CINICI

Enciclopedia Italiana (1931)

CINICI

Guido Calogero

Nome dei rappresentanti di un movimento filosofico iniziatosi nell'età di Socrate e perpetuatosi poi attraverso tutto lo sviluppo della cultura antica. Socrate, reagendo al relativismo sofistico, aveva rivendicato alla conoscenza la funzione di scoprire e determinare quei concetti etici, su cui doveva orientarsi l'azione umana; e aveva considerato la loro consapevolezza non solo come necessaria ma anche come sufficiente per il conseguimento della virtù e dell'eudemonia. Questo lato dell'etica socratica fu particolarmente accentuato da Antistene, che già aveva appreso da Gorgia l'entusiasmo per la potenza del logos e trovava ora in Socrate realizzato quell'ideale di suprema valorizzazione pratica della conoscenza, che poteva giustificare, nel saggio, l'ambizione della sua capacità a risolvere assolutamente il problema pratico della vita e della felicità. Insieme, quel razionale dominio sulle passioni, che Socrate predicava appunto in quanto tendeva a chiarire in sé e negli altri la consapevolezza del bene, termine della più alta passione, e che praticamente attuava in molti aspetti della sua vita (si pensi, per es., al tipo di dominatore di ogni debolezza fisica e passionale eternato da Platone nel Socrate del suo Simposio), fu interpretato da Antistene nel senso estremo della maggior possibile esclusione di ogni desiderio, che potesse compromettere l'autonoma indipendenza dello spirito. Di qui quell'aspetto di ascesi laica, che contraddistingue la nuova interpretazione data da Antistene al pensiero socratico, fornendo la nota più tipica dell'indirizzo culturale e filosofico da lui fondato.

"Cinismo" (κυνισμός), e cioè, alla lettera, "imitazione del cane", è dunque anzitutto quella convinzione e quello stile di vita che i "cinici" (κυνικοί) professano e mettono in atto in quanto seguono l'esempio del "cane" (κύων): cioè di Diogene di Sinope, lo scolaro di Antistene che per primo ebbe tale soprannome, o per lo meno (se è vero che così fosse già stato chiamato anche il suo maestro) lo accettò stabilmente, assumendolo anzi quasi come simbolo del nuovo vangelo. "Cane", infatti, può ben essere il saggio, non solo per l'estrema semplicità e naturalità del suo stile di vita, ma anche per la sua libertà da ogni vincolo sociale e da ogni riguardo che lo trattenga dall'avventarsi ringhiosamente contro chiunque lo meriti. Alla fortuna del nome, del resto, poté anche contribuire il fatto che il movimento appariva sorto nel ginnasio di Cinosarge, il luogo di riunione dei giovani ateniesi figli di madre non cittadina, fra cui pure era Antistene, che vi insegnava. Ma, nato da Antistene, lanciato (potrebbe dirsi) da Diogene, rafforzato dalla clamorosa adesione di Cratete di Tebe, il movimento cinico, appunto per il suo carattere piuttosto di affermazione e di evangelizzazione pratica che di teorizzazione dottrinale, non diventò mai propriamente una scuola: accanto alle ininterrotte tradizioni degli scolarchi accademici, peripatetici, stoici, epicurei, non esisté uno scolarcato cinico, come non esisté uno scolarcato cirenaico; ma mentre la corrente dei cirenaici venne assorbita da quella epicurea, la tradizione cinica, modificandosi negli aspetti ma non nell'essenza, continuò a vivere durante lo sviluppo del pensiero antico, operando parallelamente, anche se con interferenze continue, a quella dello stesso stoicismo, che da essa aveva tratto origine.

Sorto da una riduzione dell'insegnamento socratico al suo puro motivo etico, l'ideale del cinico è, s'è detto, esclusivamente racchiuso nella soluzione del problema pratico, di cui il sapiente è signore in quanco sa che, quanto più riuscirà ad allontanare da sé di bisogni e di desiderî, tanto più avrà conquistato di libertà e di tranquillità spirituale. Al di là di questa conoscenza, non ne esistono altre che abbiano valore: cade così ogni interesse per il sapere propriamente teoretico, e già la logica dell'identità professata da Antistene non è che una sommersione della logica nel mero nominalismo. E tanto meno si trova alla base del cinismo una specifica teoria del reale, che già era estranea allo stesso interesse di Socrate. Unico ideale, quello dell'eudemonia quale si realizza nella virtù, e cioè nell'autarchia (αὐτάρκεια, non αὐταχία), nella sufficienza di sé a sé dello spirito che considera ogni bene esterno come "indifferente", e quindi tale che non possa mai attirar l'animo allontanandolo dalla sua assoluta "apatia": in fondo, lo stesso più profondo ideale ipostatizzato dai Greci nella loro idea della divinità, ma in un particolare atteggiamento per cui esso non si risolve nell'ascesi soddisfatta degli epicurei né nell'identità contemplativa d'Aristotele, bensì appare come termine etico di uno sforzo della volontà. L'ascesi cinica è perciò ascesi nel senso antico della parola, esercitazione faticosa del volere alla libertà: di qui il dispregio del piacere e l'esaltazione dello sforzo, del πόνος, che ha il suo nume in Ercole, da imitar quindi magari fino a costruirsi di propria mano il rogo e a salirvi, secondo quanto si narra di Peregrino Proteo. Di qui, insieme, il rifiuto di tutto quel che possa importare accrescimento di bisogni, e cioè di ogni cultura e civiltà, che viene quindi stigmatizzata come "convenzione" (νόμος) di fronte alla "natura" (ϕύσις): con nuovo uso di una contrapposizione che aveva già servito alla sofistica per uno scopo diverso, avendo i sofisti respinto anch'essi come νόμος ogni vincolo sociale che impedisse la libera soddisfazione dell'individuo: ma avendo d'altronde insistito sul concetto della debolezza dell'umana ϕύσις, incapace alla dura lotta per la vita senza le armi che solo il sofista poteva fornire.

Tale negazione del valore di ogni cultura e civiltà importava logicamente una serie di conseguenze pratiche, che dovevano urtare in modo particolare la coscienza contemporanea e che spiegano la genesi della più tarda e comune accezione del nome di cinismo. Non tanto interessa, al cinico, la negazione della religione tradizionale, che in lui si trasforma, per lo più, in un generico monoteismo, quanto quella delle istituzioni sociali con cui più immediatamente l'individuo deve fare i conti: la famiglia, la città, la nazione. Il rifiuto di ogni convenienza sociale conduce alla provocante ostentazione di uno stile di vita affatto naturale, animalesco, privo di ogni velo di buon costume: l'ideale dell'autosufficienza può trovare qualche volta applicazione persino nella sfera sessuale. Di qui quell'ἀναίδεια, quella svergognatezza cinica, che poi ha fatto tanto le spese degli avversarî, non sempre fededegni, del cinismo: ma di qui, anche, quella prima violenta esperienza del valore della libertà individuale, da cui dovevan sorgere le idee della civitas mundi e dell'abolizione della schiavitù. Parimenti, la παρρησία, l'abito di dir pane al pane senza riguardi, tiene del partito preso antifilisteo del cinico, ma è insieme scuola di dura sincerità morale. E per dar corso a tale παρρησία, il cinico può diventar persino scrittore: di qui il paradosso di una corrente filosofica che affetta il più gran dispregio di ogni forma specifica di cultura (fin quasi a giustificare l'analfabetismo) e che insieme crea una ricca tradizione letteraria: dialoghi, satira giambica, parodie dell'epos, poesia parenetica, memorie biografiche, lettere, giù fino al classico tipo della "diatriba" (v.), dove il cinismo confluisce con lo stoicismo nella tradizione della conferenza popolare su temi etici.

In virtù di questo carattere eminentemente critico, corrosivo, dissolutore, il cinismo è stato spesso giudicato un prodotto della decadenza dello spirito greco, che, dopo aver superato il culmine del suo sviluppo, scendeva alla negazione degli stessi più alti valori culturali in esso conquistati. Giudizio che ha il suo lato di verità, purché si rammenti che anche le crisi son poi, a loro volta, momenti di progresso rispetto a ciò di cui sono le crisi. In un contesto storico di concezioni etico-politiche culminanti nei chiusi ideali dello stato-città e della giustizia, i cinici avanzano, sostanzialmente primi, le idee della civitas mundi e della libertà. Entrambe, s'intende, in una forma ancora astratta e negativa, perché questo cosmopolitismo è mero rifiuto di ogni vincolo determinato di cittadinanza, e questa libertà è sogno disperato di affrancazione del volere da ogni movente dello stesso volere. Ma intanto, l'indifferenza cinica alle distinzioni statali è il primo presupposto per l'avvento dell'idea dell'umanità universale e della polemica stoica contro l'ingiustizia della schiavitù, anche se quest'ultima non può considerarsi immediatamente derivata dalla posizione cinica, per cm. la vera libertà è quella del volere rispetto alle passioni e la schiavitù esteriore non ha importanza appunto perché è esteriore. E l'ideale cinico della libertà è pur quello che il già schiavo Epitteto può insegnare all'imperatore Marco Aurelio: un motivo, cioè, che permane vivo e inconsapevolmente contradittorio nel cuore dello stesso stoicismo, costituendone infine il dramma e la crisi, in quanto esso è nella sua essenza più caratteristica giustificazione teologica e quindi accettazione assoluta del reale, mentre il cinismo è anzitutto svalutazione totale della realtà come indifferente. D'altra parte, nulla di meno storicamente adeguato di quegli eccessivi accostamenti del cadente cinismo al nascente cristianesimo, di cui si è talora compiaciuta la critica: ché se nel tratto esteriore può dirsi che il primo monachesimo continui in certo senso il cinismo, nella sostanza della sua fede quest'ultimo non si distingue gia dal cristianesimo soltanto perché la sua ascesi è senza aldilà, bensì, assai più nettamente e profondamente, per la mancanza totale di quell'esperienza concreta dell'amore dell'altrui persona, che è invece conquista essenziale del nuovo vangelo. Partecipe del limite di tutta l'etica classica, la morale cinica resta anch'essa serrata nel chiuso cerchio dell'astratto individualismo, pur spingendone l'esperienza all'acme e alla crisi: adiaforia, autarchia, libertà, sono i momenti ideali di questa estrema ascesi, che svuota e annienta il volere nell'atto stesso in cui tenta di renderlo assolutamente libero. Ma questo ideale è poi quello stesso greco della perfezione, divinamente sollevata al di sopra dell'insufficienza del desiderio e della volontà: tipico il motto attribuito all'ultimo e massimo rappresentante dell'ideale ellenico, che se non fosse stato Alessandro, avrebbe voluto essere Diogene.

Bibl.: Per le fonti, come per gli scritti critici particolari, cfr. le bibliografie date alle voci dei singoli cinici. Per trattazioni generali, oltre a quelle comprese nelle maggiori storie del pensiero antico (Zeller, Gomperz, Joël: cfr. anche la Gesch. d. Logik del Prantl e la Gesch. d. Ethik del Dittrich), v. specialmente Caspari, De Cynicis, Chemnitz 1896; E. Schwartz, Charakterköpfe aus der antiken Literatur, II, Lipsia 1919, pp. 1-23 (sugli inizî); J. Bernays, Lucian und die Kyniker, Berlino 1879 (sul tardo cinismo), Th. Gomperz, Die Kyniker, in Cosmopolis, settembre 1897; K. Joël, Die Auffassung der kynischen Sokratik, in Arch. f. Gesch. d. Philos., XX (1907), pp. 1-24; 145-170; R. Helm, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XII, coll. 3-24.

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