo, dell'Italia, della Spagna, del Belgio. In base a questa dichiarazione la Francia unificava il Nordafrica nelle sue mani stabilendo il suo protettorato sul Marocco (convenzione franco-marocchina di Fez del 30 marzo 1912) a prezzo però della cessione alla Germania d'una parte notevole del Congo Francese (convenzione franco-germanica 4 novembre 1911). Allo scoppiare della guerra mondiale la Francia possedeva in Africa un impero coloniale di oltre 9 milioni e un terzo di kmq. di superficie, un terzo circa dell'intero continente; popolato da 35 milioni e mezzo d' abitanti. Ne erano parti costitutive: l'Algeria; il Protettorato del Marocco; il Protettorato della Tunisia; il Governo generale dell'Africa Occidentale francese che comprendeva le colonie del Senegal, dell'Alto Senegal e Niger, la Guinea, la Costa d'Avorio, il Dahomey, la sfera d'influenza del Sahara e il territorio della Mauritania; il Governo generale dell'Africa equatoriale francese, comprendente le colonie del Gabon, del Medio Congo, dell'Ubanghi-Sciari, e il territorio militare del Ciad; il Governo generale del Madagascar, comprendente, oltre alla grande isola, gli antichi stabilimenti del canale di Mozambico; la colonia di Réunion e Mascarene; la colonia della Costa Francese dei Somali. In poco più d'un trentennio, fra il 1881 e il 1912, la terza Repubblica aveva ridato alla Francia un impero coloniale di circa 10 milioni e un quarto di kmq., con circa 53 milioni e mezzo di anime; un impero tropicale per eccellenza, abitato quasi esclusivamente da genti di colore (negri e gialli) e non presentanti (eccettuato il Nordafrica) che scarse possibilità d'acclimatamento della razza bianca e quindi adatto quanto mai alla natura del paese colonizzatore, altrettanto ricco di capitali quanto povero di braccia.

L'espansione coloniale della Germania. - Ma la nazione che imprimeva alla storia coloniale il maggiore slancio era, dopo il 1880, la Germania, spinta dalla crescente pressione demografica e industriale alla conquista di terre da popolare e di mercati da sfruttare, sotto gli auspici di quelle città anseatiche che vantavano tradizioni secolari in materia. Col 1879 si cominciano a fondare in Amburgo delle società per l'acquisto e lo sfruttamento di territorî nelle isole di Samoa; nel 1880 una casa di Brema acquistava allo stesso fine dei territorî nel Namaqualand (Africa meridionale) e un'altra fondava emporî commerciali nel Togo (Africa occidentale); il Lüderitz di Brema poco dopo si installa nella baia di Angra Pequeña, mentre altri commercianti amburghesi si stabiliscono al Camerun, e una prima società di colonizzazione comincia a lavorare nell'Africa orientale.

Il governo tedesco, che, sulle direttive del Bismarck, non ancora convertito alla politica coloniale, aveva fino allora perseguito una politica puramente continentale, muta rotta sotto la pressione dell'intraprendenza privata; e nel 1883 ottiene 125 milioni di marchi dal Consiglio dell'Impero per l'eventuale creazione di colonie.

A qualche anno di distanza soltanto, fra il 1884 e il 1885 (prima, durante e dopo la conferenza di Berlino detta del Congo), la Germania, mercé l'opera anche di compagnie coloniali più agili alla bisogna e meno compromettenti, aveva piantato la sua bandiera prevenendo i concorrenti, specie inglesi, sul continente africano nel Namaqualand e ad Angra Pequeña (Africa tedesca del S.O., 1884), al Togo (1884), al Camerun (1884), nell'Africa Orientale (1885); in Oceania nella Nuova Guinea nord-orientale e nell'arcipelago di Bismarck (isole della Nuova Pomerania e della Nuova Meclemburgo, 1884-85): sorgeva cosi dal nulla un dominio coloniale, che nel 1886 aveva - sulla carta almeno - un'estensione di 2.558.00m kmq.: i suoi abitanti si calcolavano a circa 8 milioni.

La concezione coloniale della Germania a quell'epoca era però ancora assai più economica che politica: l'occupazione territoriale non doveva avere altro fine che la protezione e l'espansione ulteriore dell'attività commerciale tedesca. Questa concezione coloniale non tardava però a mutare per dar luogo a quella più propriamente politica di espansione e dominazione extraeuropea, con lo sviluppo gigantesco dell'economia tedesca dentro e fuori dei confini della patria e il suo riverberarsi in quella politica mondiale, di cui - allontanato dal potere nel 1890 il principe di Bismarck - diverrà antesignano lo stesso imperatore Guglielmo II.

Nel 1898 la Germania si faceva cedere dalla Cina in affitto per 99 anni Kiao-chow e vi trasformava l'oscuro villaggio di Tsing-tao in un grande emporio tedesco dell'Estremo Oriente; nel 1899 acquistava dalla Spagna le Caroline e le Marianne (Guam eccettuata) e spartiva con gli Stati Uniti stessi e l'Inghilterra il gruppo di Samoa; nel 1911 infine, in compenso del disinteressamento dagli affari marocchini, si faceva cedere dalla Francia parte del Congo francese. Prima della guerra la Germania possedeva un dominio extra-europeo di quasi 3 milioni di kmq. di superficie (kmq. 2938,500) con una popolazione di oltre 121/2 milioni di abitanti (di essi un 30 mila soltanto bianchi); dominio di cui aveva iniziato, ai fini soprattutto della valorizzazione economica, la più sistematica forse delle colonizzazioni che la storia avesse ancora veduto.

Spagna e Portogallo. - Sulle orme delle tre maggiori potenze occidentali si ponevano, dopo il 1880, accanto al Belgio e all'Italia, la Spagna e il Portogallo. La Spagna, mentre in America e in Asia perdeva con la disgraziata guerra di Cuba del 1898 contro gli Stati Uniti le ultime colonie ancora rimastele e nell'Oceania liquidava gli antichi punti insulari d'appoggio d'un impero crollato, in Africa non solo conservava le Canarie e i possedimenti del Golfo di Guinea (territorio di Río Muni e isole Fernando Po e Annobóm), ma consolidava anche, mediante la convenzione con la Francia del 27 giugno 1900, quelli della costa del Sahara (il Río de Oro a sud del Marocco, ingrandito poi nel 1912) e nello stesso Marocco ai cosiddetti Presidi (Ceuta, Velez de la Gomera, Melilla e isole Alhucemas), ultimi avanzi dei possessi nord-africani del Cinquecento, aggiungeva - dopo le isole Chafarinas occupate già nel 1849 per sorvegliare l'attività francese in Algeria - la cosiddetta Zona spagnola del sultanato protetto del Marocco (convenzione franco-spagnola del 27 novembre 1912.)

Di gran lunga più fortunato il Portogallo, il quale, se non riusciva nel 1884 (di fronte alla recisa opposizione tedesca) ad occupare la costa del Congo e tanto meno a realizzare l'unificazione territoriale dei possessi dell'Africa occidentale e dell'Africa orientale, disgiunti per sempre dalla incuneatasi colonizzazione britannica, riusciva però tra il 1885 e il 1894 a costituirsi nell'Africa occidentale (Angola e Benguela) e nell'Africa orientale (Mozambico) due vaste e ricche colonie. La convenzione franco-portoghese del 12 maggio 1886 relativa alla Guinea Portoghese e al possedimento di Cabinda al nord della foce del Congo; quella germanico-portoghese del 30 dicembre 1886; gli accordi con lo stato libero e indipendente del Congo del 1885 e 1891 e soprattutto la convenzione anglo-portoghese dell'11 giugno 1891 fissavano la ricostituzione dell'Africa portoghese. Era un dominio d'oltre 2 milioni di kmq. (2.073.264) di superficie, fra terraferma (Guinea Portoghese, Cabinda, Angola e Mozambico) e isole (Madera, Azzorre, isole del Capo Verde, San Tommaso e Principe.)

La colonizzazione italiana. - Meno assai fortunata del Portogallo nella spartizione dell'Africa era l'Italia, la quale, spinta da necessità demografiche e a prezzo soltanto di sacrifici e di lotte, riusciva nel trentennio precedente la guerra mondiale a costituirsi in quel continente un dominio non tanto per estensione, quanto per scarsezza di popolazione e più di risorse naturali, molto modesto. L'Italia, ancora immatura per l'espansione coloniale dopo lo sforzo eroico della ricostituzione a unità, iniziava ufficialmente nel 1882 - dopo la bruciante delusione di Tunisi - la sua carriera coloniale col riscatto della baia di Assab dalla compagnia di navigazione Rubattino. Solo però con lo sbarco di truppe italiane a Massaua, allora egiziana, avvenuto il 5 febbraio 1885, l'Italia è tratta a una vera e propria politica coloniale africana. Da Massaua infatti essa andava presto allargando l'occupazione nella zona bassa fra il mare e l'altipiano, nonostante le resistenze dei capi militari tigrini e nonostante l'opposizione aperta o celata di qualche potenza europea, contrastante l'influenza italiana sulle coste eritree, la Russia cioè e soprattutto la Francia. Salito sul trono imperiale etiopico Menelik II, l'Italia, che con lui era in stretti rapporti di amicizia fino dal 1886, ne otteneva col trattato di Uccialli del 2 maggio 1889 il riconoscimento del protettorato italiano sull'Abissinia. Le armi italiane col generale Baldissera si avanzavano intanto sull'altipiano sino alla linea Mareb-Belesa-Muna; nei mesi stessi in cui l'Italia, la quale già dal 1885 aveva stretto un trattato di amicizia e di commercio col sultanato di Zanzibar, prendeva sotto il suo protettorato i sultani di Obbia (febbraio 1889) e dei Migiurtini (aprile 1889) nella Somalia settentrionale, come pure (novembre 1889) i tratti costieri interposti fra le stazioni benadiriane (Chisimaio, Brava, Merca, Mogadiscio e Uarsceich) riconosciute di pertinenza del sultanato di Zanzibar nella Somalia meridionale a norma del processo verbale anglo-franco-germanico del 9 giugno 1886; protettorato italiano sulle coste giuridicamente vacanti della Somalia, che fu completato poi dalla presa di possesso di El Adhale, ribattezzata in Itala, nel marzo 1891. Con la convenzione italo-zanzibarita del 12 agosto 1892, si concedevano in amministrazione al governo italiano le stazioni zanzibaresi del Benadir Brava, Merca, Mogadiscio e Uarsceich, con un raggio all'interno dalle 6 alle 10 miglia (Chisimaio, al sud della foce del Giuba, rimaneva invece all'Inghilterra).

I protocolli anglo-italiani del 24 marzo e 15 aprile 1891, i quali delimitavano la sfera d'influenza dell'Italia e dell'Inghilterra nell'Africa orientale, sembravano assicurare all'Italia l'impero diretto o indiretto su tutto il nord-est africano, eccezione fatta per la Costa Francese dei Somali e il Somaliland britannico sul golfo di Aden, i cui confini a mezzogiorno e a oriente con la sfera d'influenza italiana dell'epoca venivano fissati in un protocollo italo-britannico del 5 maggio 1894. La realizzazione di questo sogno coloniale si spezzava però nell'urto inevitabile con l'Abissinia; la quale non tardava a impugnare e sconfessare il trattato di Uccialli e a venire con l'Italia a lotta aperta. La guerra d'Africa in una prima campagna italo-tigrina (nel 1894-95) portava momentaneamente l'Italia all'annessione dell'intero Tigrè; ma nella susseguente più vasta campagna italo-etiopica del 1895-96 terminava con la disfatta dell'Italia nel combattimento di Adua del 1° marzo 1896.

La pace italo-etiopica di Addis Abeba del 26 ottobre 1896 annullava anche in linea di diritto il protettorato nominale dell'Italia sull'impero feudale di Etiopia; e il dominio coloniale italiano, spezzato nella sua continuità territoriale, veniva limitato ai due possedimenti del Mar Rosso (la Colonia Eritrea, costituita sotto tal nome con le dipendenze dirette e i territorî protetti dell'Italia sul Mar Rosso e sull'altipiano retrostante fin dal 1890) e dell'Oceano Indiano (protettorati della Somalia settentrionale e occupazioni e cessioni in amministrazione della meridionale). La politica di espansione coloniale, perseguita tenacemente e appassionatamente da Francesco Crispi contro le resistenze d'un Parlamento ignaro e d'un paese impreparato e ostile, veniva per il momento liquidata, passandosi a una di raccoglimento o - per dir meglio - di consolidamento dei dominî rimasti. Una serie infatti di accordi dell'Italia con l'Inghilterra (in nome dell'Egitto) prima e col Sūdān angloegiziano poi, dal 1899 al 1903; con la Francia nel 1900 e 1901; con l'Etiopia infine, dal 1897 al 1908, davano alla Colonia Eritrea i suoi confini attuali col Sūdān anglo-egiziano al nord-nord-ovest, con l'Etiopia al sud, con la Costa Francese dei Somali all'est. L'area di essa era valutata, in base a calcoli fatti sulle migliori carte, in circa 118.609 kmq. fra terraferma e isole costiere; e la popolazione, che al censimento del 1905 risultava di 278.393 ab., saliva prima della guerra mondiale a un 300.000 ab.

Sull'Oceano Indiano l'Italia, sistemati i suoi confini - sulla carta almeno - col Somaliland inglese nel 1897 e con l'Etiopia (anche qui dopo lunga contestazione) nel 1908; riscattate le stazioni zanzibarite del Benadir, dietro un compenso pecuniario di 3.636.000 franchi al sultanato di Zanzibar, e passate nello stesso anno 1905 tali stazioni dall'amministrazione delle Compagnie coloniali a quella diretta del governo, terminava col possedere un territorio valutabile sulla carta iri circa 365.400 kmq. e popolato, approssimativamente assai, da un terzo di milione all'incirca di abitanti. Una legge organica del 1908 dava un assetto definitivo anche a questi possedimenti dell'Oceano Indiano, comprendenti una colonia di diretto dominio, la Somalia italiana meridionale, Benadir, al sud, e i protettorati di Obbia, dei Migiurtini e - in mezzo a loro - del Nogal al nord; in via di progressiva organizzazione lungo la costa e 1ra questa e l'Uebi Scebeli la prima, sotto la dipendenza puramente nominale dell'Italia i secondi.

Più vasto e più importante però politicamente per la sua posizione nel centro del Mediterraneo era il possesso che l'Italia acquistava gli anni seguenti sulle coste settentrionali dell'Africa, fra l'Egitto e la Tunisia: l'antica Libia romana. le ultime due provincie (Tripolitania e Cirenaica) che ancora rimanessero di fatto alla Turchia. Nel primo decennio del Novecento la Libia veniva ogni giorno più gelosamente e arbitrariamente preclusa dalla dominante Turchia all'attività economica e civilizzatrice dell'Italia; la quale nel settembre del 1911 dichiarava guerra alla Turchia e proclamava poco dopo (5 novembre 1911) la sua sovranità su quella sponda africana. La prima pace italo-turca di Losanna del 18 ottobre 1912 assicurava la Libia all'Italia, dandole pure in pegno per l'esecuzione da parte turca degli accordi pattuiti le isole di Rodi e del Dodecaneso nell'Egeo meridionale. Nell'intervallo fra la pace di Addis Abeba del 1896 e la conquista libica del 1911-12 una convenzione stipulata a Tien-tsin con la Cina nel 1902 dava pure all'Italia in concessione perpetua una piccola area (la concessione di Tien-tsin) sulle rive del Pei ho; cosicché allo scoppio della guerra mondiale l'Italia possedeva (oltre a questo piede a terra per i suoi connazionali in Cina e al pegno territoriale di Rodi e isole del Dodecaneso) un dominio africano valutabile in circa 2 milioni di kmq. di superficie (per oltre tre quarti però desertico o improduttivo) con oltre un milione e mezzo d'abitanti.

Belgio. - Frattanto il Belgio otteneva di colpo nello stesso continente africano, per iniziativa personale del suo monarca, una delle più vaste e promettenti colonie tropicali del mondo, il Congo Belga. Rivelato, può dirsi, al mondo civile dallo Stanley nel 1876 e occupato e organizzato sommariamente da un Comitato di studî dell'alto Congo, trasformatosi ben presto in Associazione internazionale del Congo presieduta dal re del Belgio Leopoldo II, il bacino centrale del Congo diventava lo Stato libero e indipendente del Congo (v. congo). Di questo Leopoldo II assumeva nel 1885 la corona come sovrano assoluto. Era uno stato neutrale di oltre due milioni e un terzo di kmq. (2.385.000) di superficie, compreso fra il Congo Francese al nord e l'Angola al sud, le allora sfere di influenza tedesca e inglese dell'Africa orientale all'est e l'Atlantico a ovest, su cui non aveva praticamente che le foci del Congo, cioè lo sbocco della sua via meravigliosa di penetrazione naturale, una volta girato (il che avveniva ben presto con la ferrovia dell'Alto Congo fra Matadi e Léopoldville) l'ostacolo naturale delle grandi cascate terminali del fiume.

I vantaggi assicurati dallo sfruttamento soprattutto minerario di quel territorio smussavano l'ostilità che nei primi tempi la popolazione belga aveva dimostrato per l'impresa congolese; e si poteva così giungere al trattato d'annessione al Belgio dello Stato Libero del Congo (28 novembre 1907).

Olanda. - Più in apparenza che in sostanza appartata dal grande movimento coloniale dell'Occidente europeo nel sec. XIX era rimasta l'Olanda, la quale - delimitata una volta per sempre nel 1824 con l'Inghilterra la sua sfera d'influenza nell'Asia meridionale e nell'Australasia e liquidate nel 1874 a favore pure dell'Inghilterra le fattorie commerciali che ancora le rimanevano sulle coste occidentali dell'Africa - trasformava di nominali in effettivi i suoi possessi secolari delle grandi isole della Sonda, Sumatra in specie, e promoveva largamente la valorizzazione agricola delle Indie orientali, soprattutto di Giava. Con lo sviluppo della produzione, col graduale abbandono fra il 1850 e il 1874 degli antichi sistemi di monopolio della metropoli, con l'adozione d'una politica più liberale dopo il passaggio delle colonie dall'autorità assoluta della Corona a quella del Parlamento olandese (1854), con l'impiego d'un metodo di governo indiretto della metropoli, col passaggio infine graduale dal primitivo comunismo agrario alla proprietà privata del suolo, le Indie orientali potevano nei secoli XIX-XX svilupparsi e fiorire più degli altri possedimenti coloniali dell'Olanda (Surinam o Guiana Olandese, Curaçao e isolotti vicini nelle Piccole Antille, Nuova Guinea Olandese): Giava in specie, la quale, mentre non rappresentava con la vicina Madura che 131.441 kmq. su un complesso coloniale olandese di oltre 2 milioni (2.045,647), conteneva al 1900 un 26 milioni di abitanti (da 3 che erano un secolo prima) su un totale complessivo di 38 milioni di sudditi coloniali che l'Olanda contava a quell'epoca.

L'espansione russa nell'Asia. - Continuava intanto la marcia russa oltre gli Urali, nell'Asia settentrionale e centrale fino al mar del Giappone a oriente, alle frontiere della Persia e quasi a quelle dell'India a mezzogiorno. Ma essa per la continuità territoriale dell'immenso impero eurasiatico e l'affinità geografica fra territorî metropolitani e coloniali, per gli stessi metodi politico-amministrativi e più economico-fondiarî adottati, rivestiva i caratteri della colonizzazione interna più che dell'espansione coloniale nel senso storico-geografico dell'espressione.

Le origini prime dell'occupazione della Siberia rimontano agli ultimi decennî del sec. XVI, quando gli Strogonov, in virtù di concessioni fondiarie ottenute dallo zar nel 1558, conquistavano oltre gli Urali la capitale del principale khān tartaro della Siberia occidentale denominata Sihir o Siber (donde il nome di Siberia) alla confluenza del Tobol con l'Irtyš, e (fatto omaggio di quel khanato allo zar Ivan IV il Terribile) costruivano sulle rovine della piccola capitale tartara la prima città russa della Siberia meridionale, Tobolsk. L'avanzata russa progrediva rapidamente verso oriente nella vasta regione. Nel 1636 si giungeva al fiume Jenissei, col 1637 alla Lena, nel 1639 al mare di Ochotsk, nel 1648 alla penisola del Camciatca; mentre a mezzogiorno già nel 1651 i Russi si stabilivano sui confini della Manciuria nel bacino del fiume Amur, esplorato fino al mare sino dal 1643. La dinastia mancese della Cina li costringeva però (trattato di Nerčinsk del 1688) a ritirarsi dal bacino medio e inferiore dell'Amur, che veniva riacquistato dalla Russia solo due secoli dopo nel 1858. Il governo russo non tardava a far sue queste iniziative di avventurieri e mercanti promovendo i primi nuclei demografici ufficialmente riconosciuti del paese attraverso la colonizzazione di tipo militare, di tipo agrario e infine con la deportazione.

Nel sec. XIX la guerra di Crimea e il trattato di Parigi del 1856, con lo sbarrare alla Russia le vie di Costantinopoli, la spingevano vieppiù verso oriente nell'Asia; dove essa, arrivata da tempo al Pacifico, aveva gettato le sue braccia smisurate oltre questo stesso oceano, nel territorio nordamericano dell'Alasca, il quale veniva in seguito (nel 1867) ceduto agli Stati Uniti.

Ma soprattutto con la costruzione e apertura graduale della grandiosa ferrovia transiberiana, decretata nel 1891 e ultimata nel 1905, la Siberia entra nel periodo di sviluppo demografico ed economico intensivo che ormai la distingue: popolamento intensivo della Siberia reso possibile dalle condizioni economico-demografiche interne della Russia e con esso sviluppo economico straordinario d'un paese rivelatosi nelle terre nere del mezzogiorno di fertilità prodigiosa e in quelle montuose dell'oriente di ricchezza mineraria straordinaria. Alla vigilia della guerra mondiale del 1914 la Siberia contava una popolazione valutata in 10 milioni circa di abitanti su un'area di kmq. 1.393.870.

Le speranze e le ipoteche politiche della Russia nell'Estremo Oriente erano andate però nel frattempo molto più lungi. La Russia tra il secolo XIX e il XX, nella paralisi politica progressiva dell'impero cinese, aveva occupato di fatto la Manciuria settentrionale, ottenuto in affitto novantennale dalla Cina Port-Arthur (penisola di Liao-tung) all'imboccatura del golfo di Chih-li nel Mar Giallo, steso già le sue reti sulla Corea; quando la riscossa del Giappone arrestava la Russia su quella via con la guerra del 1904-1905 (pace di Portsmouth del 1905).

Privata di Port-Arthur e fermata sulla via della Manciuria meridiona]e sboccante nei mari caldi dell'Asia, la Russia però riprendeva ben presto con più lena l'opera sua di penetrazione economica e politica nella Mongolia, la cui parte settentrionale non tardava a entrare nella sfera d'influenza russa. Né il movimento d'espansione coloniale si limitava nell'ultimo secolo alla Siberia e alle mire sulla Mongolia, ma guadagnava ogni giorno più terreno nella Caucasia e contermine Armenia fra il Mar Nero e il Caspio, territorî con le cui popolazioni i Russi erano venuti a contatto già sul declinare del sec. XVIII in seguito alle guerre con la Turchia; e ancor più nell'Asia centrale, dalle steppe meridionali della Siberia all'altipiano iranico e dal Caspio al Pamir.

Grazie cosi all'annessione nel 1870 del Turkestān occidentale con Taškent, allo stabilimento del protettorato russo nel 1873 sui khanati di Chiva e di Buchara, all'occupazione infine della desertica regione tra il Caspio e l'Aral, delle steppe contigue dei Turcomanni e nel 1889 dell'oasi di Merv, il dominio russo era venuto ad estendersi al cadere dell'Ottocento su 3 milioni e 3/4, circa di kmq. di superficie con una popolazione (censimento 1897) di circa 10 milioni d'abitanti, saliti a circa 143/4 allo scoppio della guerra mondiale.

Dall'Asia centrale russa che nella ferrovia transcaspiana (1880-1899) trovava il suo grande strumento di valorizzazione, e dai khanati protetti, la Russia spingeva anzi anche più in là le sue mire, verso cioè il cinese Turkestān orientale e il Tibet stesso a SE., verso l'Afghānistān e la Persia a SO.; doppia minaccia all'India e al Golfo Persico che trovava però pronta la controffensiva coloniale inglese. Fermata sulla via dell'Afghānistān dall'Inghilterra, la Russia riusciva ad avanzare ogni giorno più sulla via della Persia. L'accordo generale anglo-russo del 31 agosto 1907, conciliante per il momento tutti gli antagonismi anglo-russi nell'Asia (questioni del Tibet, dell'Afghānistān, della Persia), divideva la Persia in tre parti: una zona d' influenza russa a NO. riattaccantesi con la Transcaspiana e con la Caucasia lungo il Caspio; una zona d'influenza inglese a SE. riattaccantesi col territorio inglese del Belūcistān e costeggiante il Golfo Persico; una zona neutra infine nel centro su cui solamente si manteneva in sostanza, completa non solo di diritto ma anche di fatto, la sovranità territoriale persiana.

La colonizzazione gialla (Giappone). - L'espansione russa nell'Asia portava la colonizzazione bianca in urto con la colonizzazione gialla, che s'inaugurava tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento sotto gli auspici del Giappone, che, trasformato in un grande stato moderno, compresso dall'aumento della popolazione e spinto dalla sua stessa costituzione insulare, cercava di aprirsi oltre il mare, nella Corea, un campo d'espansione economica primi ancora che politico-territoriale. Il non disinteressato intervento (a favore apparentemente della Cina) delle potenze coloniali concorrenti (Russia in primo luogo) lo defrauda della vittoria nella guerra cino-giapponese del 1894-95; ma il Giappone dieci anni dopo prendeva la sua rivincita sulla Russia (guerra russo-giapponese 1904-1905), aggiungendo all'isola di Formosa (unico lasciatogli degli acquisti fatti sulla Cina con la pace di Shimonoseki del 1895) la parte meridionale dell'isola di Sachalin, la concessione di Port-Arthur e connessa penisola del Liao-tung. Ben più di ciò, la pace russo-giapponese di Portsmouth (5 settembre 1905), segnando la rinuncia della Russia a favore del Giappone a ogni pretesa di protettorato sulla Corea, obiettivo reale della guerra, dischiudeva al Giappone la vasta penisola, che su un'area di oltre 220.000 kmq. (non molto meno cioè di due terzi dello stesso Giappone) albergava una sola decina di milioni di abitanti, mentre con le sue risorse naturali avrebbe potuto alimentarne parecchie. I Giapponesi obbligavano nel 1907 l'imperatore coreano Hyeng ad abdicare e finivano tre anni dopo (in seguito all'uccisione per mano coreana del principe Ito, il maggiore statista del Giappone contemporaneo) con l'annettersi la Corea. Già prima della guerra mondiale del 1914-18 il Giappone, con un'area di 382.415 kmq. e oltre 52 milioni di ab., possedeva sul continente asiatico e nel Pacifico un vero e proprio dominio coloniale di oltre 291 mila kmq. di superficie e più di 19 milioni di abitanti, costituito dalle parti seguenti: Formosa con le annesse Hōko guntō (isolette Pescadores); Karafuto (Sachalin meridionale); Kuan-tung (Liao-tung meridionale); Bonin e Vulcano infine, isolette del Pacifico settentrionale.

L'espansione coloniale degli Stati Uniti. - Alla discesa nell'arringo coloniale della razza gialla si affiancava, tra la fine dell'Ottocento e gl'inizi del Novecento, la nascita coloniale d'una potenza bianca, gli Stati Uniti d'America. I quali, dopo avere con la dottrina di Monroe sbarrato le Americhe a ulteriori interventi europei, reclamavano praticamente, con un capovolgimento della stessa dottrina di Monroe, le Americhe tutte per gli Stati Uniti d'America, sotto colore di presidiarle dalle mire europee, e si facevano essi stessi colonizzatori di terre americane ed extra-americane nella ricerca di materie prime da accaparrare, nella esuberanza di prodotti nazionali da smerciare, di capitali soprattutto da collocare. L'imperialismo politico-territoriale americano, di cui nell'acquisto dell'Alasca dalla Russia nel 1867 il mondo non poteva ancora prevedere l'inizio, appariva ormai chiaramente con la guerra di Cuba del 1898. L'intervento armato in favore dell'isola, insorta ancora una volta contro la Spagna, e la rapida guerra vittoriosa contro di questa nelle acque di Cuba e delle Filippine, terminava con la rinuncia della Spagna non solo alle isole di Cuba e di Portorico, ma anche delle Filippine. Cuba conseguiva allora, almeno di nome, la sua indipendenza; mentre l'isola di Portorico veniva annessa agli Stati Uniti come puro e semplice possedimento. Altrettanto avveniva delle Filippine e dell'isoletta di Guam nel gruppo micronesiano delle Marianne, ambita base navale sulla via dell'Estremo Oriente.

Lo stesso anno 1898 la bandiera americana veniva piantata a Honolulu in quell'arcipelago delle isole Sandwich o Hawaii nel Pacifico dove gli Stati Uniti erano intervenuti alcuni anni prima e, deposta nel 1893 la regina indigena, avevano creato un'effimera repubblica protetta, preludio della loro dominazione coloniale. L'anno dopo, nel novembre 1899, il gruppo di Samoa, pure nel Pacifico, dove si era stabilito col 1899 in linea di fatto una specie di condominio anglo-tedesco-americano, veniva con una convenzione spartito fra le tre potenze interessate.

L'apertura americana del canale di Panamá nel 1914 attraverso alla cosiddetta "Zona del Canale", ceduta nel 1904 dalla Repubblica di Panamá agli Stati Uniti, completava alla vigilia della guerra mondiale la creazione rapidissima d'un dominio coloniale estendentesi senza l'Alasca su kmq. 325.963 (con l'Alasca 1.856.280) con una popolazione (pure senza l'Alasca, abitata del resto da un 55 mila ab. soltanto) di 12 milioni e 343 mila ab. Le Isole Vergini nelle Piccole Antille (Santa Croce, San Tommaso, San Giovanni) di 342 kmq. di superficie con 26.000 ab., comperate nel 1917 dalla Danimarca (che le possedeva sino dal Seicento), completavano durante la guerra mondiale il controllo nord-americano sul Golfo del Messico.

L'assetto coloniale del mondo dopo la guerra. - La politica coloniale era stata un fattore troppo importante della guerra mondiale, perché la carta coloniale del mondo non dovesse essere da questa più o meno profondamente mutata. La vittoria della Germania avrebbe capovolto le posizioni coloniali preesistenti; la sua sconfitta non fece che rafforzare ed estendere ulteriormente i due imperi mondiali preesistenti alla guerra: l'inglese e il francese. La Germania veniva privata dal trattato di Versailles di tutte le sue colonie e anche costretta a rinunciare a tutti i suoi diritti e privilegi in ogni parte del mondo: l'impero ottomano, alleato di essa, veniva privato di quasi tutti i territorî asiatici abitati in maggioranza da elementi etnici non ottomani. Il crollo germanico per di più era stato preceduto dal collasso russo e dalla conferenza della pace rimaneva quindi assente quella Russia che in una con l'Inghilterra era la più interessata alle questioni dell'Oriente e del Medio Oriente. Arbitre praticamente del destino coloniale del mondo rimanevano pertanto due sole delle tre grandi potenze coloniali dell'Intesa vincitrice, l'Inghilterra e la Francia. Inghilterra e Francia particolarmente, Giappone in via secondaria, erano perciò i primi e massimi beneficiarî della decadenza coloniale tedesca e dell'ulteriore smembramento dell'impero ottomano consacrato nel trattato di pace di Losanna del 1923 con la Turchia. Le colonie tolte alla Germania, come i territorî non ottomani staccati dalla Turchia asiatica, non venivano peraltro ceduti in sovranità alle potenze vincitrici individualmente o collettivamente, ma ceduti a esse perché li affidassero (attraverso alla Società delle nazioni) alla tutela politico-amministrativa di potenze le quali le rappresentassero internazionalmente e ne rispondessero quali mandatarie davanti alla Società delle nazioni, fino a che i più evoluti almeno di tali territorî e più espressamente i territorî non ottomani staccati dall'impero ottomano non fossero in grado di governarsi da sé. Era questa l'origine storica dei mandati coloniali o internazionali (v. mandato), nuova figura giuridica non rientrante né catalogabile in alcun'altra categoria di possedimenti coloniali.

Mentre la elaborazione giuridica definitiva di tali mandati veniva rimessa alla Società delle nazioni e più ancora alla prassi stessa del nuovo istituto coloniale, il Consiglio supremo delle potenze alleate e associate, che si era riservato l'attribuzione dei mandati, attribuiva all'Inghilterra come mandati di tipo A gli antichi territorî turchi della Mesopotamia e della Palestina con la Transgiordania; come mandati di tipo B parte del Togo già tedesco, parte del Camerun pure tedesco e la massima parte dell'antica Africa Orientale Tedesca. All'impero britannico del pari, se non proprio direttamente ed esclusivamente alla Gran Bretagna, venivano assegnati come mandati di tipo C (cioè, dal punto di vista pratico per lo meno, in nulla dissimili da vere e proprie colonie) l'antica Africa Tedesca del SO., assegnata all'Unione Sudafricana; la parte già tedesca della Nuova Guinea assegnata alla Commonwealth di Australia; la parte già tedesca dell'arcipelago delle Samoa, assegnata alla Nuova Zelanda; l'isolotto fosfatifero di Nauru nel Pacifico equatoriale, assegnato all'Impero britannico e sottoposto all'amministrazione dell'Australia per delega dei tre governi inglese, australiano e neozelandese. Negli anni successivi il mandato della Mesopotamia si trasformava nell'attuale regno del Irāq con capitale Baghdād (pur senza che l'Inghilterra per il momento ne abbandonasse la tutela affidatale col mandato), mentre la Palestina veniva divisa in due parti politicamente e giuridicamente distinte (la Palestina, soggetta alle clausole del mandato contemplanti la costituzione in essa d'una sede nazionale ebraica, e la Transgiordania, affidata, per quanto sotto mandato britannico, a un emiro e sottratta all'impero di tali clausole). La stessa Inghilterra poi, la quale durante la guerra mondiale aveva trasformato l'occupazione di fatto dell'Egitto in un protettorato di diritto, si vedeva costretta nel dopoguerra a rinunciare all'Egitto con l'ulteriore trasformazione di esso (1922) nell'attuale regno d'Egitto (occupato però sempre militarmente dall'Inghilterra a difesa del Canale di Suez). In compenso infine dei tanti acquisti fatti l'Inghilterra rinunciava a favore dell'Italia, che a norma del trattato d'alleanza ne aveva pieno diritto, al Giubaland (attuale Oltregiuba italiano di circa 90 mila kmq. con un 75 mila ab. circa). Nonostante tutto questo, a ogni modo l'impero britannico nel suo complesso rimaneva arricchito, sia pure sotto forma di mandati anziché di colonie, di altri due milioni e più di kmq. di superficie con un sette milioni all'incirca di abitanti; mentre aveva liquidato con la vittoria sopra la Germania, accompagnata dal collasso russo, situazioni internazionali fino allora pericolose o risolto gravi quanto annosi problemi: trasformata la ferrovia tedesca di Baghdād, come già mezzo secolo prima il canale di Suez, da strumento d'una potenza coloniale rivale in ulteriore strumento politico ed economico della potenza britannica; raggiunta politicamente, se non giuridicamente, la continuità territoriale Cairo-Capo, spina dorsale dell'Africa inglese; sostituita alla dominazione ottomana l'influenza britannica sull'Arabia già turca con la costituzione postbellica dell'indipendente regno del Ḥigiāz (con capitale Mecca), poi conquistato dal sultano del Neād; avvolta col nuovo trattato anglo-persiano di Teherān del 9 agosto 1919 nelle spire dell'esclusiva influenza britannica la Persia intera, ripartita prima della guerra per l'accordo anglo-russo del 1907 tra l'influenza russa al NO. e quella inglese al SE.; immesse infine nella Società delle nazioni come membri originarî - oltre all'Impero dell'India - le nuove Inghilterre sorte nell'ultimo secolo oltre gli oceani (il Canada, il Sud-Africa, l'Australia, la Nuova Zelanda).

Minori territorialmente ma non politicamente i vantaggi coloniali conseguiti con la guerra dalla Francia, alla quale venivano attribuiti come mandato di tipo A la Siria e come mandati di tipo B la parte maggiore del Togo già tedesco e quasi tutto il Camerun (antico e nuovo) già tedesco. Data cosi una base anche territoriale all'antica influenza economico-culturale della Francia nel Levante; ingrandita e irrobustita con la maggiore continuità territoriale l'Africa Occidentale Francese e ricostituita in dimensioni più di prima superbe quell'Africa Equatoriale Francese, che il forzato accordo franco-germanico del 1911 aveva mutilato, la Francia si vedeva (per il momento almeno) non solo garantita in quell'agone coloniale, in cui, se sconfitta, sarebbe stata la vittima maggiore delle aspirazioni coloniali tedesche, ma rafforzata territorialmente, politicamente ed economicamente in tutta la sua compagine coloniale.

Terzo fra i massimi beneficiarî coloniali della guerra era il Giappone, non tanto per i piccoli acquisti territoriali diretti o indiretti conseguiti (sostituzione momentanea alla Germania nell'affitto di Kiao-chow, rivendicato però e riscattato entro il successivo decennio dalla Cina, e mandati sulle isolette e arcipelaghi già tedeschi del Pacifico settentrionale: Marshall; Caroline; Palau; Marianne o Isole dei Ladroni), quanto per il suo insediamento nell'insidioso dedalo insulare della Micronesia, fra i due possessi hawaiano e filippino dei rivali Stati Uniti d'America, e per l'affermazione recisa dell'influenza economica e della stessa egemonia politica giapponese su tutta l'Asia orientale; una volta indebolita la potenza russa all'estremo nord e cancellata quella tedesca nel centro del grande arco di terra, d'acqua e d'isole, chiuso esternamente dal Giappone e isole e arcipelaghi dipendenti, che va dal mare di Ochotsk a quello della Cina meridionale. Mutamenti coloniali di minore o trascurabile importanza erano invece l'allargamento del Congo Belga, grazie al mandato di tipo B attribuito al Belgio sui territorî già tedeschi di Ruanda e Urundi nell'Africa centrale (una delle regioni più popolate del continente); l'ingrandimento della Somalia Italiana con la cessione già ricordata dell'Oltregiuba; quello della colonia portoghese di Mozambico e delle colonie italiane della Libia, per la rettifica e sistemazione delle frontiere relative.

Se l'assetto politico-territoriale del mondo coloniale veniva dalla guerra, più che mutato radicalmente, ritoccato in modo da accentuare anziché attenuare le stridenti disuguaglianze prebelliche, riducendolo ancor più a un feudo anglo-francese, altrettanto poteva dirsi in sostanza dell'assetto giuridico di esso nonostante la creazione, in linea di principio rivoluzionaria, del nuovo istituto del mandato coloniale e la revisione del diritto coloniale internazionale africano nelle tre convenzioni di Saint-Germain-en-Laye del 10 settembre 1919 relative al regime degli alcoolici, al regime delle armi e munizioni e soprattutto al regime economico-giuridico del bacino convenzionale del Congo e alla schiavitù, stabiliti rispettivamente nell'Atto generale della Conferenza del Congo del 26 febbraio 1885 e in quello della Conferenza antischiavista di Bruxelles del 2 luglio 1890: revisione estensiva della protezione degl'indigeni delle colonie tropicali nel campo giuridico; ma revisione restrittiva nel campo economico a favore delle potenze sovrane dei territorî dell'Africa equatoriale, su cui con l'atto di Berlino predetto del 1885 era passato un soffio d'internazionalizzazione economica. Il mondo coloniale dopo la guerra era così più di prima - nonostante i postulati etici giuridici economici della nuova coscienza coloniale (libertà degl'indigeni; solidarietà internazionale; porta economica aperta a tutte le nazioni; internazionalizzazione delle grandi vie transcontinentali e intercontinentali di comunicazione ferroviaria nell'Asia e più nell'Africa; neutralizzazione militare e disarmo delle colonie; assistenza intercoloniale; riforma della politica indigena e così via), durante la guerra validamente riaffermati dai popoli col pensiero e col sangue e da qualcuno degli stessi governi più o meno riconosciuti - un feudo anglo-francese dal punto di vista territoriale (nel 1930 un impero britannico - senza il regno della Gran Bretagna e Irlanda settentrionale - di quasi 34 milioni di kmq. di superficie e 428 milioni di abitanti e un impero francese, pure senza la madrepatria, di oltre 10 milioni e 656 mila kmq. di superficie con oltre 57 milioni e mezzo di abitanti, cioè fra tutti e due circa 44 milioni e mezzo di kmq. con 485 milioni di abitanti su un totale coloniale di 72 milioni di kmq. e 630 milioni di abitanti, di cui però più di 15 milioni e mezzo di kmq. e quasi 31 di abitanti appartenenti alla Russia asiatica) e un campo ancora più o meno esclusivamente nazionale di sfruttamento economico delle singole potenze coloniali per quanto riguarda terre e miniere, lavoro e capitali, comtnerci e industrie.

La politica coloniale dell'Italia nel dopo guerra. - Dalle grandi potenze vittoriose l'Italia non otteneva colonialmente nei trattati di pace alcuna sensibile ricompensa ai duri sacrifici che la guerra le aveva imposti. Essa non riusciva a ottenere dai suoi alleati del giorno innanzi più che la rettifica dei confini libici (accordo italo-inglese Milner-Scialoia del 1920, riconoscente esplicitamente l'oasi di Giarabub entro i confini orientali della Cirenaica; scambio di note franco-italiane del 12 settembre 1919 relative alla cessione delle oasi di El Barakat e di Fehout e della regione comprendente le strade carovaniere fra Gat, Gadames e Tummo ai confini sud-occidentali della Tripolitania), e la cessione inglese dell'Oltregiuba (15 luglio 1924). Non poteva infatti essere considerato alla stregua d'un compenso coloniale il riconoscimento esplicito della sovranità italiana su Rodi, il Dodecaneso e Castelrosso, avutosi nel trattato di pace di Losanna del 24 luglio 1923 che metteva fine anche in Oriente alla guerra mondiale: trattandosi in questo caso d'una questione ben diversa, che nulla aveva a che vedere con le spartizioni coloniali avvenute in seguito e per effetto della guerra. Tuttavia il periodo post-bellico rappresenta per l'Italia un periodo quanto mai interessante, cadendo in esso anzitutto la sistemazione territoriale e politica del dominio coloniale preesistente alla guerra. Se invero nella colonia Eritrea, già prima della guerra definita nei suoi confini e occupata effettivamente, la situazione italiana rimaneva da tale punto di vista invariata; essa mutava profondamente nelle altre colonie, nei possedimenti cioè dell'Egeo meridionale, nella Somalia e soprattutto nella Libia. In Rodi, Dodecaneso e Castelrosso la sovranità ormai incontrovertibile dell'Italia permetteva non solo di procedere a un assestamento politico-amministrativo definitivo, ma di proseguire con maggiore lena e sicurezza a tutta quell'opera di disseppellimento archeologico, di restauro dei monumenti medievali, di rinnovamento edilizio, di sviluppo economico (strade e porti, ospedali e scuole, coltivazioni agrarie e industrie connesse, telegrafi e telefoni, linee dirette di navigazione e così via) che mutava il sonnolento volto orientale di tali isole in quello desto e alacre di rinnovati emporî commerciali italiani nei mari del Levante, già frequentati dalle galere venete e genovesi.

Nella Somalia, mentre si procedeva all'occupazione e riordinamento dell'Oltregiuba, si trasformava in piena sovranità il protettorato dell'Italia sui sultanati indigeni settentrionali di Obbia e dei Migiurtini occupandone militarmente negli anni 1925-26 (insieme con l'interposta regione del Nogal) i territorî, e s'iniziava risolutamente, dopo i primi più o meno falliti tentativi prebellici, la colonizzazione tropicale italiana attraverso i grandi lavori di disboscamento, bonifica, valorizzazione agraria nella valle del Giuba, e soprattutto dello Uebi Scebeli. In quest'ultima ciò avveniva per opera diretta del governo coloniale (comprensorio di Genale) e più ancora d'una società privata (la S. A. I. S., o Società agricola italo-somala) promossa e personalmente guidata da un principe colonizzatore, il duca degli Abruzzi Luigi di Savoia. Nella Libia infine e soprattutto l'occupazione politica italiana da nominale diventava effettiva, mentre la zona costiera cominciava ad assumere i lineamenti d'una colonia agraria di popolamento misto italo-indigeno. Se infatti, già prima della guerra mondiale, la Tripolitania per lo meno (non così la Cirenaica dal dominio turco passata di fatto in quello senussita, tranne le principali città della costa) era caduta, eccettuata la Sirtica, sotto il controllo dell'Italia, le cui armi si erano spinte già vittoriosamente nelle oasi di Gadames, di Ghat e dello stesso Fezzan; durante la guerra essa pure era andata perduta di fronte all'insurrezione generale dell'elemento indigeno (l'arabo in particolare) sorretto dagli aiuti turco-tedeschi: Tripoli e Homs sulla costa della Tripolitania erano, con Bengasi e Derna su quella della Cirenaica, i soli possessi effettivi dell'Italia nel Nordafrica alla fine della guerra mondiale. Dopo di questa, falliva miseramente attraverso ad alterne vicende di velleità conquistatrici e di rinunce politico-territoriali, di compromessi forzati e di accordi violati, l'esperienza della conquista pacifica e della politica liberale, che mirava a instaurare la sovranità italiana effettiva sulla Libia col semplice consenso spontaneo o quanto meno l'acquiescenza effettiva delle popolazioni e ad amministrarla - se non addirittura governarla - mercé l'opera dei loro capi naturali o rappresentanti elettivi, diretti, assistiti e controllati dall'elemento italiano (accordo di Regima del 1920 con la Senussia e concessione nel 1919 dei cosiddetti "statuti libici" alla Tripolitania e Cirenaica). Veniva così imponendosi come necessità quella politica della forza, cui il risveglio nazionale della metropoli - dopo l'eclissi degli spiriti succeduta allo sforzo eroico della guerra - schiudeva la via. La riconquista dal mare di Misurata Marina nel 26 gennaio 1922, che doveva essere una semplice operazione locale, diventava pertanto l'inizio d'una travolgeme conquista territoriale. Respinta dall'Italia la richiesta araba d'un emirato libico, praticamente indipendente, e riprese dopo breve tregua le armi, si rioccupava nella primavera del 1922 la Gefara occidentale e s' iniziava subito dopo l'avanzata verso l'altipiano, occupandosi, nel giugno dello stesso anno, il Gebel Nefusa, nell'ottobre il Gebel di Jefren, nel novembre il Garian; nel gennaio e febbraio del 1923 non solo si procedeva alla rioccupazione del Tarhuna, ma anche a quella del Sahel di Homs e di Zliten e si rientrava vittoriosamente nella stessa Misurata città, sulla costa mediana della Libia; nell'inverno del 1923-24 si estendevano le occupazioni dell'altipiano e si facevano le prime irruzioni nella Ghibla retrostante, arrivando nella primavera alla conquista della stessa Mizda, mentre ai confini occidentali si rioccupavano le oasi di Sinauen e della stessa Gadames; infine nel novembre del 1924 la stessa costa sirtica, con Sirte, era rioccupata. In tre soli anni la Tripolitania settentrionale era riconquistata e poteva in essa iniziarsi la colonizzazione agraria sulle terre, in particolare delle oasi, tolte alle popolazioni ribelli, e su quelle ai margini delle oasi riscattate sul deserto.

Nel frattempo, denunciati nel 1923 gl'inutili accordi con la Senussia, riardeva in Cirenaica la guerriglia contro di essa fino a che l'8 febbraio 1926 le truppe italiane entravano nella stessa oasi orientale di Giarabub, riconfermata all'Italia nell'accordo segreto italo-egiziano del Cairo del 6 dicembre 1925, ma centro ancora principale della potente setta musulmana e porta del contrabbando d'armi, munizioni e denaro dall'Egitto. Nel 1928 truppe delle due colonie allora ancora disgiunte della Tripolitania e della Cirenaica convergevano sull'interno sirtico, operando il congiungimento a Merduna e quindi procedendo all'occupazione di Nofilia e di Agheila; e nel febbraio successivo le colonne della Tripolitania raggiungevano le oasi di Giofra (Socna) e di Zella, quelle della Cirenaica, le oasi di Augila e Gialo, con tali operazioni, dette "del 29° parallelo", completandosi la conquista del delicato scacchiere sirtico dal mare alle estreme oasi interne. Col 1929 le due colonie della Tripolitania e della Cirenaica venivano anche politicamente, com'erano già di fatto militarmente, unificate sotto il governo del maresciallo d'Italia Pietro Badoglio e, prima che l'anno si chiudesse, le operazioni militari per la riconquista del Fezzan erano già cominciate: Brach e Sebha nel dicembre 1929; Murzuk stessa nel gennaio 1930 erano occupate. Nel febbraio 1930 anche l'estrema oasi sud-occidentale di Gat veniva rioccupata, assicurando il controllo politico-militare italiano dell'impervio triangolo desertico Gadames-Gat-Murzuk e permettendo entro il 1930 l'estensione della sovranità italiana effettiva sino all'oasi di Tummo, nella zona del non ancora definito confine con la regione francese del Tibesti.

Un anno dopo, il 24 gennaio 1931, la bandiera italiana, issata a El Tag nel cuore dell'oasi di Cufra, copriva anche quest'ultimo recesso della Senussia, assicurandosi così il controllo politicomilitare italiano sulle regioni estreme della Cirenaica, confinanti con l'Egitto a oriente, col Sūdān anglo-egiziano a mezzogiorno. In soli nove anni (1922-1931) l'intera Libia, dopo il gran deserto di Sahara la più inospite impervia e misteriosa regione dell'intero continente africano, era effettivamente occupata dalla Tunisia all'Egitto, dalle rive del Mediterraneo alle porte del Sūdān centrale e orientale.

E intanto, si è fatto non poco cammino nello studio e nella conoscenza delle condizioni naturali e storiche delle colonie italiane; si è acquistata una preziosa esperienza di vita e azione coloniale; si è creato un piccolo ma sempre più addestrato stato maggiore di funzionarî, di soldati, di colonizzatori; si è imparato a condurre col minimo sforzo e il massimo risultato una guerra coloniale; si sono instaurate laggiù molte condizioni di futuro sviluppo economico e sociale, acque potabili e irrigatorie, strade camionabili, tronchi ferroviarî, lavori portuali, una bella e grande città come Tripoli, e così via. Nella nuova posizione politica ed economico-sociale in cui è venuta a trovarsi l'Italia, dopo e come effetto della grande vittoria conseguita in una guerra mondiale, nel clima ardente del fascismo e del suo grande creatore e animatore Benito Mussolini, anche l'incipiente coscienza coloniale italiana dell'anteguerra si è andata rapidamente sviluppando; e alla decisa volontà di progresso e sviluppo coloniale del governo corrisponde così ogni giorno più l'interesse crescente dell'opinione pubblica per le questioni coloniali in genere e per le colonie italiane in ispecie. Capitalisti e agricoltori grandi e piccoli vi hanno portato denari e lavoro dall'Italia, altri dalla Tunisia. Giornali e riviste hanno fatto largo posto agli argomenti coloniali. Per alcuni anni una "giornata coloniale", il 21 aprile, ha richiamato tutti gl'Italiani ai problemi delle colonie. Insomma, una coscienza coloniale in formazione, che considera quest'attività come attività normale della nazione e dello stato, come uno dei modi di vita delle nazioni e degli stati moderni, uno dei mezzi per risolvere il grave problema demografico italiano, in questa fase storica in cui l'emigrazione in paesi stranieri o è impedita o è subito esposta all'azione assorbente delle opposte sovranità territoriali.

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