COLLOIDI

Enciclopedia Italiana (1931)

COLLOIDI (fr. colloïdes; sp. coloides; ted. Kolloide; ingl. colloids)

Alfredo Quartaroli

Il nome colloide deriva dal greco κόλλα. Esso è servito in origine a indicare certe sostanze, come la gomma arabica, la gelatina, l'amido, ecc., che avevano in comune l'assoluta mancanza di forma cristallina e davano soluzioni speciali, vischiose, dotate d'un complesso di proprietà diverse da quelle delle soluzioni ordinarie, e che perciò venivano chiamate soluzioni colloidali.

In seguito si è constatato che molte altre sostanze, anche inorganiche, come idrossido di ferro, di alluminio, di cromo, solfo, solfuri metallici e anche metalli, pur essendo, allo stato solido, diverse dalle precedenti (alcune anche cristalline), potevano dare soluzioni di proprietà analoghe alle precedenti, cioè soluzioni colloidali.

Potremmo, perciò, definire colloidi le sostanze atte a formare soluzioni colloidali. Va notato, però, che tutte o quasi le sostanze sono capaci, con metodi e con solventi appropriati, di dare soluzioni colloidali: anzi, come hanno affermato Weimarn e Kopaczewski, lo stato colloidale è una proprietà generale della materia. P. es. anche il cloruro sodico, sostanza tipicamente cristallina, può dare soluzioni colloidali in benzolo (Svedberg) e le sostanze tanniche dànno soluzioni di tipo comune in acido acetico e colloidali in acqua (Paternò). Onde ci limiteremo a parlare di soluzioni o, più propriamente, di sistemi colloidali. Il nome colloide si potrà usare per indicare una sostanza nell'atto in cui fa parte d'un sistema colloidale come soluto, o tutt'al più riservarlo alle sostanze che per dispersione spontanea in liquidi dànno soluzioni colloidali.

Dopo la rivendicazione del Guareschi (R. Acc. delle Scienze di Torino, 1911) nessuno dei più eminenti cultori della chimica dei colloidi, anche stranieri, disconosce che le prime importanti osservazioni sulle soluzioni colloidali si devono al chimico italiano Francesco Selmi. Questi in una serie di lavori pubblicati fra il 1844 e il 1847 (Nuov. Ann. di Sc. Nat. di Bologna) rilevò che vi sono sostanze, come p. es. l'amido, l'albumina, ecc., le quali non si sciolgono nell'acqua nello stesso modo dei sali, ma formano soluzioni che assomigliano piuttosto alle emulsioni, con la differenza che sono trasparenti; tali speciali soluzioni vennero dal Selmi chiamate pseudosoluzioni. In occasione delle sue ricerche sui blu di Prussia, che formano pseudosoluzioni, il Selmi osservò per primo quel fenomeno che oggidì si chiama coagulazione; cioè una deposizione provocata dall'aggiunta di piccole quantità di sali. E trovò anche che la sostanza precipitata trascina parte della sostanza precipitante, nella quale osservazione si riconosce subito ciò che oggi si chiama fmomeno d'assorbimento. Il Duclaux afferma che le idee del Selmi s'accostano alle moderne concezioni sui colloidi più di quelle espresse posteriormente dal Graham.

Questa doverosa rivendicazione dell'opera del grande chimico italiano, nulla toglie al riconoscimento che tutto il mondo scientifico tributa all'opera di Thomas Graham, per molto tempo considerato come l'unico fondatore della teoria dei colloidi. Il Graham partì dallo studio dei fenomeni di diffusione delle sostanze disciolte e dei fenomeni di dialisi (passaggio di sostanze disciolte attraverso membrane), e in seguito a tali ricerche poté rilevare il diverso contegno delle soluzioni comuni da quelle del tipo speciale già osservate dal Selmi. Così, in una serie di lavori pubblicati fra il 1861 e il 1864, il Graham studiò sistematicamente queste speciali soluzioni e poté stabilire un criterio abbastanza sicuro per riconoscerle da quelle ordinarie, introducendo, infine, la nota distinzione fra cristalloidi e colloidi, la quale anche oggi è utile come definizione d'orientamento. Ma il merito dell'opera del Graham più che nell'avere stabilito le basi dello studio dei colloidi, consiste nell'avere intuito quel parallelismo fra sostanze disciolte e sostanze gasose che, sviluppato più tardi dal Van't Hoff e dal Nernust, ha condotto alla teoria delle soluzioni. Infatti i lavori del Graham, non ostante la loro grande notorietà, non hanno provocato per un lungo periodo di tempo alcuna ricerca sui colloidi; si può dire che dal 1864 al 1890 circa, i chimici non ne hanno ritratto che un modo per separare le sostanze colloidi dalle cristalloidi.

Lo studio approfondito dei sistemi colloidali s'inizia nel 1891 con numerose ricerche nelle quali si cerca di stabilire da una parte l'esistenza di una continuità fra sospensioni pure di polveri finissime e soluzioni colloidali, e dall'altra l'esistenza d'una continuità fra queste e le soluzioni vere. Questa seconda parte della questione ha costituito sempre il problema fondamentale per i cultori della chimica dei colloidi. Dopo le ricerche di Barus e Schneider (1891) e di Linder e Picton (1892-1895), lo studio sulle soluzioni colloidali s'intensificò e condusse a risultati di grande importanza.

Come s'è detto, allo studio delle sostanze a cui si diede inizialmente il nome di colloidi, s'aggiunse lo studio di altre, in generale minerali, molte volte anche cristalline, che più o meno facilmente potevano dare soluzioni con proprietà analoghe a quelle ottenute dalle prime. Lo studio di queste ultime soluzioni o, meglio, dispersioni colloidali apparve ben presto più attraente e più fecondo di quello delle soluzioni preparate con colloidi del tipo primitivo, come amido, gelatina, gomma arabica, ecc. Le ricerche in tale campo presero un grande sviluppo, permisero di affrontare il problema sopra accennato della continuità fra soluzioni ordinarie e dispersioni colloidali e di trovare 1isultati importantissimi anche fuori della cerchia della chimica colloidale, come p. es. la determinazione della costante di Avogadro in modo più sicuro che con altri procedimenti, e conferme sperimentali dirette, si può dire visibili, delle teorie cinetiche (studio dei moti browniani). Se però queste ricerche avvicinarono le soluzioni vere alle dispersioni colloidali: scavarono un solco sempre più profondo fra queste ultime e le soluzioni colloidali di vecchio tipo: apparvero differenze sempre più notevoli fra le une e le altre sì da far dubitare della possibilità di tenerle ulteriormente collegate nella stessa teoria. Ciò ha creato un certo disaccordo fra i cultori della chimica colloidale e i biologi, ai quali interessano soprattutto le soluzioni colloidali di vecchio tipo, cioè a base specialmente di composti organici complessi (proteine, saponi, ecc.), che sono poi quelli che si trovano negli organismi. Perciò in questi ultimi anni si sono compiute e si stanno compiendo notevoli ricerche per stabiliie quella continuità fra soluzioni di colloidi organici e di colloidi inorganici che oramai s'è potuta stabilire fra le soluzioni di questi ultimi e le soluzioni ordinarie.

Diffusione e dialisi. Esperienze del Graham. - Si riempia d'acqua, per due terzi, un cilindro di vetro, poi con una pipetta affilata si faccia pervenire con cautela in fondo una soluzione colorata, più pesante dell'acqua (p. es. una soluzione concentrata di solfato di rame), in modo da avere una superficie di separazione ben netta fra la soluzione stessa e l'acqua soprastante. Abbandonando a sé stesso l'apparecchio in un ambiente a temperatura costante, per evitare moti convettivi nel liquido, si vede che dopo qualche giorno la superficie di separazione non è ben netta e si va sollevando; dopo otto giorni essa si è sollevata di dieci centimetri circa. Questo fenomeno per cui le molecole della sostanza disciolta tendono a espandersi nello spazio a loro disposizione (cioè nel solvente) si dice diffusione. Se al solfato di rame si sostituiscono sostanze coloranti artificiali più o meno complesse, la difflsione è molto più lenta; con caramello la diffusione è quasi trascurabile.

A queste prime esperienze del Graham sul fenomeno di diffusione seguirono quelle sulla dialisi. Se si prende un tubo di vetro chiuso da una parte con una membrana di pergamena ben legata, e nel recipiente così ottenuto si versa una soluzione qualunque (p. es. di solfato di rame), e infine si tuffa l'apparecchio nell'acqua d'una bacinella (fig.1), si vede che in un tempo abbastanza breve una certa quantità della sostanza disciolta attraversa la membrana e il fenomeno continua finché la concentrazione della soluzione esterna è diventata uguale a quella dell'interna: cambiando varie volte il liquido esterno si può quindi fare uscire praticamente tutta la sostanza. Questo fenomeno , si dice dialisi, e l'apparecchiu descritto dializzaziore. Se invece di una soluzione di solfato di rame se ne adopera una di zucchero, il passaggio è alquanto più lento; con soluzioni di gomma arabica o caramello è del tutto trascurabile. Insomma le sostanze che diffondono più facilmente sono quelle che dializzano più facilmente: le esperienze di dialisi presentano il vantaggio d'essere più rapide di quelle di diffusione. Da queste esperienze il Graham ha tratto la sua famosa distinzione delle sostanze in due gruppi: egli ha chiamato cristalloidi le sostanze capaci d'attraversare più o meno rapidamente una membrana, colloidi quelle invece che non dializzano. La ragione di queste denominazioni risiede nel fatto che nella prima categoria vi sono sali metallici e in generale corpi che si possono avere facilmente allo stato cristallino; nella seconda sostanze come l'amido, la gelatina, ecc., che si presentano spesso allo stato amorfo e dànno soluzioni generalmente vischiose.

Se introduciamo in un dializzatore una soluzione contenente contemporaneamente un cristalloide e un colloide, il primo attraversa la membrana di pergamena, il secondo no; ciò costituisce un metodo di separazione al quale il Graham diede grande importanza fino a intitolare la sua memoria principale: La diffusione applicata all'analisi. Ma la distinzione del Graham, che fu sufficiente per molto tempo, non si può considerare oggi come una definizione dei colloidi. Anzitutto i risultati dipendono talvolta dalle membrane scelte, poi vi sono sostanze cristallizzabili che non dializzano. Nondimeno la distinzione è sempre praticamente e didatticamente utile.

Natura delle soluzioni colloidali. Proprietà ottiche. Ultramicroscopio. - Quando si cominciò a intravedere nei fenomeni sopra descritti qualche cosa di più interessante delle applicazioni analitiche, sorse la questione fondamentale: queste soluzioni colloidali, non dializzabili, sono soluzioni vere e proprie o sospensioni? Ricordiamo che il Selmi aveva chiamato alcune di esse pseudosoluzioni. Si tratta di sospensioni di particelle piccolissime, invisibili coi metodi ordinarî, o di soluzioni vere di sostanze costituite di molecole assai grandi? Barus e Schneider avevano trovato varie analogie tra le sospensioni pure e le soluzioni colloidali, ma Linder e Picton, studiando le soluzioni colloidali di solfuro d'arsenico, avevano stabilito l'esistenza d'una continuità fra soluzioni colloidali e soluzioni comuni. Sembra a priori facile distinguere una sospensione da una soluzione, ma quando le paiticelle sospese sono estremamente piccole, la distinzione è difficilissima. D'altra parte si constatava che i filtri ordinarî, anche quando erano molto spessi, non trattenevano le sostanze della soluzione non dializzabile; ciò mostrava che, se v'erano particelle sospese, queste dovevano essere molto piccole. In conseguenza, per risolvere la questione con esperienze di filtrazione occorrevano filtri ben altrimenti spessi. Le ricerche crioscopiche ed ebullioscopiche eseguite nel modo consueto non davano molte indicazioni.

Nelle semplici sospensioni il punto di congelamento del sistema deve coincidere con quello del solvente puro. In realtà si notavano piccolissimi abbassamenti. Questi potevano essere attribuiti o a impurità, poiché una sostanza colloide, per il fatto appunto che in generale non cristallizza, è di difficile purificazione; o anche alla presenza di sostanze disciolte a peso molecolare elevatissimo, poiché dalla formula Δm = KC (Δ abbassamento del punto di congelamento; m peso molecolare, K costante, C concentrazione) si vede che se si tiene fissa la concentrazione, l'abbassamento è inversamente proporzionale al peso molecolare. Così varî autori trovarono per l'albumina pesi molecolari fra 6400 e 15.000, per l'amido da 20.000 a 30.000, per il glicogeno da 1600 a 200.000!

Lo studio ottico delle soluzioni portò elementi di grande importanza per risolvere la questione. Infatti una soluzione è omogenea e una sospensione è eterogenea.

Dall'esame diretto della soluzione si può arguire poco. Molte soluzioni non dializzabili sono opalescenti e fluorescenti, ciò che è un indizio di eterogeneità; ma mentre questo fenomeno può essere dovuto a minime impurità, d'altra parte ci sono soluzioni non dializzabili perfettamente limpide.

Con l'esame microscopico non si possono osservare particelle di diametro inferiore a

in cui λ è la lunghezza d'onda della luce supponendo che questa sia monocromatica. Poiché nei raggi violetti si ha il valore minimo λ = 0,39 μ, è chiaro che col microscopio si possono al massimo vedere particelle di poco inferiori a o,2 μ. Anche utilizzando raggi ultravioletti (ciò che rende lo studio più complicato perché bisogna sostituire il quarzo al vetro e all'osservazione diretta la lastra fotografica) non s'arriva a discernere particelle più piccole di 0,1 μ.

Per comprendere come si sia potuto risolvere il problema d'identificare particelle molto più piccole di 0,1 μ, ricordiamo anzitutto il fenomeno Tyndall. Quando un fascio di luce sottile e intenso attraversa un mezzo non omogeneo, determina, dove passa, una luminosità diffusa che permette di vedere il percorso dei raggi luminosi. Questa luce diffusa è in parte polarizzata, specialmente in un piano perpendicolare alla direzione del fascio. Però non tutti i sistemi non dializzabili presentano il fenomeno Tyndall; d'altra parte è difficilissimo ottenere un liquido otticamente vuoto (cioè negativo al fenomeno) perché anche con distillazioni e filtrazioni non si tolgono le impurità sospese. Nel complesso le ricerche sul comportamento delle soluzioni rispetto al fenomeno Tyndall (ricerche che in ogni caso costituivano solo uno studio qualitativo) non hanno tolto i dubbî sulla natura delle soluzioni colloidali.

Invece grandissima importanza ha avuto per lo studio della natura delle particelle colloidali un ingegnoso dispositivo ideato da Siedentopf e Zsigmondy, chiamato ultramicroscopio. E noto il fenomeno per cui si rende visibile il pulviscolo atmosferico in una camera buia quando si fa entrare un sottile e potente raggio di luce. Questa visibilità di particelle che in condizioni ordinarie sono del tutto invisibili è dovuta alla diffrazione. Mentre nel microscopio s'illumina il preparato in modo che i raggi che più colpiscono l'occhio o la lastra fotografica sono quelli che non hanno attraversato l'ostacolo cosicché si vede l'oggetto oscuro su fondo chiaro, invece quando un sottile raggio entra in una camera buia, i raggi efficaci sono quelli che hanno colpito la particella di pulviscolo e da questa vengono irradiati lateralmente: cosicché stando in opportune posizioni si vede la particella illuminata su fondo oscuro. Siedentopf e Zsigmondy pensarono d'esaminare la luce che eventualmente i supposti granuli delle soluzioni colloidali diffondono (qualora siano colpiti da un potente raggio luminoso), non semplicemente ad occhio nudo ma con un microscopio. Il cosiddetto ultramicroscopio non è che un microscopio ordinario col quale, anziché esaminare il preparato nella direzione stessa dei raggi che lo illuminano, lo si esamina da una direzione perpendicolare a questa, cosicché arrivano direttmente all'occhio solo quei raggi che hanno subito la diffrazione per opera di granuli.

La figura 2 mostra schematicamente come si fa l'osservazione. Come sorgente luminosa si può utilizzare la luce solare, ovvero un ordinario apparecchio da proiezioni con lampada ad arco. Il liquido da esaminare è posto in una vaschetta a forma di parallelepipedo con finestre di quarzo. A questo apparecchio originale di Siedentopf e Zsigmondy sono stati apportati varî perfezionamenti. L'apparecchio presenta anche il vantaggio di permettere l'uso di obiettivi a immersione. In generale, quando con l'ultramicroscopio si esamina un liquido contenente particelle, sia pure piccolissime, si vede una miriade di punti luminosi che ricordano un cielo stellato. Ciò si verifica con quasi tutte le soluzioni di colloidi le quali mostrano così la loro natura eterogenea.

Nulla si può dire però di sicuro sulla forma dei granuli. Essi sono in movimento incessante: i moti sono disordinati, translatorî e rotatorî; non v'è nessuna dipendenza fra il moto d'un granulo e quello dei vicini. Questi movimenti si dicono browniani dal Brown che nel 1829 li scoperse in sospensioni microscopiche, perché cominciano ad apparire quando le particelle sono inferiori a un micromillimetro. Ma sono più intensi in particelle ultramicroscopiche.

I movimenti dei granuli ci forniscono qualche indizio sulla loro forma. E evidente che se i granuli sono sferici il loro splendore sarà costante, ma se hanno forme poliedriche o più o meno irregolari lo splendore varierà secondo la faccia che viene colpita dalla luce. Il Freundlich ha potuto così vedere che, p. es., i metalli in soluzione colloidale hanno probabilmente forma tondeggiante perché il loro splendore è pressoché costante, mentre p. es. l'acido vanadico in soluzione colloidale si presenta in forma di bastoni allungati.

Con l'ultramicroscopio si vedono distintamente particelle fino a 5 mμ e anche da 2 a 3 mμ se si tratta di granuli molto rinfrangenti. Vedremo in seguito come si possa fare la valutazione della grandezza di questi granuli. In generale l'esame ultramicroscopico delle dispersioni di sostanze non diffusibili e non dializzabili secondo il criterio del Graham ha dimostrato, come s'è detto, che si tratta di sistemi eterogenei. Questi furono chiamati dal Graham soli: in particolare idrosoli se il liquido di sospensione è acqua, orgonosoli se è un liquido organico (alcoolosoli, eterosoli, ecc.).

Classificazione dei sistemi dispersi. - Lo studio delle soluzioni colloidali ha dimostrato che fra le soluzioni propriamente dette e le sospensioni pure (sospensione di particelle visibili o microscopiche) vi sono dei sistemi intermedî. Genericamente il liquido che nel caso delle soluzioni comuni si dice solvente può chiamarsi mezzo dispersore, sia nel caso delle sospensioni, sia delle soluzioni colloidali e soluzioni ordinarie; la sostanza sciolta o sospesa, sostanza dispersa; il complesso, sistema disperso.

Volendo caratterizzare meglio questi sistemi, cominceremo col definire con l'Ostwald come grado di dispersità d'un sistema il rapporto S/N fra la superficie totale e il volume complessivo delle particelle disperse. Supponendo le particelle sferiche, la superficie complessiva cresce in ragione inversa del raggio delle particelle.

In relazione al grado di dispersità, potremo classificare i sistemi dispersi così:

1. Sospensioni pure (macro- o microscopiche). - Il diametro delle particelle, supposte approssimativamente sferiche, è superiore a 0,2 μ. Compaiono moti browniani se il diametro delle particelle è inferiore a 1 μ. Le particelle sono trattenute da filtri comuni più o meno spessi.

2. Sospensioni ultramicroscopiche o colloidali o dispersoidi. - Si tratta di particelle visibili all'ultramiscoscopio del diametro da 0,2μ a 2 mμ. Le particelle disperse dei colloidi organici essendo di solito incolori e avendo indici di rifrazione poco diversi da quello dell'acqua si vedono meno facilmente e per esse il limite 2 mμ è troppo basso. Esse non sono separabili dal mezzo dispersivo mediante i filtri comuni, ma solo con gli ultrafiltri (v. oltre).

3. Idrosoli non risolubili. - Si tratta di particelle inferiori a 2 mμ (o anche fra 2 mμ e 5 mμ se si tratta di granuli poco lucenti). Dell'esistenza di questa categoria che interessa il problema della continuità fra soluzioni colloidali e soluzioni comuni si hanno prove indirette. Zsigmondy ha dato il modo di preparare una serie di soli d'oro a granuli decrescenti: si segue gradualmente con l'ultramicroscopio il decrescere dei granuli finché a un certo punto spariscono. Ma v'è di più. L'autore predetto, il quale ha dato un metodo per misurare il numero di particelle in un determinato volume di soluzione colloidale, ha tr0vato che il numero di granuli contenuti nell'unità di volume non è proporzionale alla concentrazione, ma è superiore al prevedibile nelle soluzioni più diluite. Cioè, p. es., prendendo una soluzione con n granuli e portandola a un volume doppio, il numero complessivo dei granuli aumenta. Ciò vuol dire che nella soluzione primitiva vi sono granuli invisibili che per diluizione ingrandiscono raggruppandosi e divengono visibili.

4. Soluzioni propriamente dette. - Sono otticamente vuote; non sono filtrabili. Le particelle disperse non sono separabili nemmeno all'ultramicroscopio, né separabili dal solvente, nemmeno per ultrafiltrazione. Sono dispersioni molecolari o ioniche, non micellari. La sostanza dispersa, anziché un solido può essere un liquido, nel qual caso si ha un'emulsione; se le particelle disperse sono ultramicroscopiche, il sistema colloidale dicesi emulsoide.

S'è detto che la grandezza delle particelle ultramicroscopiche è misurabile. Vediamo come si possa dedurla indirettamente.

È chiaro che potendo contare il numero delle particelle colloidali presenti in un determinato volume, conoscendo il loro peso comlessivo e tenuto conto del peso specifico della sostanza dispersa, si può dedurre la grandezza media delle particelle, supposte per semplicità sferiche. Ora la determinazione della quantità di sostanza dispersa in un determinato volume di soluzione è una semplice questione di analisi chimica. Quanto a contare le particelle contenute in un determinato volume si può usare l'ultramicroscopio seguendo un procedimento indicato da Zsigmondy. La parte illuminata del liquido che si esamina è sempre assai piccola. Con una fenditura strettissima e scegliendo opportunamente le lenti e l'obiettivo del microscopio si può ottenere un campo illuminato delle dimensioni di millimetri 0,02 × 0,02 × 0,002. Se la soluzione è molto diluita, il numero di particelle presenti in questo piccolissimo volume si può contare abbastanza bene nonostante i moti browniani. Da questo poi si passa al numero di particelle contenute nell'intero volume. Se P è il peso totale, n tale numero, d il peso specifico della sostanza dispersa, sarà

essendo v il volume della particella ed R il raggio, supponendo la particella sferica.

Ricordiamo il fatto accennato prima, che diluendo, p. es., un idrosolo d'oro il numero complessivo di particelle aumenta: evidentemente vi sono particelle che divengono visibili solo a diluizioni notevoli. Se ciò è importante per la questione della continuità, rappresenta però una causa d'errore per il calcolo della grandezza delle particelle: evidentemente il raggio medio di queste sarà un po' minore di quello calcolato nel modo ora indicato.

Un altro metodo si basa sull'applicazione della formula di Stokes. Se una particella sferica di raggio r è sollecitata da una forza f entro un mezzo di attrito interno η, acquista un moto uniforme in cui la velocità è

Supponendo che la forza sia quella di gravità (nell'ipotesi che il peso specifico della particella δ sia superiore a quello δ° del liquido), è per il principio d'Archimede

cosicché sostituendo nella (1) si ha

Misurando v dalla velocità di sedimentazione, si può dalla (2) ricavare r.

Questo metodo si può adottare se si tratta di particelle non piccolissime e se la sostanza dispersa ha peso specifico molto elevato. Con granuli d'oro di 2 mμ la velocità di caduta è 1 cm. al mese nonostante l'elevato peso specifico dell'oro. Con granuli di solfuro d'arsenico delle stesse dimensioni tale velocità sarebbe di un mm. al mese.

Ultrafiltrazione. - La filtrazione non è un'operazione puramente meccanica, ma entrano in gioco diversi fattori complessi. Infatti vengono spesso trattenute dai filtri delle particelle sospese molto più piccole dei pori del filtro.

Così, p. es., i filtri di porcellana non verniciata i quali hanno pori visibili al microscopio di larghezza non inferiore a 2 μ, trattengono molti granuli colloidali, p. es. soli d'oro, d'idrato ferrico, ecc. Si verificano in questo caso dei fenomeni d'adsorbimento (v. in seguito): avviene cioè una specie d'adesione di natura fisico-chimica fra la materia del filtro e i granuli sospesi. È così che con tali filtri si trattiene la maggior parte dei microbi d'una soluzione acquosa, benchè le dimensioni di detti organismi siano in generale molto inferiori a quelle dei pori.

Ma i pori dei filtri comuni e di quelli di porcellana sono troppo grossolani per trattenere in linea generale le particelle ultramicroscopiche. Dopo inutili tentativi per fare filtri a pori più piccoli con membrane, gelatina, ecc., i si è realizzato, per merito del Malfitano e del Bechold, un notevole progresso con l'uso di filtri di collodio. Com'è noto, il collodio è una soluzione di nitrocellulosa in alcooletere; più o meno vischiosa secondo la concentrazione. Esponendo all'aria libera un sottile strato di tale soluzione, prima evapora l'etere e allora la nitrocellulosa, che non è solubile nell'alcool solo, si deposita formando una specie di gelatina che fra le sue maglie contiene alcool; col tempo poi anche l'alcool evapora e il residuo si secca completamente: in tal caso s'ottiene una pellicola del tutto inadatta a formare filtri. Se però l'alcool viene tolto, non per spontanea evaporazione, ma facendolo diffondere in acqua, allora si ha una membrana simile ad una spugna finissima, tempestata di canaletti sottilissimi e folti. Questi canali sono invisibili al microscopio; la loro grandezza si può desumere indirettamente dagli effetti che s'ottengono filtrando soluzioni colloidali con granuli di grandezza nota variabili da 2 mμ fino a 20 mμ. I pori si possono graduare a piacere: sono tanto più grossi quanto maggiore è la proporzione d'alcool e minore quella di cellulosa. Per esempio pori grossi, secondo le indicazioni del Duclaux, si hanno con 50 d'alcool, 50 d'etere e 2 di nitrocellulosa; fini con 25 d'alcool, 70 d'etere, 5 di nitrocellulosa. Tali membrane di collodio possono servire per filtrare soluzioni colloidali e anche per separare granuli più grossi da granuli più fini. Opportunamente montate, esse agiscono come filtri, e trattenendo particelle ultramicroscopiche, si chiamano ultrafilti.

Per preparare un apparecchio di ultrafiltrazione per esperienze di laboratorio, si tuffa nel collodio un tubo di vetro cilindrico chiuso all'estremità, che funziona da stampo. Si ritira poi lentamente, si lascia seccare un poco all'aria finché il collodio ha fatto presa, quindi si tuffa il tubo nell'acqua per evitare che il collodio si secchi completamente all'aria, lo si stacca con precauzione dal vetro e lo si estrae rovesciandolo. Il sacchetto allungato così ottenuto si lega all'estremitâ d'un tubo per eliminare le ultime tracce di alcool ed etere.

Anche Bechold ha ottenuto ultrafiltri a base di collodio usando come solvente, anziché la miscela alcool-etere, quella acido acetico-acetone o il solo acido acetico. L'ultrafiltrazione viene praticata oggi anche nell'industria. Essa viene accelerata adoperando pressioni più o meno elevate. I filtri in collodio vengono con artifizî varî addossati a tele metalliche, candele di porcellana, ecc.

Con gli ultrafiltri non si possono trattenere particelle più piccole di 2 mμ. Nella zona fra 2 mμ fino al diametro delle molecole cristalline (fra 0,3 e 1 mμ) gli ultrafiltri sono incapaci di trattenere particelle, ciò che c'impedisce di studiare con questo mezzo quella zona compresa fra i granuli colloidali e le molecole, che tanto interesserebbe conoscere. Si può invece, con ultrafiltri più o meno fitti, trattenere particelle da 3 a 100 mμ e separare, almeno parzialmente, con una serie di filtri, granuli di grandezza diversa.

Proprietà elettriche dei colloidi. - Sono noti i fenomeni di dissociazione elettrolitica e il comportamento elettrico delle soluzioni. Vediamo il comportamento elettrico delle soluzioni colloidali.

Che queste abbiano una certa conducibilità elettrica è cosa nota da tempo, ma essa poteva essere attribuita (come la pressione osmotica, l'abbassamento del punto di congelamento. ecc.) a impurità.

Poiché però filtrando con ultrafiltri se ne possono separare le particelle colloidali, se si ha una diminuzione di conducibilità in seguito a filtrazione, ciò vuol dire che anch'esse contribuiscono alla conducibilità. Ciò infatti si verifica, per quanto il contributo portato alla conducibilità sia piccolo di fronte alla massa. Questo non è sufficiente a stabilire una sostanziale differenza dal comportamento degli elettroliti, perché, ammettendo la presenza di ioni grandissimi e pesanti, questi, a parità di massa, trasporteranno una quantità di elettricità piccolissima, pure ammettendo la carica normale 96.640 coulomb pei unità di valenza. P. es. a uno degli idrosoli ottenuti sottoponendo a dialisi continuate l'idrato ferrico ottenuto dal cloruro ferrico, potrebbe secondo Duclaux essere attribuita la formula

Il catione fra parentesi quadre ha sei cariche, ma ha il peso 171.312. Anche supponendo questo composto completamente dissociato, si comprende facilmente che la conducibilità sia debole, tanto più che sarà assai piccola anche la velocità di trasporto d'un ione così grande.

Ad ogni modo, sulla questione della conducibilità elettrica delle soluzioni colloidali permane ancora qualche dubbio, poiché, p. es., la diminuzione di conducibilità dopo la filtrazione si potrebbe attribuire a piccole quantità di elettroliti esistenti come impurità e adsorbiti (v. in seguito) dal colloide.

Assai più importanti e sicuri sono i risultati conseguiti nello studio dei movimenti che la corrente elettrica determina in una soluzione colloidale. Qui il comportamento delle soluzioni colloidali appare profondamente diverso da quello delle soluzioni di elettroliti. Per studiare meglio il fenomeno è bene considerare anzitutto il comportamento elettrico delle sospensioni pure. Sospendendo in acqua particelle di svariate sostanze, come argilla, quarzo, caolino, solfo, licopodio, ecc.; introducendo tale sospensione in un tubo ad U, ponendo due elettrodi un po' al di sotto delle due superficie liquide e stabilendo la corrente, si vede che le particelle disperse tendono a addensarsi dalla parte dell'anodo. Questo fenomeno dicesi cataforesi. Sospendendo invece queste sostanze polverulente nell'olio di trementina, esse vanno verso il catodo, eccettuato lo zolfo che continua a spostarsi verso l'anodo. Dunque risulta evidente che il senso del movimento non dipende solo dalla natura delle particelle sciolte, ma anche dal liquido dispersore.

Il fenomeno di cataforesi è connesso con un altro fenomeno assai interessante, quello dell'osmosi elettrica. Esso può essere messo in evidenza col dispositivo di Perrin. Un tubo ad U, foggiato come mostra la figura 3, ha una delle branche costituite da varie parti collegate mediante coni smerigliati. Il pezzo superiore di tale tubo porta un capillare graduato che si ripiega come mostra la figura e porta una branca pressoché orizzontale. Nella parte mediana vi sono due elettrodi A e B fra i quali si pone un tramezzo poroso costituito della sostanza che si vuole studiare, ridotta in polvere e ben lavata. Come sostanze si possono adoperare quelle stesse che servono a studiare il fenomeno di cataforesi.

Si riempie l'apparecchio del liquido da esaminare (acqua, olio di trementina, ecc.); si attende che questo abbia assunto nel capillare una posizione fissa della quale si prende nota leggendo la graduazione corrispondente al menisco. Poi si stabilisce tra A e B una differenza di potenziale. Si può osservare nel tubo capillare un movimento di liquido il quale filtra per osmosi sotto l'azione del campo elettrico. Questo movimento, per soluzioni acquose, è diretto generalmente dall'anodo verso il catodo, quindi, se B ed A sono rispettivamente l'anodo e il catodo, il liquido s'inoltra nel capillare; invertendo la corrente, si ritira. Il movimento del liquido è dunque in senso contrario al moto delle particelle nel fenomeno di cataforesi. La connessione fra i due fenomeni è chiara: se le particelle sospese, p. es., in acqua hanno assunto una carica negativa (infatti s'addensano all'anodo), la corrispondente carica positiva si trova nel liquido dispersore. Immobilizzando invece le particelle solide polverulente e stabilendo la differenza di potenziale, è evidente che il liquido incluso si deve spostare in senso contrario. I granuli delle soluzioni colloidali, da questo punto di vista, si comportano come le sospensioni pure. Omettendo di entrare in particolari sulla velocità delle particelle, sull'influenza della concentrazione, della temperatura, ecc., che si manifestano in modo complesso e non ancora ben chiarito, si può dire che si verifica il fatto che i granuli d'una determinata soluzione colloidale migrano tutti verso l'anodo o tutti verso il catodo. Cioè, a differenza degli ioni di un elettrolito, hanno tutti la stessa carica. Il senso del moto varia non solo col variare della parte dispersa, ma anche (come per le sospensioni pure) col liquido dispersore. Nella tavola seguente indichiamo alcuni importanti colloidi positivi (cioè che vanno al catodo) e negativi (che emigrano all'anodo) nel mezzo dispersore acqua.

Nel fenomeno di cataforesi hanno notevole influenza piccole quantità di elettroliti, e specialmente degli ioni H e OH la cui presenza può alle volte invertire la carica. Vi sono anche alcune soluzioni colloidali che non presentano cataforesi, o soltanto in grado minimo, come p. es. le soluzioni d'albumina lungamente dialisata (Pauli); ma trattando l'albumina con tracce d'alcali essa migra all'anodo e trattandola con tracce di acidi migra al catodo, perché nel primo caso si generano anioni proteici e nel secondo cationi proteici, per dissociazione del sale che si forma.

Per spiegare i fenomeni di cataforesi si ammette in generale che le particelle colloidali posseggano una loro propria carica elettrica, derivi questa da elettrizzazione di contatto o da dissociazione elettrolitica della sostanza formante le particelle o da adsorbimento di ioni preesistenti nel liquido dispersivo. Si formerebbe un doppio strato elettrico tra il granulo e il liquido che immediatamente lo circonda. Ciò s'accorda non solo coi fenomeni di cataforesi e di osmosi elettrica, ma anche col fatto che il segno della carica dipende, oltre che dalla sostanza dispersa, anche dal liquido dispersore. Anzi Helmholtz ha dimostrato come lo studio dei fenomeni d'osmosi elettrica si può prestare per stabilire la differenza di potenziale fra un liquido e una parete solida qualunque.

Poiché dunque nelle sospensioni pure e nelle soluzioni colloidali si constatano fenomeni di elettrizzazione per contatto, il Perrin ha creduto opportuno di conoscere su tale elettrizzazione qualche cosa di più di quello che si può prevedere in base alla teoria di Nernst la quale, com'è noto, si limita a considerare il caso che una parete metallica sia tuffata nella soluzione d'un suo sale, basandosi sul concetto di tensione di soluzione. Queste ricerche hanno attinenza anche col problema della coagulazione dei colloidi, trattato in seguito. Perrin ha studiato l'elettrizzazione che assume una parete qualunque a contatto con un liquido qualunque, e ha trovato che la natura della parete non ha influenza sul fenomeno, il quale dipende dalla mobilità degli ioni contenuti nel mezzo, dal segno della loro carica e dalla valenza.

Si consideri per esempio un acido forte: l'influenza dello ione H, che è mobilissimo, predomina su quella dell'anione, anche se bivalente. La parete si carica positivamente adsorbendo ioni idrogeno: l'altro strato è formato dagli anioni corrispondenti.

Analogamente, in presenza di una base forte, predomina l'azione dell'ossidrile, pure assai mobile, e la parete si carica negativamente: l'altro strato è formato dai cationi corrispondenti. Con una soluzione di un sale come Na Cl l'azione sarà debole perché i due ioni hanno la stessa valenza e le mobilità elettrolitiche differiscono di poco; invece con sali come Ca Cl2 o Al Cl3 predominerà il catione, e con sali come K2 SO4, K3Fe (CN)6, K4Fe (CN)6 e predominerà l'azione dell'anione.

A proposito delle proprietà elettriche dei colloidi noi abbiamo parlato di granuli colloidali positivi o negativi; è necessario qui chiarire qualche diversa terminologia usata da alcuni autori. Il Duclaux ed altri hanno adottato per le particelle disperse delle soluzioni colloidali il termine micelle già usato dal botanico Naegeli. Perché questo termine non si consideri come sinonimo di granuli, ciò che sarebbe inesatto, è necessario chiarire che il Duclaux è seguace d'una teoria chimica dei colloidi che non è in antitesi con le cosiddette teorie fisiche più che le teorie termodinamiche della pila non siano in antitesi con la teoria chimica della pila di Nernst, ma mira a dare un'interpretazione particolareggiata del meccanismo di formazione delle due cariche e cerca di precisare con ricerche complesse e laboriose quali siano i cationi e quali gli anioni delle particelle colloidali. Queste sono considerate come elettroliti che si differenziano dai comuni solo per l'enorme grandezza d'uno degli ioni. Il Duclaux chiama appunto micelle queste grosse molecole, riservando il nome di granulo all'ione colloidale.

Coagulazione. Colloidi reversibili e irreversibili. - Le particelle delle soluzioni colloidali, come scoperse il Selmi in alcuni casi e più sistematicamente stabilì il Graham, possono, per effetto di fattori esterni, riunirsi per formare aggregati più grandi i quali finiscono col depositarsi formando precipitati caratteristici, d'aspetto molto diverso da quelli ordinarî, che il Graham chiamò geli (in particolare idrogeli se il liquido dispersore è l'acqua). Tale processo, per analogia col comportamento dell'albumina rispetto agli acidi forti o al calore, si chiama coagulazione o anche pectizzazione (dal greco πεκτός "indurito, coagulato"), e il precipitato coagulo. Quest'ultimo è voluminosissimo, spugnoso, frastagliato e perciò ha una grande superficie, e non mostra struttura cristallina neanche se viene esaminato con forte ingrandimento. Talora invade tutta la massa del liquido, come p. es. quando si provoca la coagulazione dell'idrato silicico colloidale. Si hanno in tal caso le gelatine che taluno considera come uno stato intermedio fra i geli e i soli. Varie sono le cause che possono produrre la coagulazione, ma uno dei fattori più importanti è l'aggiunta di elettroliti.

Dal punto di vista del fenomeno della coagulazione i colloidi si possono suddividere in due grandi categorie. Alcuni sono in soluzione coagulati da piccole quantità di elettroliti e il processo è in generale irreversibile; altri invece presentano notevole resistenza alla coagulazione e il processo è il più delle volte reversibile.

I colloidi del primo gruppo (fra i quali troviamo specialmente sostanze inorganiche come metalli colloidali, idrossidi e solfuri metallici, ecc.) si dicono perciò colloidi instabili o anche irreversibili; quelli del secondo gruppo (fra i quali troviamo specialmente colloidi organici come gelatina, amido, gomme, ecc)., colloidi stabili o reversibili. Talora, per ragioni che vedremo, si chiamano anche rispettivamente liofobi e liofili.

Circa la reversibilità o irreversibilità dei colloidi è necessario chiarire che tali termini (proposti da Hardy) si riferiscono, oltre che al fenomeno di coagulazione, anche al fatto che se a una soluzione colloidale si sottrae il mezzo dispersore per evaporazione o per congelamento, si ottiene un residuo che, riaggiungendo il liquido, può dare o no la soluzione colloidale primitiva. La reversibilità o irreversibilità così stabilita s'accorda in generale con quella notata in base alla coagulazione per aggiunta di elettroliti.

Però è da osservare che se, p. es., si coagulano colloidi stabili con sali di metalli pesanti, la coagulazione è irreversibile; che alcuni colloidi reversibili in certe condizioni non lo sono in altre; che un colloide irreversibile, in presenza d'un altro reversibile, può divenire reversibile anch'esso, riguardo sia al fenomeno di coagulazione provocato da elettroliti, sia alla sottrazione e susseguente aggiunta di solvente. Ciò mostra che la distinzione tra colloidi reversibili e non reversibili non ha troppa importanza. O per dir meglio che la distinzione di colloidi instabili o liofobi e stabili o liofili, distinzione che crediamo opportuna, non si deve stabilire in base al criterio della reversibilità o irreversibilità.

Esponiamo ora alcune particolarità del fenomeno di coagulazione limitandoci per il momento ai colloidi instabili. In questo caso la quantità di elettrolita coagulante che bisogna aggiungere alla soluzione per provocare la coagulazione è assai piccola, cosicché si può escludere senz'altro che il precipitato sia dovuto a un doppio scambio. Il coagulo trattiene una piccola quantità della sostanza coagulante, difficile a eliminare mediante lavaggio; ad ogni modo la maggior parte dell'elettrolita resta in soluzione. Il processo di coagulazione, come venne rilevato dallo Spring, avviene in due fasi: anzitutto le particelle disperse si riuniscono in grossi fiocchi e perciò tale fase si dice floculazione; questi fiocchi poi si depositano lentamente per l'azione della gravità, cioè avviene la sedimentazione. Secondo il Rocasolano, si deve distinguere anche una fase di coagulazione incipiente che precede la floculazione, non ancora visibile direttamente come questa, ma che si può avvertire con l'ultramicroscopio e che consiste anzitutto in una diminuzione o totale soppressione dei moti browniani.

Quando la coagulazione d'idrosoli instabili è prodotta da elettroliti, s'osserva che, tenendo fissa la concentrazione del colloide, è necessario, affinché avvenga la coagulazione, che il rapporto della concentrazione dell'elettrolita a quella dell'idrosole raggiunga un certo valore variabile da elettrolita a elettrolita. Sorpassato questo limite la velocità di coagulazione cresce rapidamente e presto raggiunge un valore massimo.

Poiché un elettrolita contiene anioni e cationi, si tratta ora di stabilire se l'azione coagulante è dovuta ai cationi, agli anioni o ad entrambi. Hardy ha trovato l'importante principio che lo ione coagulante è quello che in un campo elettrico si sposta in senso inverso al colloide. È questa la cosiddetta regola di Hardy.

Essa s'è potuta stabilire grazie alle influenze della mobilità elettrolitica e della valenza per la quale gli ioni d'un segno possono predominare sugli ioni di segno contrario dello stesso elettrolita. Se non v'è tale predominio, l'azione coagulante d'uno ione è ostacolata dall'azione protettiva di quello di senso contrario.

Infatti valgono i due principî seguenti:

1. In ioni della stessa valenza il potere coagulante è maggiore quando è maggiore la velocità di trasporto.

La mobilità elettrolitica degli ioni H e OH è tale che la loro azione supera anche quella di ioni polivalenti nonostante il principio 2. Cosicché negli acidi forti il potere coagulante è determinato dallo ione idrogeno e quindi s'esercita sui colloidi negativi senza che l'azione debolmente stabilizzante dell'anione possa compensarlo. Tanto più che nel caso di acidi anche polibasici predominano in soluzione anioni monovalenti a causa del fenomeno della dissociazione graduale. Naturalmente per le basi forti si verifica il fatto ch'esse coagulano i colloidi positivi.

Se a un colloide positivo si aggiunge un acido, questo ha azione stabilizzante e protegge, entro certi limiti, il colloide dall'azione coagulante non solo dell'anione dell'acido stesso ma di altri elettroliti aggiunti. Così i colloidi negativi sono protetti da basi.

2. Il potere coagulante degli ioni polivalenti cresce rapidamente con la valenza.

Schulze ha trovato, p. es., che per coagulare l'idrosole di solfuro d'arsenico si raggiungono gli stessi effetti con una parte di ione trivalente, 20 di bivalente e 250 di monovalente. Young e Neal hanno trovato che i poteri coagulanti di K, Ca e Al rispetto a un idrosole di CuS stanno fra loro come 1:39:875. È da osservarsi peraltro che i cationi trivalenti dànno in generale sali più o meno idrolizzati in soluzioni acquose, con formazione di ioni idrogeno.

Recentemente Kruyt ha trovato che il potere coagulante d'uno ione esavalente è circa 7000 volte quello d'uno ione monovalente; quello d'un tetravalente 1000 volte; quello d'un trivalente circa 220 volte.

Perciò è evidente che in un elettrolita come Ba Cl2, Al Cl3 predomina l'azione floculante del catione verso colloidi negativi sull'azione nulla o debolmente protettiva esercitata dall'anione; invece in elettroliti come K2 SO4, K3 Fe(CN)6, K4 Fe (CN)6, ecc., predomina l'azione coagulante dell'anione su colloidi positivi.

Infine aggiungiamo che due colloidi di segno opposto possono coagularsi reciprocamente e la precipitazione può essere completa se sono in un conveniente rapporto.

Le regole che abbiamo esposte mostrano un'evidente relazione fra i fenomeni di coagulazione prodotti da elettroliti e quello di elettrizzazione per contatto di pareti immerse in soluzioni di elettroliti. S'è visto come Perrin abbia studiato l'azione degli elettroliti nel caricare queste pareti quando positivamente quando negativamente, e come in tale fenomeno predominino gli ioni di maggior mobilità e di maggior valenza. Inversamente, è da prevedersi che in una parete già elettrizzata la carica possa diminuire o annullarsi o invertirsi per azione di elettroliti nei quali predominino per mobilità o valenza gli ioni di carica opposta a quella già posseduta dalla parete.

Collegando tutto ciò con le regole precedenti sulla coagulazione, si comprende facilmente che la coagulazione d'un colloide instabile è dovuta a una diminuzione di carica prodotta dall'elettrolita aggiunto (o anche da un colloide di segno opposto). Più precisamente si può enunciare il principio che affinché avvenga la coagulazione basta che il potenziale del doppio strato discenda al disotto di un certo valore critico. Ciò può avvenire, non solo per azione di aggiunta di elettroliti, ma per una causa opposta, cioè per mancanza pressoché totale di elettroliti nel liquido (v. oltre: Peptizzazione).

Ora potremmo chiederci per quale ragione l'effetto d'uno ione cresce in modo del tutto sproporzionato col crescere della valenza. Del fatto è stata data una spiegazione da Freudlich che noi riporteremo più oltre a proposito dei fenomeni d'assorbimento.

La carica è la condizione indispensabile perché un colloide del primo gruppo resti stabilmente allo stato di solo, per una causa che s'intuisce facilmente. Poiché i granuli colloidali hanno cariche dello stesso segno, esistono fra essi delle repulsioni elettrostatiche che, pur non impedendo ai granuli di riavvicinarsi a intervalli per azione dei moti browniani, impediscono la collisione materiale la quale avrebbe per effetto, con l'intervento dei fenomeni di tensione superficiale, la riunione dei granuli.

Vediamo ora il comportamento dei colloidi stabili o liofili. Perché gli elettroliti provochino la coagulazione è necessario che siano a forte concentrazione: per certe proteine occorre oltre una grammimolecola per litro. Inoltre, la valenza degli ioni non ha importanza alcuna nel fenomeno. Un'altra diversità fra colloidi stabili e instabili è questa: la quantità di elettrolita necessaria a provocare la coagulazione completa d'un idrosolo instabile supera di pochissimo la quantità necessaria a provocare un principio appena di coagulazione. Invece nel caso di idrosoli stabili tale differenza è assai notevole.

Infine si osserva che in soluzione di idrosoli stabili gli ioni a cariche opposte dell'elettrolita esercitano indipendentemente le loro azioni, che così si sommano. Ciò fu stabilito da Hofmeister il quale ha dimostrato che per soluzioni colloidali alcalinizzate il potere coagulante degli anioni cresce nell'ordine

mentre quello dei cationi cresce nell'ordine

Per soluzioni colloidali a reazione debolmente acida l'azione di queste serie (note col nome di serie di Hofmeister) è invertita.

Il processo di coagulazione per gli idrosoli instabili è sempre irreversibile; per gli stabili è reversibile o no, secondo l'elettrolita.

Si è già accennato che questa forte differenza fra il comportamento delle due categorie di soli, differenza che s'è andata continuamente accentuando quanto più si approfondiva lo studio dei colloidi, poteva apparire un grave insuccesso per la teoria dei colloidi. Perciò molte ricerche recenti mirano a stabilire, tra idrosoli stabili e instabili, quella continuità che s'è cercato di stabilire fra soluzioni colloidali e soluzioni vere.

Il Kruyt, constatato che nei colloidi instabili l'unico fattore protettivo è la carica, afferma doversi necessariamente ammettere, nei colloidi stabili, un altro fattore protettivo che probabilmente è la solvatazione. I colloidi stabili si combinano con l'acqua (è questo quasi sempre il solvente) formando solvati. Questo termine è preferibile a quello d'idrati perché più generale e perché la parola idrati richiama la specie chimica definita. Infatti, aggiungendo disidratanti come l'alcool o l'acetone, si vede che l'idrosolo diventa di facile coagulazione per azione d'elettroliti appropriati che ne provochino la diminuzione di carica. In tal caso, non solo bastano piccole quantità di elettrolita, ma non si verifica più l'azione additiva dei due ioni: è proprio lo ione di segno opposto a quello del granulo che provoca la coagulazione. L'idratazione dell'amido attenua il fenomeno di Tyndall nelle soluzioni acquose di detto colloide; aggiungendo alcool, il fenomeno si manifesta nettamente e la soluzione coagula per l'aggiunta di piccole quantità di cloruro di bario.

Una forte quantità di elettroliti nelle soluzioni acquose di colloidi stabili provoca la coagulazione non per l'influenza speciale dei cationi o degli anioni o della valenza di questi, ma perché i sali inorganici neutri disidratano le particelle colloidali, essendo essi stessi più o meno avidi d'acqua. Per es., il solfato di magnesio ha un'azione coagulante superiore a quella del solfato di potassio, in parte per la maggiore attitudine che possiede a formare solvati.

Per il problema pratico poi della precipitazione di proteine è bene ricordare che le condizioni più favorevoli di precipitazione si hanno nel punto isoelettrico, cioè nel punto in cui le particelle non si spostano più in un campo elettrico. Questo si può raggiungere variando le condizioni di acidità e di alcalinità del mezzo, cioè variando il pH (concentrazione dello ione H). E siccome le più importanti proteine hanno comportamento diverso, ciò può consentire di separarle in parte. Vedremo p. es. l'utilità di tale principio per separare la caseina dal latte.

Azione protettiva dei colloidi stabili. - I colloidi stabili, oltre a presentare grande resistenza, quando siano in soluzione, all'azione coagulante di elettroliti, conferiscono una notevole stabilità anche alle soluzioni di colloidi instabili qualora vengano aggiunti a queste in quantità anche piccolissima. Non solo rendono la coagulazione più difficile, ma conferiscono anche la reversibilità.

Questo fatto venne scoperto dal Zsigmondy il quale trovò il modo d'esprimere numericamente la maggiore o minore attitudine dei principali colloidi stabili a proteggere gl'instabili. Tale proprietà ha ricevuto anche numerose applicazioni per stabilizzare molti idrosoli, specie quelli di metalli colloidali. Sembra che anche in alcuni enzimi contenuti in vegetali, l'agente attivo sia un colloide inorganico protetto da colloidi stabili; p. es. nella laccasi, enzima assai diffuso nel regno vegetale, l'agente attivo sarebbe rappresentato da idrossido di manganese.

Per esprimere numericamente l'azione protettiva di alcuni colloidi, il Zsigmondy adopera un idrosolo d'oro contenente da 0,0053 a 0,0058% d'oro e una soluzione coagulante di cloruro sodico contenente 100 grammi di sale in 900 cc. d'acqua. Il numero, in milligrammi, di colloide protettore necessario a proteggere 10 cc. del suddetto idrosolo dalla coagulazione incipiente per effetto dell'aggiunta di 1 cc. della soluzione salina, è detto numero d'oro del colloide. L'inizio della coagulazione è reso evidente dal cambiamento di colore dal rosso al violetto. Ecco alcuni dei numeri ottenuti:

Rocasolano ha trovato però che l'azione protettiva non è uguale rispetto a tutti gl'idrosoli instabili; ma si manifesta una certa elettività. Fra l'altro rileva che un idrosolo di palladio ottenuto riducendo il cloruro con idrazina, e coagulantesi spontaneamente in 24 ore, si coagula con rapidità anche maggiore aggiungendo gelatina.

Si è in seguito constatato che il migliore stabilizzatore, specie degl'idrosoli metallici, è l'acido lysalbinico, un prodotto della scissione iniziale delle proteine, detto anche protettore di Paal, in forma di lysalbinato sodico. S'idrolizza l'albumina con idrato sodico: se si aggiunge acido solforico fino a neutralità, precipita l'acido protalbinico. Il filtrato evaporato e acidificato dà acido lysalbinico che viene depurato per dialisi. Con la stabilizzazione con acido lysalbinico, o gomma arabica, le proprietà catalitiche sulle quali si basa l'uso di certi colloidi restano inalterate.

Sono state fatte diverse ipotesi, più o meno attendibili, per spiegare il meccanismo dell'azione protettiva. Non è escluso che l'impedimento alla riunione dei granuli degl'idrosoli per parte dei colloidi stabili sia semplicemente d'indole meccanica. V'è ragione di ritenere che il colloide instabile adsorba (v. in seguito) quello stabile circondandosi d'uno strato protettivo contro l'elettrolita.

Non è improbabile che a questa categoria di fenomeni appartenga anche la difficoltà di cristallizzazione di certe sostanze, come p. es. lo zucchero e l'acido citrico, in presenza di sostanze colloidi mucillaginose, difficoltà per la quale è praticamente impossibile ottenere queste sostanze per concentrazione diretta dei succhi vegetali che le contengono. Tale presupposizione è giustificata dalla continuità ormai affermata fra soluzioni ordinarie e colloidali (v. oltre), per cui si può ammettere che una sostanza allo stato di soluzione ordinaria prima di separarsi per concentrazione o per altre cause, attraversi, sia pure transitoriamente, lo stato colloidale, ed è anche in accordo con le idee del Weimarn sui colloidi, per le quali le particelle colloidali sono allo stato micro - o meglio ultramicrocristallino.

Peptizzazione. - Col nome di peptizzazione (dal greco πεπτός "macerato, digerito") s'intende il passaggio d'un gelo a solo. Questo passaggio può avvenire per l'azione di piccole quantità di elettroliti, cioè di quelle stesse sostanze che in maggior quantità producono l'effetto opposto, la pectizzazione; talora anche per azione del calore, di speciali radiazioni, o per aggiunta di altri colloidi.

Il fatto è stato osservato la prima volta dal Graham preparando un solo d'idrato ferrico mediante idrolisi del cloruro. L'acido cloridrico che si forma nell'idrolisi veniva eliminato per dialisi. Ma a un certo punto bisognava arrestare l'operazione perché, se si cercava di eliminare completamente l'acido cloridrico con una dialisi prolungata, finiva col prodursi la floculazione. Riaggiungendo in questo caso un po' d'acido cloridrico (il quale qui funziona come peptizzatore) si riottiene l'idrosolo. Così il Graham ha trovato che una soluzione diluitissima d'idrato sodico peptizza a caldo notevoli quantità d'acido silicico gelatinoso. Esempî di questo genere si potrebbero citare a centinaia: ricordiamo alcuni dei più caratteristici.

Precipitando una soluzione di cloruro mercurico con acido solfidrico avviene la reazione

Filtrando e lavando il precipitato s'elimina del tutto l'acido cloridrico; se il solfuro di mercurio così purificato si sospende in acqua non si ha la formazione d'idrosolo; invece questo si forma facendo passare una corrente d'acido solfidrico attraverso l'acqua stessa in cui è sospeso il solfuro. In questo caso l'acido solfidrico, per quanto debole elettrolita, è il peptizzatore.

Se si tratta una soluzione di nitrato d'argento con una soluzione di bromuro di potassio, in modo che questi sali siano in rapporti stechiometrici, precipita regolarmente bromuro d'argento. Se questo si sospende in acqua dopo averlo lavato, non dà affatto un idrosolo. Aggiungendo all'acqua piccole quantità di nitrato d'argento si forma un idrosolo a carica positiva; aggiungendo invece tracce di bromuro di potassio si ha pure un idrosolo ma a carica negativa.

Questi fenomeni possono apparire strani se si considera che la stabilità dei colloidi liofobi è connessa con le cariche elettriche dei granuli e che la coagulazione avviene perché gli elettroliti diminuiscono le cariche stesse. Il Kruyt ha dimostrato che affinché l'idrosolo esista stabilmente occorre che il potenziale elettrico del doppio strato raggiunga almeno un certo valore critico, come s'è già accennato. Ora tale valore, per il cui il Kruyt ha dato un metodo di determinazione, non è raggiunto in assenza di elettroliti. Aggiungendo invece gradatamente piccole quantità di sali, il potenziale aumenta rapidamente, raggiunge il valor critico in a (fig. 4), sale fino a un massimo che rappresenta l'optimum di stabilità per l'idrosolo, poi per aggiunta ulteriore di elettrolita ridiscende in b sotto il valore critico. Fino alla concentrazione corrispondente all'ascissa di a l'elettrolita agisce come peptizzatore; oltrepassata la concentrazione corrispondente all'ascissa di b l'elettrolita agisce come coagulante. Come l'elettrolita in quantità più o meno notevoli produca la floculazione diminuendo il potenziale del doppio strato, s'è già visto; molto più difficile a spiegare è l'aumento del potenziale prodotto da piccole quantità di elettrolita, aumento cui si deve la peptizzazione. Nel caso che il granulo sia cristallino si possono dare interpretazioni basate sulla conoscenza del reticolato cristallino, desunto, com'è noto, mediante i raggi X.

Esaminiamo p. es. il caso del bromuro d'argento peptizzato da piccole quantità di nitrato d'argento o di bromuro di potassio. Un reticolato del bromuro d'argento è rappresentato in sezione dalla fig. 5 a sinistra. I cerchi neri rappresentano ioni argento, quelli bianchi ioni bromo. Nello spazio ogni ione bromo interno è circondato da sei ioni argento, quattro che si vedono nella sezione e altri due nella perpendicolare al piano della sezione, uno sopra e l'altro sotto. Gli ioni bromo degli strati superficiali sono invece circondati solo da cinque ioni argento; per cui, aggiungendo piccole quantità di nitrato d'argento, accade che gli ioni bromo tendono a completare il loro corredo di ioni argento assumendone uno: si hanno così le cariche positive eccedenti di questi ioni argento che vengono a costituire la carica superficiale del granulo, mentre gli ioni NO3 aderenti a questi, che nella figura sono indicati con una croce nel cerchio, costituiscono l'altro strato di segno opposto. Se la quantità di nitrato d'argento è sufficiente, il potenziale di questo doppio strato supera il valore critico e si ha l'idrosolo.

In modo analogo si spiega la formazione dell'idrosolo a carica negativa per l'aggiunta di bromuro potassico: in questo caso sono gli ioni argento della superficie che completano il loro corredo di ioni bromo; gli ioni potassio vanno a costituire lo strato esterno.

Molto più complesso si presenta il problema nel caso si tratti di granuli non cristallizzati; di tale argomento si sono occupati il Langmuir e altri, però non si tratta d'interpretazioni d'indole generale riassumibili, ma d'ingegnose spiegazioni per i singoli casi.

Adsorbimento. - Tutte le masse che presentano grande superficie, siano esse solide, liquide o gassose, hanno la proprietà di condensare le sostanze con le quali sono in contatto (siano esse disperse in un liquido o allo stato gassoso), pure non intervenendo reazioni chimiche vere e proprie. Tale fenomeno è stato chiamato adsorbimento: la sostanza che assorbe dicesi adsorbente, la sostanza che può essere assorbita adsorbendo.

Per es., noi diciamo che il nero animale adsorbe le sostanze coloranti. Vi sono anche polveri di sostanze poco attive o pressoché inerti, come quarzo, caolino, ecc., che provocano nelle soluzioni con le quali vengono in contatto disuguaglianze di concentrazione con aumento di questa nelle zone che immediatamente stanno a contatto con la polvere. S'è detto altrove che i filtri di porcellana trattengono particelle sospese molto più piccole dei pori, e così fanno gli stessi filtri di carta.

Separando la schiuma della birra (contenente anidride carbonica gassosa allo stato di grande suddivisione) e attendendo che detta schiuma si risolva in liquido è facile constatare, anche assaggiando questo liquido, ch'esso contiene più destrina della rimanente birra. Qui la sostanza adsorbente è un gas frazionato, potremmo dire disperso; l'adsorbita una sostanza disciolta nel liquido dispersore.

L'intensità dei fenomeni di adsorbimento, fisso restando l'adsorbente e l'adsorbendo, è proporzionale alla superficie del primo. Si comprende perciò come questo fenomeno dell'adsorbimento interessi in alto grado le soluzioni colloidali. Nonostante la grande malleabilità dell'oro, un centimetro cubo di questa sostanza non potrebbe, ridotto in foglio, dare più di dieci metri quadrati di superficie, mentre ridotto in granuli colloidali di 3 mμ presenta una superficie di circa 1000 metri quadrati.

L'adsorbimento, pur non avendo un carattere così squisitamente elettivo come l'affinità chimica, dipende anche dalla composizione dell'adsorbente e dell'adsorbendo. Se diamo, p. es., un elenco di sostanze coloranti ordinate secondo l'intensità con la quale vengono adsorbite dal carbone animale e poi facciamo altrettanto rispetto alla seta, vediamo che i due elenchi non coincidono per l'ordine. In linea generale si può dire che i sali minerali più semplici vengono adsorbiti poco da qualsiasi adsorbente; maggiormente vengono adsorbiti i sali più complessi e quelli di metalli pesanti; di più ancora le sostanze organiche, specialmente quelle della serie aromatica.

Considerando il fenomeno da un punto di vista quantitativo si può dire che mettendo in contatto una determinata quantità di sostanza a grande superficie con un sistema disperso di determinata concentrazione si arriva, più o meno rapidamente, a uno stato d'equilibrio. Data la natura speciale di questo fenomeno, non si può stabilire un'equazione d'equilibrio basata sui principî della meccanica chimica; sono state perciò proposte diverse formule empiriche. Una delle più semplici, che soddisfa sufficientemente entro intervalli abbastanza larghi, è la seguente:

nella quale x indica la massa di sostanza adsorbita e m quella dell'adsorbente (perciò x/m è la concentrazione del corpo adsorbito nell'adsorbente), C è la concentrazione della sostanza rimasta nel sistema disperso. K e q sono costanti. Si suppone naturalmente che la temperatura sia costante. La curva corrispondente a quest'equazione si dice isoterma di adsorbimento.

Se q = 1 si ha proporzionalità fra (x/m) e C e si ha allora una soluzione semplice senza l'intervento di fenomeni speciali. In generale però q>; 1 e il rapporto1/q varia fra 0,1 e 0,6; più q è grande e più ci s'allontana da una soluzione semplice e cioè diventa maggiore l'adsorbimento. Nella formula noi avremmo potuto mettere un esponente in forma intera; però è preferibile la forma 1/q perché in tal caso q esprime resistenza alla decomposizione, cioè viene ad essere un coefficiente di solidità del sistema. Più q è grande e più si verificano con approssimazione i seguenti principî che regolano l'adsorbimento:

1. Il corpo adsorbente, messo in contatto con quantità di adsorbendo aggiunte gradualmente, trattiene più energicamente le prime porzioni. Inversamente, col lavaggio v'è una piccola quantità di adsorbendo difficile a eliminarsi; col crescere di q tale quantità s'accresce.

2. Aggiungendo a soluzioni dell'adsorbendo una determinata quantità dell'adsorbente, sono le soluzioni diluite che proporzionalmente perdono di più.

3. La concentrazione nell'adsorbente varia molto meno velocemente della concentrazione nel liquido: la differenza è tanto più grande quanto più l'adsorbimento è forte.

Per dare qualche esempio diremo che per la coppia lana (adsorbente) e blu di metilene (adsorbendo) q = 10; altrettanto si ha per la coppia seta e verde malachite. In questi casi l'adsorbimento è fortissimo e i tessuti trattengono tenacemente le due sostanze coloranti ricordate. Altrettanto forte è q per la coppia carbone di sangue e saccarosio. Nella coppia seta e acido picrico è invece q = 3 circa; ancora più piccola per lana e tannino (q = 1,6).

La formula e i principî suddetti non valgono di là da certi limiti: p. es. nella formula stessa non si tiene conto d'una eventuale saturazione dell'adsorbente che pure v'è ragione di ritenere probabile se la concentrazione dell'adsorbendo sorpassa certi limiti.

L'andamento delle isoterme d'adsorbimento di cui si può avere una idea dalla fig. 6 (C ascisse, A = x/m ordinate), spiega come l'azione coagulante degli elettroliti cresca molto rapidamente col crescere della valenza se ammettiamo con Freundlich che la diminuzione del potenziale del doppio strato sotto il valore critico sia dovuto ad adsorbimento elettrico dello ione di carica opposta che produce la coagulazione, adsorbimento che segue naturalmente le formule generali. Per ioni inorganici semplici si può ammettere che alla stessa concentrazione molecolare gli ioni siano egualmente adsorbiti, cioè l'isoterma d'adsorbimento sia la stessa per gli ioni mono- e polivalenti. Allora, se per abbassare il potenziale sotto il valore critico occorre sia adsorbita una quantità a di ione monovalente, basterà sia adsorbita una quantità a/2 a/3 di ione bi- e trivalente. Ma a quantità adsorbite che stanno fra loro come 1/3 : 1/2: 1 si vede subito che corrispondono concentrazioni che crescono con grande rapidità data la speciale forma dell'isoterma.

Quando un solido ha adsorbito una sostanza presente in un sistema disperso, l'adsorbente e l'adsorbito formano complessi che van Bemmelen chiamò composti d'adsorbimento. Possiamo anche mantenere tale denominazione avvertendo che il termine generico di composti non indica in questo caso specie chimiche, ma composti varianti in modo continuo e che non seguono perciò la legge delle proporzioni definite.

Tutto ciò che abbiamo detto vale per i fenomeni d'adsorbimento in genere e s'applica quindi anche quando l'adsorbente è un colloide. Allo stato sia d'idrosoli che d'idrogeli i colloidi presentano grandissima superficie e dànno luogo a intensi fenomeni d'adsorbimento. È noto dalla chimica analitica quanto gl'idrogeli trattengono tenacemente parte delle sostanze disciolte. Quando q è elevato possiamo dire che praticamente non è possibile sbarazzare il precipitato dall'elettrolita precipitante o dalle altre sostanze disciolte; peraltro q, che è elevatissimo per le sostanze organiche, è in generale basso per le inorganiche.

Questo adsorbimento avviene a più forte ragione con gl'idrosoli che hanno superficie maggiore di quella degl'idrogeli corrispondenti.

Molti composti complessi già considerati come specie chimiche non sono che composti d'adsorbimento. P. es. il cosiddetto ioduro d'amido la cui composizione è variabile e dipende dal tempo, dalla concentrazione, dalla temperatura, dalla presenza di altre sostanze, non è una specie chimica ma un composto d'adsorbimento. La nota colorazione azzurra si verifica anche quando lo iodio forma composti di adsorbimento consimili con altre sostanze organiche e anche con qualche colloide inorganico come il sesquiossido di titanio. I numerosi ossidi e idrati stannici a composizione variabile non sono con probabilità che composti d'adsorbimento dell'idrosolo d'acido stannico con protossido di stagno. La cosiddetta porpora di Cassio, che, com'è noto, si ottiene trattando un sale d'oro con cloruro stannoso, in forma di precipitato color indaco, è stata ottenuta da Zsigmondy mescolando oro colloidale con acido stannico colloidale, cosicché si può ritenere come il prodotto d'adsorbimento d'un colloide mediante un altro. Secondo alcuni autori, all'adsorbimento d'un colloide stabile per parte d'un colloide instabile si dovrebbe, come s'è già accennato, l'azione protettiva del primo sul secondo.

Abbiamo parlato specialmente dei fenomeni di adsorbimento per parte di solidi suddivisi in contatto con soluzioni. Ma gli stessi fenomeni si verificano anche per liquidi suddivisi (p. es. allo stato di emulsioni) in contatto con soluzioni. L'esistenza di tali fenomeni può essere comprovata facilmente dalle variazioni della tensione superficiale. Così liquidi e solidi suddivisi (in particolare allo stato di emulsione e di soluzione colloidale) possono adsorbire gas. Inversamente, un gas suddiviso in una schiuma può adsorbire sostanze disciolte nel liquido entro al quale s'è formata la schiuma, come s'è già visto per l'anidride carbonica della birra che adsorbe la destrina.

Varie teorie sono state proposte per spiegare i fenomeni d'adsorbimento, ma nessuna si può considerare sicura e completa; forse sarebbe erroneo considerare tutti i composti d'adsorbimenta alla stessa stregua. Con la teoria di Weimarn, che vede, nelle particelle colloidali, dei sistemi a struttura microcristallina che per processi evolutivi spontanei più o meno lunghi tendono verso la forma macrocristallina, collegando questa teoria con la conoscenza dei reticoli cristallini resa possibile dall'uso dei raggi X, s'intuisce che i fenomeni d'adsorbimento potranno essere dovuti alle condizioni eccezionali in cui si trovano gli ioni superficiali in confronto a quelli interni. Si ricordi quanto s'è detto circa la peptizzazione del bromuro d'argento con nitrato d'argento o bromuro potassico.

Continuità fra soluzioni colloidali e soluzioni comuni. - L'affermazione che non v'è una differenza sostanziale fra soluzioni colloidali e soluzioni comuni, potrebbe essere suffragata o dal fatto che è possibile passare con continuità dalle prime alle seconde, ovvero anche da determinazioni dirette di diffusione, pressione osmotica, abbassamento del punto di congelamento, ecc., comprovanti che le soluzioni colloidali si comportano come le soluzioni comuni.

Per ciò che riguarda l'esistenza di sistemi intermedî fra quelli in cui le partìcelle disperse hanno diametri di 2 a 3 mμ e le soluzioni con molecole ordinarie, nulla possiamo sapere usando l'ultramicroscopio e l'ultrafiltrazione. Tutt'al più esistono prove indirette delle quali s'è già dato un cenno a proposito della classificazione dei sistemi dispersi. Anche da ricerche di Weimarn segue che modificando gradualmente le condizioni d'equilibrio d'un sistema disperso, si può, senza alcuna discontinuità, passare da soluzioni colloidali a soluzioni ordinarie. Per es., partendo da soluzioni di cloruro sodico in alcool metilico, con raffreddamenti successivi si può far variare il grado di dispersione fino a ottenere sistemi che vanno dallo stato di sospensione pura, a quello di soluzione colloidale e infine a quello di soluzione vera. Tale passaggio graduale si segue anche studiando gli spettri d'assorbimento di questi sistemi nel corso di queste variazioni graduali; man mano che i granuli impiccoliscono, lo spettro si modifica tendendo come limite allo spettro d'assorbimento della soluzione vera.

La determinazione della pressione osmotica sembrerebbe la più adatta a risolvere il problema dell'identità fra soluzioni colloidali e soluzioni comuni. Ma osserviamo anzitutto che essendo tale pressione inversamente proporzionale al peso molecolare, dev'essere in generale assai piccola nel caso di colloidi. È facile calcolare che, p. es., una soluzione colloidale d'oro con granuli di 2 mμ, cioè molto dispersa, contenente 1 grammo d'oro in un litro, dovrebbe dare, se fossero applicabili le formole di Van 't Hoff, una pressione di mm. 3,34. Ora pressioni così piccole possono essere dovute anche a impurità, tanto più che non solo riesce difficile sbarazzare il colloide da tracce di elettroliti, ma sappiamo, per quanto s'è detto a proposito della peptizzazione, che piccole quantità di elettroliti è necessario siano presenti. Però con altre soluzioni colloidali si sono potute misurare pressioni più sensibili. P. es., il Linebarger operando su un sistema disperso ottenuto dall'acido tungstico ha trovato una pressione osmotica abbastanza sensibile (25,2 cm. di mercurio per una soluzione a 2,4% e a 17°). Pressioni sensibili osservò il Duclaux adoperando osmometri di collodio e come liquido esterno, anziché l'acqua, il liquido ottenuto da una porzione della soluzione stessa per filtrazione attraverso membrane di collodio. Sui risultati di tali ricerche s'è molto discusso, ma anche ammettendo che risulti dimostrata l'esistenza d'una vera pressione osmotica dovuta unicamente al colloide, è fuori di discussione che per ragioni ancora poco note tale pressione non obbedisce alle leggi di Van t'Hoff. Infatti solo eccezionalmente essa è proporzionale alla concentrazione e alla temperatura assoluta.

La dimostrazione più soddisfacente che le particelle colloidali si comportano cineticamente come i gas e le sostanze disciolte, si trova invece, come già s'è accennato, nello studio dei moti browniani che corrispondono (secondo le esperienze di Perrin, di Svedberg e di altri) alle previsioni fatte in base alle teorie cinetiche.

Preparazione dei sistemi colloidali. - La preparazione di molte soluzioni di colloidi stabili, specie naturali, è facilissima; di sostanze minerali è meno facile e richiede speciali artifici.

I metodi di preparazione si possono suddividere in due grandi categorie. Se si parte da sostanze non disperse occorre procedere alla dispersione, se si tratta di sostanze allo stato di soluzioni ordinarie bisogna ricorrere a metodi di condensazione.

I principali metodi di dispersione sono i seguenti:

1. Dispersione meccanica diretta. - Questo metodo consisterebbe nel polverizzare direttamente la sostanza solida con mezzi opportuni per poi sospenderla in un liquido. Ma è pressoché impossibile arrivare con esso a particelle ultramicroscopiche.

2. Dispersione spontanea. - Avviene per semplice contatto della sostanza col liquido. Si verifica specialmente coi colloidi naturali; in tal modo si ha, p. es., una soluzione colloidale da albumina e acqua fredda, amido e acqua calda, cellulosa e ossido di rame ammoniacale, caucciù e benzolo, ecc.

3. Dispersione per azione di un altro solvente su una soluzione. - Se, p. es., una sostanza è solubile in alcool e insolubile in acqua si può ottenere un dispersoide o un emulsoide (secondo che la sostanza disciolta è solida o liquida) versando la soluzione alcoolica della sostanza in acqua. Regolando la concentrazione della soluzione e il rapporto fra il volume dei due liquidi si può regolare altresì lo stato di suddivisione.

4. Dispersione elettrica. - Questo procedimento, dovuto al Bredig, è servito in origine a preparare soluzioni colloidali di metalli nobili; s'è esteso poi anche ad altri metalli, a metalloidi e a composti. Esso consiste nel mettere in acqua pura e raffreddata (o anche in altri liquidi) due elettrodi filiformi del metallo, stabilendo poi un piccolo arco voltaico sott'acqua con una corrente continua (da 5 a 10 ampère e 30 a 110 volt). Regolando l'intensità si possono ottenere particelle metalliche che poi si diffondono in tutta la massa. L'anodo s'accresce leggermente. Così si possono preparare i sali di metalli inossidabili come oro, argento, platino. Per altri metalli di media ossidabilità (cadmio, rame, ecc.) si può usare acqua privata accuratamente dell'aria disciolta. Per metalli più ossidabili (zinco, ferro) si possono adoperare liquidi organici come alcool isobutilico, etilmalonato, cloroformio, ecc., abbassando molto la temperatura. Le particelle dei colloidi così ottenuti contengono come impurità forti quantità di carbonio.

Col metodo Svedberg si sostituisce all'arco una scarica elettrica oscillatoria ad alta tensione. Introducendo nel circuito un induttore ad alta capacità e tenendo bassa l'autoinduzione e la resistenza del circuito, s'ottengono idrosoli molto puri. Data la lunghezza delle scariche si può vantaggiosamente interporre fra i due fili una lamina del metallo da disperdere. Con questo sistema si sono ottenuti idrosoli di molti metalli e anche di metalloidi come carbonio, silicio, selenio, tellurio.

5. Lavaggio dei precipitati colloidali. - È noto che molte volte, lavando a lungo degl'idrogeli fino a eliminare quasi del tutto l'elettrolita coagulante o precipitante, si vede l'idrogelo attraversare il filtro dando origine a un solo. In tali casi la chimica analitica consiglia di lavare il precipitato con soluzioni di elettroliti opportunamente scelte. Così accade, p. es., con molti solfuri (di rame, zinco, nichel, ecc.).

6. Separazione dell'elettrolita coagulante per dialisi. - Questo metodo è analogo al precedente, con la differenza che l'elettrolita coagulante, anziché essere separato per lavaggio, lo è per dialisi. Cosi si prepara l'acido silicico colloidale partendo da silicato sodico e acido cloridrico ed eliminando HCl e NaCl per dialisi.

7. Peptizzazione dei geli. - Di questo metodo abbiamo già parlato in precedenza.

I metodi per condensazione sono per solito metodi chimici: si cerca di formare, in condizioni opportune, mediante una reazione chimica, la sostanza che si vuole ottenere allo stato di idrosolo. Per esempio con la reazione

si ha un idrosolo di solfuro d'arsenico.

Così si possono ottenere altri solfuri colloidali.

Molti idrati colloidali si ottengono per precipitazione dei loro sali con idrato sodico in opportune condizioni o per idrolisi dei loro sali. Va tenuto presente, in quest'ultimo caso, che l'idrolisi aumenta per diluizione e per riscaldamento; può essere anche aumentata eliminando l'acido con la dialisi. È con tali sistemi che s'ottiene l'idrato ferrico colloidale, uno dei colloidi più studiati.

Molti metalli nobili si ottengono come idrosoli a granuli piccolissimi per riduzione dei loro sali con riducenti appropriati. Per es., si ha palladio colloidale per riduzione del cloruro con ossido di carbonio; oro colloidale riducendo i sali d'oro con idrazina, ecc.

Nelle reazioni di doppio scambio non sempre è possibile evitare che si formino elettroliti nel corso della reazione, elettroliti che possono impedire la formazione dell'idrosolo. In tal caso si può ricorrere all'uso di colloidi protettori che rendono nulla l'azione coagulante dei suddetti elettroliti. I colloidi protettori più usati allo scopo sono la gomma arabica e l'acido lysalbinico.

Applicazione dei colloidi all'agricoltora e all'industria. Fin dal 1870 un eminente cultore di chimica agraria, lo Schlösing, stabilì la natura colloidale d'una parte almeno dell'argilla del terreno e su ciò basò un metodo di separazione dell'argilla stessa. Se si tolgono mediante acido cloridrico i meno insolubili fra i sali di calcio e di magnesio e dopo accurato lavaggio si sospende il residuo in acqua, sì può, dopo aver lasciato depositare gli altri materiali, ottenere una soluzione d'argilla tipicamente colloidale, che si conserva a lungo, presenta il fenomeno Tyndall, non contiene granuli visibili con i metodi ordinarî ma solo con l'ultramicroscopio: tali granuli sono animati da movimenti browniani. Dal comportamento elettrico si desume che l'argilla è un colloide negativo.

Nel terreno agrario, oltre a una parte dell'argilla, vi sono molti altri colloidi fra i quali ricordiamo gl'idrati di ferro e d'alluminio, le materie umiche, ecc. Nelle piene dei fiumi, com'è noto, solo una parte della terra trasportata si deposita; l'argilla colloidale resta sospesa e si deposita solo quand'è giunta al mare in seguito ad azione coagulante dei sali delle acque marine. L'acqua circolante nel terreno agrario essendo più o meno ricca di anidride carbonica contiene sempre in soluzione dei sali di calcio e di magnesio, specie bicarbonati; questi sali con la loro azione coagulante impediscono che un materiale prezioso come l'argilla colloidale venga disperso, o almeno ne limitano la dispersione.

Ma dove specialmente si manifesta l'importanza dei colloidi nel terreno agrario è nella parte che essi hanno nel determinare il potere assorbente. Questa importante proprietà, scoperta fino dal 1819 dal Gazzeri, consiste nell'attitudine che ha il terreno agrario di trattenere i principali fertilizzanti solubili impedendo così che piogge abbondanti li disperdano, e di trattenerli in una forma facilmente assimilabile. Un tempo il potere assorbente si attribuiva solo a reazioni di doppio scambio con formazione di composti insolubili, ma ciò non spiegava come i fertilizzanti non perdessero la loro attività e restassero prontamente assimilabili.

Ora, come s'è detto, nel terreno esistono numerosi colloidi i quali è da credere che formino coi fertilizzanti dei composti d'adsorbimento, trattenendo specialmente fosfati, sali ammoniacali e potassici. Che ciò avvenga realmente è stato provato dal Pratolongo con una lunga serie di esperienze. Il vantaggio che presenta tale forma d'assorbimento nei confronti d'una precipitazione pura e semplice è evidente: le sostanze fertilizzanti vengono trattenute quel tanto che basta affinché non avvengano dispersioni notevoli, ma non così tenacemente che le piante non possano assimilarle Per azione d'una determinata quantità d'acqua passerà in soluzione un po' dei fertilizzanti adsorbiti secondo la legge espressa approssimativamente dalla formula

con q variabile per le diverse coppie di colloidi e di fertilizzanti. Quando le radici delle piante attingono, con il loro ben noto potere selettivo, i fertilizzanti così solubilizzati, avviene la rottura dell'equilibrio e nuovo fertilizzante passa automaticamente in soluzione e così via. Certo è che specie per quelle coppie per cui q è elevato potrà restare praticamente inutilizzata anche una parte discreta del prodotto adsorbito, ma ciò, come si comprende, avverrà una volta sola.

Si vede quindi che i colloidi regolano nei liquidi circolanti nel terreno la concentrazione dei fertilizzanti, impedendo dispersioni e anche formazione di soluzioni troppo concentrate. Non vengono adsorbiti i nitrati, ma essi, in seguito ai procedimenti naturali di nitrificazione si formano lentamente e vengono subito assimilati man mano che si formano. Quanto alle concimazioni artificiali con nitrati, il fatto ch'essi non vengono adsorbiti suggerisce varie norme nel loro uso, ben conosciute dagli agricoltori.

È noto che nei terreni troppo forti, cioè contenenti una proporzione eccessiva d'argilla colloidale, si fanno correzioni con calce o con gesso. Evidentemente questo mezzo, suggerito dalla pratica, deve la sua efficacia all'azione coagulante del catione bivalente del calcio, per la quale l'argilla assume uno stato speciale granulare e il terreno ne acquista in scioltezza. L'industria ha preparato una serie di prodotti colloidali d'uso agricolo che cominciano a entrare nella pratica. I preparati anticrittogamici colloidali come, p. es., solfo, idrossido di rame, ossido di zinco colloidali permetteranno probabilmente di realizzare notevoli economie nel consumo di queste sostanze. Così s'è preparato anche arseniato di piombo colloidale per la lotta contro gl'insetti devastatori.

Le industrie ove si lavorano sostanze colloidali e ove si cominciano ad applicare le conoscenze acquisite sui colloidi sono innumerevoli. Dovremo limitarci a dare un cenno delle più importanti.

Si preparano in grande metalli colloidali specialmente per uso medicinale. Fra essi ricorderemo l'argento, l'oro, il mercurio colloidale, i quali si ottengono per solito mediante polverizzazione elettrica o per riduzione dai loro composti, e si stabilizzano con protettori appropriati, p. es. con acido lysalbinico. Anche metalloidi come lo iodio e composti come il calomelano, l'ossido di ferro, ecc., sono stati ottenuti in forma colloidale stabile. Si sono preparati allo stato di soluzione colloidale anche prodotti farmaceutici organici come colesterina, catrame di pino, ecc.

Il portare i metalli allo stato colloidale può riuscire utile quando si tratti di lavorare metalli pressoché infusibili come, p. es., il tungsteno (p. fus. quasi 3000). Per ottenere i filamenti di tungsteno per le lampadine a incandescenza, anzitutto si polverizza finamente questo metallo e si mette la polvere in contatto con acqua; la massa debolmente plastica così ottenuta si tratta ripetutamente e alternativamente con acidi, acqua, alcali: si riesce in tal modo a trasformare il metallo, che è a struttura cristallina, in una forma colloidale. Questa operazione è, come si vede, una peptizzazione; essa permette d'ottenere una massa molto plastica che si fa passare sotto pressione in fori sottilissimi. I filamenti cosi ottenuti, riscaldati al calor bianco, diventano omogenei.

Nella fabbricazione dei vetri colorati abbiamo un esempio notevole di fenomeni di pertinenza della chimica dei colloidi. Si può ottenere, p. es., un bellissimo vetro color rubino con quantità piccolissime d'oro. Aggiungendo alla massa vetrosa fusa piccole quantità di cloruro d'oro, all'atto della solidificazione si separano delle particelle d'oro, ma essendo allo stato di amicroni il vetro appare perfettamente incoloro. Riscaldando di nuovo fino a rammollimento le particelle crescono; fermando l'operazione al momento opportuno s'ottiene il vetro rubino. Invece riscaldando a lungo e troppo, le particelle ingrossano eccessivamente fino a separarsi e il colore sparisce. Per errori di fabbricazione, specialmente per cattiva qualità del vetro, si ha talora una colorazione azzurra, violetta o rosa. Per avere la suddetta colorazione bastano quantità d'oro così piccole che la preparazione potrebbe servire a scopo analitico. Questi vetri ci forniscono un esempio di soluzione colloidale d'un solido in un solido, senza moti browniani.

Anche la fabbricazione dei vetri opalescenti mediante l'aggiunta di allumina, ossido stannico, fosfati alcalini, criolite, è un fenomeno colloidale. Se l'opalescenza non è voluta, ma si deve a qualcuna delle suddette sostanze presenti come impurità, la si evita con l'aggiunta di cloruro sodico, fatto significante perché questo sale coagula le sopraddette sostanze se disperse in acqua.

Nelle industrie ceramiche s'utilizzano colloidi tipici, come l'argilla e il caolino. Queste sostanze inizialmente non sono completamente colloidi, ma lo possono diventare con un processo più o men0 lungo di maturazione, che conferisce ad esse maggiore plasticità. Anche qui si tratta, in fondo, d'una peptizzazione. Sembra che a determinare le proprietà dell'argilla contribuiscano, oltre ai noti componenti minerali, anche piccole quantità di sostanze organiche.

Le proprietà dei cementi sono pure in relazione alla loro natura colloidale. Secondo ricerche recenti di Kumagae e Yoshioka, la solidificazione e l'indurimento nei cementi di tipo ordinario sono causati rispettivamente dalla formazione di cristalli di calce e d'allumina seguiti poi dalla formazione molto più lenta d'una massa amorfa, gelatinosa, formata anch'essa da calce e allumina. Anche nei supercementi tipo Portland la presa è il risultato della formazione di sostanze cristalline e l'indurimento della coagulazione d'una massa amorfa intorno a un reticolato di fini cristalli.

Nella preparazione delle lastre fotografiche e nell'interpretazione dei processi fotografici il Luppo-Cramer e altri hanno applicato con successo la chimica dei colloidi. In detti processi entrano in gioco composti colloidali dell'argento e composti d'adsorbimento di questi. Nella formazione dell'immagine latente si ha la produzione di composti d'adsorbimento dell'argento da parte del bromuro d'argento.

I processi di tintura, specie con colori sostantivi, sono fondati unicamente sulla formazione di composti d'adsorbimento, la stabilità dei quali è regolata dalle costanti che figurano nell'equazione di adsorbimento. Queste variano per le varie coppie di fibre che rappresentano il colloide adsorbente e di sostanze coloranti che rappresentano l'adsorbendo. La stabilità è notevole quando il valore q è elevato, come p. es. nelle coppie lana e blu di metilene, seta e verde malachite, ecc.

Le resine sintetiche costituiscono un'industria moderna in continuo sviluppo che s'occupa della preparazione di varie sostanze di natura colloidale o sub-colloidale. Le resine sintetiche s'ottengono dalla condensazione di fenoli con aldeidi in presenza di acidi o di basi che fungono da catalizzatori. Come primo prodotto di condensazione si hanno complessi molecolari usati nella fabbrica di vernici, poi degli isocolloidi, infine dei colloidi tipici come la bakelite adoperata come isolante. Anche il caucciù è un colloide tipico. Esso risulta probabilmente da un'associazione complessa di diversi stadî di condensazione dell'isoprene. Il lattice è una soluzione colloidale che contiene il caucciù come emulsoide insieme con sostanze proteiche ad azione protettiva. Il processo di vulcanizzazione è un processo di adsorbimento.

Nei processi di concia abbiamo un fenomeno d'adsorbimento fra due emulsoidi. Nella fabbricazione della seta artificiale noi abbiamo a che fare con sostanze e sistemi colloidali; l'importante problema di ricupero della soda è un problema di chimica colloidale. Anche la fabbricazione della carta non è di natura puramente meccanica ma in essa intervengono fenomeni colloidali. Nella fabbricazione della pasta noi abbiamo la formazione d'un gelo di fibre colloidali e il rigonfiamento di queste: quando s'aggiunge argilla, talco, gesso, si hanno fenomeni d'assorbimento.

Da ultimo diremo che nella preparazione di sostanze alimentarì l'applicazione della chimica dei colloidi non è meno importante. Nell'estrazione dello zucchero, nella preparazione della birra, nelle manipolazioni dei vini, si hanno operazioni la maggior parte trovate empiricamente, ma che hanno la loro spiegazione nella chimica colloidale. Esse potranno essere migliorate e altre nuove potranno introdursi grazie alla conoscenza profonda dei colloidi. Anche lo studio del latte come sistema colloidale può portare ad applicazioni pratiche importanti. Da esperienze di Anderson risulterebbe che i globuletti di grasso non si riuniscono per l'azione protettiva della caseina (anch'essa colloide liofilo) e che togliendo questa con mezzi opportuni si potrebbe separare il grasso ottenendo così il burro senza adoperare mezzi meccanici. Ma ciò che oggi specialmente interessa è l'estrazione della caseina, della quale si sfruttano le proprietà plastiche e collanti per usi industriali. Nell'estrazione d'un tipo costante di caseina si sono potuti raggiungere notevoli progressi quando s'è applicata la chimica colloidale; s'è così potuto stabilire per merito di Clark, Foller e Weimarn che per la caseina quel punto isoelettrico che rappresenta l'optimum di precipitazione si ha quando pH = 4,6. In queste condizioni essa dev'essere precipitata e poi il lavaggio si deve fare con acqua acidificata contenente lo ione idrogeno alla suddetta concentrazione.

Bibl.: Selmi, Principi elementari di chimica minerale, Torino 1857, 2ª ed.; Graham, Philos. trans., CXXXVIII, Londra 1861; H. Freundlich, Kapillarchemie, Lipsia 1909; I. M. Bemmelen, Die Absortion, Dresda 1910; P. Weimarn, Grundzüge der Dispersoidchemie, Dresda 1911; L. Cassuto, Lo stato colloidale della materia, Pisa 1913; P. Weimarn, Zur Lehre von den Zuständen der Materie, Dresda e Lipsia 1914; R. Zsigmondy, Lehrbuch der Kolloidchemie, 2ª ed., Lipsia 1918, trad. italiana Milano 1931; J. Perrin, Les atomes, Parigi 1919; A. De Gregorio Rocasolano, Eléments de chimie physique colloïdale, Parigi 1920; T. Svedberg, Die Existenz der Moleküle e Die Methoden zur Herstellung Kolloider Lösungen anorganischer Stoffe, Dresda e Lipsia 1920; W. Ostwald, Grundriss der Kolloidchemie, 7ª ed., Dresda e Lipsia 1922; V. Pöschl, Einführung in die Kolloidchemie, Dresda e Lipsia 1923; I. Duclaux, Les colloïdes, Parigi 1925; W. Kopaczewski, L'état colloïdal et l'industrie, voll. 2, Parigi 1927; J. Reitstötter, Die Herstellung Kolloider Lösungen anorganischer Stoffe, Lipsia 1927; Liesegang, Kolloidchemische Technologie, Lipsia 1927.

Riviste speciali: Kolloid-Zeitschr., dal 1906 a oggi (voll. 42); Kolloidchemische Beihefte, dal 1909; Revue gén. des colloïdes, dal 1923 a oggi (voll. 6).

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