Cittadinanza

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Cittadinanza

Pietro Costa

di Pietro Costa

Cittadinanza

sommario: 1. La nuova accezione del termine 'cittadinanza'. 2. Il concetto di cittadinanza e le sue articolazioni fondamentali: a) i diritti; b) i soggetti; c) l'appartenenza. 3. Cenni conclusivi. ▭ Bibliografia.

1. La nuova accezione del termine 'cittadinanza'

Il termine 'cittadinanza' gode di una consolidata tradizione nel lessico giuridico: esso designa l'appartenenza di un individuo a uno Stato ed evoca i problemi connessi alla perdita e all'acquisto dello status di cittadino e al rapporto intercorrente fra 'cittadino' e 'straniero'.

Nelle ultime decadi del XX secolo, tuttavia, il termine 'cittadinanza' ha acquisito un significato più ampio e pregnante, grazie a un processo di ridefinizione lessicale che, avviatosi sul terreno della sociologia politica, si è poi sviluppato nell'ambito della filosofia politica e della letteratura costituzionalistica, sino a fare di 'cittadinanza' un termine corrente del 'discorso pubblico' odierno.

Un impulso determinante a dilatare il senso del termine 'cittadinanza' è venuto da un saggio (Citizenship and social class) pubblicato nel 1950 da Thomas Humphrey Marshall. La tesi sviluppata dal sociologo inglese è che debba "esistere una forma di uguaglianza umana fondamentale connessa con il concetto di piena appartenenza a una comunità" (v. Marshall, 1950; tr. it., p. 10). È appunto questa "piena appartenenza a una comunità" che Marshall suggerisce di denominare 'cittadinanza': la pur inevitabile stratificazione sociale deve essere compensata dalla partecipazione di tutti i cittadini a un comune patrimonio, a una medesima 'forma di vita'; e di questa partecipazione le nervature fondamentali sono costituite dai diritti.

Guardando ai diritti di cui la cittadinanza si compone Marshall propone una tripartizione, storicamente e concettualmente fondata: "chiamerò queste tre parti o elementi - egli scrive - il civile, il politico e il sociale. L'elemento civile è composto dai diritti necessari alla libertà individuale [...]. Per elemento politico intendo il diritto a partecipare all'esercizio del potere politico [...]. Per elemento sociale intendo tutta la gamma che va da un minimo di benessere e di sicurezza economica fino al diritto di partecipare pienamente al retaggio sociale e a vivere la vita di persona civile, secondo i canoni vigenti nella società" (ibid., pp. 12-13).

Il contributo di Marshall si iscrive in una stagione politico-culturale segnata dal trauma della guerra e dal tentativo, rappresentato dal Piano Beveridge, di realizzare uno 'Stato sociale' capace di soddisfare i bisogni fondamentali degli individui. Se dunque il saggio marshalliano si colloca nel momento inaugurale di quel Welfare State che inizia la sua parabola ascendente nel secondo dopoguerra, il successo recente della nozione di cittadinanza, che pure si ricongiunge idealmente alle pagine del sociologo inglese, trae alimento da un clima politico-culturale sensibilmente diverso, caratterizzato, per un verso, dal declino o almeno dalla crisi dello 'Stato sociale' e, per un altro verso, dal collasso (non solo politico ma anche teorico) del marxismo.

È in questo nuovo clima (caratteristico degli anni ottanta e novanta del Novecento) che il termine 'cittadinanza' conosce una notevole fortuna, permettendo la messa a fuoco di temi tanto importanti quanto discussi: il saggio marshalliano viene riletto in una nuova prospettiva e la nozione di cittadinanza viene sottoposta a un processo di rielaborazione e ridefinizione che la trasforma in uno dei concetti più rilevanti del dibattito teorico-politico e teorico-giuridico contemporaneo. Tale processo, per quanto assuma come cardine il testo marshalliano del 1950, si avvale di una pluralità di contributi che, pur muovendo da diversi punti di vista, convergono nell'attribuire a 'cittadinanza' un significato nuovo e originale.

I nuclei tematici coinvolti nella ridefinizione di cittadinanza sono essenzialmente i diritti, i soggetti, l'appartenenza. Affrontare il problema della cittadinanza significa infatti studiare il rapporto di appartenenza di un individuo a una comunità politica e quindi le prerogative e gli oneri, i diritti e i doveri, che da questo rapporto discendono. In tale accezione il concetto di cittadinanza suggerisce la necessità di cogliere le reciproche implicazioni e i nessi di complementarità intercorrenti fra il punto di vista del soggetto, la rappresentazione dell'appartenenza alla comunità politica e il sistema dei diritti e doveri che ne conseguono.

È dunque facendo riferimento a questi temi che daremo conto dei principali problemi messi a fuoco dal recente dibattito sviluppatosi intorno al concetto di cittadinanza.

2. Il concetto di cittadinanza e le sue articolazioni fondamentali.

a) I diritti

Che la cittadinanza, intesa come il rapporto che lega un individuo a una comunità politica, si traduca in un'articolata serie di diritti, è la tesi che sorregge l'intero saggio marshalliano e costituisce un punto centrale della recente ridefinizione del termine. In questa prospettiva, studiare la cittadinanza significa studiare la posizione che i soggetti vengono a occupare entro un determinato ordinamento, ponendo l'accento sulle prerogative che essi traggono dal legame di appartenenza alla comunità politica.

In effetti, la vicenda storica della modernità politico-giuridica si presta a essere studiata muovendo da quel fenomeno di moltiplicazione dei diritti che ne costituisce una cifra caratteristica. A partire dal paradigma giusnaturalistico, la rappresentazione del soggetto appare inseparabile dai numerosi diritti a esso imputabili, ed è ancora sul nesso immediato fra il soggetto e i diritti che fa leva il documento più significativo della Rivoluzione francese, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789. Lo scenario che si apre con la Rivoluzione francese è però più complesso e per molti versi anticipa modelli otto-novecenteschi. Negli anni della Rivoluzione, infatti, non solo il momento dell'appartenenza alla comunità nazionale acquista un'inusitata importanza, incidendo a fondo sulla rappresentazione dei diritti (insieme - e in latente tensione - con la tradizionale impostazione giusnaturalistica), ma comincia anche a profilarsi la tendenza a quella moltiplicazione dei diritti che, nonostante forti resistenze o addirittura brusche inversioni di rotta cui andrà incontro nel corso dell'Ottocento e del Novecento (si pensi ai 'totalitarismi' novecenteschi), non mancherà di affermarsi e di produrre effetti fino ai nostri giorni: è in questo quadro che ai diritti civili si affiancano (come affermano tanto Marshall quanto la tradizione costituzionalistica) i diritti politici e i diritti sociali e, in tempi recentissimi, i cosiddetti diritti di 'quarta generazione'.

Nel dibattito odierno, la tematica dei diritti si intreccia con il processo di ridefinizione di 'cittadinanza', divenendone uno dei contrassegni essenziali. Se la rappresentazione che Marshall ha offerto dei diritti e della loro storia non ha trovato unanimi consensi, convincente è apparso (sul terreno della metodologia della ricerca) l'invito a sottolineare il necessario nesso fra diritti e cittadinanza: non si intende facilmente il rapporto fra individuo e comunità politica in tutta la sua complessità senza fare riferimento al dispositivo della rappresentazione e dell'attribuzione dei diritti; un dispositivo capace di agire, insieme, sul piano simbolico come sul terreno dell'azione sociale e della progettazione istituzionale. Assumere i diritti come una componente interna della cittadinanza significa individuare uno dei principali strumenti di cui l'individuo si serve per situarsi di fronte agli altri soggetti e alla comunità politica; viceversa, guardare ai diritti dal punto di vista della cittadinanza permette di individuare un parametro al quale rapportare il sistema dei diritti per intenderne la concreta morfologia storico-culturale e storico-sociale.

Se per cittadinanza si intende il rapporto fra il soggetto e la comunità politica, i diritti che nei diversi contesti il singolo trae da questo rapporto costituiscono una componente fondamentale della cittadinanza stessa: la fecondità euristica della nozione di cittadinanza nasce dunque dall'esigenza metodica di studiare i diritti nel loro nesso di complementarità con il rapporto esistente fra l'individuo e la comunità politica (senza che ciò implichi, ovviamente, alcuna delegittimazione di un'analisi dei diritti 'come tali').

Certo, non sono mancate motivate obiezioni nei confronti del nesso 'cittadinanza-diritti'. Fare dei diritti, di tutti i diritti, una funzione del rapporto di appartenenza a una comunità politica è sembrata (v. Ferrajoli, 1994) una scelta che non riesce a dar conto analiticamente delle diverse categorie di diritti e a fornirne una adeguata classificazione: valga, a riprova dell'inopportunità di ricondurre ogni diritto al rapporto fra il soggetto e la comunità politica, il fatto che verrebbe a cadere la distinzione, di indubbio rilievo sia storico che teorico, fra i 'diritti dell'uomo' e i 'diritti del cittadino'.

L'obiezione è ineccepibile. Essa, però, serve non tanto a invalidare, quanto piuttosto a delimitare e circoscrivere il nuovo concetto di cittadinanza. Quando si guarda ai diritti attraverso il filtro della cittadinanza occorre essere consapevoli del carattere peculiare e funzionale della prospettiva adottata. Assumere i diritti come funzione della cittadinanza non può trasformarsi nella pretesa di risolvere per questa via il problema del fondamento dei diritti o delle loro distinzioni categoriali, giacché persegue uno scopo diverso e più limitato: serve a capire come un insieme di diritti (categorialmente diversi e diversamente fondati) vengano a comporre effettivamente, nel concreto assetto di un ordine determinato, lo status di un soggetto appartenente a una specifica comunità politica.

Allo stesso modo, non sembra che la fecondità euristica della nuova definizione di 'cittadinanza' sia messa in questione dal dibattito (storicamente risalente, ma tuttora aperto) intorno all'ammissibilità di una specifica categoria di diritti, i diritti sociali, contestati anche in anni recenti (v. Barbalet, 1988; v. Zolo, 1994) in ragione della loro debole 'esigibilità'. Quale che sia la soluzione che si voglia adottare in merito, resta il fatto che il processo politico-costituzionale otto-novecentesco si è continuamente confrontato con il tema dei 'diritti sociali', assumendo che questi ultimi siano una (deprecabile o auspicabile) connotazione del rapporto fra l'individuo e la comunità politica. Studiare i diritti sociali dal punto di vista della cittadinanza significa dunque soltanto prendere atto che essi, in un dato contesto storico, sono stati assunti come una determinazione rilevante del rapporto fra i soggetti e la comunità politica.

Non sembra insomma che il nuovo concetto di cittadinanza, nel momento in cui include i diritti come uno dei propri fondamentali snodi tematici, possa svolgere una funzione marcatamente teoretica. La sua fecondità sembra dispiegarsi non tanto nel permettere un nuovo approccio al problema del fondamento o della definizione dei diritti, quanto nell'offrire uno schema metalinguistico utilmente impiegabile dallo storico o dal sociologo nella ricostruzione di determinati processi culturali, sociali, giuridici.

b) I soggetti

Se la cittadinanza è il rapporto fra l'individuo e la comunità politica (ed è nel quadro di questo rapporto che i diritti assumono un ruolo di particolare rilievo), il soggetto appare comprensibilmente l'elemento determinante nella ridefinizione del nostro termine. Parlare di cittadinanza significa dunque concentrare l'attenzione sul soggetto.

Privilegiare il punto di vista dell'individuo significa guardare all'ordine politico, per così dire, dal basso verso l'alto, a partire dal soggetto, ma significa anche fare del soggetto non un dato bensì un problema: significa riferirsi all'individuo non come a una realtà naturalisticamente immutabile, ma come a un costrutto storico-culturale. Se dunque per un verso il nuovo concetto di cittadinanza si presenta come uno schema analitico grazie al quale studiare l'ordine politico facendo centro sul soggetto (sul suo status, sui suoi diritti, sul suo rapporto di appartenenza alla comunità politica), per un altro verso esso invita a problematizzare la sua principale determinazione, appunto l'idea di un soggetto come membro di una comunità politica, di una polis.

Una componente importante del campo semantico di 'cittadinanza' appare dunque il tema dell'identità politico-giuridica del soggetto. Una caratteristica del recente dibattito sembra essere appunto una diffusa consapevolezza del carattere storicamente fluido e problematico della rappresentazione del soggetto e, in particolare, della definizione delle caratteristiche capaci di trasformare, nei diversi contesti, un soggetto 'generico' in un membro appartenente a una determinata comunità politica, in un 'cittadino'.

Sullo sfondo di un siffatto concetto di cittadinanza acquista nuova vitalità un problema tradizionale della cultura giuridica, il problema del rapporto fra 'cittadino' e 'straniero'. Se 'cittadinanza' è uno schema concettuale che serve a mettere a fuoco il rapporto di appartenenza di un individuo alla comunità politica - e se, di conseguenza, al centro della riflessione sulla cittadinanza si pone il soggetto in tutta la sua problematicità storica - diviene fondamentale individuare le caratteristiche che rendono un soggetto, volta a volta, 'cittadino' o 'non cittadino'. La determinazione 'positiva' di un soggetto come cittadino implica insomma la determinazione 'negativa' di quei soggetti destinati a rimanere a qualche titolo 'esterni' alla comunità politica: appartenenza e non appartenenza si sorreggono a vicenda e il dibattito sulla cittadinanza non può non confrontarsi con il gioco dell'interno e dell'esterno, del 'fuori' e del 'dentro', con i dispositivi (simbolici, sociali, economici, giuridici) di inclusione e di esclusione adottati da una determinata comunità politica.

La domanda 'chi è' il cittadino (e chi non lo è) è una domanda storicamente ricorrente e drammaticamente attuale, e il dibattito odierno sulla cittadinanza è consapevole tanto delle profonde radici storiche del problema, quanto della fenomenologia assunta nel nostro presente dalla dinamica dell'inclusione e dell'esclusione.

Il concetto di 'riconoscimento' viene in questa prospettiva a far parte integrante del campo semantico di 'cittadinanza': l'inclusione dei soggetti passa attraverso una qualche forma di riconoscimento che, a sua volta (almeno nell'età moderna e contemporanea), tende a tradursi in attribuzione di diritti, così come, per converso, l'esclusione conduce al disconoscimento dei soggetti e alla negazione di diritti. Il quadro peraltro si complica quando non si ci limiti a elaborare un'immagine statica del rapporto di inclusione di un gruppo di soggetti in una determinata comunità politica, ma ci si preoccupi anche degli aspetti dinamici del fenomeno, studiando, alla luce della stretta complementarità fra 'dentro' e 'fuori', i complicati passaggi che mettono in contatto una comunità politica con la sua 'zona esterna'. Vengono allora alla luce, per un verso, i dispositivi di espulsione (diversi a seconda dei contesti storici) adottati dall'una o dall'altra comunità politica nei confronti dei membri 'devianti' o trasgressivi, e, per un altro verso, i tentativi di 'infiltrazione' messi in atto da gruppi di soggetti che ambiscono a divenire membri di una comunità politica che li ha tenuti fino a quel momento extra moenia. Si tratta di fenomeni che, ricorrenti nei più diversi contesti storici, riguardano oggi soprattutto l'Occidente europeo e nordamericano, contribuendo a fare della cittadinanza uno dei temi obbligati non solo del dibattito teorico ma anche del 'discorso pubblico'.

Intesa come rapporto fra l'individuo e la comunità politica, la cittadinanza evoca dunque il problema dell'inclusione/esclusione e costringe a riflettere sui presupposti etici e antropologici che, nei diversi contesti storici, costituiscono la condizione del riconoscimento/disconoscimento dei soggetti. È l'attribuzione di alcune qualità a una determinata classe di soggetti che rende possibile il riconoscimento di quei soggetti come membri di una certa comunità politica e, viceversa, è la drammatizzazione delle differenze, la costruzione di classi di soggetti essenzialmente diverse che sorregge i dispositivi di disconoscimento e di esclusione.

Da questo punto di vista la differenza legata al genere si manifesta come un caso in qualche modo emblematico: assunta per molto tempo come una 'differenza assoluta', come un tratto naturalisticamente immutabile della soggettività, l'identità di genere è stata invocata per dividere gli esseri umani in due classi nettamente diversificate e impedire il riconoscimento delle donne come soggetti politici, come cittadini. La strategia contraria ha per converso fatto leva sul principio di eguaglianza e ha tradotto l'esigenza di riconoscimento nella strategia dell'attribuzione a tutti i soggetti, agli esseri umani 'come tali', di diritti eguali. In realtà, il rapporto fra eguaglianza e differenze è assai più delicato e sottile di quanto una meccanica applicazione del principio di eguaglianza potrebbe indurre a credere, e non a caso costituisce uno dei punti centrali del dibattito odierno, oscillante fra l'esigenza di valorizzare la ricchezza e la specificità delle 'differenze' e il timore di gettar via le rilevanti acquisizioni legate al nesso, storicamente e concettualmente significativo, fra 'riconoscimento' ed 'eguaglianza'.

La differenza di genere non è peraltro l'unica differenza con la quale il principio di eguaglianza è costretto a misurarsi entro una strategia orientata al riconoscimento dei soggetti. Si pensi, da questo punto di vista, alle differenze culturali che separano gli immigrati provenienti da aree extra-europee dai cittadini delle democrazie occidentali: anche in questo caso l'attivazione di dispositivi di inclusione o di esclusione dipende dalla valutazione delle differenze e dalla strategia adottata per neutralizzarle e renderle eventualmente compatibili con l'appartenenza.

Quale che sia la soluzione adottata, al centro del campo semantico della cittadinanza (nella sua recente accezione) si colloca il problema del soggetto e, con esso, il problema della definizione dei requisiti che presiedono al riconoscimento e all'inclusione (o al disconoscimento e all'esclusione) dell'una o dell'altra classe di individui. Certo, il riconoscimento e l'inclusione si traducono a loro volta nell'attribuzione ai soggetti di quei diritti che costituiscono il principale precipitato dell'appartenenza: si conferma quindi la reciproca complementarità dei temi nei quali il nucleo concettuale della 'cittadinanza' si articola. Se però i diritti costituiscono una componente strutturale della cittadinanza, è il soggetto il fulcro tematico che conferisce a essa il suo caratteristico orientamento.

c) L'appartenenza

Il soggetto messo a fuoco dal nuovo schema concettuale della cittadinanza non è il soggetto come tale, il soggetto in generale, ma il soggetto nella sua specifica dimensione politico-giuridica, il soggetto in quanto membro di una comunità politica, in quanto cittadino. È dal rapporto di appartenenza a una comunità politica che il soggetto vede definito il suo status, l'insieme delle prerogative e degli oneri che caratterizzano la sua condizione politico-sociale. L'appartenenza, come il soggetto e i diritti, sembra essere un'essenziale articolazione del concetto di cittadinanza.

È dunque costitutivo del concetto di cittadinanza il riferimento a una comunità politica. Resta però aperta la determinazione della forma politico-costituzionale che la comunità politica volta a volta assume. Anche da questo punto di vista, il nuovo concetto di cittadinanza presuppone un orizzonte nettamente diverso da quello caratteristico della dottrina giuridica otto-novecentesca, la quale, quando faceva uso del concetto di cittadinanza (anche solo per affrontare il tema del rapporto fra 'cittadino' e 'straniero', tema nel quale il problema della cittadinanza sostanzialmente si risolveva), assumeva lo Stato-nazione come la forma obbligata della comunità politica. Sono invece aspetti tipici dell'impiego odierno del termine 'cittadinanza' non soltanto la dilatazione semantica cui prima facevamo riferimento, ma anche il rifiuto di identificare la comunità politica con lo Stato-nazione, nella consapevolezza che lo Stato moderno è solo una delle molte forme politico-costituzionali nelle quali la comunità politica si è storicamente realizzata.

'Cittadinanza' si presenta allora come uno schema flessibile, capace di affrontare il problema del rapporto fra il soggetto e la comunità politica in contesti storici molto diversi. Esso può essere applicato alle società premoderne (alla polis greca come alla civitas medievale), può essere riferito al processo di costituzione della moderna statualità e può infine contribuire a mettere a fuoco la crisi odierna di quella forma-Stato che, trionfante nell'Europa dell'Ottocento e del primo Novecento, sembra attualmente insidiata, o comunque ridimensionata, dalla formazione di nuovi assetti sovrastatali (non meno che da diffuse esigenze 'federalistiche').

È comprensibile, quindi, che un tema rilevante nell'attuale dibattito sulla cittadinanza riguardi proprio le modalità e le caratteristiche che l'appartenenza del soggetto alla comunità politica assume nel quadro di quella nuova forma politico-costituzionale rappresentata dall'Unione Europea. Nell'ambito di questa originale formazione politica vengono così a riproporsi le domande fondamentali suggerite dal termine 'cittadinanza' (nella sua nuova accezione): che cosa significhi l'appartenenza a tale formazione, quali siano i diritti e i doveri specifici che ne conseguono, 'chi sia' insomma (in termini non solo tecnico-giuridici, ma anche politico-culturali) il cittadino europeo.

Quale che sia, comunque, la formazione politica considerata (lo Stato-nazione, l'Unione Europea o un'antica organizzazione pre-statuale), alla domanda 'chi è il cittadino' è possibile rispondere solo a patto di fare ricorso non a un solo parametro ma a molteplici indicatori, di carattere giuridico, economico, sociale e lato sensu culturale. L'appartenenza, come snodo fondamentale del concetto di cittadinanza, è decifrabile soltanto prendendo sul serio la molteplicità delle dimensioni da essa implicate. In particolare, non deve essere sottovalutata l'importanza della valenza simbolica dell'appartenenza. Non a caso un capitolo rilevante dell'attuale dibattito sulla cittadinanza riguarda uno dei grandi veicoli simbolici cui la logica dell'appartenenza ha fatto storicamente ricorso: la nazione.

La nazione è però soltanto uno dei molteplici simboli di cui la rappresentazione del rapporto fra l'individuo e la comunità politica si è avvalsa. Legata alla logica dell'appartenenza e come tale inevitabilmente attratta dal dibattito sulla cittadinanza appare anche un'antica, ma ancora vivace, tradizione politico-culturale: la tradizione repubblicana, caratterizzata dalla valorizzazione del rapporto di appartenenza del soggetto alla comunità politica, dalla sensibilità al tema della 'virtù civica' e dalla convinzione che sia necessario stabilire una relazione forte fra i diritti del soggetto e la forma dell'appartenenza-partecipazione.

Quando dunque si usi il concetto di cittadinanza-appartenenza come schema di rilevazione storica o sociologica emergono rilevanti connessioni tematiche, suggerite, per un verso, dalle dottrine e dai simboli con i quali storicamente l'appartenenza è stata rappresentata e, per un altro verso, dalle forme politico-costituzionali nelle quali la comunità politica si è volta a volta realizzata.

Quando invece si guardi alla cittadinanza in una prospettiva non tanto storico-ricostruttiva quanto teoretica e normativa, uno dei principali problemi coinvolti nel dibattito (in conseguenza dell'assunto che fa del nesso 'individuo-appartenenza-diritti' il nucleo del concetto di cittadinanza) è quello del fondamento dei diritti. La teleologia implicita nel concetto di cittadinanza ha infatti un'impronta innegabilmente 'particolaristica': studiare la cittadinanza significa studiare il rapporto fra l'individuo e una determinata comunità politica e l'insieme dei diritti e dei doveri che ne conseguono. Quando dunque si attribuisca a 'cittadinanza' non il valore di uno schema concettuale funzionale alla comprensione-ricostruzione di una specifica fenomenologia storico-sociale, ma il ruolo di un concetto filosoficamente pregnante, la conseguenza difficilmente evitabile è l'adozione di un approccio 'anti-universalistico', particolaristico, al problema del fondamento dei diritti.

3. Cenni conclusivi

La crisi dello Stato sociale e il processo di moltiplicazione dei diritti, il collasso del marxismo teorico e la rinnovata attenzione alla tematica della soggettività sono alcuni dei fenomeni che hanno offerto una cornice e uno stimolo alla ridefinizione del concetto di cittadinanza. Tale ridefinizione sembra tuttavia obbedire a un'esigenza concettuale intrinseca, non riducibile meccanicamente a stimoli 'esterni'. Il termine 'cittadinanza', nella sua nuova accezione, sembra in effetti colmare una lacuna presente nel sistema dei 'grandi concetti' politici consolidati. Esso offre un angolo di osservazione originale facendo leva sul suo asse costitutivo (il rapporto fra l'individuo e la comunità politica) e riconducendo a esso una pluralità di elementi (il sistema dei diritti e doveri, innanzitutto) che da quel rapporto traggono senso e decifrabilità.

In questa prospettiva, 'cittadinanza' appare uno schema che permette non tanto di cogliere profili inediti della realtà storico-sociale, quanto di mettere in rapporto fra loro tematiche tradizionalmente studiate senza che fossero a sufficienza valorizzati i nessi di implicazione reciproca. Proprio per questo si sono sviluppate in tempi recenti numerose ricerche di carattere storico, sociologico e giuridico volte ad approfondire il nesso 'individuo-comunità politica-diritti' in contesti storici molto diversi, che dal mondo antico giungono fino agli ordinamenti sovranazionali nel quadro dell'odierno dibattito sulla 'globalizzazione'.

Impiegato in analisi di carattere storico, sociologico e giuridico, il concetto di cittadinanza opera come uno schema metalinguistico funzionale all'impostazione di una precisa domanda, per rispondere alla quale il ricercatore conduce una specifica 'ricerca sul campo': studiare il problema della cittadinanza nella Grecia antica, nell'Italia medievale o nell'Unione Europea significa affrontare il problema del rapporto fra l'individuo e la comunità politica, descrivendo gli aspetti giuridici, sociali, economici, culturali che in quei diversi contesti connotano quel rapporto.

Il concetto di cittadinanza non ha però avuto nel recente dibattito un impiego soltanto analitico-ricostruttivo. Lo stesso saggio di Marshall, del resto, si presta a essere letto non soltanto come un'analisi storico-sociologica, ma anche come una proposta etico-politica. È possibile infatti attribuire al termine 'cittadinanza', come è spesso avvenuto di recente, un'accezione schiettamente valutativa e usarlo come cardine di argomentazioni di carattere 'progettuale': la 'cittadinanza', allora, viene impiegata come un parametro sulla base del quale valutare l'entità e la qualità dell'accesso dei soggetti alle risorse sociali, oppure per svolgere considerazioni di carattere etico sulla partecipazione dei cittadini alla comunità politica.

Coesistono dunque nel dibattito attuale, per esprimerci schematicamente, un uso (prevalentemente) analitico-ricostruttivo e un impiego (prevalentemente) ideologico-politico ed etico-normativo del termine 'cittadinanza'. La varietà di impieghi cui questo termine si presta (così come accade per tutte le maggiori espressioni filosofico-politiche) può essere peraltro interpretata come un indice della sua vitalità. Se però le esigenze etico-normative soddisfatte ricorrendo al termine 'cittadinanza' possono forse essere assolte ricorrendo a espressioni sostitutive, la funzione analitico-ricostruttiva da esso svolta in quanto schema concettuale non sembra poter essere assicurata, al momento, da alcuna altra nozione alternativa.

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