CITTA E SPAZIO PUBBLICO

XXI Secolo (2010)

Città e spazio pubblico

Valerio Paolo Mosco

Come nasce l’attuale spazio pubblico

Nel 1962, in Guide to modern architecture, Reyner Banham auspicava per l’architettura un cambiamento genetico; partendo dall’assunto secondo il quale il termine architettura non comprende solo gli edifici ma più in generale tutto ciò che dà protezione e rifugio all’uomo, il critico inglese ipotizzava un allargamento generalizzato dei confini della disciplina, fino a includervi l’arte, il design, la tecnologia e il comportamento sociale. Un’ipotesi radicale che ha permeato tutti gli anni Sessanta, sintetizzabile nell’apodittico motto di Hans Hollein ‘tutto è architettura’ (come recita il titolo stesso del suo Alles ist Architektur, «Bau», 1968, 1-2, pp. 1-32). Profezia oggi in massima parte avverata, ma con modalità ben diverse da quanto preconizzato da Banham e da Hollein. L’allargamento dei confini della disciplina, infatti, non è avvenuto attraverso una rivoluzione, ma più prosaicamente attraverso quella che si potrebbe definire una ‘liberalizzazione dal basso’, dagli effetti contraddittori. Se questo è valido per gli edifici, diverso è il discorso per quel che riguarda gli spazi pubblici: qui gli effetti della rifondazione disciplinare sono stati più evidenti, tanto che l’attuale natura dello spazio pubblico deriva proprio dalla profezia di Banham e da come questa abbia permesso la definitiva emancipazione degli spazi pubblici dalle quinte edilizie e dalle regole del decoro urbano.

Il risultato è oggi una condizione in cui l’architettura dei pieni e quella dei vuoti, acquisita ormai pari dignità, si scambiano vicendevolmente il ruolo di rappresentare la città stessa, la sua immagine e la sua volontà propagandistica. Se dunque si parla a ragione di edifici iconici, dotati di forte presenza scenica, lo stesso discorso è valido per gli spazi pubblici, che non solo sono diventati l’emblema della città, ma anche il modello velatamente utopico secondo cui viverla. È plausibile dunque considerare il progetto di tali spazi come uno dei temi di maggior rilievo del nostro tempo: un tema idealtipico (nel senso dato da Max Weber al termine) in quanto capace di rappresentare in profondità la nostra epoca.

Per comprendere gli odierni spazi pubblici è dunque necessario riferirsi non soltanto a Banham, ma più in generale a quel momento di ripensamento radicale dell’architettura che sono stati i primi anni Settanta. Tre immagini sintetizzano lo spirito dell’epoca. La prima è tratta da Learning from Las Vegas. The forgotten symbolism of architectural form (1972; trad. it. 1985), uno studio che Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour condussero sulla città statunitense, partendo dalla constatazione (peraltro ovvia) che ciò che la connota non sono gli edifici, bensì l’ipertrofico apparato pubblicitario su di essi apposto. Ciò che questi autori scoprirono con il loro studio è che tale apparato decorativo nel suo complesso non è casuale, ma dipende da regole dettate essenzialmente dalla comunicazione e ormai totalmente svincolate dal tessuto cittadino e dagli edifici stessi. In altre parole Las Vegas si presenta come una città ‘tutto esterno’, dove il decoro urbano classico è sostituito da altre logiche non meno efficienti di quelle passate, logiche che secondo gli autori avrebbero configurato la città del futuro. La seconda immagine è tratta dal progetto del gruppo radical inglese Archigram per Instant city (1970), una città utopica in cui gli edifici sono scomparsi ormai completamente e sono stati sostituiti da una serie di attrezzature mobili ed effimere, al servizio di uno spazio illimitato, immaginato come un vero e proprio teatro all’aperto, palcoscenico per i riti della nuova civiltà di massa. La terza immagine è quella in cui il gruppo italiano Superstudio, con il suo Monumento continuo (1971), partendo dall’ipotesi marxista della distruzione della città in quanto considerata espressione dell’accumulo illecito del capitale, giunse a ipotizzare la definitiva scomparsa di qualunque forma di costruito, che viene come risucchiato da una gigantesca e improbabile griglia cartesiana territoriale, la quale diventa il tessuto connettivo di un Eden a uso e consumo di comunità neoprimitive.

Le tre immagini possono essere considerate come gli archetipi degli attuali spazi pubblici. L’iconografia pop intesa come sistema autonomo rispetto agli edifici (Venturi, Scott Brown e Izenour), lo spazio pubblico concepito come spazio del movimento e della partecipazione della società di massa (Archigram) e le apodittiche e metafisiche visioni che aboliscono la distinzione tra città e territorio, tra astratto e figurativo e tra primitivo e tecnologico (Superstudio) le si ritrovano in forma addomesticata in gran parte degli odierni spazi pubblici. D’altro canto, la rivoluzione iconologica nata sotto il motto ‘tutto è architettura’ e attuata attraverso la pari dignità tra edifici e spazio pubblico, non poteva (come tutte le rivoluzioni iconologiche) esaurirsi in poco tempo.

La città si rinnova

Sul finire degli anni Settanta, seguendo l’onda del riflusso postmoderno, le interpretazioni paradigmatiche e perentorie dello spazio pubblico hanno stemperato il loro carattere radicale. Si è smesso allora di ipotizzare città alternative, o di auspicare millenaristiche distruzioni delle città esistenti, o di prendere a modello città estreme come Las Vegas. In questa nuova stagione, che si potrebbe definire realista, Barcellona e i Paesi Bassi sono diventati i più interessanti laboratori di ricerca: qui sono state effettuate ampie operazioni di rinnovo urbano, attuate per interventi puntiformi in zone in cui il tessuto cittadino si era sfrangiato, degradandosi nel tempo. In entrambi i casi si tratta di esperienze che sono durate sino ai nostri giorni, sia come politica di gestione urbana sia per le loro implicazioni estetiche.

A Barcellona, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, una generazione di giovani architetti ha sperimentato proprio nella progettazione dei vuoti pubblici urbani, con una libertà che la progettazione degli edifici non avrebbe concesso, le possibilità di un tema nuovo, perfettamente in linea con le aspettative di un pubblico sempre più coinvolto nel dibattito sul futuro della città. Il risultato è stato una lunga sequenza di architetture che mettevano in scena un modo nuovo di vivere la città: estroverso, ludico, disimpegnato. È proprio a Barcellona che si è attuato per la prima volta quell’allargamento tematico auspicato da Banham, in un’atmosfera che si potrebbe definire di riconciliazione urbana, in cui gli amministratori hanno scoperto lo spazio pubblico come strumento per consolidare il consenso. Si è trattato dunque di una vera e propria politica urbana, che ha investito non solo la città consolidata, con le sue piazze, slarghi e parchi urbani, ma anche (ed è questa la novità di rilievo) le parti periferiche della città, quelle sfrangiate, in cui il tessuto edilizio si era allentato lasciando grandi vuoti che non erano stati ancora considerati degni di nota. L’operazione barcellonese di rinnovamento a partire dagli spazi pubblici si è rivelata un successo, tanto che l’architettura dei vuoti è diventata il tratto saliente della nuova città, lo strumento con cui è stata rifondata non tanto la forma urbis, quanto l’imago urbis e con essa la maniera di vivere la città.

A quasi trent’anni dagli esordi, l’operazione barcellonese presenta ormai con chiarezza i suoi caratteri. Primo tra tutti l’impronta marcatamente architettonica degli interventi, come se ambienti diversi (piazze, giardini, parchi, vuoti interstiziali) fossero lo stimolo per riconfezionarli sotto nuova veste, rinnovando così quell’attrazione nei confronti dell’invenzione architettonica a oltranza che in passato aveva caratterizzato il Modernismo catalano. A ciò si aggiungono altri caratteri legati più specificatamente al linguaggio, come lo scambio tra il durevole e l’effimero, in una sorta di illusionismo che fa apparire snello e leggero ciò che dovrebbe ispirare solidità (gli edifici), o, al contrario, solido e persino monumentale ciò che è leggero (le pensiline o gli arredi urbani); oppure l’utilizzo di materiali fino ad allora inusuali per gli spazi esterni (legno, plastiche, materiali di riciclo). Questi caratteri si sono rivelati talmente innovativi da delineare un vero e proprio international style degli spazi pubblici che si potrebbe definire Modernismo ludico: uno stile fortemente iconico, improntato a una marcata volontà comunicativa, le cui forme risultano profondamente influenzate dalle arti figurative e dal design. Ed è proprio questa volontà partecipativa, congiuntamente all’attitudine a stimolare il comportamento, l’indole del Modernismo ludico; un’indole che, se da un lato è stata la causa dell’innegabile successo barcellonese, dall’altro segna anche il limite di esperienze alle volte troppo concentrate sulla ricerca di facili consensi.

Non è molto distante dall’esperienza catalana quella dei Paesi Bassi. Qui, per tradizione, si è sempre mantenuta un’estrema attenzione alla progettazione e alla gestione degli spazi pubblici, considerandoli parte essenziale del rapporto tra amministratori e cittadini. Anche nei Paesi Bassi una generazione di architetti si è andata formando con la progettazione degli spazi pubblici, mettendo a punto un atteggiamento in cui sono rintracciabili alcuni caratteri peculiari. La strettissima interdipendenza fisica ed economica tra costruito e territorio, tra edilizia e manufatti tecnici, tipica del territorio dei Paesi Bassi, è alla radice di una serie di progetti che si esprime attraverso una sintesi tra astratto e figurativo, tra artificio e natura, in cui gli elementi naturali tendono a diventare artificiali o viceversa, come se la progettazione degli stessi fosse sempre all’interno di quello spettro identificato dalla famosa sequenza della metamorfosi di un albero in una figura astratta del pittore Piet Mondrian.

Se si esamina, per es., il lavoro dello studio West 8 urban design & landscape architecture, la peculiarità è la messa a punto di una dimensione che si interpone tra città e territorio, tra minerale e naturale, tale da determinare un climax generale ibrido che non arretra neanche di fronte al kitsch. Se si considera in particolare Arteplage, il sito espositivo che West 8 ha realizzato per l’Expo svizzera del 2002 a Yverdon-les-Bains, è evidente che non si è in presenza di un giardino, neanche di un parco e meno che mai di uno spazio urbano, ma di una scena spettacolare di lontana origine naturale, resa artificio teatrale. Un’altra caratteristica della via nederlandese è l’attenzione posta nei confronti delle infrastrutture. Addomesticare i manufatti tecnici, renderli gradevoli se non gentili, è un elemento distintivo proprio della cultura architettonica dei Paesi Bassi, i cui prodromi possono essere rintracciati già nell’immediato dopoguerra e che oggi vede in Maurice Nio, MVRDV, NL architects, Kas Oosterhuis i migliori interpreti.

L’architettura della mobilità e la landscape architecture

Senza dubbio l’inclusione delle infrastrutture nel progetto degli spazi pubblici rappresenta una delle novità di maggior rilievo degli ultimi decenni. Il processo di inclusione è iniziato alla fine degli anni Ottanta, e va inquadrato in una più vasta considerazione estetica delle infrastrutture.

Oggi la progettazione degli spazi della mobilità si esprime secondo diverse modalità: innanzitutto quella classica, concentrata sui tracciati e più specificatamente sugli oggetti edilizi al servizio degli stessi (per es., Flora Ruchat-Roncati, Lucien den Arend); a questa si aggiunge quella paesaggistica, che invece sposta l’attenzione sui brani di territorio ai margini delle infrastrutture e che lavora essenzialmente con gli elementi naturali (per es., Bernard Lassus, Michel Des-vigne, Christine Dalnoky). Ma i risultati più innovativi si sono avuti nell’ambito più propriamente urbano e ancora una volta a Barcellona, in particolare con tre grandi progetti: quello della Gran Via de Llevant (Arriola & Fiol arquitectes, 2004-2006), quello della vasta area Diagonal Mar/Front Marítim Besòs/Fòrum (2001-2004), quello della parziale copertura della Ronda del Mig (2002-03). In queste realizzazioni si misura la distanza con un passato in cui la progettazione architettonica delle strade si esplicava quasi esclusivamente nell’abbellimento delle percorrenze pedonali a ridosso dei tracciati secondo un principio di intervento continuo e unitario, come la famosa passeggiata di Copacabana (1970) a Rio de Janeiro di Roberto Burle Marx. Sebbene il modello abbia sempre mantenuto una propria rispettabilità architettonica (si pensi alla passeggiata lungomare, 2002, a Matosinhos in Portogallo di Eduardo Souto de Moura), negli ultimi anni la progettazione della mobilità si è emancipata dal tema della passeggiata pedonale per orientarsi verso soluzioni più integrate, che intervengono anche nella determinazione dello stesso tracciato e nelle confinanti fasce di rispetto. L’impegno teorico sul tema è stato finora cospicuo, fino al punto che gruppi come NL architects, MVRDV, Foreign office architects, Oosterhuis hanno fondato la loro identità sulla nuova estetica della mobilità e su quella che si potrebbe definire la resa domestica della stessa.

Un tema di indubbio successo teorico, dunque, ma a cui ha corrisposto uno scarso successo pratico, dovuto innanzitutto alla difficoltà di intervenire in zone vaste ma marginali, il più delle volte inaccessibili e come tali soggette a un forte degrado. Il caso dei Paesi Bassi può essere così considerato un’eccezione resa possibile dalla natura di un territorio molto particolare, piatto e denso, in cui l’intervento sulle aree interstiziali o a ridosso delle infrastrutture risulta chiaramente più facile. A ciò si aggiunge una deriva che appare in molte opere degli architetti che lavorano sul tema: una tendenza al decorativismo che arriva in certi casi alla leziosità e stride vistosamente con un tema che invece presupporrebbe una certa asciuttezza progettuale.

Parallelamente allo sviluppo dell’estetica della mobilità, gli ultimi anni hanno visto prendere forma una nuova attitudine nei confronti della progettazione paesaggistica, che sempre più tende a integrare l’aspetto naturale dello spazio pubblico con quello più specificatamente architettonico. L’ipotesi nasce ancora una volta dalle ricerche artistiche radicali degli anni Sessanta: dagli happenings all’Arte povera e concettuale, e specialmente alla land art, con particolare riferimento all’interpretazione di Robert Smith-son che trova nel critico statunitense Rosalind E. Krauss l’interprete teorica di maggiore rilievo. Krauss già nei primi anni Settanta (A view of modernism, «ArtForum», 1972, 1, pp. 48-51) andava auspicando un’arte capace finalmente di abbandonare i musei per vivere nello spazio esterno, naturale o urbano che fosse. Ciò non per volontà celebrativa (come per i monumenti del 19° sec. o per le sculture urbane di Alexander Calder), ma per determinare nel pubblico una reazione estetica collettiva che avrebbe potuto assurgere a valore politico. Krauss trattava anche dei caratteri più precisamente legati al linguaggio, sostenendo che allorquando un oggetto artistico abbandona il consolatorio spazio di un museo deve sforzarsi di abolire quella distinzione tra figura e sfondo che aveva caratterizzato l’arte del passato: solo così si può definire compiutamente ‘pubblico’. Questa tesi ha avuto uno strabiliante successo: nata in ambito artistico come critica alla scultura astratta, ha avuto riscontri sostanziali negli spazi pubblici, contribuendo in maniera determinante ad abolire quei limiti canonici che da sempre avevano separato l’intervento architettonico da quello paesaggistico o artistico. Il risultato è che oggi la progettazione dello spazio pubblico è appannaggio sia degli architetti sia (e con opere ragguardevoli) di tutta una serie di artisti, come Chris-to & Jeanne-Claude (Christo Vladimirov Javašev e Jeanne-Claude Denat de Guillebon), Anish Kapoor, Olafur Eliasson, che, sebbene con modalità diverse, nei loro allestimenti urbani partono dai presupposti teorici di Krauss per un’arte pubblica fortemente relazionata con il suo contesto.

Le tesi di Krauss hanno contribuito tra l’altro ad accelerare quella riconsiderazione del concetto di paesaggio cui si è accennato prima: una dimensione sempre meno naturalista e sempre più concettuale, ibrida, per certi versi sfuggente, che tende a porre sullo stesso livello l’intervento naturale, quello artistico e, infine, quello più specificatamente architettonico. Questa nuova dimensione è stata definita landscape architecture o, ancor meglio, con un neologismo coniato da Luca Galofaro, artscape, il cui fine è quello di presentarsi come esperienza estetica di massa, seguendo un principio che artisti come Matta Gordon Clark avevano già ipotizzato negli anni Sessanta. I lavori di Emilio Ambasz, Daniel Buren, Karl Bauer, Gilles Clément, Michel Corajoud, Michel Desvigne, Chris-tine Dalnoky, Adriaan Geuze, George Hargreaves, Maya Lin, Mary Miss, Alain Provost e molti altri vanno considerati proprio alla luce della rifondazione estetica della nozione di paesaggio, che di fatto ne presuppone l’equiparazione a luogo pubblico, da un punto di vista non solo funzionale ma anche ontologico.

Un tema dominante

Le esperienze finora descritte solo in parte descrivono un tema, quello dello spazio pubblico, che continua oggi a guadagnare sempre maggiori consensi, sia tra i progettisti sia tra il pubblico. Bisogna infatti risalire al successo, nella seconda metà del 19° sec., del giardino romantico all’inglese e della piazza pubblica celebrativa per avere una condizione comparabile a quella attuale. Nel suo acuto e troppo velocemente dimenticato saggio, Hans Sedlmayr ipotizza che ogni epoca abbia avuto dei ‘temi dominanti’ e il carattere di dominanza deriva dal fatto che in un tema dominante «la fantasia creativa si rivolge ad esso con speciale predilezione; [...] perché da esso si irradia – e ciò è significativo – sia pure limitatamente, una forza capace di creare quasi uno stile; inoltre perché a questo tema assimila e subordina a sé altri temi» (Verlust der Mitte. Die bildende Kunst des 19. und 20. Jahrhunderts als Symptom und symbol der Zeit,1948; trad. it. 1967, pp. 22-23). Criteri del tutto soddisfatti dagli odierni spazi pubblici, che non solo rappresentano compiutamente i nostri tempi, ma anche offrono un compendio esaustivo delle tendenze figurative in atto. A ciò si aggiunge un’altra osservazione. Alla fine degli anni Novanta, sull’onda delle teorie sociologiche radicali di marca francese (tra tutte, quella di Marc Augé), si presagiva la scomparsa dello spazio pubblico, letteralmente inghiottito dai nuovi edifici della grande distribuzione commerciale. Il fenomeno si è avverato, ma è stato controbilanciato da un fenomeno inverso, questa volta non previsto: l’aumento dal basso della domanda di spazi pubblici, oggi oggetto di un forte interesse popolare. Si tratta in definitiva del sintomo più evidente di una volontà di appropriazione da parte del pubblico dell’ambiente circostante: una tendenza che un tempo era confinata a un ambito circoscritto, quasi di quartiere, e che oggi invece appare abbracciare tutto l’invaso urbano.

Il carattere di ‘dominanza’ degli odierni spazi pubblici si esplicita anche in relazione ai criteri e ai paradigmi progettuali. Proprio negli spazi pubblici contemporanei, infatti, sono state messe a punto tecniche e modalità compositive che dagli esterni sono state importate negli edifici stessi.

Il primo caso è quello di Isamu Noguchi (1904-1988) e dei suoi playgrounds. Il concetto di playground è chiaro, e parte dal presupposto che uno spazio esterno non deve necessariamente essere assoggettato alle regole del decoro urbano. Posto questo assioma, che vede proprio in Noguchi uno dei suoi primi assertori, la progettazione dello spazio esterno si risolve in un ponderato gioco di bilanciamenti spaziali di oggetti plastici in un campo definito. In altre parole, evitando simbolismi e metafore, si possono posizionare in uno spazio esterno una serie di oggetti (a metà tra la scultura e l’architettura) in modo tale che le relazioni che questi intessono tra loro determinino un auspicabile controllo spaziale. Questi oggetti si presentano come dei veri e propri divertissments, dei giochi plastici per nulla ermetici, che si offrono immediatamente, emanando una cordialità accessibile che si rivela concorde con i comportamenti, il gusto e i principi di una società di massa. Negli ultimi anni il principio del playground è diventato un modello operativo di successo nella progettazione degli spazi pubblici, quasi una soluzione canonica. Progettisti come Enric Miralles, Carme Pinós o Rem Koolhaas, ma anche i già citati West 8 o Archipro e molti altri, hanno perseguito la logica spazialista del playground, elevandola da sistema compositivo a sistema simbolico, probabilmente quello che oggi rappresenta al meglio il Modernismo ludico.

Oltre ai playgrouds, gli spazi pubblici contemporanei ci informano anche su un’altra modalità compositiva propria dei nostri tempi. Si consideri una delle poche operazioni in cui una città (seppure particolarissima) è stata pensata proprio a partire dagli spazi pubblici: la Ciudad abierta de Ritoque, che la Corporación cultural Amereida è andata autocostruendo a partire dal 1970 vicino a Valparaíso in Cile. L’esperimento ha come modello (e continua ad averlo dopo quarant’anni) quello di una città intesa come grande allestimento collettivo concepito a partire dagli spazi aperti (quasi un’acropoli hippy). Il risultato è una ‘città territoriale’ che non è frutto di un progetto a priori, ma la trascrizione fisica nel tempo delle esperienze degli abitanti: una città antidirigista quindi, concepita nell’utopia dell’autocostruzione arcaica e quindi ‘sincera’, correlata direttamente ai bisogni essenziali della comunità. Più che un’estetica, dunque, è logico parlare di un’etica neoprimitiva che informa le architetture del luogo fino a determinare un linguaggio peculiare che appare come una critica all’architettura-design dei nostri tempi, plastica e levigata, opponendo a questa una costruzione allestita più che costruita, spontaneista, che si esprime con l’informale, il non finito, il ruvido e il liso. Un linguaggio che alcuni autori (pochi per la verità), come Miralles, ma anche Glenn Murcutt, hanno saputo elevare a poetica personale, partendo proprio da un abile processo selettivo di nobilitazione dei linguaggi spontanei.

Se quindi da una parte c’è il Modernismo ludico dei playgrounds, dall’altra esiste quello che si potrebbe definire il Modernismo partecipativo della Corporación cultural Amereida, il cui spirito lo si ritrova in alcune esperienze statunitensi, come quelle di Rural studio, Lake Flato e Building studio.

È quindi evidente che sono proprio gli spazi pubblici a informarci compiutamente delle tendenze in atto, e ciò perché non dovendo soddisfare le complesse esigenze degli edifici, riescono a esprimersi con maggiore libertà ed efficacia. In altre parole, analizzare gli odierni spazi pubblici corrisponde a mettere a nudo il senso più intimo dei diversi linguaggi con cui il nostro tempo si esprime.

L’architettura a zero cubatura

La nozione teorica di cosa sia oggi uno spazio pubblico rimane tuttavia ancora sfuggente. Una latitanza che altro non è se non il sintomo di una più generale difficoltà che ognuno di noi sperimenta quotidianamente nell’individuare il sempre più ambiguo limite tra ciò che è privato e ciò che è pubblico: un limite decisamente ambiguo e labile, che appare scritto a matita e a più mani, il cui risultato è un istogramma che appare soltanto in controluce, tra le tracce di infiniti segni e altrettante infinite cancellature.

Attraverso la definizione di ‘architettura a zero cubatura’, Aldo Aymonino e Valerio Paolo Mosco (2006) hanno presentato un’ipotesi: architetture a zero cubatura sono quelle che non hanno spazio interno e che come tali si donano completamente all’esterno. L’ipotesi della zero cubatura nasce per contrasto dalla tesi di Bruno Zevi secondo la quale unicamente le forme che configurano uno spazio interno possono essere considerate propriamente architettura. Oggi le cose sono profondamente cambiate: il non avere un interno non è più una privazione che sminuisce il portato di una architettura; si è infatti avverata la previsione di Hollein per cui ‘tutto è architettura’, ovvero tutto, specialmente gli spazi pubblici, ha acquistato la dignità di oggetto architettonico.

Oltre alla mancanza di spazio interno, l’architettura a zero cubatura si caratterizza anche per essere un prodotto di sintesi tra arte, design e, chiaramente, architettura. Il risultato sono oggetti che si presentano come degli object stimuli, che esaltano la loro venustas in maniera tale da poter interagire con l’ambiente in cui sono presenti. Si potrebbe parlare a riguardo di Gesamtkunstwerk, di opera d’arte totale urbana che non solo presenta con orgoglio e virtuosismo (talvolta con vanità) le proprie forme, ma le utilizza anche per interagire attivamente con il pubblico, intrattenendo con esso un rapporto ludico.

Nell’introduzione al citato libro di Aymonino e Mosco, D. Scott Brown ripercorre i momenti che hanno portato alla zero cubatura, e lo fa partendo proprio dalla tesi di Banham (citata all’inizio di questo saggio) di un necessario ampliamento dei confini della disciplina. Proprio l’ipotesi di Banham già negli anni Sessanta destrutturava il paradigma di Louis Kahn allora in voga, secondo il quale l’architettura altro non era che la ‘ragionata arte di configurare spazi’. Decaduto il paradigma spaziale, si è allora potuto considerare la città in modo più empirico, sia come questa appariva sia come veniva vissuta dalla gente. Ecco allora che Las Vegas è apparsa come una città a zero cubatura, essenzialmente caratterizzata dalla comunicazione indotta dal sistema pubblicitario dei bill-boards (tabelloni pubblicitari). In seguito, l’idea di una città bidimensionale della comunicazione ha acquistato spessore, emancipandosi definitivamente dagli edifici per diventare un tema di architettura autonomo. Definiti e storicizzati questi passaggi, ci si chiede oggi se l’architettura a zero cubatura sia in grado di configurare parti di città ex novo. In altre parole ci si chiede se sia possibile generare una città (o, se non altro, parti di città) partendo non dal costruito, ma dai vuoti. Esempi a riguardo già esistono; uno di questi è il Millennium Park a Chicago. All’interno del Grant Park, tra il centro della città e il Lago Michigan, attraverso cospicui fondi di donazioni è stato realizzato nel 2004 un grande playground contenente al suo interno una serie di attrezzature, tra cui un imponente teatro all’aperto, il Jay Pritzker Pa-vilion, il funambolico BP Pedestrian Bridge, entrambi di Frank O. Gehry, e un ricco giardino botanico, il Laurie Garden, di Kathryn Gustafson, Piet Oudolf e Robert Israel. A queste opere specificatamente architettoniche si aggiungono due interventi realizzati da artisti: la Crown Fountain di Jaume Plensa e il Cloud Gate di A. Kapoor, che è diventato il simbolo della città. Il successo del parco di Chicago non allontana i dubbi che questo intervento suscita: principalmente il fatto di costituire un parco a tema del loisir, esaltato in tutte le sue forme, che sfiora la ridondanza, e che quindi, se fosse stato anche di poco più grande, sarebbe risultato dichiaratamente kitsch.

Altro brano di città edificato a partire dall’architettura a zero cubatura è, a Barcellona, alla fine dell’Avinguda Diagonal, l’Explanada del Fòrum universal de les cultures (2004) di José Antonio Martínez Lapeña ed Elías Torres i Tur. Un intervento concepito a partire dagli spazi pubblici, in definitiva un vero e proprio zoning di vuoti in cui galleggiano alcune attrezzature pubbliche intese come delle grandi folies; gli edifici sorgono defilati rispetto a questo centro a zero cubatura. In questa composizione spicca la pensilina fotovoltaica. Tuttavia, l’anima di questi spazi pubblici, il suo significato intimo, si può apprezzare affiancando la planimetria dell’intervento con un vecchio fotomontaggio di Bruno Taut per il progetto di un luna park. Se Taut negli anni Venti aveva sentito il bisogno di un’architettura popolare, che coinvolgesse la gente, gli architetti barcellonesi di oggi non sono poi tanto distanti da questo ideale. La differenza è che, mentre Taut considerò il divertimento collettivo come la prerogativa di un luogo specifico, separato rispetto alla compagine urbana, oggi questo scrupolo è stato cancellato. L’ipotesi di città postindustriale intesa come gigantesca macchina per lo svago collettivo investe il decoro urbano, espressione morale della città borghese. Ancora una volta, quindi, il rischio che si corre è quello di avere spazi pubblici monotematici e overdesigned, disegnati ‘a oltranza’, e come tali tendenti al ridondante.

Uno spazio pubblico tematico che non soffre dei sintomi descritti è l’Olympic Sculpture Park (2007) a Seattle, di Marion Weiss e Michael Manfredi. Qui il lotto che declina verso il mare è definito da tre grandi recinti terrazzati che alloggiano i tre paesaggi tipici del Nord-Ovest statunitense (una foresta pluviale, una foresta decidua, un giardino). A corredare il tutto, come interfaccia con la città, è stato costruito un padiglione che sembra scaturire dalle linee di forza dedotte dalla topografia del terreno. Ciò che rende particolarmente interessante l’intervento è la sua localizzazione, interposta tra il tessuto urbano, la ferrovia, un parco e la passeggiata lungo mare. Il progetto trae vantaggio dal suo posizionamento interstiziale, attraendo a sé i caratteri limitrofi, bilanciandoli tra loro sia dal punto di vista funzionale sia da quello figurativo. L’Olympic Sculpture Park, inoltre, è indicativo di una sintomatologia più generale, secondo la quale quando il progetto degli spazi pubblici si trova in condizioni interstiziali, difficili e compromesse, sembra esprimere al meglio le sue potenzialità; quando, al contrario, si trova a operare in condizioni senza vincoli, fondative di un luogo, perde efficacia, ricadendo in una autoreferenzialità che, allo stato attuale, appare un limite difficilmente superabile.

Nonostante queste criticità, il successo degli spazi pubblici degli ultimi decenni è la prova che l’ipotesi (se non l’utopia) di poter costruire città e territorio partendo dai vuoti, non solo è perseguibile, ma è anche lo strumento più idoneo per riconfigurare il difficile rapporto tra architettura e assetto urbano. A ciò si aggiunge il valore sintomatico di questa architettura, le cui forme hanno il pregio di raccontarci con immediatezza la fenomenologia dell’attuale comportamento collettivo in cui confluiscono il loisir, i riti dello shopping e il salutismo pubblico. Ma anche i paradigmi estetici come il bello delle infrastrutture, l’effimero, il design, il nomadismo e le pulsioni neoprimitive. Sono tutti elementi questi che investono coloro che vivono il nostro tempo, un tempo che si rispecchia nell’architettura a zero cubatura.

Bibliografia

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