VIOLANTE, Cinzio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 99 (2020)

VIOLANTE, Cinzio

Giuseppe Petralia

– Nacque il 16 maggio 1921 ad Andria, dove visse fino ai diciott’anni, da Guido, procuratore delle Imposte dirette, e da Maria Gallo, barlettani.

Trascorse una giovinezza spensierata e operosa, fra studi e villeggiature estive, in un ambiente di piccola borghesia della provincia meridionale. Nel 1939, dopo la maturità nel liceo classico di Barletta, vinse un posto di allievo alla Scuola normale superiore e si iscrisse alla facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Pisa.

In una comunità accademica che il regime faticava a tenere imbrigliata, incontrò i primi maestri di studio e di metodo, ma anche – mentre deflagrava il conflitto mondiale – di vita e di etica civile: il filologo Giorgio Pasquali e il giovane Delio Cantimori, il filosofo liberalsocialista Guido Calogero, il cattolico Giovanni Battista Picotti, che lo addestrò al rigore della ricerca storica, il risorgimentista Walter Maturi.

Gli studi universitari furono interrotti il 28 febbraio 1941 dalla chiamata alle armi. L’armistizio dell’8 settembre 1943 lo colse sottotenente in una postazione di artiglieria del Peloponneso, non lontano da Kalamata. Deportato dalla Wehrmacht, rifiutò il lavoro coatto e ogni forma di collaborazione. Fu una resistenza che gli procurò l’affidamento alla Gestapo e alle SS e il campo di punizione. Passato per diversi lager tra Germania e Polonia, finì gravemente malato a Lipsia, in un ospedale della Croce Rossa tedesca. Vi rimase fino al settembre del 1945, quando fu fatto rientrare in Italia, diretto per una lunga convalescenza a Catania, dove si erano stabiliti i genitori e il fratello maggiore Francesco, medico. Usufruendo di permessi e di piccole evasioni non autorizzate dall’ospedale militare, riuscì a frequentare le biblioteche cittadine, il circolo di intellettuali e letterati (essenzialmente di sinistra) animato dallo storico dell’arte Stefano Bottari e la Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI), incrociò Nino Valeri che vi insegnava storia moderna e conobbe Rosario Romeo, al quale sarebbe rimasto sempre unito da una colleganza d’elezione. Si laureò in lettere nel giugno del 1947, relatore lo storico del diritto Matteo Gaudioso, presentando come tesi lo studio su Ariberto di Intimiano oggetto del suo primo colloquio in Normale, arricchito da un capitolo su Il feudalesimo come esigenza di libertà (poi confluito in pagine tra le più originali del suo primo libro).

Congedatosi l’11 novembre 1947, nel 1947-48, insieme a Romeo, fu tra i primi borsisti dell’Istituto italiano di studi storici, dove aveva presentato lettere di Picotti e di Valeri e la tesi, letta e apprezzata da Benedetto Croce.

Dopo i sette della ‘giovinezza espropriata’, fu l’anno del ‘ritorno alla vita’. In una Napoli anch’essa risorta, fervida di occasioni culturali e politiche (dal circolo Omodeo alle cellule del Partito comunista italiano frequentate da cugini napoletani), all’Istituto entrò a far parte di una cerchia di giovani d’ingegno (Vittorio de Caprariis, Ettore Lepore, Alberto Del Monte, Francesco Compagna, tra gli altri); soprattutto incontrò Federico Chabod, le cui lezioni lo introdussero a questioni e a storici (Fustel de Coulanges, Alfons Dopsch, Henri Pirenne) destinati a restare per lui centrali, e lo sollecitarono a scoprire Marc Bloch e le prime Annales. Da Chabod, che aveva lavorato una decina di anni prima sulle carte altomedievali milanesi, vennero anche suggestioni concrete per lo sviluppo in libro della tesi. A Pisa tornò all’inizio del 1949, nella Scuola Normale, dove si perfezionò in storia il gennaio del 1950. Riprese a frequentare Cantimori, riannodò i contatti con Pasquali, si legò al cattolico Ettore Passerin d’Entrèves, che aveva sostituito Maturi. Con il nuovo anno accademico divenne assistente volontario di Ottorino Bertolini, succeduto a Picotti, in un seminario nel quale consolidò definitivamente il mestiere di medievista. Il 15 ottobre 1949 venne nominato professore di ruolo di storia, geografia generale e geografia economica nell’Istituto tecnico nautico di Livorno, città in cui conobbe e sposò, il 18 settembre 1955, Laura Villani.

Nel novembre del 1953 divenne assistente straordinario presso una nuova cattedra pisana di storia, retta dallo stesso Bertolini, nel corso di laurea in lingue della facoltà di economia e commercio.

Uscirono i primi saggi: nel 1952 uno studio sulla politica italiana di Enrico III, nella Rivista storica italiana di Chabod, e una impegnata recensione del libro di Dollinger sulle classi rurali in Baviera, nei livornesi Quaderni di cultura e storia sociale appena fondati da Passerin d’Entrèves, in ambienti cattolici allora vicini a Giovanni Gronchi; nel 1953 due studi di analisi sociale delle Noie cremonesi e della Cronica di Salimbene, in cui dimostrava l’influenza della cultura cavalleresca nelle città comunali (che volle poi ripubblicare, rivisti, nel 1995, in un volumetto intitolato a La “cortesia” clericale e borghese del Duecento) e una discussione sulla società merovingia, nella neonata rivista Il Mulino. Nel 1953, nella collana dell’Istituto Croce, apparve anche La società milanese nell’età precomunale, che ebbe straordinaria risonanza. Armando Saitta, che nel 1952 aveva definito «brulla e sterile landa» la medievistica italiana, ne esaltò subito la capacità di trattare l’Alto Medioevo affrontando di petto, con originalità e sicurezza, «formidabili problemi, ad ognuno dei quali ha legato il proprio nome, in questo ultimo cinquantennio quanto di più illustre, di più alto la storiografia mondiale ha prodotto» (A. Saitta, Momenti e figure delle civiltà europee: saggi storici e storiografici, V, Roma 1997, pp. 41, 45). Violante si misurava alla pari con Bloch, con Pirenne e la sua tesi, con le questioni connesse al dibattito con Dopsch. Per il Medioevo il suo libro dava una esemplare risposta all’«isolamento della storia economica dalla storia politica e civile generale» negli studi storici italiani, lamentato giusto l’anno prima da Cantimori (in un inedito del 1952, ora negli Studi di storia, Torino 1972, pp. 268-280). Questi, che al ritorno da Napoli l’aveva amichevolmente apostrofato come «cattomarxista di scuola crociana», nel 1962 avrebbe apertamente sottolineato la presenza di «certe posizioni e certe impostazioni di carattere marxista» (Le contraddizioni della storia, 2002, pp. 29 s.). Erano coloriture che Violante stesso riconobbe derivate dal sedimentarsi, sul terreno di una formazione in fondo storicista e crociana, delle letture nel dopoguerra, tra Napoli e Pisa, di Antonio Gramsci e di parte delle opere di Lenin, prima che quella dello staliniano Materialismo dialettico lo immunizzasse una volta per tutte dall’esperienza giovanile della ‘scarlattina marxista’ (come amava ripetere negli anni Settanta ad allievi ritenuti ancora non ‘vaccinati’). Nel 1971 anche Marino Berengo (Historical scholarship since the fascist era, in Daedalus, C (1971), 2, pp. 469-484) notò che, prima ancora dei marxisti, erano stati storici come il liberale Romeo e il cattolico Violante, in campi diversi, a distinguersi in quegli anni in Italia per la loro attenzione alle strutture sociali, in Violante caratterizzata da «the use of economic, political and religious facts for a reconstruction of the character of the entire society» (p. 476).

Nell’autunno del 1951 il manoscritto de La società milanese nell’età precomunale gli era valso, dalla primavera del 1952 al marzo 1956, il distacco a Roma, borsista della Scuola di studi medievali annessa all’Istituto storico italiano per il Medioevo di Raffaello Morghen, già incontrato nel gennaio del 1948, a ricerca ancora in corso. Nella Scuola romana, si riunì allora il drappello d’élite della nuova medievistica italiana del dopoguerra, e si stabilirono le basi di un confronto intellettuale che solo la morte (per alcuni piuttosto precoce) avrebbe interrotto: insieme a Violante, Arsenio Frugoni, Raoul Manselli, Paolo Lamma, Girolamo Arnaldi, Ovidio Capitani. Tra i maggiori, manca solo il torinese Giovanni Tabacco, più anziano e rimasto estraneo all’influsso di Morghen, ma che negli anni seguenti sarebbe stato ugualmente uno dei principali interlocutori italiani, se non forse il più diretto, di Violante. Il dibattito scientifico animato da Morghen, allora studioso e ispiratore di ricerche su eresie e religiosità dei ceti inferiori nell’XI e XII secolo, lo indirizzò verso l’indagine del movimento patarinico milanese. Dopo la libera docenza conseguita nel maggio del 1954, scrisse il suo secondo libro, su La pataria milanese e la riforma ecclesiastica (1955).

In coerenza con la sua visione del feudalesimo come espressione profonda del complessivo dinamismo della società del pieno Medioevo e con la naturale tendenza a porsi controcorrente in ogni ambiente, vi rifiutava la separazione tra religiosità popolare e ‘Chiesa feudale’, e l’accezione negativa di questo termine, comune a Morghen e i suoi allievi.

Gli anni romani furono densi di stimoli i più vari. Conobbe e si conquistò la stima di Gaetano Salvemini; fu vivace e attivo borsista alle prime Settimane di studi del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo di Spoleto, intrecciando discussioni e duraturi rapporti con François Louis Ganshof e Roberto Sabatino Lopez; partecipò al X Congresso internazionale di scienze storiche (1955), dove incontrò Georges Duby e Jean-François Lemarignier, con i quali allacciò relazioni scientifiche e di amicizia profonde. Furono anche anni di coinvolgimento nel dibattito pubblico nazionale. Collaborò attivamente tra 1954 e 1956 a Lo spettatore italiano, pubblicato sotto l’egida dei laici Raimondo Craveri, Elena Croce e Leo Valiani, allora diretto da Carlo Ungaro.

In interventi ripresi con favore sull’Avanti! da Pietro Nenni, Violante – preoccupato tanto per il ritrarsi dalla scena di Giuseppe Dossetti, e di uomini come Giuseppe Lazzati (conosciuto in Polonia, nel lager nazista di Deblin) e Giorgio La Pira, quanto dei rischi per il Paese di una politica di ‘fronti popolari’ o ‘nazionali’, propugnava il ricambio di una «classe dirigente ormai logora» (anche e forse soprattutto nella Democrazia cristiana), esprimendosi per un’alleanza dei laici con i cattolici di sinistra in vista della elaborazione e attuazione di un programma di «riforma strutturale della società e dello Stato italiano» (Lo spettatore italiano, VII (1955), pp. 54-57).

Il 10 marzo 1956, vincitore di concorso, fu chiamato professore straordinario all’Università Cattolica di Milano, dove tre anni dopo divenne ordinario.

La Pataria, studi sulle canoniche regolari pisane e sul monachesimo cluniacense, e il confronto, dopo la Società milanese, con le ricerche di Duby e gli studi di Lemarignier, con il marxista Ernst Werner, gli aprirono la prospettiva di una storia ecclesiastica e religiosa trascinata da una larga visione unitaria della società ‘feudale’. Ne nacquero le Settimane di studio triennali della Mendola, alle quali già nel 1959, sul tema della Vita comune del clero, il non ancora quarantenne Violante riuscì a riunire i migliori studiosi italiani e stranieri dei secoli XI e XII.

Partecipò attivamente all’organizzazione nel 1960 e nel 1962 dei convegni di Bologna, sull’età di Leone XIII, e di Spoleto, sull’età di Benedetto XV, promossi dalle principali riviste italiane di cultura cattolica. A Bologna (dove presentò un largo studio su Giuseppe Toniolo) conobbe Henri-Irénée Marrou, del quale promosse e introdusse, nel 1962, la traduzione per il Mulino della Conoscenza storica: un testo che contribuì ad affrancarlo – lui che aveva così fortemente sentito l’influenza dello storicismo crociano – da forme di filosofia della storia, conducendolo verso una concezione del lavoro storiografico come ‘scoperta dell’altro da sé’ e come ‘liberazione dalla storia’ (con esplicito riferimento al Bloch dell’Apologia della storia, nella relazione al Congresso pisano del dicembre 1980 su La storia locale e nella conversazione con Cosimo Damiano Fonseca Le contraddizioni della storia).

Milano segnò anche l’incontro con la Fondazione italiana per la storia amministrativa e con Gianfranco Miglio (con il quale poi avrebbe rotto negli anni Novanta, per il sostegno al programma secessionista della Lega Nord del politologo comasco). Miglio lo portò alla scoperta della nozione di storia costituzionale e sociale di Otto Brunner: uno stimolo che, insieme alla sensibilità verso le istituzioni, verosimilmente rafforzò quella che avrebbe egli stesso definito (nel 1973, aprendo la riedizione Laterza della Società milanese) la sempre risorgente aspirazione a sfidare ‘i pericoli’ connaturati ai propri ‘tentativi di storia globale’.

Dal novembre 1963 passò alla cattedra di storia medievale della facoltà di lettere e filosofia di Pisa, che ricoprì fino al fuori ruolo nel 1991 e al pensionamento nel 1996. Per la sede pisana fu una svolta netta, rispetto sia all’insegnamento di Picotti e Bertolini, sia alla storia delle idee, della politica, della cultura, che avevano nutrito Cantimori, Saitta, e anche Frugoni, formativisi nel corso dei ‘lunghi’ anni Trenta. Arrivava uno storico la cui indagine muoveva direttamente dallo studio delle trasformazioni di base dell’economia, delle strutture sociali e dei quadri istituzionali (ma che rivendicò sempre il merito di essersi misurato nel 1959 anche con la histoire évenémentielle, nella Storia d’Italia diretta da Valeri, trattando L’età della riforma della Chiesa).

Violante avrebbe poi guardato con «inesauribile rimpianto» agli anni in Cattolica (Ricordi e testimonianze sugli internati militari italiani in Germania (1943-1945), in Vita e pensiero, LXXVIII (1995), pp. 411-488, in partic. p. 411 nota), confessando la delusione del rientro a Pisa, che gli si rivelò ben avara di relazioni sociali rispetto alla «cordialissima Milano» (Le contraddizioni della storia, 2002, p. 52).

Anche i cambiamenti nella vita universitaria e di facoltà, innescati dal Sessantotto, lo avrebbero fortemente contrariato, costringendolo a una posizione ‘arretrata’, del tutto estranea alla sua indole di protagonista. Sarebbe però un errore confondere quell’insoddisfazione privata e accademica con un prolungato allentarsi della vitalità scientifica dello storico (fraintendimento presente in un ammirato ritratto dedicatogli da Giorgio Cracco, 2003).

Nel 1972, per il suo sessantesimo compleanno i colleghi della Cattolica gli offrirono una raccolta delle ricerche del periodo milanese affidandone la prefazione a Lemarignier e Vauchez, che scrissero della fecondità della sua visione del movimento della società cristiana in ogni sua dimensione, intorno all’XI secolo, della «attività esemplare» di promotore di ricerca e del suo «senso della storia totale» (Studi sulla cristianità medioevale, Milano 1972, p. XXXI). Erano energie ben lontane da avere manifestato intera la loro potenzialità. A Pisa addestrò tre diverse generazioni di scolari (attraendo irresistibilmente anche molti allievi e perfezionandi dalla Normale, dove peraltro non ebbe mai modo di insegnare), indirizzandoli verso lo studio di processi storici generali, ma nella disciplina di un’esegesi serrata della fonte e di vaste campagne di scavo documentario. Le ricerche di prima mano, per far emergere effettiva nuova conoscenza su cui costruire sintesi sempre più larghe e complesse, erano del resto componenti essenziali del suo lavoro, che praticò in prima persona fino agli anni Novanta, nonostante gravi problemi alla vista. Intorno a quelle indagini riusciva poi a organizzare confronti apertissimi, vivacizzati dal suo indomabile istinto di provocatore intellettuale, con studiosi di ogni provenienza ed età. In un magistero più che trentennale, da Pisa esercitò un influsso profondo, per il pieno Medioevo, su una vasta sezione della ricerca nazionale e su alcuni tra i più brillanti studiosi stranieri di storia italiana, dando anche un contributo decisivo al rinnovamento tematico dell’intera ricerca storica toscana e sulla Toscana – nella storia dei ceti eminenti, delle istituzioni e del territorio.

Continuò a dare impulso alle settimane della Mendola fino al 1993 e a essere protagonista a Spoleto (nel cui consiglio direttivo fu cooptato nel 1963). Il rilancio del programma di edizione delle pergamene pisane fino al 1200 fu occasione di una precocissima apertura a nuove tecniche, in un convegno su Informatique et histoire médiévale presso l’Ecole française de Rome, curato con Vauchez e Lucie Fossier (Roma 1977), nonché di interventi di metodo sullo studio degli atti privati: a Roma nel 1973, in una relazione al novantesimo anniversario di fondazione dell’Istituto storico italiano per il Medioevo e in un volumetto a sé stante (1982).

Prese decisamente le redini della Società storica pisana, fondata nel 1930 da Augusto Mancini e Picotti, di cui restò amatissimo e autorevole presidente dal 1965 fino alla morte, non limitandosi a coordinare studi eruditi e accademici su Pisa e il suo spazio storico, ma producendosi in interventi sull’organizzazione della ricerca, allargatisi, nel congresso organizzato nel 1980, a un’influente discussione sui rapporti tra storia locale e storia generale. Diede un decisivo sostegno nel 1974 alla nascita – in concorrenza con Bologna – del corso di laurea in storia; dopo il 1980 al costituirsi del dipartimento di medievistica e, in intesa con Tabacco e Capitani, di un dottorato di storia medievale con Torino e Bologna.

Dal 1964, con gli allievi pisani, stabilì un fertile rapporto scientifico con Gerd Tellenbach, nuovo direttore del Deutsches Historisches Institut a Roma, e la sua scuola, riprendendone per l’Italia i metodi di studio delle parentele aristocratiche. Poté così, nel 1974, nel convegno franco-tedesco-italiano di Parigi su Famille e parenté, curato da Duby e Le Goff, presentare una sintesi sulle strutture familiari italiche nei secoli XI e XII e sviluppare dal 1978 una serie di incontri sui ceti dirigenti toscani, in collaborazione con le altre università della regione, quindi dal 1983 seminari e convegni internazionali sui ceti dominanti italici dal IX al XII secolo.

Precisò la sua storia delle istituzioni ecclesiastiche. Non mera variante delle istituzioni laiche e civili (perché – in una società cristiana – non è possibile intenderle al di fuori di ecclesiologia e di spiritualità), né separabili dai processi generali di trasformazione sociale ed economica, gli avrebbero rivelato, nel contrappunto con quelle civili, fasi cruciali di cambiamento strutturale, nel passaggio dall’Antico al Medioevo, nella nuova ‘territorializzazione’ connessa agli sviluppi della signoria rurale. Vaste relazioni di ricerca e di sintesi, scaturite da sue iniziative di studio su pievi e parrocchie e sulla cura d’anime dal Tardo Antico al Basso Medioevo, alle settimane della Mendola (1974) e di Spoleto (1980) e Italia sacra (1984), lievitarono alcune a dimensioni monografiche, fino a confluire in un ponderoso volume di Ricerche sulle istituzioni ecclesiastiche dell’Italia centro-settentrionale nel Medioevo (Palermo 1986).

Nel 1980 promosse la parziale traduzione italiana della grande thèse di Pierre Toubert sull’incastellamento laziale, con un’introduzione in cui – riprendendo anche un saggio di metodo del collega francese a doppia firma con Le Goff – discusse dei limiti e delle possibilità di una storia globalizzante che prospettò in termini di ricostruzione di ‘struttura di strutture’. Come suggeriscono anche alcune coeve lettere a Tabacco e a Capitani, una di qualche anno dopo a Berengo, segnalate da Gian Maria Varanini, era una ridefinizione della propria vocazione originaria di storico delle strutture (evidente anche nella prefazione a una raccolta, 1980, di ricerche su Pisa dal X al XV secolo, in prevalenza economico-sociali, degli anni tra il 1954 e il 1979), complicatasi poi con suggestive considerazioni sulla storia degli spazi e degli ‘ambiti’ (Per una storia degli ambiti. La spazialità nella storia, in Studium, LXXXVII (1991), pp. 861-869).

Tra i saggi pisani ristampò anche l’introduzione alla riedizione (1970) degli Studi sulle istituzioni comunali a Pisa del 1906 di Gioacchino Volpe (nella quale fra l’altro si dichiarava insoddisfatto delle recenti soluzioni alla Nikolaj Petrovič Ottokar a proposito dei conflitti politici cittadini, che riteneva comunque riconducibili – sia pure su nuove basi rispetto alle sistemazioni di Gaetano Salvemini e Volpe – a contrasti di interessi materiali ed economici). L’interesse per Volpe, di cui promosse e curò anche altre riedizioni, veniva da lontano e non solo dal gusto per la storia della storiografia, inaugurata dallo studio su Toniolo. Violante si percepiva come membro di una eletta comunità di ‘devoti di Clio’ (titolo di una raccolta di commemorazioni di storici, suoi maestri o colleghi, del 1985), dei quali amava ricostruire vita e ambienti di studio (si dedicò anche alla storia degli studi storici tra metà Ottocento e primo Novecento nella Normale). Ma nel caso di Volpe, come in quello di Pirenne, agiva una forma di rispecchiamento. In Volpe sentiva l’attrazione dell’affresco storico e sociale totalizzante, che egli stesso vagheggiava (pur cogliendone ‘i pericoli’), ma che non avrebbe mai potuto in realtà riprodurre, proprio per il suo essersi costruito prima di tutto come analitico e razionale storico di strutture. Nel caso di Pirenne, di cui fin dalla Società milanese aveva confutato tesi e metodo storico, agì l’analogia di un rapporto elettivo con la cultura tedesca messo in crisi dalla brutalità della prigionia (peraltro sperimentata in ben diverse condizioni). Esito di una ricerca più che ventennale, la ricostruzione – attraverso il pensiero e l’azione del grande storico belga – del grande dibattito e della rottura interna alla storiografia europea determinata dal primo conflitto mondiale fu infine offerta nel 1997 in un libro presentato dallo stesso Violante come «intriso di esigenze esistenziali» (Uno storico europeo tra guerra e dopoguerra, Bologna 1997, p. 14).

Non si può però considerarlo l’atto conclusivo della sua opera.

Grandi problemi originari e nuovi interrogativi erano cresciuti incessantemente e in parallelo nella sua mente, ampliandosi e approfondendosi costantemente, alimentandosi gli uni con gli altri e nel dialogare anche interiore con maestri e colleghi anche scomparsi, in uno sforzo di sintesi mai perso di vista e di visione globale sempre inseguita, in cui continuarono a intrecciarsi evoluzione curtense, signoria e feudalesimo, riforma della Chiesa e istituzioni ecclesiastiche, sviluppo dell’economia monetaria, eresie e vita religiosa dei laici, parentele e identità dei ceti eminenti.

Antichi temi, rimasti sempre vivi nel crogiolo della ricerca, ripresero vigore in fondamentali iniziative scientifiche che accompagnarono il suo ultimo decennio, nutrendosi di saggi seminali degli anni Settanta. Tra il 1974 e il 1977 aveva pubblicato l’analisi della signoria rurale strutturatasi intorno alla corte di Talamona nel secolo XII; lo studio (centoventiquattro dense pagine) sulla ‘famiglia feudale’ dei ‘da Bariano/da Maleo’ tra X e XI, quello sui ‘da Soresina’ nell’XI; una sintesi su La signoria “territoriale” come quadro delle strutture organizzative del contado nella Lombardia del secolo XII, per un convegno del 1977 all’Istituto storico tedesco di Parigi diretto da Karl Ferdinand Werner. Su queste basi mirò a un serrato e avido programma di sistemazione e promozione di nuova conoscenza. Intorno al secolo XI, sempre individuato come tornante decisivo del pieno Medioevo, organizzò nel 1990 un convegno con Johannes Fried all’Istituto storico italo-germanico allora diretto da Paolo Prodi. Alla ‘signoria rurale’ in Europa e in Italia dedicò prima una corposa relazione a Spoleto nel 1990; una intera settimana internazionale di studio organizzata con Gerhard Dilcher ancora a Trento nel 1994; due convegni pisani nel 1995 e nel 1998 (questo pubblicato solo postumo, nel 2006). Al feudalesimo, che si sforzò sempre di intendere come una realtà, sia pure ‘informale’, anche prima del secolo XII, ancora saggi di prima mano: nei Mélanges Duby del 1992; in una ricerca sui ‘da Besate’ nella miscellanea che offrì a Tellenbach nel 1993; negli Studi per Luigi Prosdocimi del 1994; negli Annali dell’Istituto di Trento del 1996. Fino al culmine della Settimana spoletina su Il feudalesimo nell’alto medioevo, che curò nel 1999. In quello stesso anno rimaneggiava e ripubblicava in un volumetto spoletino sei saggi su “Chiesa feudale” e riforme in Occidente (secc. X-XII), che dedicò a Morghen e ai ‘compagni e amici’ scomparsi della Scuola romana. In chiusura annunciava un lavoro sul ruolo del denaro nella lotta per le investiture, di cui aveva dato alcune anticipazioni, una per la miscellanea per Jerzy Kłoczowski (1998), antico sodale della Mendola, e una in uscita negli Studi medievali (1999).

Morì a Pisa, dopo molti mesi di malattia, nella notte tra il 26 e il 27 marzo 2001.

Altre opere. Cara vecchia provincia toscana...! Ricordi personali e rievocazioni, Pisa 1990; Una giovinezza espropriata, Pisa 1998; Le contraddizioni della storia. Dialogo con Cosimo Damiano Fonseca, Palermo 2002; Gioacchino Volpe medievista, a cura di N. D’Acunto - M. Tagliabue, Brescia 2017 (in app., Carteggio Volpe-Violante, a cura di G.M. Varanini).

Fonti e Bibl.: C. V., in Biografie e bibliografia degli Accademici Lincei, Roma 1976; Bibliografia, in Società, istituzioni, spiritualità. Studi in onore di C. V., I, Spoleto 1994, pp. XI-XXXV; Lettere a Raffaello Morghen, 1917-1983, a cura di G. Braga - A. Forni - P. Vian, Roma 1994, ad ind.; F. De Giorgi, Il Pirenne di V. Pluralità di ambiti analitici e intrecci storiografici in un libro ‘complesso’, in Aevum, LXXIV (2000), pp. 875-886; J.-P. Babelon, Allocution à l’occasion du décès de M. C. V., associé étranger de l’Academie, in Comptes rendus des séances de l’Academie des Inscriptions et Belles Lettres, CXLV (2001), 1, pp. 691 s.; O. Banti, Ricordando C. V., in Bollettino storico pisano, LXX (2001); G.M. Varanini, C. V. (1921-2001), in Studi cattolici, CCCCLXXXIV (2001), pp. 438-440; C.D. Fonseca, Commemorazione di C. V., 2002, https://www.sba.unipi.it/files/persona_archivio/commemorazione_di_cinzio_violante.pdf (27 maggio 2020); G. Cracco, C. V.: la sofferta identità di uno storico europeo, in Rivista storica italiana, CXV (2003), pp. 200-239; O. Capitani - G. Sergi, Ricordo di due maestri: Giovanni Tabacco e C. V. nella medievistica europea, Spoleto 2004; G.M. Varanini, C. V. e la “Scuola storica” (1951-1956). Appunti e spunti del carteggio, in La Scuola storica nazionale e la medievistica. Momenti e figure del Novecento, a cura di I. Lori Sanfilippo - M. Miglio, Roma 2015, pp. 99-114.

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