Classicismo

Enciclopedia dell'Italiano (2010)

classicismo

Domenico Proietti

Origine, diffusione e specializzazione storiografica del termine

Il termine classicismo, che appare all’inizio dell’Ottocento, deriva dell’aggettivo sostantivato classico, a sua volta prosecuzione del lat. classicus, nell’accezione di «autore eccellente, da imitare». Precoci attestazioni di classicismo, e del connesso classicista, si trovano, senza connotazioni negative, nell’Epistolario foscoliano (Foscolo 1970: VII, 2078 e 2303). Ma certo l’impulso decisivo alla loro diffusione, con accezione negativa, si ebbe nel corso della polemica dei romantici contro la letteratura tradizionale (Puppo 1975: 1-3) e in particolare in Ermes Visconti (Discussioni e polemiche sul romanticismo 1975: I, 445 e 439). Tali connotazioni limitative si mantennero nell’uso degli scrittori antitradizionalisti almeno fino al Dizionario della lingua italiana di ➔ Tommaseo (1865: I, 2, 1465), mentre nella 5a ed. del Vocabolario degli Accademici della Crusca il termine classicismo non compare nel lemmario, e nella voce classico (1878: III, 94), limitata ai significati tradizionali, si ignorano le accezioni assunte dalla parola e dai suoi derivati nel corso della polemica romantica.

Ben più precoce e netta fu, invece, la specializzazione in senso storiografico del termine, che risulta compiuta già intorno alla metà dell’Ottocento: Paolo Emiliani Giudici (1844: 483), infatti, usa classicismo solo denotativamente e con esclusivo riferimento alla letteratura quattrocentesca, mentre De Sanctis (1875) lo utilizza in senso estensivo, con riferimento, tra l’altro, a Dante, Machiavelli, Tasso, alla letteratura della Controriforma, a Cesarotti, oltre che a Foscolo (De Sanctis 1958: II, 72, 138, 190, 207, 345, 392).

Classicismo, conservatorismo, tradizionalismo e purismo linguistico

Il termine, diventato un tecnicismo storiografico (analogamente ai suoi corrispettivi nelle principali lingue europee di cultura, affermatisi in tempi e modi diversi) è stato ed è utilizzato (con riferimento a epoche e fenomeni culturali spesso molto distanti tra loro, come il sostantivato classico) in due accezioni principali (Viscardi 1963: 22). In senso generale, identifica il persistere della tradizione (letteraria e artistica) classica nell’età medievale, moderna e contemporanea, mentre con senso più specifico e concreto serve per qualificare i momenti, le poetiche e i movimenti letterari e/o artistici, in particolare della cultura europea, caratterizzati dall’affermazione dell’esemplarità della letteratura e dell’arte classiche e dalla correlativa formulazione di canoni (di autori) e norme (retoriche, stilistiche, ecc.) di riferimento per lo studio, l’imitazione e la riproduzione dei modelli greci e latini (Levi 1949; Wellek 1970; 1973; Secretan 1973; Quazzolo 2007).

Naturalmente, anche in questa accezione più circoscritta la formulazione e la recezione di riflessioni, opzioni e/o poetiche classicistiche comportano di solito una nutrita serie di implicazioni e ricadute non solo culturali ed estetiche, ma anche ideologiche, etico-politiche e talora specificamente religiose (Fortini 1978; Praz 2002).

A tale costante non si sottrae neppure l’ancor più limitato punto di vista da cui si osserva il fenomeno del classicismo nella storia del pensiero linguistico italiano e delle connesse teorie e pratiche stilistiche. Anche in quest’ambito, infatti, l’astratto classicismo, utilizzabile in riferimento a qualsiasi posizione o atteggiamento basati sulla convinzione della superiorità e dell’esemplarità degli autori antichi, da solo risulta troppo vasto e dunque generico e deve essere di volta in volta specificato da determinazioni (come gli aggettivi «naturalistico» e/o «fiorentinistico», «toscanista» / «cruscante» e «illuministico» / «illuminista»; Vitale 1984: 386-414; Vitale 1986: 67-74) o affiancato / sostituito da denominazioni d’epoca (quali «aulico» / «illustre»; Vitale 1984: 347-348). L’esame dell’incidenza del classicismo nella storia della lingua e della riflessione linguistica italiane, quindi, non può configurarsi se non come un’essenziale rassegna diacronica volta a evidenziare le specificità ideologico-culturali delle opzioni e/o dei movimenti tradizionalistico-conservatori succedutisi dal tardo medioevo al Novecento.

Classicismo e classicismi nella storia dell’italiano dal Cinquecento al Novecento

La formazione delle prime dottrine classicistiche italiane ha come premessa la teoria dell’imitazione fiorita nella tradizione retorica latina tardo-medioevale (Marazzini 1999: 33-35) e fondata sulla riduzione della lingua alla letteratura e, in particolare, a quella dei ‘buoni’ autori, sulla quale, mediante studio e imitazione, bisognava definire la facies linguistica e lo stile delle scritture moderne. Proprio sull’imitazione verte una disputa di cui fu protagonista, tra il 1512 e il 1513, ➔ Pietro Bembo, il quale sosteneva, contro Giovanfrancesco Pico della Mirandola (Sabbadini 1885), la necessità di scegliere come modello un solo autore, il migliore (nel caso specifico del latino, Cicerone per la prosa, e Virgilio per la poesia), da studiare con intensità e devozione, assimilandone tutti i caratteri. Solo così poteva essere raggiunto un ideale stilistico stabile e unitario, che metteva al riparo dai rischi di eterogeneità connessi all’imitazione eclettica di più modelli.

Sulla stessa forma mentis e su concetti analoghi è basata la teoria del classicismo volgare elaborata dallo stesso Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525). Quali modelli di uniformità stilistica per il volgare, identificato con la letteratura fiorentina del Trecento, erano additati, come è noto, per la poesia le rime di Francesco Petrarca e per la prosa le parti più distesamente narrative (non quelle dialogiche, stilisticamente meno uniformi) del Decameron di Giovanni Boccaccio. Dopo accese dispute (➔ questione della lingua), tale forma di classicismo letterario definito fiorentinistico e arcaicizzante finì per prevalere, per gli innegabili vantaggi di semplicità e praticabilità che offriva, sulle posizioni divergenti e di reazione al bembismo nel corso del Cinquecento, in alcuni casi e per certi aspetti riconducibili anch’esse a opzioni tradizionalistiche se non propriamente classicistiche. Negli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone (1584-1586) di Leonardo Salviati la linea bembesca confluisce come componente essenziale del programma di codificazione della lingua che si prefiggevano i fondatori dell’Accademia della Crusca; un programma nel quale, con la rivalutazione di ➔ Dante e l’attenzione agli scrittori minori del Trecento, venivano temperate alcune delle oltranze di Bembo, e che si sarebbe presto attuato nel Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612) classicisticamente fondato sullo spoglio dei migliori autori dell’‘aureo’ Trecento.

Proprio il Vocabolario, ristampato e arricchito (1623 e 1691, in tre volumi) con limitate aperture ad autori d’altre epoche e a scrittori non fiorentini o di ambito tecnico-scientifico, divenne il baricentro delle discussioni linguistiche del Seicento sia per gli oppositori (che contestavano il tradizionalismo fiorentinistico della linea cruscante), sia per quanti ne condividevano (sia pure con sfumature) le premesse classicistiche e arcaizzanti. Lungo tutto il secolo corre una linea classicistico-conservatrice filocruscante che va dal misurato tradizionalismo di Benedetto Buommattei, alla «posizione più tenacemente ancorata alle teorie classicistiche dell’umanesimo volgare» (Vitale 1984: 177) di Carlo Roberto Dati, al toscanismo linguistico boccaccesco-salviatiano attentamente perseguito nelle opere dello scienziato e filosofo napoletano Leonardo Di Capua e dagli scrittori della cosiddetta scuola capuista, seguaci del suo modello di prosa.

Di nuovo intorno a un’ulteriore edizione del Vocabolario della Crusca (la quarta, 1729-38, in sei volumi) ruotano i principali interventi di restaurazione classicistica del primo Settecento, che, sulla base di rinnovate esigenze razionalistiche, fanno pur sempre capo al tradizionalismo letterario toscano, ma riletto nella prospettiva di una matura consapevolezza della dimensione nazionale della cultura italiana, ormai raggiunta proprio mediante la continuità linguistica e il riferimento ai grandi autori della tradizione. A tale moto di restaurazione classicistica dettero impulso due convergenti linee di pensiero, che tennero il campo del dibattito linguistico-letterario fino alla metà del secolo. La prima, che risaliva alla polemica (1703) tra Gian Giuseppe Orsi e il padre gesuita francese Dominique Bouhours, in cui si rivendicavano l’originalità della tradizione letteraria italiana e in particolare, contro l’uniformità del francese esaltata dal classicismo razionalista d’Oltralpe, l’importanza della diversificazione stilistico-funzionale del linguaggio della poesia da quello della prosa (➔ immagine dell’italiano). Tale linea culminava nelle opere linguistiche di ➔ Ludovico Antonio  Muratori e Gian Vincenzo Gravina, i quali, pur nelle diversità di finalità e di impostazioni, condividevano le premesse della essenziale letterarietà della lingua, giungendo alla medesima convinzione dell’effettiva esistenza di un italiano comune e nazionale, da legare ai progressi del pensiero e delle arti.

Certo meno ampie risultano le prospettive della seconda linea di osservanza classicista e toscana, più specificamente connotata in senso conservatore anche se non priva di aperture verso la modernità, individuabile nell’opera di Anton Maria Salvini, che, imbevuto di cultura classica, ne sostiene l’essenziale funzione formativa nella maturazione e nell’affinamento dello stile degli scrittori italiani e nel necessario arricchimento lessicale (anche nelle discipline scientifiche). Su coordinate simili, si collocano le trattazioni grammaticali di Domenico Maria Manni e Giuseppe Corticelli. Su posizioni più strettamente tradizionaliste si attestava, infine, il letterato veronese Giulio Cesare Becelli, sostenendo la tesi estrema secondo cui l’italiano scritto doveva restare una lingua immobile e ‘morta’, ancorata in una perpetua stabilità ai modelli aurei del Trecento e del Rinascimento.

Le reazioni

Simili estremizzazioni finirono per diventare una delle cause e insieme uno degli obiettivi principali della violenta reazione di stampo illuminista che si scatenò contro il conservatorismo fiorentinistico e cruscante nella seconda metà del Settecento e che ebbe come protagonisti, oltre al gruppo del ‘Caffè’, Francesco Algarotti, Saverio Bettinelli, Giuseppe Baretti e ➔ Melchiorre Cesarotti.

Contro simili tendenze si scatenò, all’inizio dell’Ottocento, un violento e articolato movimento di reazione in cui, pur nel comune riferimento agli esemplari della scrittura trecentesca, nella condivisa riaffermazione della tradizione culturale e linguistica italiana e nella conseguente avversione per le posizioni dei romantici, si distinguono due fronti, tra loro contrapposti. Il primo è rappresentato da coloro che (curiosamente, con vocabolo francesizzante per forma e origine) si autodefinivano puristi (➔ purismo), l’altro costituito da esponenti del (neo)classicismo letterario di fine Settecento e primo Ottocento (in particolare, ➔ Vincenzo Monti, il genero Giulio Perticari e Pietro Giordani) e con il quale sostanzialmente convergono personalità e posizioni certo più complesse e articolate quali quelle di Ugo Foscolo e, con autonome e amplissime aperture, di ➔ Giacomo Leopardi.

Lo schieramento classicista si presenta come un insieme caratterizzato non solo dalle polemiche contro le posizioni puristiche per un verso e quelle dei romantici per l’altro, ma soprattutto da un nucleo concettuale di cui, non senza opposizioni, sono state rivendicati la derivazione e lo svolgimento da premesse illuministiche (Timpanaro 1969: XXI-XXVIII, 11-14). Sede principale di formulazione e diffusione del pensiero linguistico del gruppo fu la serie di volumi della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca (1817-1826), diretta da Monti, ma cui collaborarono, oltre a Perticari e Giordani, tutti i principali esponenti della cultura classicistica e accademica del tempo. Il vaglio degli errori lessicografici e filologici della lessicografia puristica (e in particolare della ristampa del Vocabolario realizzata tra il 1806 e il 1809 da Antonio Cesari e da lui accresciuta di alcune migliaia di voci tratte da testi trecenteschi minori e minimi) si risolveva nel rifiuto del modello trecentesco, non solo anacronistico, ma soprattutto culturalmente inadeguato ai bisogni della nazione moderna, rispetto ai quali risultavano altrettanto insufficienti il fiorentinismo e il toscanismo cruscanti. Nella convinzione, difesa anche contro i romantici, che alla definizione e alla continuità della lingua colta della tradizione italiana avessero contribuito in maniera decisiva scrittori di tutte le regioni (e non solo Firenze e la Toscana), si proponeva così un modello linguistico basato sulle migliori opere (non solo letterarie, ma anche scientifiche e tecniche) dell’intero sviluppo storico della lingua italiana, eccezion fatta per i testi barocchi. Inoltre, contro la teoria dell’immutabilità al centro delle posizioni dei tradizionalisti, si prevedeva la possibilità di un (sia pur limitato) arricchimento della lingua attraverso procedimenti analogici, nell’ambito dei quali un ruolo decisivo era assegnato, di nuovo, ai linguaggi tecnico-scientifici.

In tal modo si dava pieno svolgimento alle impostazioni italianiste enunciate nel Settecento da Muratori e da Gravina, ricongiungendole alle loro matrici cinquecentesche e in particolare alla riscoperta cinquecentesca del De vulgari eloquentia da parte di Gian Giorgio Trissino e oggetto ora di rinnovata attenzione da parte di Perticari nel trattato Dell’amor patrio di Dante e del suo libro intorno il volgare eloquio (1820). Alla definizione del pensiero linguistico del classicismo ottocentesco contribuirono, inoltre, il lessicografo e letterato Giovanni Gherardini, che sottolineò l’importanza del ricorso al modello latino nella determinazione dei caratteri di grafia e fonologici dell’italiano colto contemporaneo, e Pietro Giordani, che delineò un ideale di prosa moderna che, oltre alla lezione dei trecentisti, tenesse conto della profonda affinità che lega la sintassi italiana più alla semplicità e alla colloquiale plasticità della sintassi greca che alla rigida architettura del tipo sintattico latino. Infine, negli interventi di Carlo Tenca e soprattutto di Carlo Cattaneo (volti a ribadire l’essenzialità del carattere unitario dell’italiano contro le teorie del primato del fiorentino o del toscano in genere, tanto nella tradizionale veste cruscante quanto nelle più recenti versioni manzoniana e neotoscanista-popolare) si può osservare una continuità nella linea di pensiero, dal classicismo illuministico alla linguistica scientifica di ➔ Graziadio Isaia  Ascoli.

Eredità e residui

Nel frattempo, il prevalere delle posizioni romantiche e lo spostamento dell’attenzione sui problemi connessi al compimento dell’unificazione nazionale avevano determinato la disgregazione sia del fronte purista sia di quello classicista. Dei due movimenti (e in particolare del secondo) restò, nei decenni a cavallo dell’Unità, una diffusa forma mentis classicistico-patriottica che dal punto vista letterario e critico fu interpretata e per così dire incarnata dalla figura e dall’opera di ➔ Giosuè Carducci e che ebbe forte influenza nella definizione dei programmi e dei metodi d’insegnamento scolastici (fino ai primi decenni del Novecento). Ancora a Carducci, e in particolare al suo magistero in ambito storico-letterario e filologico, riporta la sopravvivenza di tematiche e istanze classicistiche in ricerche sue e, soprattutto, dei suoi allievi (per es., Giuseppe Chiarini, curatore tra l’altro di una fortunata antologia delle prose di Giordani, Giuseppe Lisio, ecc.), molti dei quali non tardarono a confluire nella scuola storica positivistica. Infine, all’alveo del classicismo ottocentesco vanno ricondotte le due principali grammatiche italiane di fine Ottocento, quella di Giovanni Moise (1878) e la Sintassi italiana dell’uso moderno (1881) di Raffaello Fornaciari (con il suo classicismo «intinto di filologia romanza»; Nencioni 1983: 109).

Nel Novecento la dissoluzione del linguaggio poetico tradizionale, pur eliminando alla radice le condizioni e le possibilità di rinascita di atteggiamenti o posizioni classicistiche integrali, non ha impedito riflessioni di vario genere sulla nozione di classico. Inoltre, non sono mancati movimenti o episodi individuali in cui la ripresa di termini o stilemi della tradizione o, più largamente, la ricerca di un linguaggio eletto e programmaticamente distante dalla prosa hanno costituito una fase decisiva di maturazione e definizione degli orientamenti stilistico-espressivi di un autore o di una corrente (basterà accennare all’esperienza rondista, a diversi aspetti della poetica e dell’esercizio letterario degli ermetici e, nel secondo dopoguerra, ai legami con i classici italiani presenti, tra gli altri, nella lirica di Vittorio Sereni, Franco Fortini e Andrea Zanzotto).

Un cascame d’ascendenza puristico-classicistica, infine, può essere considerato il non infrequente atteggiamento censorio con cui, attraverso compilazioni grammaticali e lessicografiche talora di grande successo, critici e osservatori del costume linguistico segnalano e stigmatizzano fenomeni di corruzione nell’italiano contemporaneo, in particolare nei suoi contatti con lingue e culture straniere (➔ neopurismo).

Fonti

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Studi

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