Cognizione

Universo del Corpo (1999)

Cognizione

Claudio de' Sperati
Massimo Piattelli Palmarini
Antonio Semerari

Il termine indica sia l'atto del conoscere e la facoltà stessa che consente di conoscere (la facoltà di apprendere e di valutare la realtà circostante, l'intelligenza), sia, specialmente usato al plurale, le 'cose' conosciute, le notizie o informazioni procurate per via diretta o con lo studio. L'aggettivo 'cognitivo' indica tutto ciò che riguarda il conoscere; in particolare, in psicologia si definiscono cognitivi i processi mediante i quali un organismo acquisisce informazioni sull'ambiente e le elabora a livello di conoscenze in funzione del proprio comportamento (percezione, immaginazione, simbolizzazione, formazione di concetti, soluzione di problemi).

Aspetti cognitivi della corporeità

di Claudio de' Sperati, Massimo Piattelli Palmarini

I.

La relazione tra cognizione e motricità

Quello delle relazioni tra percezione e movimento è un problema classico della neurofisiologia e della psicologia. Il mondo circostante ci apparirebbe diverso se, per ipotesi, tutti i nostri movimenti spontanei fossero uniformemente e inconsapevolmente accelerati, o ritardati? Fino dal Settecento ci si era chiesti se un cieco dalla nascita, perfettamente capace di riconoscere al tatto cubi, sfere e coni, avrebbe potuto, acquistando la vista, riconoscerli subito con lo sguardo. Nei primi anni Sessanta del 20° secolo, grazie agli studi dello psicologo inglese R. Gregory, si è scoperto che ciò è possibile.

Tuttavia, mentre la ricerca risolveva alcuni di questi antichi interrogativi, ne apriva di nuovi, prospettando una stretta interdipendenza tra sistemi di rappresentazione mentale e schemi motori, tra cognizione e motricità. W. Evarts, sempre negli anni Sessanta, mostrò che nella scimmia Rhesus si attivano più aree cerebrali quando l'animale è costretto a effettuare un movimento preciso con un solo dito, di quante non se ne attivino quando è libero di effettuare movimenti generici con tutto il braccio e la mano. È stato, inoltre, dimostrato che la pianificazione motoria ha origine in diversi specifici centri nervosi, prima che qualsiasi muscolo venga messo in esercizio, sotto forma di 'pacchetti' di impulsi altamente coordinati e talvolta assai complessi. A un altro estremo, alcuni tipi di movimento, come quello della prensione di un piccolo oggetto, scaturiscono selettivamente in specifici centri nervosi, al limite in singoli neuroni specializzati, indipendentemente da come poi vengano effettuati dal punto di vista muscolare, per es. con la mano destra, oppure con la mano sinistra o perfino con la bocca. Recenti studi comparativi sulla rappresentazione mentale di movimenti e sull'esecuzione effettiva di tali movimenti, hanno dimostrato che esiste una stretta identità tra le leggi matematiche dei movimenti concretamente effettuati in modo naturale e le leggi dei movimenti che l'occhio spontaneamente percepisce, appunto, come naturali (Viviani-Stucchi 1992). Spesso gli stessi centri cerebrali sono attivi sia quando un certo movimento viene effettuato, sia quando il soggetto, restando perfettamente immobile, immagina solamente di effettuare quel movimento.

Non va, tuttavia, dimenticato che gli aspetti cognitivi della corporeità e del movimento costituiscono solo una piccola parte di una ricchissima letteratura sulla psicologia del corpo, la quale si fonda su una pluralità di paradigmi, approcci e pratiche che sarebbe riduttivo voler condensare nel termine cognizione. Possiamo comunque anticipare che sempre di più, negli anni a venire, lo studio della motricità, quello della percezione e quello delle rappresentazioni mentali intimamente associate al movimento corporeo diventeranno inscindibili l'uno dall'altro. Esaminiamo alcune delle principali componenti di questo sistema altamente integrato, facendo risaltare di volta in volta l'importanza relativa delle informazioni di origine periferica e delle informazioni di origine centrale nella costituzione dell'immagine corporea, intendendo con tale espressione sia l'immagine conscia del nostro corpo, sia la rappresentazione motoria implicita, che non rientra strettamente nell'esperienza cosciente, ma che pur influenza o guida alcune funzioni, come l'organizzazione posturale e dei movimenti.

2.

Il 'sesto senso': la percezione del corpo

L'informazione che proviene continuamente da alcuni recettori periferici (fusi neuromuscolari, organi tendinei, recettori articolari, organo dell'equilibrio dell'orecchio interno) svolge un ruolo importante, oltre che nel mantenimento automatico della postura e dell'equilibrio, anche nella genesi delle sensazioni cinestesiche, costituendo quella particolare e complessa modalità sensoriale denominata propriocezione. A questo insieme di segnali va ad aggiungersi il contributo non secondario della visione (cinestesia visiva: si pensi al fenomeno illusorio per cui, quando siamo fermi in automobile e l'autobus a fianco parte, crediamo di essere noi ad arretrare) e dei recettori tattili cutanei (si pensi alle informazioni cutanee quando siamo seduti). I segnali codificati nell'attività bioelettrica di tutti questi recettori vengono trasmessi al sistema nervoso centrale attraverso diverse vie nervose afferenti.In contrapposizione alle teorie 'perifericiste', derivate dal concetto di arco riflesso e dalle ricerche di C.S. Sherrington, che sottolineano il ruolo della propriocezione nel generare le immagini corporee, le teorie 'centraliste' della cosiddetta scuola helmholtziana pongono, invece, l'accento sui processi interni, in particolare sui segnali motori. Tale teoria postula che un segnale endogeno cerebrale (detto copia efferente o scarica corollaria), derivato da una duplicazione del comando motorio, sia in grado di determinare una sensazione cosciente. L''illusione di Dunker' (la sensazione, guardando la luna in mezzo a nuvole che si muovono velocemente, che sia la luna a muoversi in senso opposto alle nuvole), per la quale peraltro oggi si propongono interpretazioni diverse, è stata spiegata da H. Helmholtz proprio con l'intervento di un segnale motorio. Secondo Helmholtz, l'atto motorio volontario di fissare la luna con lo sguardo, che sopprime la tendenza a seguire invece le nuvole, viene implicitamente interpretato dal sistema nervoso come un indizio che stiamo seguendo con lo sguardo qualcosa che si muove; da ciò deriverebbe l'inferenza inconscia che la luna si stia muovendo.

Senza entrare in merito a questa lunga diatriba (per una rassegna si veda McCloskey 1981), che solo in rari casi, peraltro, vede assumere posizioni estreme tra loro incompatibili, basterà rilevare che è difficile assegnare una priorità causale, almeno all'interno di un'analisi di tipo sincronico, alle informazioni derivate dalla periferia o a quelle endogene. In effetti il nostro cervello non si limita a registrare passivamente i segnali periferici; esistono dei meccanismi centrali di integrazione che organizzano, arricchiscono, e talvolta addirittura sostituiscono, l'informazione periferica.

Che i segnali propriocettivi possano determinare sensazioni di movimento è ormai accertato. Applicando una leggera vibrazione meccanica a un muscolo del braccio, possiamo pilotare i segnali che originano dai fusi neuromuscolari e generare una precisa sensazione di movimento (Goodwin-McCloskey-Matthews 1972). Mediante opportuni accorgimenti nella procedura di stimolazione, riusciamo addirittura a evocare la sorprendente sensazione che il braccio si trovi in una posizione impossibile (Cranske 1977). Quest'ultima osservazione suggerisce anche che le sensazioni corporee non sono interamente riconducibili ai soli segnali periferici: il fatto che illusorie posizioni impossibili siano immediatamente rilevate come tali indica che l'informazione propriocettiva è confrontata con un modello interno delle possibili posizioni del braccio.

Il caso forse più emblematico che ci rivela l'esistenza di una rappresentazione corporea interna, relativamente indipendente dai segnali propriocettivi, è quello del cosiddetto arto fantasma, un fenomeno illusorio per il quale circa il 95% delle persone che hanno subìto l'amputazione di un arto continua a percepirne vividamente l'esistenza, con tanto di pruriti e sensazioni di contatto. La rappresentazione interna sopravvive alla scomparsa della sorgente primaria di informazioni propriocettive (Bradley 1955). I casi di amputazione costituiscono un utile modello sperimentale per lo studio della rappresentazione sensorio-motoria a livello della corteccia cerebrale. Uno dei fenomeni più interessanti è il rimodellamento delle cosiddette mappe corticali, cioè le zone della corteccia che, come in una carta geografica, stabiliscono un rapporto punto a punto con le varie parti del corpo. Grazie alla plasticità del sistema nervoso, in conseguenza di un'amputazione la zona della corteccia cerebrale normalmente deputata alla rappresentazione di quella parte del corpo può essere 'riconvertita' a uso di altre parti. Sempre rimanendo nell'analogia della carta geografica, è come se, in seguito alla scomparsa di un territorio, a causa per es. di un terremoto, la parte della carta che prima riproduceva quella zona venisse riempita dai cartografi con un'estensione della rappresentazione delle zone limitrofe.

3.

La percezione del movimento biologico

L'integrazione dei segnali periferici con un modello interno avviene anche quando il movimento lo viviamo da osservatori, cioè quando parte dell'informazione è di provenienza esterna al nostro corpo. Sfruttando il cosiddetto movimento apparente, in cui delle immagini statiche vengono presentate in rapida successione dando luogo all'impressione di movimento (come nei cartoni animati), si è trovato che tendiamo a interpretare la successione di due immagini di un avambraccio mostrato in posizioni estreme come una rotazione sul gomito, lungo la traiettoria consentita dai vincoli anatomici e non lungo quella fisicamente più breve (Shiffrar-Freyd 1990). Questo dato si può spiegare ammettendo che il movimento sia ricostruito internamente sulla base di un modello cinematico in cui siano codificati i vincoli biomeccanici del corpo. Un'ipotesi simile potrebbe rendere conto anche della straordinaria capacità che abbiamo di riconoscere il moto biologico. Negli anni Settanta lo svedese G. Johansson mise a punto una tecnica innovativa per lo studio del movimento: a una persona venivano applicati dei piccoli marker luminosi puntiformi in corrispondenza delle articolazioni principali. Veniva poi spenta la luce, sicchè della sagoma si potevano vedere solo i marker. A un osservatore veniva chiesto di osservare quei punti luminosi. Finché la persona rimaneva immobile, i puntini sembravano senza significato; quando però iniziava a camminare, istantaneamente l'osservatore riconosceva una persona in movimento (Johansson-Bergström-Epstein 1994). La sensibilità visiva è talmente raffinata che con questa tecnica riusciamo a distinguere un uomo da una donna e addirittura noi stessi in mezzo ad altre sagome in movimento, benché le occasioni di osservarci dal di fuori siano decisamente infrequenti. Qualcosa di analogo, sebbene in modo statico, avviene quando vediamo le costellazioni tra una miriade di altre possibili organizzazioni figurali fra le stelle: l'informazione periferica viene integrata con un modello interno basato su conoscenze implicite precedenti. La peculiare sintonia del sistema visivo con il moto biologico si estende probabilmente a tutti i movimenti che obbediscono ad alcune regole motorie fondamentali, anche nel caso di un semplice puntino in movimento animato al computer secondo leggi del moto mutuate dal nostro repertorio naturale di movimenti (Viviani-Stucchi 1992).

4.

L'immaginazione motoria: il corpo nel pensiero

Anche in assenza di segnali periferici, siamo poi tutti anche in grado di 'pensare il corpo', esattamente come quando visualizziamo mentalmente una scena visiva a occhi chiusi. Possiamo immaginare un'altra persona che corre, ma anche il nostro stesso movimento, come l'atleta che ripassa mentalmente un esercizio durante gli allenamenti. Si tratta della cosiddetta immaginazione motoria.

Il dibattito sulla natura delle immagini mentali mette in luce due linee di pensiero predominanti. Da una parte, le teorie computazionali della mente fanno ritenere che le immagini mentali siano descrivibili mediante espressioni di tipo proposizionale, cioè entità simboliche relativamente indipendenti dalla modalità sensoriale cui si riferiscono (Pylyshyn 1973). Dall'altra, sulla scia della tradizione empirista, le immagini mentali sono considerate rappresentazioni interne, costruite sulla base dell'esperienza sensorio-motoria del mondo esterno. In tal senso, perciò, e in contrasto con la presunta natura simbolica suggerita dalle teorie computazionali, esse manterrebbero molte delle caratteristiche del dominio (visivo, propriocettivo, acustico, motorio ecc.) a cui si riferiscono (Kosslyn 1994). Le immagini motorie sembrerebbero appartenere a quest'ultimo tipo.Alcuni recenti esperimenti mostrano che eseguire un movimento o semplicemente pensarlo sono due compiti che, a dispetto del loro apparente diverso status (motorio e mentale), hanno molto in comune. A un gruppo di soggetti è stato chiesto di camminare in linea retta per 15 metri. Successivamente è stato chiesto loro di immaginare di camminare lungo lo stesso percorso, e di segnalare il superamento (immaginato) dei 5, 10 e 15 metri. I tempi registrati durante la camminata mentale sono risultati molto simili a quelli registrati nella camminata effettivamente eseguita. Anche il cosiddetto fenomeno dell'isocronia (il tempo impiegato per scrivere o disegnare qualcosa è relativamente indipendente dalla scala spaziale) si manifesta nell'immaginazione: immaginare di eseguire la propria firma richiede circa lo stesso tempo per firme grandi o piccole, esattamente come avviene quando la firma la eseguiamo davvero. Le immagini motorie portano anche l'impronta di un'altra caratteristica importante del movimento, e cioè la forza impiegata, al punto che, se immaginiamo di correre o pedalare, la frequenza cardiaca e la ventilazione polmonare aumentano in misura proporzionale all'entità dello sforzo immaginato, benché la muscolatura rimanga inattiva. Tali modificazioni vegetative sono accompagnate da un'intensa sensazione di sforzo (Jeannerod 1994).

Eseguire o immaginare un movimento hanno, quindi, molte caratteristiche in comune, ma è sulle strutture cerebrali coinvolte che si è principalmente focalizzata la ricerca neuropsicologica. Gli studi più recenti confermano sostanzialmente alcuni aspetti emersi già da talune ricerche pionieristiche degli anni Settanta, e dimostrano che eseguire un movimento, o immaginare di farlo, determina l'attivazione di aree cerebrali in gran parte identiche, quali le aree premotorie, la corteccia parietale, i gangli della base, il cervelletto e forse anche la corteccia motoria primaria (Crammond 1997), tanto da far pensare che l'immaginazione motoria sia paragonabile alla fase di preparazione motoria (Jeannerod 1994), a quella fase cioè che, anche prima dell'inizio del movimento, serve a mettere a punto i tempi, la metrica, la forza, la sequenza di attivazione muscolare, il riaggiustamento posturale, le aspettative circa il risultato del movimento ecc. Normalmente queste operazioni avvengono in maniera automatica; nell'immaginazione motoria verrebbero, invece, evocate esplicitamente.Va detto che l'immaginazione motoria non è solo un'utile simulazione che serve a ripassare i movimenti, ma può anche essere funzionale ad attività non strettamente motorie. Una serie di esperimenti ha messo recentemente in luce che, nel riconoscere se una mano che stiamo osservando è una destra o una sinistra, evochiamo un'immagine della nostra propria mano, muovendola mentalmente fino a far coincidere le posizioni delle due mani: dal confronto con la nostra mano 'mentale' identifichiamo quella osservata. L'influenza delle immagini motorie sembra estendersi addirittura al riconoscimento visivo del movimento di oggetti manipolabili: il tempo per riconoscere se un cacciavite che stiamo osservando sta avvitando o svitando dipende dalla posizione del cacciavite rispetto alla nostra mano dominante, come se, per facilitare la risposta, dovessimo mentalmente accompagnare il cacciavite con la mano (de' Sperati-Stucchi 1997).

Il quadro che emerge da queste brevi considerazioni sugli aspetti cognitivi del corpo è dunque il seguente: l'immagine corporea si fonda su un delicato intreccio di componenti periferiche e centrali, il cui contributo relativo dipende da numerosi fattori, molti dei quali ancora poco chiariti. In questa prospettiva, il nostro universo corporeo è collocabile lungo un continuum che vede, a un estremo, la dominanza della componente periferica, nel senso che i segnali propriocettivi hanno un carattere vincolante. All'altro estremo dominano, invece, le componenti endogene, e la rappresentazione motoria interna consolidatasi nel tempo assume un ruolo primario, sia nel caso della percezione del nostro proprio corpo, sia nel caso della percezione di alcuni tipi di eventi esterni, sia infine nell'immaginazione motoria, nella quale si possono rintracciare alcuni vincoli riconducibili alle caratteristiche del nostro sistema motorio, sebbene in linea di principio essa non sia soggetta nemmeno alle leggi della fisica dei corpi solidi.

La ricca e complessa compenetrazione tra movimento, percezione e immaginazione mentale, dimostrabile già negli animali superiori, ha raggiunto nella nostra specie quel livello di raffinatezza e plasticità che suscita in noi espressa meraviglia quando ascoltiamo un virtuoso del pianoforte o del violino, o ammiriamo le prodezze degli atleti olimpionici, ma pone seri problemi descrittivi ed esplicativi allo scienziato che, semplicemente, cerca di capire come ci si muove, come si vede e come si progettano i movimenti nell'esistenza quotidiana.

La psicoterapia cognitiva

di Antonio Semerari

La psicoterapia cognitiva è un insieme di stili e tecniche psicoterapeutiche basato su tre principi generali: a) ciascun individuo possiede dei significati personali con cui interpreta sé stesso e gli eventi in cui è coinvolto; b) tali significati svolgono un ruolo importante nel determinare e mantenere la sofferenza psicologica e i sintomi psichiatrici; c) la coscienza, la distanza critica e il cambiamento dei significati problematici propri di ciascun paziente alleviano la sofferenza psicologica e riducono la sintomatologia. L'origine dell'attuale psicoterapia cognitiva si colloca nei primi anni Sessanta con i lavori di A. Ellis (1962) e A.T. Beck (1976). Beck è stato, inoltre, l'autore che ha proposto di definire cognitivo il tipo di approccio che si andava delineando e viene comunemente riconosciuto come il principale esponente della terapia cognitiva. Sia Beck sia Ellis erano di formazione psicoanalitica e, come altri analisti statunitensi della loro generazione, ritenevano che la psicoanalisi classica corresse il rischio di divenire un approccio stereotipato, in cui l'interpretazione dei fenomeni era ricondotta a un insieme di principi metapsicologici avulsi dalla concreta esperienza clinica. Il problema che essi si posero era, perciò, quello di pervenire a una teoria e a una pratica terapeutica fondate su ciò che concretamente pensa e prova il paziente.

I.

I pensieri automatici

Beck ed Ellis affrontarono il problema focalizzando l'interesse sui processi di pensiero preconsci, costituiti da brevi e semplici frasi dichiarative ed espressi nella forma telegrafica del linguaggio interiore, con cui le persone interpretano e commentano gli eventi e la loro condotta personale. Beck chiamò tali pensieri pensieri automatici, avvertendo che, pur essendo per loro natura accessibili alla coscienza, il loro riconoscimento richiede da parte dell'individuo un'attenzione ai propri processi interiori e un atteggiamento introspettivo. Questi pensieri, infatti, si presentano in modo automatico e possiedono per il soggetto un contenuto d'ovvia plausibilità, tanto che la persona che li genera ha l'impressione di percepire, tramite essi, le cose così come sono, senza la consapevolezza che si tratta di opinioni, valutazioni soggettive e opinabili.I pensieri automatici influenzano le emozioni negative più frequentemente coinvolte nella sintomatologia psichiatrica. La depressione, per es., viene mantenuta e alimentata da una costante ideazione negativa su di sé, sul mondo e sul futuro; i disturbi dell'ansia sono mantenuti ed esacerbati dalla tendenza a interpretare le sensazioni autonomiche legate alle emozioni come un segnale di un imminente accidente somatico, o come la prova di una propria intrinseca debolezza, o come l'indicatore di un'improvvisa perdita di controllo e di padronanza.I pensieri automatici tendono ad avere lo stesso contenuto in circostanze diverse ed esprimono una modalità costante di attribuire significato agli eventi, caratteristica della persona che li produce. Per es., una persona può pensare che gli altri la rifiuteranno e la respingeranno anche in circostanze relazionali e in situazioni molto diverse tra loro. Queste ricorrenze tematiche indicano l'esistenza di regole di inferenza e di strutture di significato stabili che sottendono i processi di pensiero e l'attività immaginativa. Tali strutture, di solito chiamate schemi, sono astrazioni prototipiche di un concetto complesso, hanno origine nell'esperienza passata, guidano l'organizzazione di nuove informazioni e generano le singole rappresentazioni mentali. Uno schema viene considerato disfunzionale quando viene applicato in modo pervasivo e poco differenziato alla maggior parte degli eventi, comportando una distorsione della realtà e una serie di idee e rappresentazioni fonte di sofferenza soggettiva.

2.

La teoria clinica e l'approccio terapeutico

La teoria clinica cognitivista prevede che una caratteristica centrale dei disturbi psicologici sia costituita dalla presenza di un set di schemi o modelli cognitivi disadattativi, che regolano in modo patogeno l'elaborazione dell'informazione. Tali modelli sono specifici a seconda dei vari disturbi. La teoria cognitiva assume che è possibile tracciare un profilo cognitivo differente per le diverse principali sindromi psichiatriche. Pur riconoscendo l'importanza delle differenze caso-specifiche, l'intervento è perciò mirato essenzialmente alla correzione dei modelli disadattativi propri del disturbo presentato. Questi modelli si esprimono attraverso i pensieri automatici e l'immaginazione cosciente.Pertanto, paziente e terapeuta collaborano insieme a individuare gli schemi e gli assunti disadattativi di base, attraverso l'analisi dei processi di pensiero che guidano la vita attuale del paziente e sono in grado di influenzarne i vissuti emotivi. In questo senso la terapia cognitiva standard richiede un atteggiamento introspettivo e volto all'insight, intendendo con questo termine la presa di coscienza dei significati personali con i quali l'individuo organizza le proprie esperienze di sé e del mondo.

Gli schemi sono espressi sotto forma di convinzioni e credenze e, nel corso della terapia, vengono sottoposti ad analisi logica e verifica empirica. Tale processo parte da una presa di distanza critica e punta a una modifica degli assunti disadattativi che, a sua volta, comporta una correzione del processo di elaborazione dell'informazione che allevia la sintomatologia clinica. L'impianto generale della terapia assomiglia perciò a quello di una ricerca scientifica. Per meglio dire, assomiglia al processo di revisione degli assunti di base di una teoria scientifica di fronte ai fallimenti dei risultati sperimentali.

Contrariamente a quanto possa apparire a una lettura superficiale, il tono della terapia è fortemente realistico e niente affatto indulgente all'ottimismo di maniera. Le credenze del paziente vengono assunte come ipotesi da sottoporre a verifica seria, con lo scopo di correggere e ridurre la pervasività e l'assolutismo delle credenze negative, non di sostituirle con credenze ottimistiche.

3.

Principi tecnici

La terapia cognitiva ha messo a punto diverse tecniche per favorire la presa di coscienza, il distanziamento critico e il cambiamento degli schemi disadattativi. Tali tecniche sono riconducibili a tre principi generali:a) l'empirismo collaborativo, costituito da una relazione interpersonale basata su un clima di fattiva e impegnata collaborazione nella ricerca e nella verifica degli assunti di base del paziente;b) il dialogo socratico, con il quale, essenzialmente attraverso una serie di domande, il terapeuta cerca di perseguire gli scopi essenziali della terapia, rappresentati dall'identificazione dei pensieri automatici e degli schemi sottostanti, dalla presa di distanza critica, dalla valutazione di possibili alternative; c) la scoperta guidata, con cui, dopo aver concordato con il paziente una definizione soddisfacente del problema presentato, il terapeuta gli spiega nel modo più chiaro possibile i principi e i metodi della terapia e consiglia dei compiti sistematici di autosservazione, attraverso i quali si evidenziano gli schemi e i modelli coinvolti nella sofferenza emotiva. A questo punto, attraverso il dialogo socratico, si correggono gli errori procedurali e si mettono a punto ipotesi alternative a quelle implicite negli schemi. Quello che abbiamo descritto finora viene considerato l'approccio cognitivo standard, dimostratosi di particolare efficacia nei disturbi nevrotici. L'approccio standard è stato approfondito e modificato, sul piano teorico e tecnico, dal contributo di diversi autori. L'importanza del ruolo delle emozioni nell'orientare i processi cognitivi è stata sottolineata da autori canadesi (Greenberg-Safran 1987), che hanno proposto una tecnica tesa ad aiutare il paziente a riconoscere le emozioni inibite e a correggere le convinzioni che impediscono un contatto più autentico con la propria esperienza emotiva. Il ruolo della relazione terapeutica nel modificare i processi cognitivi disadattativi è stato studiato da autori di scuola canadese e italiana (Safran-Segal 1990; Semerari 1991). Studiosi italiani si sono in particolare interessati all'influenza delle prime relazioni d'attaccamento nelle formazioni di strutture cognitive stabili che guidano la percezione di sé e delle proprie relazioni (Guidano-Liotti 1983).Negli ultimi tempi la psicoterapia cognitiva tende a sviluppare un forte impegno verso il trattamento delle patologie gravi, quali la schizofrenia e i seri disturbi di personalità (Beck-Freeman 1990; Perris 1993; Kingdon-Turkington 1994). L'intervento sul paziente grave ha richiesto che al tradizionale interesse posto ai contenuti cognitivi (schemi e pensieri automatici) si affiancasse una nuova tendenza indirizzata allo studio e al trattamento delle funzioni cognitive che appaiono deficitarie in tali disturbi. In questo ambito, sono stati particolarmente approfonditi i problemi del trattamento dei disturbi di coscienza (Liotti 1994) e dei deficit di metapensiero presenti nella schizofrenia (Perris 1993).

4.

Terapia cognitiva e altri approcci psicoterapeutici

La terapia cognitiva, analogamente agli approcci psicodinamici, ritiene che il comportamento possa essere influenzato da significati non immediatamente accessibili alla coscienza e cerca di identificare i temi comuni nelle narrazioni e nelle fantasie dei pazienti. Tuttavia, i terapeuti cognitivi ritengono che i resoconti dei pazienti siano l'espressione diretta di tali significati di base e non piuttosto uno schermo per celare idee e sentimenti rimossi. Inoltre, la terapia cognitiva, pur riconoscendo l'influenza delle esperienze passate nella formazione di schemi disadattativi, lavora sul presente ed è, di solito, più breve e focale della maggior parte dei trattamenti psicodinamici.Analogamente agli approcci comportamentali, la terapia cognitiva lavora su problemi specifici; inoltre, i terapeuti fanno spesso ricorso a tecniche o a consigli comportamentali. Lo scopo di questi interventi è sempre volto, però, a conseguire una distanza critica dalle convinzioni proprie degli schemi disadattativi piuttosto che a ottenere la sola modificazione del comportamento. Infine, la terapia cognitiva condivide con gli approcci espressivi l'attenzione particolare all'esperienza concreta del paziente, ma l'accento è posto prevalentemente sulla dimensione cognitiva di tale esperienza e la tecnica è fondamentalmente volta al padroneggiamento cognitivo più che a favorire la libera espressione delle emozioni.

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