CINECITTÁ

Enciclopedia del Cinema (2003)

Cinecittà

Riccardo Martelli

Complesso di teatri di posa fondato a Roma nel 1937. La sua creazione fu una delle tappe della politica di sostegno alla cinematografia avviata dal regime fascista all'inizio degli anni Trenta. Fino al 1943 ospitò le riprese della maggior parte dei film italiani, e agli occhi di molti si identificò con il cinema nazionale stesso: nacque allora il 'mito di Cinecittà', che sarebbe durato a lungo. Dopo una fase di chiusura, riaprì alla fine degli anni Quaranta; tuttavia, nonostante vi trovassero accoglienza diversi kolossal statunitensi (da cui il soprannome di 'Hollywood sul Tevere'), una parte del cinema di genere e alcune delle opere dei migliori registi italiani, non ritrovò mai i livelli produttivi e il ruolo centrale che aveva avuto in precedenza. Conobbe poi anche serie difficoltà finanziarie, in particolare negli anni Ottanta. La crisi è stata superata mediante l'apertura alla produzione televisiva e il ritorno dei capitali esteri. Attraverso queste diverse fasi, caratteristica specifica di C., rispetto agli analoghi centri di altri Paesi, è sempre stata l'utilizzazione di artigiani di grande competenza in laboratori basati su metodi di lavoro propri delle botteghe di una volta; da cui la dizione di 'bottega Cinecittà'.

La nascita di Cinecittà

Nel settembre 1935 un incendio distrusse nel quartiere romano Appio Latino due dei tre teatri di posa della Cines, nei quali veniva allora realizzata metà della produzione italiana. Luigi Freddi, l'allora direttore generale per la cinematografia, poté così agevolmente convincere il finanziere C. Roncoroni, che aveva rilevato l'anno precedente il ramo produzione della società, della necessità di una nuova impresa, dotata di studi ben più vasti e avanzati. Freddi gli garantì sussidi e in cambio Roncoroni avrebbe dovuto accettare nell'azienda una forte partecipazione del capitale pubblico. Oltre che alla creazione di un grande polo tecnologico moderno, l'iniziativa di Freddi mirava quindi anche al suo controllo di fatto da parte dell'autorità statale, in concorrenza con le contemporanee iniziative in tal senso interamente gestite da capitali privati, come quella di Tirrenia, in Toscana. Il nome stesso della società avrebbe dovuto essere un simbolo delle sue grandi ambizioni; così, dopo varie proposte, fu scelto quello di Cinecittà.Fin dal 1929 era stata individuata come zona più adatta per futuri grandi studi la via Casilina, nel quadrante sud-orientale della città, e in particolare il quartiere periferico di Centocelle. Le fu invece preferita un'area di quasi 59 ettari sulla via Tuscolana, attigua alla borgata del Quadraro; era situata nello stesso settore, ma più lontana dal centro (anzi già in aperta campagna). Il progetto fu affidato all'architetto e urbanista G. Peressutti (1885-1940). Gli studi avrebbero avuto dimensioni imponenti, mai viste prima in Italia: si prevedevano 73 edifici (tra cui 14 teatri di posa), distribuiti su un'area di 14 ettari; i 45 ettari rimanenti sarebbero rimasti inutilizzati in attesa di future espansioni. Fu adottato uno stile razionalista contenuto e quasi dimesso, lontano dalla magniloquenza di molti grandi complessi edilizi italiani dell'epoca. Nella nuova struttura si sarebbe potuto procedere al ciclo completo delle lavorazioni, dall'elaborazione del soggetto alla stampa delle pellicole. Tale sistema di concentrazione verticale del processo produttivo, pur se inconsueto in Italia, non era in realtà del tutto inedito: era stato infatti inaugurato negli stabilimenti di Tirrenia l'anno precedente. Furono riutilizzate tutte le attrezzature della Cines scampate all'incendio, ma ne furono acquistate anche molte delle più recenti esistenti sul mercato: dato che la maggior parte di quelle degli studi di Hollywood risalivano al passaggio dal muto al sonoro, cioè a otto o nove anni prima, C. iniziò la sua vita con impianti che erano te-cnicamente all'avanguardia nel mondo. La posa della prima pietra avvenne nel gennaio 1936, e l'inaugurazione ufficiale nell'aprile 1937; nei pressi fu anche trasferita la nuova sede dell'Istituto Luce.

L'avvio effettivo fu tuttavia piuttosto lento. Nella primavera del 1938, un anno dopo l'inaugurazione, i teatri di posa erano soltanto cinque, e non era ancora entrato in funzione il Cinefonico (il reparto sincronizzazione), e ciò costringeva i registi a ricorrere per la sonorizzazione ad altri studi romani. I film realizzati furono 19 nel 1937 e 31 nel 1938: cifre irrisorie se confrontate con quelle dei grandi stabilimenti europei, ma significative rispetto all'ancora modesta produzione italiana complessiva, di cui rappresentavano circa i due terzi. Le difficoltà furono accentuate in settembre dalla morte di Roncoroni; gli eredi affidarono la gestione all'industriale G. Tofani, e questo rallentò ulteriormente i lavori per alcuni mesi.

Dall'inizio del 1939 la costruzione degli impianti venne accelerata, e i teatri di posa passarono a 10, facendo così di C. il più importante centro europeo. Il numero dei film girati aumentò considerevolmente, anche se la quota sulla produzione nazionale scese, per la crescita di quest'ultima, dai due terzi a circa la metà, rimanendo su tale percentuale anche nel periodo 1940-1943. Alla fine del 1939 la società passò nelle mani dello Stato: il ruolo centrale di C. nella cinematografia italiana fu così ufficializzato. Freddi ne fu nominato vice direttore, e pochi mesi dopo direttore; assunse in seguito anche gli incarichi di presidente della risorta Cines (la cosiddetta 'terza Cines') e dell'ENIC (Ente Nazionale Industrie Cinematografiche), cumulando in tal modo quasi tutte le più importanti cariche del settore. Accentrando i poteri decisionali in una sola persona, il regime fascista dava un carattere visibile e simbolico all'estensione del suo controllo a tutti i campi dell'attività cinematografica: il finanziamento della produzione, la sua base industriale, l'importazione e la distribuzione dei film, la gestione delle sale. Con il trasferimento della sede del Centro sperimentale di cinematografia all'interno di C. si diede infine anche una concreta unità fisica al gruppo cinematografico pubblico.Freddi poté quindi iniziare a dare corpo a un suo grandioso progetto: far diventare C. un polo alternativo al cinema tedesco, nelle parti del mondo in cui questo era allora possibile, ovvero le nazioni occupate dalle truppe dell'Asse o non in guerra contro di esso. Lo squilibrio commerciale con la Germania era infatti molto forte anche in questo campo: nel 1941, per es., furono importati 67 film tedeschi, ma di italiani ne furono esportati solo 7. Inoltre era ormai evidente che i film italiani, sebbene molto graditi agli spettatori, non erano in grado di arrivare a coprire i propri costi con il solo mercato interno. Era quindi necessario espandersi all'estero, e allo stesso tempo aumentare l'attività di C., sia per rifornire adeguatamente i mercati stranieri sia per abbassare la spesa unitaria per film utilizzando al massimo gli impianti. Tale progetto ebbe un concreto inizio di attuazione, almeno fino a quando le vicende belliche lo permisero. I film girati crebbero fino ai 52 del 1942 (il massimo mai raggiunto). Furono anche potenziate le capacità degli studi: i teatri di posa salirono nel 1941 a 12 (il 40% di tutti quelli esistenti allora in Italia), e sarebbero dovuti diventare 14 nel 1943, portando così a compimento il progetto originario di Peressutti. Inoltre, nonostante che a C. rimanessero ancora 45 ettari inutilizzati, fu deciso l'esproprio di una nuova e vastissima area attigua, di oltre 540 ettari, che in futuro avrebbe dovuto ospitare un gigantesco arcipelago di stabilimenti cinematografici, pubblici e privati, di dimensioni pari a quelle di Hollywood. A tale scopo l'intera estensione di C. venne dichiarata protetta per 25 anni mediante il vincolo di esproprio, che ne garantiva la destinazione cinematografica e quindi la rendeva invendibile, nonché inedificabile per altri scopi. All'estero, e in particolare in Francia, nei Balcani e in America Latina, furono poi aperte agenzie pubblicitarie e commerciali e acquistate catene di sale, per promuovere, vendere e distribuire i prodotti di Cinecittà.C. riuscì a costruire una 'fabbrica dei sogni' interamente italiana, che sostituiva in una certa misura quella hollywoodiana. L'aumento dell'attività provocò l'afflusso di centinaia di attori e attrici di teatro e di varietà: con quelli che emersero da questa massa fu creato per la prima volta un vero star system nazionale, alla cui promozione si dedicarono le numerose riviste specializzate sorte nel giro di pochi mesi; e 'tram delle stelle' fu allora soprannominata la linea Termini-Quadraro, che dall'agosto 1937 era stata prolungata fino a Cinecittà. Gli schermi stessi diedero il loro contributo, con cortometraggi a soggetto di carattere celebrativo come Fantasmi a Cinecittà e Cinque minuti a Cinecittà di Domenico Paolella (entrambi del 1940), che ebbero un'ampia diffusione perché distribuiti nelle sale accoppiati ai cinegiornali obbligatori dell'Istituto Luce; a essi si aggiunsero i primi lungometraggi che utilizzarono gli studi di C. come ambientazione, Dora Nelson (1939) di Mario Soldati e Fuga a due voci (1943) di Carlo Ludovico Bragaglia. Nacque in tal modo l'identificazione tra C. e il cinema italiano, e il suo corollario, il 'mito di Cinecittà', che ne accompagnò e amplificò la supremazia quantitativa e qualitativa, in questo periodo indiscutibile. Tale mito avrebbe poi conosciuto il suo massimo fulgore negli anni Cinquanta e Sessanta, proprio nel momento in cui le condizioni oggettive che lo avevano fatto nascere erano ormai cambiate.

Ma il vero punto di forza di C. fu un altro, prodotto da una situazione contingente le cui conseguenze si rivelarono però durevoli. La forza lavoro non vi venne infatti utilizzata con i sistemi moderni, fondati sulla parcellizzazione dell'attività, ma trasportando nel cinema una struttura che nel resto del Paese stava scomparendo, quella della bottega artigiana, in cui ognuno è responsabile dell'intero processo produttivo. Ciò fu paradossalmente facilitato dai gravi danni inflitti a Roma dal regime negli anni precedenti, quando gli sventramenti nel centro storico avevano sconvolto il tessuto dei vari rioni: migliaia di esperti artigiani avevano perso casa e lavoro, ed erano andati ad abitare nelle borgate della periferia più lontana, dove, sradicati dal contesto sociale ed economico in cui avevano sempre vissuto, non avevano potuto ritrovare un'occupazione. C. ebbe così a disposizione, a pochi passi dal suo ingresso, un prezioso vivaio di stuccatori, decoratori, falegnami, le cui altissime competenze, elaborate nei cantieri delle chiese e nei laboratori di restauro, e trasmesse di generazione in generazione, trovarono applicazione anche nelle scenografie dei set cinematografici.Tale sistema era stato scelto soprattutto per spostare la concorrenza con Hollywood dal terreno economico, nel quale gli italiani erano forzatamente perdenti, a quello delle abilità individuali, in cui c'era qualche possibilità di successo. Esso però fornì anche una capacità di costruzione dell'immaginario, forse unica al mondo, a un cinema che inizialmente tendeva solo a migliorare la propria competitività sul mercato internazionale; non fu tuttavia sufficiente a supplire interamente ad altri suoi limiti, come l'organica dipendenza dall'assistenza pubblica o la mancanza di inventiva dei registi.

Guerra e dopoguerra

All'inizio del 1943 i bombardamenti dell'aviazione alleata sulle grandi città dell'Italia settentrionale bloccarono, tra l'altro, i progetti di espansione di Freddi. La produzione di C. tuttavia non subì rallentamenti. Ma il 19 luglio anche Roma fu bombardata, e il 25 luglio venne rovesciato il regime fascista: Freddi fu arrestato, e C. entrò in uno stato di semiparalisi. L'8 settembre, data dell'armistizio e dell'occupazione tedesca, erano in corso di lavorazione solo quattro film. Pochi giorni dopo gli studi, ormai abbandonati, furono saccheggiati da bande di ladri, che rubarono i materiali più facilmente asportabili. In ottobre avvenne un nuovo saccheggio, ben più sistematico: a C. i tedeschi caricarono tutte le attrezzature pesanti rimaste in sedici vagoni ferroviari, che presero la via della Germania. Freddi, nel frattempo liberato dal carcere, riuscì a recuperarne dieci, e li fece portare a Venezia. Nella città lagunare organizzò all'inizio del 1944, per conto della cosiddetta Repubblica di Salò, una sorta di surrogato di C., con tre soli teatri di posa, che venne chiamato Cinevillaggio. Ben pochi attori, registi e tecnici di C. lo seguirono, e quasi tutti erano personaggi di secondo piano; tra di loro c'erano solo due volti noti, gli attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, che vennero poi fucilati dai partigiani alla fine della guerra. Nell'anno e mezzo di vita del Cinevillaggio furono completati appena quattro film, che conobbero peraltro uno scarso pubblico. Il 26 aprile del 1945 la liberazione della città avrebbe posto fine a quella che rimane la pagina più ingloriosa nella storia del cinema italiano. Nel frattempo, a Roma, gli edifici di C. erano stati utilizzati dai tedeschi come depositi; nel novembre 1943 furono per questo colpiti dagli aerei statunitensi, che danneggiarono sette teatri di posa. Nel giugno 1944 le truppe alleate, entrate in città, ne fecero a loro volta dei magazzini. In ottobre gli studi vennero poi presi in carico dalle organizzazioni internazionali per l'aiuto ai rifugiati: furono trasformati in abitazioni di fortuna per i seimila profughi che nei mesi precedenti si erano accampati alle porte di Roma in cerca di scampo.Nel luglio del 1945 si svolse a Roma una manifestazione del personale di C. per chiedere il ritorno delle attrezzature, ancora a Venezia, la ricostruzione e la ria-pertura degli stabilimenti. Fu nominato presidente di C. il produttore Valentino Brosio, e iniziarono le operazioni di restauro e ripristino degli impianti; alla fine del 1946, anche se i lavori erano ancora in corso, si girarono addirittura due film. Gli studi furono ufficialmente riaperti nel 1947, e la presidenza passò al gestore di sale Tito Marconi, ma si trattò di una riapertura parziale, in quanto solo pochi teatri di posa risultarono utilizzabili. Così, nonostante la ripresa, la produzione di C. non riu-scì a decollare: furono girati un solo film in quello stesso anno e quattro nel 1948. Erano stati nel frattempo riassunti i 600 dipendenti in forza nel 1943 (compresi quelli che avevano collaborato con il 'cinema di Salò' al Cinevillaggio), che si trovarono di conseguenza a essere largamente sottoutilizzati.

Il rilancio di Cinecittà

Il 1949 fu un anno decisivo: la produzione raddoppiò, pur rimanendo a livelli modesti, e si verificarono quattro importanti avvenimenti. Su iniziativa soprattutto del regista Alessandro Blasetti, venne firmato, in gennaio, un accordo pluriennale di coproduzione con la Francia. Erano stati già girati l'anno precedente due film italo-francesi, il più importante dei quali, Fabiola, uscito nel 1949 e diretto dallo stesso Blasetti; ma l'accordo del 1949 aprì la strada a una collaborazione sistematica e durevole. Nei mesi seguenti furono realizzati due film, uno dei quali, La beauté du diable (La bellezza del diavolo) per la regia di René Clair.

Nel marzo dello stesso anno, la vasta area su cui dieci anni prima era stato posto il vincolo di esproprio venne ridotta da 600 a 150 ettari. In luglio, C. entrò con il 50% nel capitale dell'appena rinata Cines (la 'quarta Cines'): il nuovo Stato democratico faceva così il suo ingresso nel mondo della produzione cinematografica. Alla fine dell'anno la Metro Goldwyn Mayer annunciò che le riprese del suo nuovo kolossal, Quo vadis (1951; Quo vadis?) di Mervin Le Roy, si sarebbero svolte a Cine-città. La lavorazione avvenne in mezzo a innumerevoli difficoltà, a causa delle gravi carenze di impianti di cui ancora soffrivano gli studi. In compenso si risolse temporaneamente il problema della sopravvivenza dei profughi, che erano ancora cinquemila, impiegandoli in massa come comparse durante la lavorazione del film. Se sul piano produttivo gli effetti dell'arrivo degli statunitensi non si fecero sentire subito, su quello dell'immagine il cambiamento fu immediato. A livello nazionale, anche se tra il 1948 e il 1950 la quota di C. nella produzione italiana fu sempre inferiore al 10%, si innescò nei suoi confronti un processo di riaggregazione delle iniziative e dei talenti: le poche sequenze di Miracolo a Milano (1951) che vi girò Vittorio De Sica nel 1950 prefiguravano i molti film italiani di valore che vi sarebbero stati realizzati. A livello internazionale registi e produttori statunitensi compresero che C., benché presentasse ancora seri problemi tecnici e organizzativi, era comunque in grado di mettere a loro disposizione artisti e artigiani dotati di elevata professionalità e di una inventiva senza pari, con costi decisamente inferiori rispetto a quelli di Hollywood.

Le nuove disponibilità finanziarie furono utilizzate per una seconda ristrutturazione. Grazie anche al progressivo allontanamento dei profughi (conclusosi nel 1955), i teatri di posa utilizzabili tornarono a essere 10 dal 1953 e 12 dal 1955. I film prodotti erano saliti a una trentina già nel 1951, e rimasero su tale livello anche nei tre anni seguenti; la quota di C. sulla produzione nazionale, arrivata nel 1951 al 30% (la percentuale più alta raggiunta nel dopoguerra) scese però, a causa dell'espansione complessiva della cinematografia italiana, al 15%. Sul piano internazionale, oltre ai film italo-francesi, divennero un elemento fisso del panorama di C. anche quelli statunitensi, e iniziarono le coproduzioni con la Spagna, mentre sul piano nazionale non fu semplice il rapporto tra C. e i migliori registi italiani, che già negli anni precedenti l'avevano sostanzialmente ignorata, anche se vi furono realizzate alcune opere di grande valore, come Bellissima (1951) di Luchino Visconti, Umberto D. (1952) di De Sica, e I vitelloni (1953) di Fellini.Nonostante questi limiti quantitativi e qualitativi, è proprio al 1951 che si può datare la rinascita del mito di C., di cui furono sintomi e insieme elementi propulsori due esempi di 'cinema nel cinema' che fecero di essa la vera protagonista, più che un semplice sfondo: Bellissima, e Il viale della speranza (1953) di Dino Risi. Al di fuori di Hollywood, C. fu in effetti l'unico studio al mondo che seppe trasformare il proprio mito in spettacolo, alimentandolo così di rimando, in un gioco di specchi durato quasi mezzo secolo, a partire da Dora Nelson per arrivare a Intervista di Fellini (1987).

Nella 'Hollywood sul Tevere', dopo Quo vadis, nel corso di due decenni furono girati una quarantina di film statunitensi. Fu tale presenza, numericamente non rilevante ma costante, a far nascere quel soprannome; a esso è associata tradizionalmente l'immagine di opere grandiose di soggetto storico, con enormi budget, scenografie imponenti e migliaia di comparse. In realtà i film statunitensi di C. furono in grande maggioranza melodrammi o commedie sentimentali di ambientazione contemporanea e con budget di media entità. I kolossal veri e propri furono solo sei: War and peace (1955; Guerra e pace) di King Vidor, Helen of Troy (1956; Elena di Troia) di Robert Wise, che ebbe un'influenza decisiva sulla nascita del peplum italiano, Ben Hur (1959) di William Wyler, Cleopatra (1963) di Joseph L. Mankiewicz, The fall of Roman empire (1964; La caduta dell'impero romano) di Anthony Mann, The agony and the ecstasy (1965; Il tormento e l'estasi) di Carol Reed. Gli ultimi tre furono degli insuccessi commerciali, e segnarono il tramonto delle grandi produzioni straniere a C.: i film successivi ebbero bilanci contenuti, finché nel 1969 la collaborazione con Hollywood si interruppe del tutto, per riprendere solo vent'anni dopo.Gli statunitensi furono a C. più degli ospiti che dei collaboratori: i finanziamenti dei loro film quasi mai comprendevano capitali del nostro Paese, e quindi gli italiani davano il loro apporto prevalentemente come decoratori e costumisti, o come attori, soprattutto in parti secondarie; molto di rado furono aiuto registi o registi di seconda unità (come, per es., Mario Soldati in War and peace, che non a caso aveva come coproduttori Carlo Ponti e Dino De Laurentiis). L'Italia reale serviva inoltre talvolta da set, e in particolare la città di Roma, come in Roman holiday (1953; Vacanze romane) di Wyler, o in Three coins in the fountain (1954; Tre soldi nella fontana) di Jean Negulesco.

Diverso fu il rapporto tra C. e Francia e Spagna nelle coproduzioni che vennero avviate dai primi anni Cinquanta. Benché non abbia lasciato tracce evidenti, l'apporto francese fu in realtà ben più durevole e consistente di quello statunitense: si prolungò infatti per quasi quarant'anni (1951-1989) e coinvolse in totale 200 film, che rappresentarono, a seconda dei periodi, da un quarto alla metà della produzione degli studi; ma soprattutto, pur concentrandosi su opere di tipo popolare o tutt'al più di media qualità, svolse un decisivo ruolo di sostegno alla felice stagione del cinema italiano, che va dalla fine degli anni Cinquanta all'inizio dei Settanta: la maggior parte dei film di Roberto Rossellini, De Sica, Visconti e Fellini girati a C. in tale periodo videro la presenza, spesso determinante, di società francesi.Per tutti gli anni Cinquanta i capitali francesi si indirizzarono prevalentemente verso una produzione di medio livello relativamente omogenea: commedie brillanti, film d'avventura, drammi sentimentali, film comici, film storici. Furono realizzati alcuni capisaldi di questi generi, come Fanfan la Tulipe (1952) di Christian- Jaque, o, nello stesso anno, un grande film in costume come La carrozza d'oro di Jean Renoir, o ancora, su un gradino più basso, la popolarissima serie di Peppone e Don Camillo (1952-1955), diretta prima da Julien Duvivier e poi da Carmine Gallone. Al contrario del caso statunitense, si trattò quasi sempre di coproduzioni, con una conseguente ripartizione dei compiti che dipendeva dalla percentuale di capitali italiani investiti: se i cast e le troupe erano in genere misti, in proporzioni variabili, la direzione fu affidata sino alla fine degli anni Cinquanta per lo più a registi francesi, e successivamente anche a registi italiani.Nel 1951 si aggiunsero poi le collaborazioni con la Spagna (1951-1975), che furono in totale una sessantina, concentrate soprattutto negli anni Sessanta, in un primo tempo per film soprattutto di genere avventuroso e in seguito per western all'italiana.

Difficoltà e successi

In un periodo in cui il cinema italiano godeva nel complesso di buona salute, raggiungendo elevati livelli quantitativi e qualitativi (in particolare dopo il superamento della crisi degli anni 1955-1958), C. conobbe gravi difficoltà innanzitutto finanziarie tali che, nel corso degli anni Cinquanta, i pesanti interessi passivi della società superarono gli introiti. Si verificava così una situazione paradossale: più C. produceva, più cresceva il passivo del suo bilancio. Le cause erano essenzialmente due. In primo luogo il gigantismo degli impianti rispetto all'attività effettiva e in secondo il sostanziale disinteresse dello Stato per il complesso cinematografico pubblico, che attraverso il collegamento tra Cinecittà, la Cines, l'ENIC e l'Istituto Luce integrava tutti i rami del settore. Nel 1955 fu addirittura prospettata la vendita alla speculazione edilizia dell'area di C. e il trasferimento degli studi fuori Roma, nella località costiera di Castelfusano. Nel 1957 la Cines fu assorbita da C., il che equivalse alla fine della partecipazione statale alla produzione. Nel 1958 fu creato l'Ente autonomo di gestione per il cinema (EAGC, dal 1963 Ente cinema s.p.a.), che non si curò minimamente di riorganizzare la città del cinema della cui gestione era incaricato. La produzione di film di C. scese progressivamente, nonostante il successo dei peplum. Vennero chiusi alcuni impianti (come il Cinefonico), dei quali non si poteva più assicurare la manutenzione; e nel 1964 l'area sottoposta a vincolo cinematografico fu drasticamente ridotta ai 60 ettari del 1935. Solo con il western all'italiana degli anni Sessanta si registrò una crescita tale da raggiungere i livelli più alti del dopoguerra, ma con il tramonto del filone la produzione ricominciò a calare.

Eppure, in quel periodo C. stava creando nuovi generi di intrattenimento popolare, che avrebbero avuto un enorme successo, e accoglieva non solo gli ultimi kolossal hollywoodiani ma anche alcune delle migliori opere di registi italiani, come Visconti (da Le notti bianche, 1957, a Morte a Venezia, 1971) o Fellini, che ne fece il luogo elettivo per i suoi set (da La dolce vita, 1960, a Roma, 1972). Toccava inoltre alti livelli la riproduzione a scala reale del mondo esterno, passato e presente, come nei leggendari set di Ben Hur e di Cleopatra, delle dimensioni di piccole città, o in quelli di La dolce vita, in cui si ricostruivano intere parti del centro di Roma. E quella raffigurata da Risi in una delle ultime scene di Una vita difficile (1961) è ancora una C. apparentemente al massimo dello splendore.Per oltre un quindicennio, dal 1958 al 1972, il cinema italiano basò la propria fortuna commerciale soprattutto sui generi, articolati in quattro filoni principali: il peplum (1958-1964) e il western (1962-1975), numericamente i più importanti, l'horror (1961-1966) e il film spionistico (1965-1967). A essi apparteneva negli anni Sessanta circa il 40% dei film girati a C., benché la loro produzione non rappresentasse percentuali elevate di quella nazionale; ma i film realizzati a C. erano più costosi, più curati, e soprattutto più innovativi dal punto di vista delle scenografie e dei soggetti.Sulla scia dello statunitense Helen of Troy, alla fine del 1957 venne girato a C. Le fatiche di Ercole (1958) di Pietro Francisci, il primo vero peplum: il suo straordinario successo (si classificò in testa al box office) diede inizio in tutta Italia alla realizzazione di numerosi altri film di ambientazione storico-mitologica che costituirono un altro filone. Di dimensioni ancora più consistenti fu il fenomeno del western all'italiana. È proprio a C. che venne girato nel 1962 il film Due contro tutti diretto da Alberto De Martino, che molti considerano il vero capostipite del genere, ma C., impegnata nel frattempo con gli ultimi peplum, attese fino al 1965, quando vi fu girato Per qualche dollaro in più di Sergio Leone, per prendere parte in maniera consistente al nuovo filone. L'alto ritmo di produzione obbligava talvolta a ricorrere ai villaggi del West costruiti per i film precedenti, di cui venivano rapidamente ridipinte le facciate e modificate le insegne. Dal 1969 cominciò a farsi sentire la concorrenza del Sud della Spagna, che poteva offrire ai registi italiani un clima più secco per gli esterni e costi più bassi; così, anche se il filone proseguì fino al 1975, dal 1972 a C. non si girarono più western.Tra il 1973 e il 1975 fu effettuata la terza ristrutturazione nella storia degli studi: venne costruito un nuovo laboratorio di sviluppo e stampa, e i teatri di posa subirono un altro restauro. Ma una C. già in crisi non poteva sfuggire alle difficoltà della cinematografia nazionale, che aveva ormai iniziato la sua parabola discendente, e la produzione si attestò per tutto il decennio su livelli molto bassi (tra i 10 e i 15 film all'anno). Si realizzarono ancora alcune opere d'autore di grande impegno, come Ludwig (1972) di Visconti, Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini, Once upon a time in America (1984; C'era una volta in America) di Leone; eppure Fellini sembrava l'unico a credere nell'avvenire di C.: non solo vi girò tra gli anni Settanta e Ottanta tutti i suoi film, da Amarcord (1973) a E la nave va (1983), ma con Intervista le dedicò un ultimo e malinconico omaggio.Nel 1983 giunse a scadenza il vincolo di esproprio sui 60 ettari di C.; il valore dell'area passò così da zero a 100 miliardi di lire: ne furono subito venduti 20 ettari, sui quali fu edificato un grande centro commerciale. Con i circa 30 miliardi di lire incassati si colmò il deficit pregresso e si ottennero alcuni anni di autonomia finanziaria, che si concretizzò in un temporaneo aumento dei film realizzati (una media annua di 25 sino alla fine del decennio), e nel ritorno di alcune grandi produzioni, come The last emperor (1987; L'ultimo imperatore) di Bertolucci. Ma un nuovo calo si verificò dal 1987. La via d'uscita fu trovata all'inizio degli anni Novanta nell'apertura alla produzione televisiva (pur mantenendo quella cinematografica) e nell'ingresso delle nuove te-cnologie digitali; tali innovazioni vennero rese possibili da una quarta e più radicale ristrutturazione, che quadruplicò la cubatura degli edifici e fece passare i teatri di posa da 12 a 22. Nel corso del decennio la crisi è stata superata. L'estensione e la modernizzazione degli impianti hanno permesso anche il ritorno dei film statunitensi, per la prima volta dopo vent'anni: dal 1989 ne sono stati girati 12, tra cui alcuni kolossal, come The adventures of Baron Munchausen (1989; Le avventure del barone di Munchausen) di Terry Gilliam, The godfather, part III (1990; Il padrino ‒ parte terza) di Francis F. Coppola, Cliffhanger (1993) di Renny Harlin, The English patient (1996; Il paziente inglese) di Anthony Minghella, fino alla lavorazione di Gangs of New York (2002) di Martin Scorsese, che con le sue immense scenografie è sembrato poter rinverdire i fasti della C. di una volta.

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