Cinema

Enciclopedia del Novecento (1975)

Cinema

Luigi Chiarini

di Luigi Chiarini

Cinema

sommario: 1. Il cinema come industria culturale. 2. Il film come fatto artistico: polemiche e discussioni. □ Bibliografia.

1. Il cinema come industria culturale

Il cinema, come invenzione e come arte (sarebbe meglio in questo caso dire il film) abbraccia tutto il Novecento (fu inventato, infatti, dai fratelli Lumière, per non parlare di Edison, nel 1895 - data in cui si ebbe la prima proiezione) ed è naturale che gli si dedichi molta attenzione. I suoi problemi si concentrano e si sviluppano nel secolo attuale; e sono numerosi, perché il cinema e il film per parecchio tempo hanno tenuto desta l'attenzione non solo del mondo finanziario (l'industria cinematografica è stata una delle maggiori e i suoi sviluppi moltissimi) ma anche di quello culturale. Quest'ultimo, dopo alcune resistenze a considerare il film come arte, si è impegnato con esso sul piano dell'estetica.

La settima arte, come R. Canudo, il suo primo teorizzatore, ha voluto chiamarla, è senza dubbio la forma di attività artistica che più di tutte rivela un intimo legame, una precisa rispondenza alle condizioni economiche, sociali, culturali e artistiche del nostro tempo. Indubbia è l'incidenza che le sue tipiche e specifiche forme espressive sono venute esercitando sulle altre attività artistiche, come è stato bene avvertito, al di là della validità teorica assoluta delle loro formulazioni, da uomini come B. Balázs e S. M. Eisenstein. Essi individuarono nei caratteri specifici del film la possibilità di costituire una forma di rappresentazione che attuasse un'espressione totale dell'umano e una rivalutazione della cultura visiva, ma in una forma nuova e carica di tutte le possibilità espressive e conoscitive offerte all'uomo dallo sviluppo della cultura verbale e letteraria. Questo hanno avvertito dal proprio punto di vista gli uomini politici, in primo luogo Lenin, il quale, in considerazione del carattere internazionale e di ‛massa' del cinema, non esitò a dire che esso era appunto ‟la più importante delle arti". Proprio per essere direttamente legato alle condizioni della società contemporanea, il cinema è l'arte la cui natura rivela una più densa sostanza problematica e la minore possibilità di sistemazione ‛accademica'. In ragione diretta della sua costituzionale ‛attività' sociologica, culturale ed espressiva, il cinema ha posto e pone continuamente, quale che sia il livello di analisi, dei problemi nuovi che implicano una revisione o una ridefinizione dei principi fondamentali dell'estetica. Esso sollecita risposte nuove e più comprensive e, per converso, non esiste alcun piano di considerazione del cinema e della sua natura che non si ponga immediatamente come problematico, che non abbia suscitato e non susciti tuttora dibattito e polemica. Per questa ragione è certamente più opportuno, perché più rispondente all'essenziale natura del fenomeno, porsi di fronte alla definizione del cinema e del posto che esso occupa nel panorama artistico del Novecento, non in termini di una piatta definizione cr0nistica, ma di una individuazione dei problemi di fondo che esso ha posto e pone, problemi che nascono immediatamente dagli stessi caratteri costitutivi specifici o peculiari di questa arte.

Il carattere di attualità, di originalità e di costituzionale problematicità del cinema si rileva già al livello della sua natura ‛tecnica', e della corpulenza o della complessità che il momento tecnico vi assume. Infatti il cinema, più di tutte le altre arti, compresa la stessa fotografia, per il fatto di essere prodotto in più copie, simultaneamente e collettivamente fruibili, perché proiettate a più spettatori, gode di quella condizione di ‛riproducibilità tecnica' della quale W. Benjamin ha magistralmente indicato gli effetti nella modificazione del rapporto tradizionale fra opera d'arte e pubblico, e dunque dello stesso ruolo sociale assunto dall'opera d'arte.

In secondo luogo, questa stessa corpulenza del fatto tecnico, con il complesso di operazioni produttive e di mercato che esso implica, ha fatto sì che il cinema, dalla originaria condizione di merce a produzione e gestione artigianale - alla quale corrisponde storicamente la fase del cosiddetto ‛cinema ambulante' - sia stato spinto ad assumere rapidamente la configurazione di un vero e proprio prodotto industriale. Infatti il cinema riflette in sé i meccanismi di un'economia capitalistica avanzata, non solo nelle fasi precedenti (finanziamento) e successive (distribuzione) alla produzione vera e propria, ma anche all'interno di questa, con l'adozione dei sistemi tipici dei processi industriali (divisione del lavoro e standardizzazione) che incidono tanto sulla natura di ‛merce' del film, quanto sui suoi caratteri artistici o culturali. Utilizzando, insomma, una distinzione più volte proposta, quella fra ‛cinema' e ‛film', si può dire che il carattere di prodotto industriale non soltanto determina i meccanismi e i processi produttivi del cinema, ma si riflette in maggiore o minore misura anche sui caratteri strutturali del film. Esso pone in forma diversa e più complessa il problema dell'autore, per esempio, e implica comunque una dialettica fra i due aspetti dell'attività cinematografica: la sua natura di merce e la sua natura di fatto artistico o culturale. È questo aspetto a farne una merce di speciale qualità, con il risultato che, di fatto, questi due aspetti non possono essere separati anche se devono essere tecnicamente distinti; infatti il primo agisce sul secondo, ma anche il secondo sul primo, frustrando ogni tentativo di giungere alla totale razionalizzazione del processo produttivo e alla sua totale standardizzazione, che sarebbe contrastante con la natura speciale di un prodotto che è anche un fatto artistico in senso lato, e come tale viene richiesto e consumato dal pubblico. Da questa contraddizione e dalla dialettica che ne deriva sono nate, storicamente, la lotta fra la tendenza monopolistica e razionalizzatrice in senso industriale, rappresentata dalle grandi case di produzione, e le varie forme di produzione indipendente o artigianale. Queste hanno la qualità come unica arma a propria disposizione, e l'individualità del prodotto; così hanno messo in crisi ricorrentemente i gruppi monopolistici e più marcatamente industriali, non certo riuscendo a sbaragliarli, ma costituendosi comunque come un potente stimolo di rinnovamento e di superamento di ogni forma standardizzata.

È estremamente significativo, da tale punto di vista, il fallimento del primo tentativo monopolistico della storia del cinema americano, quello rappresentato dalla creazione, nel 1909, mentre in Europa dominava la casa francese dei fratelli Pathé, della Motion Pictures Patents Company (MPPC). Essa fu costituita mediante l'associazione di nove importanti ditte (Edison, Biograph, Vitagraph, Essenay, Selig, Lubim, Calem, americane, gli importatori francesi Méliès e Pathé, il distributore Kleine) per reagire allo sfruttamento sconsiderato dei film, al ribasso dei prezzi e ai metodi poco onesti posti in atto dal noleggio. Va ricordato che il noleggio era divenuto gradatamente il ramo dove si potevano ottenere i più alti profitti, a scapito dei produttori o degli esercenti, dopo che si era passati dall'iniziale forma dell'esercizio ambulante (in America negli anni 1896-1903, in Europa nel 1906-1907) alla forma dell'esercizio stabile, con la costruzione di grandi sale cinematografiche nelle zone dove maggiore era la domanda e con la nascita dei nuovi produttori. Costoro erano poi i proprietari dei vari brevetti, avevano controllato fino a quel momento il mercato e potevano investire forti capitali nella produzione per accrescere questo loro dominio. Le ditte associate nella MPPC, ricorda P. Bächlin, ‟misero in comune i loro brevetti, basati principalmente sull'invenzione di Edison, e ognuna di esse ottenne una licenza di produzione. Questa concentrazione tendeva non solamente a sopprimere la concorrenza interna, ma anche a frenare l'avanzata dei produttori francesi. La MPPC costituì un monopolio di fatto per la pellicola vergine firmando un accordo con l'Eastman Kodak secondo cui tale materiale poteva essere consegnato soltanto ai membri del trust. E il controllo si estese anche ai rami dell'esercizio, con pesanti misure di boicottaggio per l'esercente che avesse tentato di noleggiare film dagli indipendenti, e alla distribuzione, con la creazione di un trust in questo settore, la General Film Company. Essa in breve tempo si assicurò il controllo di 57 sulle 58 case di distribuzione esistenti negli Stati Uniti". Lo scopo di questo monopolio era quello di organizzare una produzione la meno costosa possibile, razionalmente concepita, capace di realizzare dei superprofitti. Infatti la soppressione della concorrenza doveva portare a un aumento dei prezzi e procurare straordinari margini di guadagno. La produzione fu standardizzata (la MPPC fabbricava esclusivamente film da 200 a 300 metri), furono ridotti al minimo i diritti degli autori (il nome dell'autore o degli interpreti non figurava mai sui titoli perché i produttori temevano di creare loro una troppo grande popolarità, che avrebbe avuto per effetto di aumentarne le esigenze; cfr. V Sinclair, in William Fox, Praha-London 1936, p. 81). I programmi furono costituiti secondo schemi fissi e noleggiati agli esercenti secondo tariffe uniformi.

Questa situazione provocò però la reazione dei produttori, distributori ed esercenti indipendenti che puntarono sull'aumento della qualità e su una produzione non stan- dardizzata, di ‛concezione individualista'. Ciò si concretò nell'imposizione al sistema produttivo di due importanti innovazioni. In primo luogo il passaggio alla produzione di lungometraggi, sull'esempio delle ditte francesi e italiane che tentavano di difendere il proprio mercato differenziandosi in questo modo dalla produzione americana. Ciò ebbe evidenti conseguenze non solo al livello del costo del prodotto, ma anche a livello della struttura artistica delle opere. In secondo luogo, l'inaugurazione dello star-sistem, imposto dagli indipendenti che si erano trasferiti in massa in un piccolo sobborgo di Los Angeles, Hollywood, e che presero a rendere noti i nomi degli interpreti, riuscendo così ad accrescere il valore commerciale dei loro film. Del 1910 è il lancio della prima star, Mary Pickford, ad opera di C. Laemmle. Un fenomeno come il divismo ha avuto eccezionale peso nella storia del cinema, e ha interessato non solo i rapporti fra il prodotto filmico e il pubblico: infatti, tanto la specifica composizione del pubblico cinematografico, quanto l'intima sostanza del film, considerato come operazione artistica in senso lato (e perciò oggetto di attenzione non solo da parte del sociologo, ma anche del critico), hanno originariamente caratterizzato il cinema nella sua modernissima doppia natura. Essa dipendeva a sua volta dalla corpulenza del fatto tecnico, come abbiamo più volte ribadito. Ci siamo dilungati su questa fase iniziale della crescita dell'industria cinematografica, perché essa può essere considerata esemplare in quanto contiene già in sé tutte le implicazioni che scaturiscono da quella che abbiamo chiamata la doppia natura del fatto cinematografico. In essa è possibile cogliere i meccanismi economici di una società capitalistica avanzata che ne marcano lo sviluppo industriale, meccanismi che il Bachun individua prima nella loro attuazione storica e analizza poi, nella seconda parte del suo studio, al livello della teoria economica (v. Bächlin, 1945).

Questi meccanismi sono in pratica la tendenza alla concentrazione verticale e orizzontale dei vari settori o rami della produzione e della distribuzione del prodotto cinematografico, all'integrazione del mercato, nazionale prima, internazionale poi, con le conseguenti dure lotte per la conquista dei vari mercati nazionali a più basso livello di produttività da parte delle concentrazioni più forti. Di qui la necessità di sempre maggiore disponibilità di capitali.

La prima tendenza porta fatalmente ai reiterati tentativi di monopolio, di trust, come nel caso dell'industria cinematografica americana, nella quale, dopo il fallimento del primo tentativo di cartello, ne seguono altri, in mezzo ad aspre lotte, che vedono il progressivo intervento del capitale industriale e finanziario (e anche di quello elettrico, negli anni 1929-1935, epoca dello sviluppo del sonoro). In Germania con l'UFA e parzialmente in Italia, si hanno tentativi di monopolio controllato direttamente dallo Stato, dovuti per lo più alla necessità di resistere in qualche modo alla massiccia invasione dei mercati europei da parte degli Stati Uniti. A questi fenomeni si accompagnano, necessariamente, altri fenomeni strettamente connessi, come lo sviluppo di tutti i rami dell'industria legati più o meno direttamente alla produzione cinematografica, quali la produzione di pellicola vergine, la produzione delle varie apparecchiature meccaniche, ottiche, elettriche, elettroniche. Per essere in grado di battere la concorrenza nel soddisfacimento della domanda, si intensificò la produzione e si aumentò la produttività, sia sfruttando il più possibile gli impianti esistenti, sia standardizzando i procedimenti produttivi. L'aumento dei prezzi fu una conseguenza diretta dell'aumento dei costi, determinato dal divismo e dall'aumento del metraggio, e portò necessariamente a costruire sale cinematografiche più grandi, più numerose, per giungere a un pubblico di livello economico più alto, accanto a quello, fino a quel momento tradizionale, rappresentato dagli strati inferiori della popolazione (al tempo delle prime sale, i cosiddetti nickel-odeons). Di qui la stratificazione del mercato e del pubblico tipica di ogni settore della produzione, e cioè, nel nostro caso, la distinzione in prodotti e in circuiti di serie A e B e, parzialmente, la differenziazione in generi.

Per quanto riguarda il fenomeno della standardizzazione, che interessa più da vicino il senso più generale del nostro discorso, c'è da osservare che esso ha implicazioni non soltanto di carattere tecnico-produttivo, ma anche artistico. In particolare, da esso deriva non soltanto quel carattere anonimo, dal punto di vista espressivo, totalmente spersonalizzato, che è stato sempre il lato debole dell'industria cinematografica, il punto d'attacco della produzione indipendente o delle cinematografie meno forti, ma anche una notevole resistenza da parte dei produttori all'introduzione di nuovi procedimenti (come la sonorizzazione o il colore) che potessero portare a una ristrutturazione. Tale ristrutturazione implica un massiccio investimento di nuovi capitali, tanto più grande quanto maggiore è lo sviluppo dell'industria. È chiaro che, una volta accettata o subita la necessità dell'innovazione, il grande capitale finisce per prevalere. Il produttore-industriale quindi, il produttore di film di consumo, non tende affatto, come potrebbe sembrare, al perfezionamento esteriore del cinema-meraviglia, perché ciò è impedito dalle leggi economiche (a meno che non si tratti di stimolare un mercato stagnante). Il produttore si oppone alle innovazioni tecniche che possono comportare un aumento dei costi, così come si oppone, per converso, una volta che sia stato raggiunto un determinato livello standard del prodotto e dei costi, a ogni tipo di produzione che abbassi i costi e renda quindi inutile e improduttiva la macchina di produzione che ha messo in piedi.

Ma qui entra ancora una volta in gioco quella doppia natura del prodotto filmico che costituisce il centro del nostro discorso. In questo senso due vicende sono particolarmente chiarificatrici degli squilibri che questa doppia natura produce nello sviluppo del cinema e del fatto che la storia del film, come fatto artistico, non può essere studiata indipendentemente dalla storia dell'industria cinematografica, e viceversa, pena l'astrattezza.

La prima di queste ‛vicende esemplari' riguarda la questione del sonoro, esemplificativa di quella resistenza all'innovazione della quale si è parlato e della necessità di adeguarsi una volta che un ‛perfezionamento' tecnico-produttivo si sia imposto al pubblico, cioè, si potrebbe dire, si sia rivelato come rispondente alle esigenze ‛estetiche' di un pubblico che, anche quando cerca nel film solo l'evasione, non può accontentarsi del prodotto standardizzato, totalmente sottoposto alle leggi della produzione di merci. I tentativi di registrazione e riproduzione simultanea delle immagini e dei suoni si possono datare fin dagli inizi del secolo (Edison, Gaumont, Messter ecc.) e furono ripresi con maggiore intensità nel dopoguerra (sistemi a disco e sistemi a film), fino a essere del tutto perfezionati nel 1925. I produttori erano contrari a questa innovazione, ma una casa di produzione, la Warner Bros., fu costretta a dare il via al fonofilm nel 1926-1927, per sollecitare un mercato stagnante e per reagire alla minaccia rappresentata dal fonofilm stesso. A causa delle profonde modificazioni che la novità imponeva nella produzione e nell'esercizio (attrezzature), all'inizio furono soltanto la Fox e la Warner a impegnarsi decisamente su questa strada. Ciò naturalmente ebbe delle conseguenze molto grandi: modificazioni delle apparecchiature, delle sale, dei teatri di posa, e sparizione di alcuni divi del muto; bisogno conseguente di nuovi capitali, che vennero soprattutto dall'industria elettrica e dal capitale bancario che la sorreggeva (Morgan e Rockefeller, che stavano dietro l'American Telephone and Telegraph Company e la R.C.A.); ripresa della battaglia dei brevetti; lotta per la conquista del mercato nazionale e internazionale, con lo scontro, per esempio, fra l'industria americana e quella tedesca per la conquista del mercato inglese. Il risultato fu una spartizione dei mercati mondiali, con zone riservate e zone aperte alla libera concorrenza.

Ma è chiaro che l'imposizione del sonoro, con i conseguenti fenomeni di natura economica, è potuta avvenire solo per il successo di pubblico. Insomma, un certo tipo di sollecitazione del mercato stagnante si è verificata (dopo i concomitanti tentativi di film a colori, di schermi a rilievo ecc.) solo perché rispondeva a un bisogno del pubblico, che ha reso stabile questa innovazione a differenza di altre. Ma resta il fatto della resistenza alle innovazioni da parte dei produttori, resistenza confermata dalla seconda di quelle vicende esemplari alle quali si è accennato. Il lettore di Eisenstein ricorderà che fra le esigenze tecniche avanzate dal più geniale regista della storia del film, c'è quella, profondamente radicata nella sua cultura di tipo purovisibilistico e psicoformalistico, della variabilità del formato dello schermo. Ebbene, ricorda C. L. Ragghianti che un giovane regista americano, G. Alvey, aveva escogitato un sistema adatto, che però era stato totalmente trascurato dai produttori, non solo, evidentemente, perché la sua introduzione non era economica (ciò non sarebbe stato sufficiente, come abbiamo visto), ma anche, perché il gusto cinematografico si era ormai incanalato su una strada diversa da quella che era a fondamento delle poetiche di avanguardia, come è il caso di Eisenstein, cioè su una strada che orientava il cinema verso il soddisfacimento di bisogni fantastici di tipo ‛narrativo' o ‛drammatico' anziché verso altre direzioni. Sia chiaro che questi discorsi non implicano né un'ipotesi, teoricamente e storicamente insostenibile, di progresso artistico coincidente con il perfezionamento tecnico, né una volontà di definizione del film come fatto artistico sulla base del gusto del pubblico. È chiaro infatti che tale gusto e i conseguenti ‛bisogni' anche quando sono alternativi e implicano un rinnovamento, vengono determinati in ultima analisi, al livello medio, non da ragioni di rispetto dei caratteri o meglio delle potenzialità espressive del mezzo, ma dalla rispondenza ‛economica' di certe scelte di sviluppo ai bisogni culturali del pubblico. Ciò dovrebbe far riflettere coloro che sostengono da vari punti di vista la natura narrativa del film, come Aristarco (‟Un film tutto sommato è più simile a un romanzo che a una statua") o come Metz (‟Non parliamo del cinema come teoricamente potrebbe essere ma del film come è, cioè narrativo"), sulla correttezza della tesi che assume come argomento teorico le scelte dell'industria culturale. Ma, a parte questa parentesi polemica, che implica un discorso sullo ‛specifico filmico' (di cui diremo oltre), intendiamo ribadire che non è possibile ignorare il carattere di produzione industriale del cinema e che dunque è necessario tener conto della sua speciale qualità di ‛merce intellettuale' e dell'incidenza di questo carattere sullo sviluppo delle strutture stesse dell'industria cinematografica.

Da un lato abbiamo visto che il conflitto economico (piccoli produttori contro grandi) determina oggettivamente uno stimolo alla ricerca e all'articolazione del linguaggio. Basti pensare a ciò che ha rappresentato l'aumento del metraggio o l'affermarsi del divismo: il primo ha stimolato una maggiore e sempre più complessa articolazione della drammaturgia visiva e delle strutture spazio-temporali dell'immagine; il secondo ha determinato certe scelte, soprattutto spaziali a livello di piano, con un oggettivo sviluppo di quell' ‛alfabeto dei gesti', della microfisionomia, che sono fra i fondamenti del film muto, come osserva B. Balázs. E non è stato forse Clair a dire che il film poliziesco con la necessità di suspense aveva fatto progredire di più il linguaggio del film che il cinéma d'art?

Dall'altro lato vediamo come la ‛domanda artistica' che il pubblico riversa nel film renda in qualche modo sempre più precario e anomalo il processo di sviluppo produttivo in questo settore, rendendone impossibile la ‛razionalizzazione assoluta'. Quest'ultimo fatto è particolarmente sottolineato dall'evoluzione del cinema nel secondo dopoguerra. Infatti, in alternativa alla cinematografia standardizzata hollywoodiana fondata sul divismo dell'attore, sulla tendenziale anonimità del ‛prodotto' (della quale il cosiddetto ‛metodo di copertura' è il segno più clamoroso), sull'alto costo dei film connesso al gigantismo che caratterizza la produzione monopolistica - in alternativa a tutto ciò, il neorealismo ha rilanciato un diverso modello di cinema. In esso, il livello molto basso dei costi coincide con il rifiuto di considerare il film come un prodotto commerciale qualsiasi, con il rifiuto di tutti gli allettamenti e i richiami di natura pubblicitaria e ‛persuasiva'. Il film viene considerato, invece, un mezzo a disposizione di chiunque voglia esprimere un proprio atteggiamento di fronte al reale, come si fa con la penna o col pennello.

In questo modo il cinema a basso costo è venuto a coincidere con l'idea del film d'autore, con una forma di utilizzazione del mezzo regolata esclusivamente dalle ragioni espressive del regista, in opposizione alla divisione del lavoro e allo specialismo dominante nella produzione standardizzata, presente in ognuna delle fasi di elaborazione e di esecuzione tecnica del film. Basti pensare, a questo proposito, al cinema italiano neorealistico e post-neorealistico, alla nouvelle vague francese, al N.A.C., ecc. Insomma sembra chiaro che ogni movimento di rilancio del film come fatto artistico si accompagna a formule e sistemi produttivi che si pongono, almeno all'inizio, come radicale negazione dei sistemi produttivi tipici delle cinematografie ad alto livello di industrializzazione. Ed è anche chiaro che ciò crea dei contraccolpi all'interno di questo tipo di produzione, ne provoca prima la resistenza irritata, poi la crisi parziale, e infine la costringe ad accettare nuovi livelli qualitativi, a integrare e fare proprie le esigenze sulle quali si fonda il ‛cinema di opposizione'. Viene così rifiutato l'artificio spettacolare per una produzione attenta a cogliere in forma più diretta i problemi dell'uomo d'oggi; si affermano strutture stilistiche più moderne e duttili, meno dominate dal mito della correttezza grammaticale e spettacolare; il divismo dell'attore viene sostituito con una sorta di divismo dell'autore, come è dimostrato dal tentativo, compiuto in modo ricorrente dalla cinematografia americana, di assicurarsi l'opera dei più prestigiosi autori europei, e dalla progressiva, sostanziale modificazione della tipologia dell'attore, che tende sempre più a perdere la fisionomia del personaggio eccezionale per assumere connotati quotidiani.

È chiaro che, sulla base di questi nuovi equilibri qualitativi, imposti di volta in volta alla grande produzione, hanno inizio poi dei cicli di assestamento e di rinnovata tendenza alla standardizzazione, come è nella natura del cinema in quanto fatto industriale. Ma ciò non accade senza profonde modificazioni nelle strutture produttive che vedono sorgere o decadere questo o quel tipo di concentrazione, affiorare e sparire la prevalenza di questo o quel settore produttivo. Se, in ultima analisi, le leggi che regolano il cinema come industria sono pur sempre quelle che caratterizzano la produzione di merci nel sistema capitalistico, non è irrilevante constatare sia la speciale qualità della ‛merce-film', sia il fatto che, anche considerato come merce, il film non può prescindere dalla domanda ‛artistica' o fantastica che il suo consumatore, il pubblico, vi riversa. Si tratta di fattori al tempo stesso di movimento e di contraddizione, che, se non determinano, almeno stimolano e concorrono a mettere in moto i processi di riassestamento dell'industria cinematografica.

Da questo punto di vista, può essere interessante considerare brevemente i probabili risultati ai quali porterà la difesa del cinema contro l'ultimo grosso pericolo che gli sta di fronte, la sempre più massiccia concorrenza della televisione, che risponde in modo più ‛economico' al bisogno di ‛immagini' del pubblico. Sembra nel giusto chi pensa che ancora una volta, e forse definitivamente, il cinema per salvarsi dovrà puntare tutte le proprie carte sulla qualità artistica del prodotto. Cioè, rifiutati gli allettamenti del più grande spettacolo del mondo - dei quali l'abitudine all'immagine televisiva è destinata a produrre l'obsolescenza, certo non senza contingenti spinte contradditorie - il cinema farà proprie le recentissime tecniche di registrazione su nastro e le più agili strutture del linguaggio televisivo. Attraverso una sempre maggiore integrazione fra questi due canali di trasmissione di immagini si potrà rendere più accessibile l'attività filmica, e, contemporaneamente, si potrà sempre più portarla alla condizione di puro e semplice strumento di espressione.

2. Il film come fatto artistico: polemiche e discussioni

Nel riprodurre la formula secondo la quale il film è un'arte e il cinema un'industria, non si vuole certo affermare una separazione rigida fra questi due aspetti: è apparso già chiaro come, nella concreta realtà del fatto cinematografico, essi si intreccino, come interferiscano nei rispettivi ambiti. E tuttavia il mantenimento di questa distinzione ha un suo preciso valore metodologico, nella misura in cui, per cogliere appieno la natura dei problemi posti dall'attività cinematografica in termini teorico-estetici, storico-culturali e critici, è necessario cogliere un livello di analisi che tratti specificatamente del film come fatto artistico o espressivo.

Anche da questo punto di vista, il film, rivela una profonda sostanza problematica che lo colloca nel pieno del dibattito artistico contemporaneo. Il film offre insomma un campo di problemi che hanno spesso dato luogo ad accese polemiche e che ne caratterizzano la continua mobilità e contraddittorietà di soluzioni, dovute alla complessità della sua struttura e all'accentuazione di una delle tre componenti fondamentali che ne determinano l'artisticità. Tali componenti sono: la qualità fotografico-dinamica - o ‟fotogenia", per usare un termine di Canudo - del materiale cinematografico o dell'immagine cinematografica in quanto tale; la qualità implicita nei caratteri dell'inquadratura e del montaggio; la presenza di un materiale ‛prefilmico', o ‛materiale plastico' (oggettuale e drammatico) dotato di senso. Dalle diverse forme di organizzazione scaturisce la significazione filmica, e dalla accentuazione, positiva o negativa, di una di queste tre componenti sono nate le diverse e spesso contraddittorie risposte, sia teoriche che pratiche (di poetica in atto, potremmo dire) ai problemi che il film ha posto.

Contraddittoria si rivela già la questione della cosiddetta ‛nascita del cinema'; essa infatti non è solo una questione di carattere ‛archeologico', ma investe lo stesso problema di una definizione esauriente di che cosa è il cinema. Il dibattito, a questo proposito, è tra chi sostiene che il cinema nasce con l'invenzione dei fratelli Lumière e chi invece vede in quest'ultima solo l'approdo più recente e soddisfacente dal punto di vista tecnico (prima, beninteso, della TV) di una ricerca millenaria verso la produzione di immagini animate. Nel primo caso, pur non negando la continuità con una consolidata tradizione artistico-scientifica, si ritiene che l'apparecchiatura inventata dai Lumière produca delle immagini la cui qualità contiene una novità sostanziale, quella fotografica (come sottolinea G. Sadoul, L. Lumière, fra tutti coloro che si sono dedicati, nell'Ottocento e prima, alla ricerca di apparecchi che producessero immagini in movimento, è il primo a riprodurre in questo senso immagini fotografate). Nel secondo caso, invece, si attribuisce a questo aspetto un'importanza puramente tecnica. Nel primo caso, dunque, si afferma che con la sintesi di fotografia e di movimento nasce una nuova arte, una nuova forma di relazione creativa fra l'uomo e la realtà; nel secondo caso si afferma che c'è un progresso riguardante solo la fase dell' esecuzione tecnica, della fissazione, permessa dallo sviluppo delle scienze ‛articolarmente, dalla fissazione definitiva, ad opera di Plateau, con il principio della persistenza dell'immagine sulla retina e della sua durata), ma all'interno di una forma artistica sempre presente nella cultura e nello spirito dell'uomo. Insomma, per dirla con Ragghianti, con l'apparecchio dei fratelli Lumière non sarebbe nato Orfeo ma, più modestamente, il grammofono. E infatti alcune storie del cinema cominciano con i graffiti delle grotte di Altamira (a proposito delle quali, peraltro, è stato riconosciuto che non si tratta di tentativi di rappresentazione di animali in corsa, ma, assai più l'analmente, di incisioni diverse e sovrapposte). Altre pongono come manifestazioni dell'arte cinematografica la descrizione dello scudo di Achille e lo sviluppo della colonna Antonina, gli automi di Erone di Alessandria e i pochi versi di Lucrezio dove si parla di ‟immagini che si muovono".

Ora, è evidente che sottolineare il carattere di radicale novità insito nella natura fotografica delle immagini filmiche (il disegno animato, evidentemente, si pone all'interno di un diverso ordine di problemi) è molto importante. E ciò non soltanto dal punto di vista della definizione del cinema come industria, né solo dal punto di vista psicologico e sociologico (essendo chiaro che le condizioni del rapporto fra immagine e pubblico che si determinano nel film, in quanto sostanzialmente ‛illusione di realtà' e ‛immedesimazione', derivano proprio dal carattere fotografico, oltre che da quello dinamico, delle immagini stesse). Ma è importante anche a livello della teoria estetica e della metodologia critica: per chi nega che il cinema si possa sostanzialmente identificare con le altre forme di arte cinetica, il problema non è tanto nello stabilire la data di invenzione dell'arte cinematografica (come osserva il Ceram, il cinema fu ‛inventato' in quanto fatto tecnico, il film no, perché, essendo arte, non si inventa). Si tratta piuttosto di evitare, sin da questo livello problematico, che la definizione data venga costretta a forza entro quella più ampia e aprioristica di arte cinetica o, anche, di spettacolo visuale, senza essere comprensiva della reale qualità dell'immagine filmica, degli speciali caratteri e problemi che nascono dalla sua sostanza fotografica.

Si tratta cioè di evitare posizioni di tipo astrattamente definitorio e normativo, che si precludano la possibilità di comprendere certe manifestazioni dell'arte filmica o ne neghino addirittura la qualità artistica. D'altra parte, una conferma indiretta di questo la possiamo trovare nel fatto che chi, come Popper, studia le manifestazioni dell'arte cinetica, copre, correttamente e rigorosamente, soltanto un campo molto ristretto del film - quello appunto in cui l'utilizzazione del mezzo cinematografico è puramente ed esplicitamente strumentale (gli esperimenti di H. Richter ed Eggeling, tanto per fare un esempio) e dove l'intento formale è tutto di natura pittorico-cinetica. Sempre per quanto riguarda le origini, ben altro e più vasto problema è, evidentemente, quello di stabilire l'importanza dei movimenti di avanguardia nella determinazione e nello sviluppo del linguaggio filmico; essi furono particolarmente attenti allo studio delle forme dinamiche. Quindi, poiché il movimento è un elemento costitutivo dell'immagine filmica, è evidente che l'incontro fra autori cinematografici e teorie dell'avanguardia ha concorso alla determinazione proprio delle strutture ritmiche del film. Ma ciò riguarda le radici storico-culturali del film, non certo la sua definizione tecnica.

Il problema della ‛nascita del cinema' è del resto di particolare interesse in quanto riflette in sé l'altro vero, grande problema dominante nella cultura cinematografica sia nel campo teorico che pratico: la ricerca e la determinazione della qualità unica e specifica dell'arte filmica ovvero dello ‛specifico filmico', come quasi universalmente è stato definito. Questo è senza dubbio l'asse centrale, il punto costante di riferimento della riflessione sul film e delle poetiche filmiche, al di là del variare delle situazioni storico-sociali e delle teorie o delle mode culturali a partire dalle quali viene affrontato il problema posto dal cinema alla cultura contemporanea. Non c'è dubbio, infatti, che ognuno dei grossi temi di dibattito che sono venuti affiorando nel campo della cultura filmica non sono che un modo di esprimere questo problema di fondo, anche nel caso estremo, ma non infrequente, che se ne neghino la validità e i fondamenti teorici. E, più esattamente, tali prese di posizione sono dipese dall'accentuazione di una di quelle tre componenti strutturali del fatto filmico di cui si è detto; accentuazione, naturalmente, essa stessa determinata da alcune dominanti culturali relative al periodo.

Da un punto di vista puramente teorico il film pone, in stretta relazione con le componenti che si sono accennate, tre ordini di problemi diversi, e precisamente: il problema del rapporto arte-natura, determinato dal fondamentale realismo fotografico di base; il problema dell'importanza della tecnica; e, infine, il problema della distinzione del film rispetto alle altre arti e dunque, in generale, il problema della distinzione delle arti e dell'eventuale possibilità di integrazione di questo concetto all'interno del principio generale dell'unità dell'arte.

Considerata da un punto di vista storico, la questione dello ‛specifico filmico' e della ‛dignità d'arte' del film non poteva ovviamente che essere risolta dai primi teorici del film in senso positivo (anche in considerazione del fatto che soltanto a questa condizione era possibile la formazione del linguaggio cinematografico come linguaggio articolato e autonomo). Su queste premesse non ci si poteva orientare che nel senso della differenziazione rispetto alle altre arti. Dunque la prima fase della riflessione teorica e delle poetiche cinematografiche (realizzate o meno) è marcata dalla certezza della speciale qualità e dignità d'arte delle nuove forme di produzione di immagini. Questa certezza, tanto più fermamente assenta quanto maggiori erano le resistenze della cultura ufficiale, sarà di forte stimolo per lo sperimentalismo linguistico; nella stessa direzione opererà la tendenza a trovare un fondamento tecnico nella distinzione, e dunque nell'autonomia, della nuova arte rispetto a quelle storicamente consolidate, delle quali il cinema, nelle sue prime forme balbettanti, poteva sembrare l'umile ancella. Non può sfuggire dunque il carattere sostanzialmente, anche se non intenzionalmente, pragma- tico delle prime teorizzazioni sul film: carattere che ne determinerà lo scarso rigore teorico e la tendenza a porre a proprio fondamento le più diverse teorie estetiche generali, sulla base delle quali si assumerà questa o quella tesi, senza preoccuparsi di far scaturire la teorizzazione del film come fatto artistico dal complesso dei suoi elementi costitutivi. Di qui il pericolo, dunque, di vedere sottoposte a radicale e giustificata critica, per l'inadempienza teorica e il carattere normativo di queste prime teorizzazioni, la stessa qualità d'arte del film (come è avvenuto in Italia ad opera di C. Brandi) e comunque la nozione di ‛specifico filmico', alla quale da più parti è stato negato ogni valore teorico-metodologico. E questa sarà, appunto, la tendenza della seconda fase della riflessione teorica sul film, che caratterizza il dopoguerra e che dura tuttora soprattutto in alcuni studiosi di semiologia, in particolare E. Garroni.

Tornando a quella che abbiamo chiamato la prima fase delle teorie sul film, possiamo dire che essa è caratterizzata, al di là della natura disuguale dei diversi contributi, dal tentativo di cogliere, sulla base di elementi diversi e di diverse motivazioni culturali, la differenziazione del cinema dal teatro (in opposizione alle forme di ‛teatro fotografato' e dunque all'utilizzazione puramente passiva dello strumento filmico, la macchina da presa). In generale, la prima fase delle teorie sul film è caratterizzata dalla negazione del ‛soggetto', che d'altra parte accomuna il cinema a molte manifestazioni dell'arte contemporanea, e dall'affermazione della sua sostanziale natura visiva.

Merita di essere ricordato il contributo, di pioniere e di profeta, di Canudo. Egli, tentando un'ingenua classificazione gerarchica delle arti unificate nell'arte assoluta, che appunto sarebbe il cinema, in quanto arte nella quale si ha la sintesi di spazio e tempo, definisce per primo la nozione di fotogenia, che verrà poi ripresa e sviluppata da L. Delluc. Le prime importanti definizioni del cinema come ‛antiteatro' e, più in generale, come arte autonoma, si fondano sull'estrema mobilità e variabilità dello spazio e del tempo cinematografico rispetto ai limiti e alla ‛concentrazione' dello spazio e del tempo teatrale, come avviene nella teorizzazione di S. A. Luciani, soprattutto, ma anche nelle osservazioni di K. Pinthus nella introduzione al suo Kino- buch del 1913. Oppure si fondano sulla virtù rivelatrice dell'‛occhio meccanico', capace di farci scoprire aspetti sconosciuti del mondo visibile, che solo la macchina da presa riuscirebbe a rappresentare. Oppure sulla nozione di ritmo, di ‟musica degli occhi", secondo una pregnante definizione di G. Dulac. Dunque, ciò che accomuna le prime riflessioni teoriche sul film è l'insistenza sulla sua speciale ‛visualità', sulla sua capacità di farci vedere le cose in modo diverso e sulla possibilità, implicita nel montaggio, di ristrutturare totalmente le coordinate spazio-temporali dell'esperienza quotidiana e di rompere al tempo stesso le costrizioni e le convenzioni dello spazio e del tempo proprie della drammaturgia teatrale. Si ha insomma una assoluta valorizzazione dei caratteri che dipendono dalla natura del mezzo tecnico - della qualità dell'immagine fotografico-dinamica e delle virtualità costruttive del montaggio inteso come fattore di ritmo visuale - rispetto al ‛contenuto' della ripresa e ai suoi eventuali valori narrativi o drammatici. Giova ribadire che ciò è stato di vitale importanza per la conquista e l'articolazione di un linguaggio autonomo, ma è anche importante sottolineare come in fondo, magari in maniera ingenua e poco rigorosa, i cosiddetti ‛pionieri' avessero colto un punto di fondamentale importanza per la definizione del carattere artistico del cinema, che non può essere individuato altro che nel procedimento della ripresa e nelle possibilità espressive o creative che in questo sono implicite. È dunque solo parzialmente vero che le varie teorie dello ‛specifico filmico' hanno avuto una, sia pure importante, funzione strumentale e caduca, come afferma sostanzialmente l'Aristarco: certo esse hanno avuto spesso un carattere parziale, normativo, determinato dal ‛gusto' personale dei teorici e degli autori e dalle condizioni culturali nelle quali si trovavano ad agire, ma ciò non annulla la validità teorica del principio di fondo. Porsi il problema se il cinema sia arte o no significa chiedersi se la operazione filmica vera e propria abbia un virtuale carattere creativo per quelle che sono le sue possibilità specifiche, altrimenti il problema non ha senso alcuno. E, posto questo, la questione dello ‛specifico filmico' non è solo un'astratta questione teorica, ma investe evidentemente i modi di fruizione e il metodo di analisi critica e di valutazione del film, come è del resto chiaro anche per i negatori dello ‛specifico filmico' stesso.

Un conto è dunque l'esclusione di ogni forma di definizione e di utilizzazione normativa della nozione di ‛specifico filmico' e la necessità di giungere a una definizione che sia positivamente comprensiva di tutte le componenti dell'operazione filmica e di tutte le possibili forme della loro attuazione concreta, un altro è invece negare totalmente la validità della nozione stessa. Naturalmente, sostenere la validità teorica di fondo delle prime teorie e delle prime poetiche sul film non significa negare che le concrete soluzioni proposte - che si risolvevano nel privilegiare questo o quell'aspetto dell'operazione filmica e nel contrapporlo, come unico, positivo e caratterizzante, agli altri - fossero determinate dal ‛gusto' personale e, più generalmente, dalle teorie artistiche, dalle concezioni estetiche e dalle poetiche dominanti nei diversi periodi. Certo, se il cinema è un'arte nuova, nel senso che offre all'uomo uno strumento espressivo di speciale e differenziata qualità, ciò non significa che esso sia sradicato dalla storia e dalle condizioni culturali ed artistiche contemporanee o immediatamente precedenti alla sua nascita. È chiaro che se la ‛sensibilità' dei teorici o degli artisti non fosse stata in qualche modo stimolata e diretta a cogliere certi ‛valori' artistici impliciti nell'immagine cinematografica, questi stessi valori non sarebbero mai stati individuati. Ed è altrettanto chiaro che la stessa attuazione concreta delle forme espressive del film, di carattere spaziale e di carattere temporale e ritmico, non si sarebbe determinata senza la presenza di un terreno problematico comune anche alle altre arti e all'arte in generale. E un difetto, appunto, dei sommari di teorie del film, è proprio quello di passare in rassegna le diverse formulazioni come pure proposizioni teoriche, accettandone o negandone la validità, senza preoccuparsi di individuarne con precisione le matrici storico-culturali. Così come un difetto delle varie storie del linguaggio cinematografico o delle varie ‛grammatiche' è quello di ignorare il ‛contenuto' storico del quale sono cariche le articolazioni spaziali e temporali del linguaggio filmico, la loro derivazione da teorie e forme artistiche precedenti. In particolare, si possono individuare, come fondamento culturale delle scelte espressive del film nel momento della sua formazione, almeno nell'ambito europeo, due grosse matrici, che sono le teorie della pura ‛visibilità', soprattutto nella sua variante psicologistica formulata dallo Hildebrandt (come ha osservato giustamente il Ragghianti), e le teorie chiamate psicoformalistiche con le loro ascendenze nell'estetica positivistica ‛sperimentale' che è, come è noto, all'origine di molte poetiche artistiche del Novecento. Non c'è dubbio, ad esempio, che la riflessione teorica del primo Balázs, quello di Der sichtbare Mensch - che afferma la capacità del cinema di reintegrare la ‛cultura visiva' vincendo la secolare supremazia della cultura verbale, e che individua, fra i valori specifici del film, la ‛microfisionomia' e la ‛micromimica', come capacità di rivelare l'uomo attraverso l'attenta percezione e rappresentazione del suo volto colto nel suo divenire - sia di chiara derivazione purovisibilistica. Così come non c'è dubbio che la stessa radice culturale, sia pure fortemente mediata da suggestioni culturali di altra natura, abbiano le teorie e le pratiche filmiche che vengono chiamate visualistiche, da quelle di ambito francese, che si raccolgono attorno alla nozione di fotogenia, a quella del ‛cineocchio' del sovietico D. Vertov. Insomma, l'accentuazione del valore espressivo dei caratteri dell'immagine cinematografica, della sua capacità di rappresentare le cose nel loro aspetto visibile e nel loro divenire non è solo il prodotto di una forma di ‛feticismo della camera', di una gioia infantile di fronte a una sorta di giocattolo tecnico.

Tale accentuazione, infatti, al di là delle formulazioni estremistiche dei ‛pionieri', è rimasta una componente essenziale dell'espressività filmica anche nelle sue forme di attuazione più legate a ragioni di ordine drammatico o narrativo. Essa ha piuttosto precise rispondenze con una situazione culturale che deve essere colta e valutata proprio per non cadere in quell'errore di formalismo astratto del quale i ‛visualisti' vengono accusati, sulla base di una malposta concezione del rapporto contenuto- forma o di una troppo riduttiva e rozza nozione di contenuto. Così le concezioni psicologistiche e psicoformalisti che sono certamente alla base dello speciale valore emozionale e simbolico affidato a determinate strutture spaziali e di montaggio. Non è possibile, ad esempio, non collegare la speciale valenza emozionale affidata ai piani ravvicinati dai registi sovietici (Eisenstein e Pudovkin in particolare) e da Balázs, e le diverse forme della loro utilizzazione, all'opposizione fra ‛visione lontana' (contemplativa, ‛intellettuale') e ‛visione vicina' (fisiologica, emotiva) teorizzata dallo Hildebrandt. Sarebbe anzi assai utile analizzare da questo punto di vista la forma di utilizzazione dei piani ravvicinati e dei campi lunghi nell'opera di quei registi. E, per quanto riguarda la determinazione della valenza drammatica o simbolica delle forme spaziali e ritmiche sulla base dell'effetto psicofisiologico ottenuto sugli spettatori (chiaro portato dell'estetica sperimentale), non si possono non ricordare i termini nei quali Pudovkin, in un suo scritto, fonda l'opposizione fra ritmo lento (corrispondente a uno stato di calma contemplativa da parte dello spettatore) e ritmo rapido (stato di intensa, fisiologicamente sperimentabile, partecipazione emotiva), che è poi il corrispondente ‛ritmico' dell'opposizione fra visione lontana e visione vicina. E, ancora, non si può ignorare che tutta la tematica del valore simbolico delle diverse forme geometriche - passata nel cinema soprattutto attraverso l'esperienza espressionistica - ha le sue radici, anch'essa, nelle teorie e nelle poetiche psicoformalistiche: si fonda su motivazioni di carattere psicofisiologico, sui tipi di reazione di questa natura determinati dalle diverse forme geometriche nel pubblico. Così come avviene, del resto, per la riflessione sul valore simbolico dei colori. Tali fattori culturali hanno prodotto non solo il dibattito sulla variabilità del formato, risolta poi generalmente con l'utilizzazione dell'iride e dei mascherini, ma anche tutta la simbolica collegata alle diverse angolazioni (prima solo suggerite, come in Das Kabinett des Dr. Caligari, per via puramente pittorico-scenografica), contribuendo così a ulteriori modi di articolazione della ripresa cinematografica. Ora, stabilire questi collegamenti culturali sarebbe forse un'operazione oziosa, se non se ne cogliesse, appunto, il carattere di stimolo all'articolazione della ripresa e alla fondazione, in ultima analisi, delle concrete forme espressive del film, e se non si avvertisse, d'altra parte, che queste connessioni e applicazioni diventano realmente effettuali e importanti solo quando assumono una forma specificamente cinematografica, quando riescono cioè a permeare di sé i metodi della ripresa filmica.

Prima di ciò, siamo allo stadio della pura fissazione e riproduzione in serie di forme che hanno il loro valore artistico e culturale indipendentemente dal fatto di essere cinematografate; dopo, siamo di fronte a un'operazione di ristrutturazione artistica della realtà che si esercita e si attua attraverso l'operazione filmica, che da passivo strumento di registrazione diventa appunto strumento e forma di intervento sulla realtà. Anche dal punto di vista, dunque, della determinazione delle connessioni culturali con le teorie e le poetiche artistiche, la nozione di ‛specifico filmico' mantiene intatta la sua validità e la sua funzione. E ciò vale, evidentemente, anche quando si tratti di stabilire le relazioni e le reciproche influenze del film con le altre forme di attività artistica, con i diversi movimenti di avanguardia. Per fare un esempio concreto, valutando l'apporto dato allo sviluppo e all'articolazione della forma cinematografica dall'espressionismo - che fra i movimenti d'avanguardia è certamente quello che più ha inciso sul cinema - non c è dubbio che le linee direzionali e le strutture angolari presenti nella scenografia di un film come Das Kabinett des Dr. Caligari (1919) sono un'anticipazione e anche uno stimolo alla conquista della molteplicità degli angoli di ripresa e della loro ‛simbolizzazione'; lo stesso si può dire per gli oggetti ingranditi e dilatati presenti nello stesso film. Ma è altrettanto vero che simili procedimenti, simili proposte di ristrutturazione simbolica dello spazio e dell'oggetto diverranno pertinenti e importanti dal punto di vista del film solo quando riusciranno a improntare di sé la ripresa cinematografica, entreranno cioè a far parte costitutiva della forma di relazione con la realtà che l'uomo attua, attraverso la ripresa, in un film: si veda, per esempio, Der letzte Mann (1924) di F. W. Murnau, o i film di Dreyer. Decisivo, insomma, per lo studioso del film, non è il rilevamento di questa o quella connessione culturale, di questo o quel procedimento costruttivo considerato in ‛astratto', di questo o quello stilema, ma l'individuazione delle forme di articolazione della ripresa che queste connessioni e questi procedimenti stimolano e determinano. Al di fuori di questa prospettiva di analisi, che ha come proprio fondamento teorico la nozione di ‛specifico filmico', non si dà conoscenza concreta del fatto artistico, ma astratta storia delle forme o della cultura.

Per riprendere, ora, il filo generale del discorso sulle forme di articolazione ‛linguistica' nelle quali si è concretata storicamente la nozione di ‛specifico filmico', con l'accentuazione di questa o quella componente di base del fatto cinematografico, va chiarito che quelle proposte debbono essere considerate non certo affermazioni conclusive ma ipotesi di lavoro per coprire un campo di indagine ancora abbastanza inesplorato. C'è da dire, ad esempio, che l'insistenza sulla componente visibilistica e psicoformalistica delle radici storico-culturali del linguaggio cinematografico non significa certo che l'articolazione, la ‛conquista' di quest'ultimo sia avvenuta solo sulla base delle ricerche figurative e ritmiche. L'articolazione della ripresa è stata determinata anche e in misura massiccia dalla necessità e dalla volontà di organizzare l'azione in forme rispondenti alle specifiche qualità del mezzo, al suo dinamismo e alla sua estrema capacità di articolazione e di variazione degli spazi e dei tempi dell'azione, cioè dalla necessità di costituire una nuova forma di drammaturgia visuale. Ma ha avuto un notevole peso anche la possibilità di ottenere una forma di significazione oggettuale e plastica, già implicita nel montaggio (sia interno che esterno al quadro), e determinata dalla ‛logica di implicazione' che scaturisce dall'accostamento di diverse immagini nello spazio e nel tempo. Insomma, volendo mantenere per comodità una distinzione forse discutibile, è chiaro che la spinta all'articolazione spaziale e temporale della ripresa si è determinata anche, e soprattutto, a livello del contenuto dell'immagine filmica oltre che della sua forma: intendendo ovviamente per contenuto il significato che l'immagine assume per essere messa in relazione con altre nello spazio interno all'inquadratura o nella successione, nella catena di montaggio, e per forma tutte le sue determinazioni di ordine visuale, compositivo e ritmico non direttamente riferibili a questo livello di significazione. In questo ambito, come è noto, i contributi maggiori sono venuti dal cinema americano: da E. S. Porter, da T. H. Ince e da D. W. Griffith, ma anche dal film comico. Non si può trascurare, a questo proposito, il grosso contributo dato all'articolazione del linguaggio filmico da un autore come Ch. Chaplin, sia con un film come A woman of Paris (1923), nel quale la significazione drammatica attraverso gli oggetti (il colletto, per esempio) e l'allusività ottenuta per via puramente plastica, raggiungono forme assolutamente perfette, sia con le altre opere, comprese quelle minori e degli inizi, dove la gag comica non prescinde mai, anzi è determinata, nel suo risultato, dalla puntuale conoscenza e utilizzazione delle specifiche forme spaziali e temporali del film. Così pure hanno contribuito il western, anche nelle sue forme più elementari, e il cinema poliziesco, che ha avuto una grande funzione sperimentale, stimolato dalla necessità di costituire una forma di continuity drammatica specificamente filmica, nella quale ogni passaggio di piano, ogni intersezione di spazi e di tempi concorresse al progredire dell'azione rappresentata, o meglio ‛costruita' dalla macchina da presa.

Altrettanta importanza ebbero le ricerche sovietiche, particolarmente quelle di Eisenstein, sul montaggio intellettuale, sulla possibilità cioè di costituire una significazione astratta, totalmente svincolata da ogni supporto drammaturgico o narrativo. Anzi, come è noto, i dibattiti e le polemiche pro o contro lo ‛specifico filmico' sono nati proprio dallo scontro di due tendenze: l'una portata a vedere la possibilità di costituire la significazione filmica solo sulla base di una azione drammatica, tale da fornire l'indispensabile funzione di contestualizzazione delle immagini sulla quale sola si potrebbe concretamente fondare quella logica di implicazione di cui si parlava; l'altra, invece, portata a vedere nel montaggio la possibilità concreta di attuare una nuova forma di linguaggio ideogrammatico fondata esclusivamente sui processi psichici e intellettivi messi in moto dalle forme del montaggio stesso. In sostanza cioè, almeno in una certa fase, la questione dello ‛specifico filmico' si è identificata con la questione della capacità di significazione assoluta o invece solo relativa insita nel montaggio, e in qualche modo e in forme diverse determinata dall'aggancio ad un contesto drammatico. Questo scontro di idee ha avuto sostanzialmente due fasi. La prima, interna alla teoria del montaggio come ‛specifico filmico', coincide con la polemica fra Pudovkin ed Eisenstein; centrata appunto nella definizione del montaggio, si è riflessa poi in tutta un altra serie di problemi a questo strettamente collegati. Come ricorda Eisenstein, la polemica può essere sintetizzata nella formula montaggio=collegamento (per Pudovkin) e montaggio=contrasto (per Eisenstein). Da una parte, una concezione per la quale la significazione si ottiene attraverso il collegamento dei vari pezzi guidato e determinato dallo sviluppo di un tema che si ‛incarna' in un'azione drammatica e che si attua concretamente attraverso il montaggio (ma che certo permette, al proprio interno, anche forme di significazione astratta o metaforica - basti per tutti l'esempio famoso della ‛gioia del prigioniero rese possibili però solo dalla loro pertinenza e dal loro aggancio allo sviluppo di un tema drammatico); dall'altra parte, una concezione per la quale la significazione scaturisce per merito del montaggio, dunque in virtù dello scontro o del conflitto fra le diverse cellule della sequenza di montaggio e del processo visivo-psichico-intellettuale che questo scontro mette in moto nello spettatore, secondo il noto schema immagine-emozione-idea. Nei confronti di tale schema il pubblico ripercorre all'inverso il processo costruttivo del film; vi è così la possibilità, almeno teorica e tendenziale, di avere nel montaggio una forma di significazione altrettanto articolata e al tempo stesso più ricca rispetto al linguaggio verbale, perché capace di reintegrare la sfera sensoriale-emozionale. Dicevamo che da questo nucleo di problemi si irradiano tutta una serie di posizioni antitetiche dei due grandi registi rispetto a numerose questioni nelle quali certo giocano il ‛gusto' e la ‛poetica' personale degli autori, ma l'elemento determinante rimane proprio questa radicale opposizione di base sulla capacità di significazione del montaggio e sui modi della sua applicazione. Sono le famose polemiche a proposito del montaggio a priori o a posteriori, della ‛sceneggiatura di ferro', sostenute da Pudovkin, o della sceneggiatura come ‛novella cinematografica', secondo Eisenstein, non progetto di film ma pura fonte di stimolo emotivo; a proposito della funzione dell'attore e della struttura del personaggio; a proposito, infine, del carattere di opera individuale o collettiva del film. Tutte questioni che si riveleranno legate a filo doppio al problema della definizione del montaggio come ‛specifico filmico', ogni volta e da qualsiasi punto di vista questo problema verrà affrontato.

La seconda fase del dibattito sul montaggio, come forma specifica della significazione filmica, coincide con la negazione del montaggio stesso, con la teoria e la pratica definite del non-montage, e che ha avuto il suo iniziatore in A. Bazin. Sinteticamente, questa posizione si può riassumere nella contrapposizione a un cinema dell'‛immagine' (nel quale la significazione è ottenuta al prezzo di una violazione del senso immanente nelle cose, con la totale manipolazione delle coordinate spazio-temporali della realtà, con l'estrazione violenta e arbitraria dell'elemento oggettuale dal suo contesto ‛naturale' e il suo inserimento in una catena discorsiva totalmente astratta) di un cinema della ‛realtà' come in certo underground nel quale la significazione si attua attraverso la pura esibizione della realtà stessa, o meglio della situazione, la quale reca in sé il proprio significato. In concreto, ciò vuol dire individuare esclusivamente nella situazione drammatica il piano reale della significazione filmica e sostenere come unicamente pertinenti forme di costruzione del film che sono caratterizzate dal rispetto assoluto di questa continuità, come le varie forme di montaggio interno (profondità di campo e ripresa mobile) - al contrario del cosiddetto montaggio di pezzi brevi, che frammenta, disarticola e ricompone a suo piacere la continuità spazio-temporale della situazione (si pensi solo all'episodio della carrozzella del Potëmkin). È fin troppo ovvia l'obiezione che si tratta in ogni modo di un'operazione di montaggio, perché del montaggio viene rispettato il principio generale che consiste nell'attribuzione di senso al singolo oggetto o elemento plastico attraverso la sua messa in relazione con altri. Ma rimane il fatto che qui, in modo assai più sensibile che in Pudovkin, si sottolinea la priorità della situazione drammatica o narrativa come base della significazione del film.

Da ciò si genera una precisa impostazione riguardo al problema della determinazione dello sviluppo delle forme della significazione filmica e, più generalmente, del linguaggio cinematografico: una impostazione che vede lo sviluppo delle forme di articolazione della ripresa come acquisizione di una dimensione e di una ‛capacità' narrativa sempre più complessa e flessibile e che configura, sostanzialmente, lo sviluppo del linguaggio cinematografico in termini di progressiva evoluzione dalle iniziali forme pittoriche e teatrali verso forme sempre più vicine alla complessità, alla mobilità allo spessore della struttura romanzesca.

Ora, se non c'è dubbio che la ricerca di sempre più agili e complesse forme di articolazione dell'azione sia una delle linee di tendenza che possiamo individuare nella storia del cinema, se non c'è dubbio che questo tipo di ricerca abbia fortemente contribuito allo sviluppo dei mezzi espressivi del film, è necessario sottolineare che un'impostazione che esaurisca la totalità del fatto cinematografico in questa prospettiva è pericolosa, riduttiva e teoricamente errata, per diverse ragioni. In primo luogo perché una simile impostazione, ricadendo, nel momento stesso in cui lo nega, nel maggiore dei pericoli insiti nella nozione di ‛specifico filmico', si pone in termini di proposizione essenzialistica e normativa, escludendo o considerando addirittura errate altre linee di tendenza e di sviluppo del linguaggio filmico fondate sull'accentuazione di aspetti diversi, ma altrettanto radicati nella natura del mezzo espressivo. In secondo luogo perché, di fronte alla concreta e individuale operazione filmica, può impedire di coglierne la complessità dei livelli formali e la diversità o la differenziazione delle motivazioni espressive. In terzo luogo, assumendo come punto di riferimento esclusivo e assoluto la forma di organizzazione dell'azione, può indurre a trascurare il fatto che, in ogni caso, non si tratta mai né di un processo di fissazione di un'azione di per sé esistente e dotata di senso, né, per quanto riguarda le cosiddette forme dell'intelligibilità filmica e le ‛strutture narrative', di semplici processi di trascrizione di forme e di strutture già esistenti e operanti in altri modi di specificazione linguistica. Infatti si deve sempre tenere presente che, anche nel caso di opere la cui regola costruttiva fondamentale sia determinata dall'organizzazione di un'azione significante, siamo di fronte a un'operazione di intervento formativo sul fenomenico, che ha nella ripresa e nel suo articolato dispiegarsi l'elemento strutturale primario e caratterizzante.

Anche le varie forme di organizzazione drammaturgica del materiale devono insomma essere intese e colte come specificazioni del rapporto formativo fra ripresa e ‛realtà' che il cinema implica, specificazioni la cui scelta da parte di un autore è già di per sé indizio dei termini fondamentali della sua poetica e, anzi, della sua più generale collocazione nel panorama artistico e culturale. Insomma, la scelta tra narrazione letteraria e ‛narrazione' filmica non è indifferente, non solo perché implica una diversità di problemi ‛tecnici', ma soprattutto perché implica già un differente atteggiamento formativo di fronte al reale. La discriminante risiede nella diversa qualità della forma espressiva scelta e conseguentemente del campo di esperienza (o di organizzazione artistica dell'esperienza) all'interno del quale si svolge e si attua il discorso individuale dell'autore. Tenere presente questo punto fondamentale serve a vanificare ogni comparazione fra strutture letterarie e strutture filmiche, abbastanza oziosa, a meno che non si svolga all'interno di un discorso macrostorico, tendente a cogliere, al di là della specificità e della concreta individualità delle opere, quelle omologie strutturali che valgano a restituire i tratti fondamentali di un'epoca artistica o di un'ampia fase culturale. Ciò serve anche a troncare di netto tutte le false questioni sorte a proposito del rapporto fra soggetto letterario e realizzazione filmica. Il fatto che l'azione, lo strato drammaturgico del film possa essere, anzi generalmente sia, elaborato a tavolino in forma letteraria o addirittura tratto di peso da un racconto o da un romanzo, non riguarda la struttura del film in quanto tale, ma la sua preistoria empirica: nell'opera realizzata l'azione dovrà apparire comunque, e dovrà essere intesa come individuata, rilevata e organizzata entro la realtà attuale che la macchina da presa si trova di fronte. In questo senso è estremamente importante ribadire che il film non ha fasi di elaborazione letteraria, ma, come è estremamente chiaro nel pensiero di Pudovkin, si attua attraverso il processo di crescita della forma e dell'organizzazione costruttiva del proprio materiale naturale specifico, nel quale le ‛fasi intermedie' (soggetto, trattamento, sceneggiatura) sono importanti solo ed esclusivamente come momenti di questo medesimo processo, che ha però sempre come punto di riferimento conclusivo l'elaborazione creativa della realtà nei termini del linguaggio filmico, dell'intervento della macchina da presa sul mondo visibile.

Ribadire questi punti, che sono decisivi per una corretta e pertinente fondazione dell'analisi, della teoria e della storiografia cinematografica, si rende ancora necessario di fronte alla situazione attuale della critica, anche se, così come si è riconosciuta la grande importanza delle ricerche di linguaggio tendenti ad articolare in forme sempre più complesse la drammaturgia filmica, non si vuol negare il valore di contributo positivo alla cultura cinematografica di tutte quelle teorie che si sono collocate in questa prospettiva di ricerca. Infatti esse, una volta spogliate del loro carattere riduttivo e normativo, hanno contribuito a illuminare gli studiosi, i critici e il pubblico (quello, almeno, dei ‛lettori specializzati') sui caratteri che il linguaggio filmico è venuto assumendo a questo livello delle sue forme di organizzazione: intendiamo parlare degli studi del Lawson sulla struttura della sceneggiatura, dello stesso Bazin, di J. Mitry e di C. Metz, e di quanti altri hanno contribuito in concreto, al di là dei fondamenti teorici del loro discorso, all'individuazione di queste o quelle forme di elaborazione e di intervento sulla realtà assunte storicamente dal film.

Per concludere questa parte del discorso, dedicata alla determinazione, sia pure schematica, delle teoriche, delle poetiche e delle forme nelle quali si è venuto affermando il carattere autonomamente espressivo del film e attraverso le quali il film è venuto concretando questa sua potenzialità espressiva e formativa, mediante l'accentuazione di questo o quello dei suoi fondamentali elementi costitutivi, sarà opportuno gettare un rapido sguardo sulle dimensioni e sulle forme del periodo più recente. Potremmo dire allora che il cosiddetto ‛cinema moderno' è stato caratterizzato da tre tendenze fondamentali. La prima di queste è rappresentata dallo sviluppo delle forme di non-montage individuate da Bazin; essa avrebbe (ma su questo, in base ad una attenta lettura delle opere, ci sarebbe da dubitare), i suoi antecedenti in Stroheim e in Murnau, e sarebbe caratterizzata, come abbiamo detto, dalla volontà di rappresentare senza manipolazione una determinata situazione drammatica rispettandone la continuità spazio-temporali e il carattere di ‛ambiguità' immanente alla realtà, senza forzature e senza riduzioni esplicite dell'oggetto a segne Campioni di questa tendenza sarebbero, come è noto Wyler, Welles e Hitchcock e, parzialmente, Renoir e Bresson. Di questa tendenza teorico-critica, più che la precisa rispondenza, piuttosto discutibile, alla realtà nelle opere assunte come ‛campione', è da rilevare l'influenza che essa ha esercitato su ampi settori del cinema d'autore contemporaneo, soprattutto francese, e su certi settori della critica. Ma le tendenze che forse più caratterizzano il cinema contemporaneo sono quelle che si pongono sotto il segno di una accentuazione del valore della qualità fotografica dell'immagine filmica o dell'accentuazione, invece, della assoluta libertà costruttiva resa possibile dal montaggio (a livello di ricomposizione ‛arbitraria' degli spazi, dei tempi, dei piani di realtà). Naturalmente, se queste due altre tendenze possono essere individuate come distinte da un punto di vista teorico, nella concreta realtà delle singole opere sono spesso compresenti, motivate entrambe sostanzialmente dalla volontà di reazione ai modelli standardizzati del cinema ‛drammatico' di matrice hollywoodiana.

Per quanto riguarda l'accentuazione della qualità fotografica dell'immagine filmica, essa ha avuto a livello teorico i suoi maggiori sostenitori in S. Kracauer e in Chiarini. Il primo - che recupera in questo senso anche tutta una serie di teorie visualistico-fotogeniche degli anni venti e successive - sottolinea proprio questa capacità dell'immagine filmica di restituirci il senso immediato della realtà fisica, nel suo essere in divenire e nel suo fluire indeterminato ma non determinabile, al di là di ogni tentativo di costringerla entro le maglie soffocanti di schemi drammaturgici, ritmici o compositivi. Chiarini, continuando coerentemente la sua difesa della nozione di ‛specifico filmico' contro l'attacco che a questa nozione è stato portato, con motivazioni diverse, dall'Aristarco e da altri teorici, è giunto a individuare questa specificità, attraverso la distinzione di film-spettacolo e puro film, nel fondamento fotografico-documentario dell'immagine filmica. Con un'operazione che per certi versi è simile a quella del Kracauer, Chiarini tende a vedere tutta la storia del cinema da questo punto di vista, pur cercando di evitare ogni forma di restrizione normativa. A queste prese di posizione di carattere teorico è corrisposta, senza alcun dubbio, una tendenza in questa stessa direzione da parte di alcuni fra gli autori più significativi del cinema contemporaneo e da parte di alcuni movimenti o scuole. Si potrebbe dire, cioè, che si è assistito di fatto ad una rivalutazione della nozione di fotogenia, rivalutazione che, ovviamente, ha assunto forme e specificazioni diverse in dipendenza diretta della molteplicità delle sue sfumature semantiche. Sinteticamente, possiamo individuare innanzi tutto, come specificazione di questa qualità dell'immagine filmica e dell'atteggiamento formativo al quale dà luogo, l'accentuazione del suo carattere fotografico-documentario, dalla quale deriva la tendenza cosiddetta documentaristica che ha i suoi grandi antecedenti in R. J. Flaherty, in alcune opere del neo-oggettivismo tedesco (per es. in quelle di Jutzi) e nell'opera teorica di Grierson.

Tale tendenza si è imposta nel dopoguerra con il neorealismo italiano, particolarmente con i film di Rossellini e, in forme diverse, del cinéma-vérité. Ma la consapevolezza del fatto che la grande forza del cinema consiste non tanto nella manipolazione della realtà o nell'esibizione di una realtà ricostruita, quanto nel porsi di fronte alla realtà così come essa si presenta nell'esperienza quotidiana, attuale, per interrogarla ed estrarne il senso immanente, questa consapevolezza non ha agito solo nelle opere nelle quali più evidente appare questo incontro diretto, immediato, fra macchina da presa e realtà, ma si è tradotta anche in una profonda modificazione dei caratteri e della struttura del film cosiddetto ‛psicologico'. Quest'ultimo, nell'opera degli autori più consapevoli e più vicini all'esperienza neorealistica (Antonioni, ad esempio), si è andato sempre più orientando verso una forma che è stata chiamata, forse impropriamente, ‛comportamentistica'. In essa le situazioni individuali, la stessa interiorità dei personaggi vengono colte, analizzate e rivelate dalla macchina da presa nelle loro proiezioni esterne, come ‛comportamento' appunto, e nelle loro relazioni con l'ambiente, con le situazioni e con gli oggetti che di quel comportamento sono i moventi oggettivi. E sono evidenti le conseguenze che questa impostazione determina nei modi della recitazione, dell'utilizzazione degli attori, e nella struttura dei dialoghi, che tendono sempre più a configurarsi in termini di ‛comportamento verbale'.

Di qui una profonda modificazione anche nelle strutture drammaturgiche e nelle strutture del montaggio, nelle quali alle forme ‛concentrate' o ‛chiuse' del cinema classico si sostituiscono forme più aperte, rispondenti alla logica interna di un'operazione filmica tendente a scrutare a lungo la realtà, a tutti i suoi livelli, per scoprirne il senso. Di qui, ancora, l'inserimento delle nuove forme filmiche nella problematica della cosiddetta ‛opera aperta'; a questo proposito però va detto che - senza negare certe indiscutibili connessioni culturali che unificano le varie forme dell'attività artistica contemporanea, dal romanzo alla pittura, al teatro, al film appunto - è sempre necessario che l'individuazione di queste connessioni non prescinda mai dalla considerazione dei termini specifici, rispondenti alle peculiari caratteristiche del mezzo, che queste forme ‛aperte' assumono nel film. Più particolarmente, è necessario ribadire che questo orientamento è solo in certa misura determinato dal più generale ‛gusto' contemporaneo, perché deriva, in buona parte, dallo sviluppo di quello che si era sempre più venuto chiarendo come il carattere peculiare dell'espressione filmica. Insomma, potremmo dire che il cinema contemporaneo, nelle sue manifestazioni più significative, è caratterizzato da un rinnovato processo di presa di coscienza e di affermazione dei propri caratteri distintivi, processo che, nell'opera di un autore come Godard, ad esempio, diventa addirittura esplicito e sostanziale.

Una tendenza che caratterizza, come dicevamo, il cinema contemporaneo è la rottura della linearità della struttura temporale, per un largo impiego di procedimenti fondati sulla intersezione di tempi e di piani di realtà diversi: si pensi all'opera di A. Resnais e a 81/2 di Fellini, per ricordare soltanto gli esempi più celebri. Ma anche in questo caso sarebbe un errore vedere in ciò solo il prodotto di una più stretta relazione fra la struttura del film e le strutture del romanzo novecentesco (relazione che pure esiste, come è dimostrato anche dal motivato interesse per il cinema di autori e teorici del nouveau-roman come A. Robbe-Grillet e M. Butor). Infatti, non si può dimenticare che procedimenti di questo genere hanno origine in certi aspetti dell'opera di Griffith, particolarmente di Intolerance, e dunque sono lo sviluppo di una possibilità peculiare del montaggio che già uno dei ‛padri' del film come arte aveva individuato; e, in secondo luogo, non si può ignorare che la ricomposizione soggettiva dei tempi e dei piani di realtà assume nel film un carattere particolare e distinto da quello della forma romanzesca, per l'ineliminabile carattere di ‛attualità' che l'immagine filmica possiede e che già Balázs e Alain avevano individuato.

C'è infine un aspetto del cinema contemporaneo che merita di essere preso in considerazione, ed è quello rappresentato dal cosiddetto ‛cinema politico'. Naturalmente ciò che interessa non è porre il problema a livello del contenuto esplicito del film: da questo punto di vista non si può non ribadire che il reale contenuto (anche politico o ideologico) di un film è nell'atteggiamento che l'autore assume di fronte alla realtà e nella forma concreta di costruzione dell'immagine nella quale quell'atteggiamento prende corpo. Più interessante invece è vedere come la tendenza a una più diretta ed esplicita utilizzazione politica del cinema abbia comportato, da parte degli autori più consapevoli, Godard in testa, una serie di precise scelte a livello formale. Più esattamente, questa incidenza dell'impegno politico sulle strutture formali, se ha avuto come prima manifestazione il rifiuto dello ‛spettacolo' da parte degli autori del neorealismo, si è poi manifestata in una tendenza che potremmo definire, con un certo margine di imprecisione, ‛brechtiana'. Questi autori infatti si sono posti il problema della funzione politica del cinema in termini di modificazione di quello che sembrava essere il rapporto normale fra spettatore e immagine filmica, il rapporto di ‛immedesimazione', fondato a sua volta sull'‛impressione di realtà' specifica dell'immagine filmica. Immedesimazione, è bene ricordarlo, sulla quale i grandi autori e teorici del muto (in particolare Balázs ed Eisenstein) avevano fondato la possibilità di comunicazione ideologica del film. Da parte di questi autori, invece, l'immedesimazione viene individuata come una forma alienante: di qui la messa in opera di una serie di tecniche costruttive (la tecnica dell'intervista, mutuata dalla televisione, ad esempio, e altre che è inutile elencare) in funzione ‛straniante', tali da interrompere il processo di immedesimazione e capaci di far assumere allo spettatore un atteggiamento critico di fronte all'immagine.

Bisogna ancora ricordare, ritornando su quanto abbiamo detto all'inizio, l'ambito nazionale delle polemiche sull'arte del film. Alcuni come il già citato Brandi, ed E. Cecchi, negavano l'artisticità del film confondendo l'immagine filmica col fotogramma. Diceva il Cecchi che il disegno era cosa diversa dalla fotografia, in quanto nel disegno l'artista si poteva correggere, pentendosi, e comunque tracciava linee che provenivano dalla sua fantasia o dal suo spirito di osservazione, mentre la fotografia è automatica e riproduce ciò che ha davanti. A sostegno di questa tesi citava il Croce, secondo lui contrario all'artisticità del film; ma il Croce, con una lettera inviata al direttore di ‟Bianco e nero", diceva di non ricordare quanto gli era attribuito. Il Croce ribadiva in questa lettera l'artisticità del film in base ai suoi principi di estetica. Il Barbaro nel suo Film e fonofilm, rifacendosi al Croce, diceva che il film era arte proprio perché aveva in comune con l'arte tutti gli aspetti più significanti. Il Gentile, in una prefazione a un mio volumetto sul cinema (v. Chiarini, 1935), dopo aver ribadito l'importanza della tecnica, sosteneva che il suo superamento porta a dimenticarla, per cui lo spettatore assiste alla storia, come fosse vera. Tanto Gentile che Croce consideravano l'aspetto ‛narrativo' del film, e non per nulla il Croce discorre dell'attore interprete dicendolo un artista. Anche il Barbaro, che sosteneva la tesi dell'attore di cinema come attore creatore, dava in un primo tempo importanza al personaggio e, quindi, considerava il film da un punto di vista narrativo. Comunque, sopite queste polemiche e affermato che il film era un'espressione d'arte, se ne aprivano di nuove, come abbiamo visto. Quando le polemiche cesseranno, si cesserà di parlare del film come fatto artistico.

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