CESAROPAPISMO

Federiciana (2005)

Cesaropapismo

Gilbert Dagron

Il termine caesaro-papia comparve per la prima volta nel manuale di teologia protestante di Justus Henning Böhmer (1674-1749), per caratterizzare l'atteggiamento di un sovrano laico come Giustiniano il Grande, il quale, "non avendo più fiducia nel clero", intervenne direttamente negli affari religiosi "sotto il pretesto di assicurare la salvezza della Chiesa" (Böhmer, 17565, pp. 10-11). Nel medesimo contesto era associato a un termine esattamente inverso ma destinato a ottenere minor successo, papo-caesaria, per descrivere un capo della Chiesa che su-bordina il potere temporale o se ne appropria e tenta di stabilire una teocrazia o una ierocrazia. Questo doppio neologismo, che rimandava del pari all'imperatore di Costantinopoli e al papa di Roma con l'intento di definire una divisione più rigorosa fra ambito religioso e politico, dev'essere quindi interpretato nello spirito della Riforma; si applica però abbastanza bene, in chiave retrospettiva, anche al conflitto che contrappose Federico II ai pontefici del suo tempo. La caesaropapia dell'imperatore era connessa all'ideologia di cui egli era l'erede tardivo, ma anche a una reazione contro la papocaesaria dei pontefici che, radicalizzando il grande movimento lanciato da Gregorio VII, sconfinava largamente nelle prerogative imperiali. Di qui la violenza dello scontro, meno rigoroso nel suo approccio teorico in Occidente rispetto all'Oriente, ma con una posta in gioco più importante, in quanto metteva in discussione il modello di governo del mondo cristiano prefigurando così, almeno in senso negativo, la modernità.

In origine il cesaropapismo era bizantino, e forse, come vedremo, Federico II lo fece rivivere, o gli conferì un tono particolare, tramite il ritorno diretto o indiretto a questa fonte orientale. L'imperatore cristiano, saldamente radicato nelle sue certezze romane, fu costretto solo in questo ambito a ridefinire il suo statuto sotto le pressioni dei vescovi orientali e di un Papato forte del principio 'pietrino'. Il primo imperatore cristiano, almeno secondo i suoi biografi, aveva dovuto riconoscere di non essere né un vescovo né il capo della Chiesa. Più tardi, in occasione dello 'scisma di Acacio', papa Gelasio (492-496) aveva affermato con vigore la distinzione fra l'autorità sacra dei pontefici e il potere degli imperatori, e a questo principio aveva aggiunto due elementi nuovi: la necessaria sottomissione, come cristiano, del sovrano temporale a colui che ha il potere 'di unire e di sciogliere' e la posizione particolare delle Sede Apostolica nella Chiesa universale (ep. 1; ep. 12 = Duo quippe; Tractatus IV = Tomus de anathematis vinculo, in Epistolae Romanorum, 1867, rispettivamente pp. 292-293, 350-352, 567-568). Una dottrina di questo tenore fu accettata agevolmente e lo stesso Giustiniano non la contraddiceva dichiarando che "i due doni più grandi di Dio concessi agli uomini dalla filantropia celeste sono il Sacerdozio e l'Impero e dal loro accordo dipende il pubblico bene", ma poi aggiungeva ‒ mettendo già in luce l'equivoco della problematica gelasiana ‒ che questi due poteri dovevano unirsi e che, d'altronde, non vi era tra loro che una labile differenza (Novellae VI, pr.; VII, 2, 1, a. 535, in Corpus iuris civilis, 1963, pp. 35-36, 53). In realtà, si profilavano due problemi, ossia quello dei diritti d'intervento dell'imperatore negli affari della Chiesa, che portava a tracciare un limite, tortuoso e sovente violato, fra il potere spirituale e il potere temporale, corresponsabili della cristianità, e quello della sacralità conferita da Dio all'imperatore direttamente o tramite la mediazione del clero. Il primo, a prescindere dai domini ben demarcati della definizione della fede e dell'amministrazione dei sacramenti, atteneva alla prassi più che ai principi, mentre il secondo concerneva la definizione dell'Impero.

Questi dati di base sono rimasti immutati, e l'imperatore cesaropapista, nella sua versione occidentale dei secc. XI-XIII come pure in quella bizantina, non era solo il sovrano temporale che sconfinava nel dominio della Chiesa, ma anche un imperatore che si reputava l'eletto di Dio e traeva tutte le possibili conseguenze da questo legame diretto che gli conferiva una legittimità particolare. La sua missione divina l'investiva personalmente di una sorta di sacerdozio veterotestamentario. Questa logica approdava a una concezione di sé come un novello Davide, un re e sacerdote alla stregua di Melchisedec (Genesi, XIV, 18-20; Salmi, CX, 4) e un Cristo, vale a dire un Unto; e la Chiesa, quindi, lo denunciava come un precursore dell'Anticristo. Vi è, tuttavia, una differenza fondamentale. In Oriente il cesaropapismo rappresentò per gli imperatori una tentazione permanente legata all'ecumenismo indiscusso della funzione imperiale; la Chiesa riuscì progressivamente ad arginarlo, ma non ne ostacolò la giustificazione teorica (alla fine del XII sec., nei commentari canonici di Teodoro Balsamone); nei periodi di crisi il patriarca e i metropoliti opposero resistenza, ma senza mai perdere la consapevolezza che l'Impero e la Chiesa fossero indissolubili. Nel 1393, quando l'imperatore bizantino non aveva ormai che una parvenza di potere, il patriarca Arsenio IV ancora scriveva che "non era possibile", per ragioni storiche, assimilare "[l'imperatore] ai governanti e ai sovrani locali", né "riconoscere una Chiesa senza riconoscere un imperatore" (Acta et diplomata graeca, 1862, pp. 188-192). La situazione era dissimile in Occidente, dove gli imperatori talvolta si ispirarono alle stesse formule e agli stessi referenti ideologici, ma dovettero fronteggiare realtà politiche e religiose ben diverse: re o principi che entrarono in diretta competizione con loro, e un Papato che ambiva alla plenitudo potestatis e andava configurandosi come uno stato. Il cesaropapismo, in questo contesto, dev'essere ridefinito in rapporto a quanto Böhmer aveva chiamato 'papocesarismo'.

La riforma gregoriana, in effetti, aveva cambiato radicalmente i termini del problema, privando del suo significato la formula equilibrata dei 'due poteri' che insisteva sull'auctoritas sacrata pontificum, superiore in quanto spirituale alla potestas degli imperatori, ma senza che questo primato attribuisse competenza alla Chiesa in qualsiasi dominio e associando l'imperatore, nella sfera che gli era propria, all'esercizio di una sovranità unica. L'inserimento nelle collezioni canoniche a partire dagli anni Ottanta dell'XI sec. e la ripresa nel Decretum di Graziano avevano dato senz'altro al testo di Gelasio un'ampia risonanza e la formula dei 'due poteri' aveva continuato ad essere citata ritualmente, ma le nuove idee stavano imboccando tutt'altra direzione. Se la disputa in merito alle investiture laiche con il pastorale e l'anello può essere spiegata sulla base di uno scrupolo di distinzione, il pensiero riformatore si spingeva molto più in là affermando che il primato della sfera spirituale assegnava ai pontefici il diritto di intervenire nel dominio temporale, poiché i due poteri definivano soltanto la duplice modalità dell'azione senza intaccare né l'unità della società né l'unità di un obiettivo: condurre gli uomini verso la salvezza e instaurare qui sulla terra la città celeste (Ugo di S. Vittore, 1854, II, 2, 3-6, coll. 417-420). I sacerdoti di Cristo dovevano quindi essere considerati "i padri e i maestri dei re, dei principi e di tutti i fedeli" (Gregorio VII, seconda lettera a Ermanno di Metz, 1081, in Gregorii VII Registrum, 1923, pp. 546-562), e l'organizzazione di uno stato pontificio, in questa logica unitaria, doveva dare una base territoriale all'azione riformatrice del Papato, il cui progetto storico non poteva limitarsi al dominio spirituale e alla disciplina ecclesiastica. La teorizzazione di questo progetto e la corretta valutazione delle sue conseguenze sotto i papi Alessandro III e, soprattutto, Innocenzo III facevano trasparire un'opposizione irriducibile tra un Sacerdotium che intendeva manifestarsi come Imperium e un Imperium che tornava a rivendicare diritti nella o sulla Chiesa insieme a una sacralità quasi sacerdotale che collocava l'imperatore al di sopra dei re.

La disputa investì anche titoli e insegne: "Al papa soltanto è consentito l'uso delle insegne imperiali", si leggeva nel promemoria noto come Dictatus Papae (ibid., 1920, p. 204); e il titolo pontificio di Vicarius Petri, che esprimeva unicamente il primato della Sede Apostolica, fu sostituito da Vicarius Christi, che a partire da Costantino il Grande connotò la grande missione cristiana dell'imperatore e che riprese slancio nell'Occidente ottoniano dell'XI sec., in particolare all'epoca della scomunica di Enrico IV. Ma la questione aveva anche un risvolto giuridico: nella seconda metà del XII sec., giuristi e canonisti s'interrogavano sui rispettivi poteri del papa e dell'imperatore, e il decretista Huguccio, nella sua Summa del 1188, operò una cauta sintesi delle loro contraddittorie riflessioni sulla divisione o l'unione di temporale e spirituale; ma la dottrina di Innocenzo III, suo antico discepolo, eliminò queste ambiguità. Il papa deteneva la plenitudo potestatis ‒ un'espressione non nuova che tuttavia fece il suo ingresso nella cancelleria pontificia, e fu adottata dai canonisti, solo nel 1198 ‒ ed era verus imperator. Il richiamo al salmo XLIV, 17 (Tibi tradidit Deus omnia regna mundi) e alla figura di Melchisedec servivano a definire una regalità di Cristo che si trasferiva al suo vicario autorizzandolo a intervenire nella sfera temporale, in particolare nell'Impero. La Deliberatio super negotium Imperii del 1199 e la bolla Per venerabilem del 1202 avvalorano l'idea che l'Impero "dipende dalla [Sede Apostolica] nel suo principio e nella sua fine" (Corpus iuris canonici, II, 1879, IV, 17, 13, coll. 714-716; Regestum Innocentii, 1947, pp. 113-117), perché il papa è all'origine del trasferimento dell'Impero d'Oriente in Occidente, esamina il futuro imperatore prima dell'elezione dei principi e compie in seguito il gesto determinante dell'incoronazione. Il Papato, con l'aiuto dei canonisti, riuscì a far prevalere l'idea che il potere temporale era soltanto delegato all'imperatore da un sovrano pontefice che, di conseguenza, aveva il diritto non solo di scomunicarlo ma di deporlo per indegnità, grave colpa o eresia.

Nel momento in cui Federico II ascese alla dignità imperiale, sotto l'egida dello stesso Innocenzo III, si era già andati molto oltre lo scambio di simboli e la guerra di formule: il Papato e l'Impero rivaleggiavano sullo stesso terreno, con la conseguenza di rendere qualsiasi iniziativa imperiale una provocazione, anche e soprattutto quando l'imperatore invocava la distinzione fra spirituale e temporale. La dottrina pontificia, che mirava per principio a sconfiggere il cesaropapismo, a questo punto adottò lo stesso modo di procedere e attinse al medesimo repertorio di argomentazioni. È in nome dell'unità della cristianità che Giustiniano e tutti gli imperatori cesaropapisti giustificarono la loro intromissione negli affari ecclesiastici e fecero inclinare dalla parte dell'Impero il precario equilibrio tra i 'due poteri'; per la stessa ragione i papi riformatori e i loro successori si fermavano solo nominalmente alla formula gelasiana, e preferivano insistere sul progetto temporale del Sacerdotium. La Chiesa respingeva l'eredità costantiniana su cui si fondava il cesaropapismo, ma a questo punto cominciò a sfruttarla, reinterpretandola attraverso il Constitutum Constantini che conferiva al papa attributi regali, una base territoriale in Italia e un diritto teorico sull'Impero. L'unzione era una pietra miliare di questo sistema ideologico, perché, se ricevuta senza crisma e sacerdote, in Oriente esprimeva il 'mistero dell'Impero' e il legame sacro che univa l'imperatore a Dio, mentre invece, amministrata dalla Chiesa e con il crisma, sottolineava che i soli sacerdoti potevano conferire ai re e allo stesso imperatore la sacralità di cui avevano bisogno. Questa sacralità inoltre era limitata, poiché ormai, come rammentava Innocenzo III nel 1204, all'unzione sul capo dei pontefici, che aveva valore di sacramentum, si contrapponeva l'unzione sulle spalle o sulle braccia dei sovrani laici, un semplice signum che in seguito sarà chiamato sacramentale (De sacra unctione, in Corpus iuris canonici, II, 1879, I, 15, 1, coll. 131-134).

"Scorpione che schizza veleno dal pungiglione della coda […]", "bestia emersa dal mare" (circolare di papa Gregorio IX contro Federico II, Laterano, 1o luglio 1239, in M.G.H., Epistolae saec. XIII, 1883, nr. 750, pp. 646-647, e in Schaller, 1965, nr. 10, pp. 30-31): queste invettive bibliche, che accompagnarono la scomunica di Federico II nel 1239, sono rivelatrici dell'inasprirsi di un conflitto fra il Papato e l'Impero che covava ma sembrava sopito, e dello stupore del Papato di fronte a un imperatore ‒ la cui sottomissione, in un primo tempo, era parsa un fatto acquisito ‒ che opponeva al progetto dottrinale della Chiesa, punto per punto, un'ideologia imperiale per metà ereditata e per metà reinventata e spinta fino alle estreme conseguenze. Federico II trovò senz'altro nei suoi predecessori della casa di Franconia, o nei suoi antenati svevi, grandi modelli di resistenza al Papato, come Enrico IV e Federico Barbarossa, e nei teorici e giuristi imperiali argomenti pronti per l'uso. A Palermo, e anche nella Sicilia normanna così vicina a Bisanzio, aveva imparato che l'imperatore riceveva la corona da Dio, era il capo della sua Chiesa, benediceva il popolo come un vescovo, si faceva precedere da una croce processionale (rimprovero che in seguito gli mosse il cardinale Ranieri da Viterbo) e portava il lòros, simbolo della resurrezione di Cristo: per impregnarsi di quest'ideologia bastava meditare sui sarcofagi di porfido che aveva fatto trasportare da Cefalù a Palermo, e contemplare i mosaici in S. Maria dell'Ammiraglio e nel duomo di Monreale, in cui suo nonno Ruggero II e Guglielmo II erano rappresentati incoronati da Cristo. Ma, sulla scia di questa doppia eredità, il suo tirocinio cesaropapista si svolse ‒ a quanto pare ‒ attraverso successive iniziazioni e la sua ribellione contro la Chiesa procedette secondo tappe calcolate. In effetti, veniva da lontano e il suo avvenire sembrava incerto. Con la fine della reggenza di Innocenzo III e l'ascesa al trono di Sicilia, nel 1208, Federico II dovette affrontare senza indugio il problema di riprendere in mano la cancelleria regia e di resistere all'egemonia pontificia; inoltre si riaccendeva già il conflitto delle investiture episcopali. La sua incoronazione a re di Germania e poi quella imperiale a Roma nel 1220 lo posero di fronte a una procedura ambigua che faceva intervenire il papa sul piano sia spirituale che temporale, ma soprattutto risvegliarono in lui l'idea che Roma non fosse esclusivamente la sede dei successori di Pietro bensì anche la culla dell'Impero e la sua capitale simbolica. Il voto per la crociata pronunciato incautamente ad Aquisgrana e confermato a Roma, era una promessa fatta al papa, quindi un affare che riguardava la Chiesa ‒ come la scomunica con cui Gregorio IX sanzionò nel 1227 le sue presunte tergiversazioni ‒, ma quando nel 1229 Federico si decise, trasformò questa crociata tanto attesa, che doveva svolgersi sotto l'autorità del pontefice, in una clamorosa glorificazione dell'Impero. L'imperatore, che in seguito alle nozze (1225) con Isabella, figlia di Giovanni di Brienne ed erede del Regno di Gerusalemme, era già Fredericus Dei gratia Romanorum imperator semper Augustus, Ierusalem et Sicilie rex, celebrò il suo ingresso nella città di Cristo come una prodezza e un segno del favore divino che lo consacrava nel suo ruolo di capo della cristianità (lettera del 18 marzo 1229). I suoi panegiristi videro in lui un novello Davide prescelto da Dio, la cui dinastia sarebbe sopravvissuta fino alla fine dei tempi. Questi temi, sfruttati con disinvoltura dai retori di Bisanzio, risultano meno anodini trattandosi di un sovrano ancora scomunicato, che attraverso il papa si rivolge a tutti i cristiani dopo essersi posto sul capo la corona di Gerusalemme: conferivano a Federico II, nel sermone pronunciato da Nicola da Bari e nel bassorilievo della cattedrale di Bitonto (Bitonto, cattedrale di), la statura veterotestamentaria propria dei grandi imperatori consapevoli della loro missione. Annunciavano un programma.

Questo programma di restaurazione del potere imperiale, a conti fatti, era scarsamente innovativo. La sua originalità dipendeva soprattutto dalla personalità eccezionale di Federico II e dalla violenta risposta del Papato, la cui dottrina veniva a essere messa in discussione. L'idea centrale secondo cui l'imperatore riceveva il suo potere solo da Dio, ribadita dalla cancelleria a ogni occasione, risaliva alle origini dell'Impero cristiano e affondava le sue radici sia nell'Antico Testamento che nella filosofia ellenistica. Quindi non è necessario chiedersi da dove Federico avesse attinto questo banale topos, ma per quale motivo la sua ripresa nell'Occidente del XIII sec. abbia suscitato un tale scandalo: preso sul serio da un imperatore intraprendente, scalzava, in effetti, uno dei pilastri della riforma gregoriana, vale a dire l'affermazione che ogni sovranità discendeva dalla Chiesa. Allo stesso modo, quando Federico II si faceva chiamare Romanus princeps, […] cooperator [Dei] et vicarius constitutus in terris, era in sintonia con una tradizione immemorabile e non oltrepassava il cesaropapismo inerente al suo statuto imperiale: tuttavia la formula suonava come una smentita del nuovo titolo di Vicarius Dei o Christi portato da Innocenzo III, in quanto Dio non poteva avere due rappresentanti sulla terra. La posta in gioco era importante, perché non solo determinava i legami fra i 'due poteri' ma anche la scelta fra un mondo in cui l'Impero avrebbe conservato, con la propria sacralità, la missione di unificare la cristianità, e un mondo, delineato da Innocenzo III e definito da Innocenzo IV, dove l'Impero avrebbe finito per assimilarsi alla molteplicità dei regna e l'universalismo politico sarebbe tornato al Papato. La storia, del resto, sembrava procedere in questa direzione. L'Impero cominciava a diventare un anacronismo; i giuristi avevano elaborato la massima rex in suo regno imperator che già distribuiva il suo patrimonio ideologico fra i diversi sovrani; i Regni, in particolare la Francia e l'Inghilterra, inauguravano un nuovo tipo di rapporti con Roma. Se il Papato, dopo la morte di Federico II, bloccò per ventitré anni l'elezione imperiale, ciò dipese senza alcun dubbio dalla volontà di impedire che i suoi figli gli succedessero, ma anche perché non gli era sgradito che la funzione imperiale perdesse in tal modo la sua ritrovata vitalità.

La stessa analisi è applicabile ad alcune formule che esprimono una teoria dei rapporti fra Imperium e Sacerdotium, e che devono essere senz'altro attribuite a Pier della Vigna. Il 3 dicembre 1232 Federico II scrisse a papa Gregorio IX: "Vi sono due spade, ma nostra madre Chiesa, fonte della nostra fede, è la loro unica guaina […]. Queste due spade non sono in realtà che una […]. Crediamo fermamente che noi due, [voi] come padre e [io] come figlio, non siamo che uno […]. Spetta dunque a noi, che non siamo che uno e che abbiamo identiche convinzioni, assicurare di concerto la salvezza della fede e restaurare i diritti della Chiesa e al tempo stesso dell'Impero" (Historia diplomatica, IV, pp. 408-411; Schaller, 1965, nr. 4, p. 15). Come la distinzione dei due poteri e il precetto evangelico 'Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio', la metafora delle due spade (Luca, XXII, 38) che in origine era stata usata per assicurare l'indipendenza della Chiesa in relazione all'Impero, a partire dalla fine dell'XI sec. servì unicamente a chiosare la necessità di riunire in un'unica mano, quella dell'imperatore o quella del sovrano pontefice, due poteri la cui distinzione era diventata formale. Pier Damiani: "Che circostanza felice se la spada del Regno si unisse alla spada del Sacerdozio, in modo che la spada del re renda più affilata quella del sacerdote" (Disceptatio, 1988, nr. 89, pp. 542-543, 571-572); Gerhoh di Reichersberg: "Occorre distinguere con il filo della spada tra gli affari ecclesiastici e gli affari reali e secolari" (Opuscolum, 1897, 35, p. 160); Huguccio: "È soltanto da Dio che l'imperatore riceve la sua spada per gli affari temporali, e, per gli affari spirituali, il papa" (glossa a Graziano, Decretum, D.XCVI c.6; v. A.M. Stickler, Der Schwerterbegriff bei Huguccio, "Ephemerides Iuris Canonici", 3, 1947, pp. 210-211); Alano Anglico: "Il Signore ha usato l'una e l'altra spada, e ha saldamente insediato Pietro come suo vicario sulla terra; gli ha dunque lasciato l'una e l'altra spada" (glossa a Graziano, Decretum, D.XCVI c.6; v. A.M. Stickler, Alanus Anglicus als Verteidiger des monarchischen Papsttums, "Salesianum", 21, 1959, p. 362; von Schulte, 1870, p. 89); Tancredi da Bologna: "Mosè ha posseduto l'una e l'altra spada, lui di cui il pontefice è il successore" (von Schulte, 1870, p. 85). Inserita all'interno di quest'antologia la formula di Federico II appare moderata, eppure essa nega nel momento stesso in cui l'afferma la dualità dei due poteri. Infatti l'imperatore insiste, in questo passaggio e in molti altri, sulla loro originaria unità, sulla loro sostanziale identità e sulla loro solidarietà in un'azione salvifica la cui iniziativa spetta principalmente all'imperatore, responsabile quanto il papa di questa congregatio fidelium che è la Chiesa. Un'altra metafora tradizionale, quella delle due luci (v. Luminaria, duo), destinata a rendere conto dei rapporti fra i due poteri, e ripresa in seguito da Dante nel De monarchia, diede origine a interpretazioni contraddittorie che tendevano a stabilire o a negare il carattere intrinsecamente sacro della funzione imperiale: la Chiesa e l'Impero, come il sole e la luna, sono stati entrambi creati da Dio per intervenire nell'equilibrio del mondo, a livelli gerarchici differenti, ma essendo dotato ciascuno di una propria funzione. Questo parallelo fu molto apprezzato da Innocenzo III e dai suoi successori, i quali ne deducevano che l'imperatore in rapporto al sovrano pontefice si trovava nella stessa posizione della luna che deve la sua luminosità al sole; Federico II preferiva sottolineare che le due luci erano indipendenti l'una dall'altra e non si intralciavano reciprocamente nel loro corso, e rimproverava a Gregorio IX di infrangere l'ordine della natura intendendo con la sua sola volontà provocare l'eclissi dell'Impero (lettera di Federico II ai cardinali, luglio 1239, in Historia diplomatica, V, p. 348, e in Schaller, 1965, nr. 11, p. 41).

Questa guerra delle immagini è significativa, ma su quali prove più concrete potrebbe fondarsi il rimprovero di cesaropapismo? Federico II non pensava senz'altro, come si è preteso, di costruire una 'Chiesa imperiale', o addirittura una nuova religione di cui egli sarebbe stato il Messia e Pier della Vigna il nuovo capo. L'espressione imperialis ecclesia, che non si incontra negli scritti ufficiali, non annuncia la creazione di una Chiesa dissidente; Pier della Vigna è assimilato all'apostolo Pietro solo da uno o due adulatori; che i retori ellenofoni della cerchia dell'imperatore abbiano paragonato la venuta di Federico II a quella di Cristo e che lo stesso Federico abbia celebrato Iesi, sua città natale, come una nuova Betlemme (agosto 1239), dipende unicamente da una retorica vagamente blasfematoria. Furono le Costituzioni, pubblicate a Melfi nell'agosto 1231 e chiamate più tardi Liber Augustalis, a fornire la prima e più chiara manifestazione di un universalismo per il quale la Chiesa si adombrò legittimamente, anche se Federico II, una volta di più, seguiva la tradizione attingendo le idee e le parole di un preambolo molto solenne dalla Bibbia, dal diritto romano o dal diritto canonico, e dai proemia delle raccolte giuridiche bizantine dell'VIII-X secolo. Collocandosi, come aveva fatto Barbarossa, nel solco del diritto imperiale romano e della codificazione giustinianea, si muoveva nella stessa direzione dei civilisti, ma andava contro il paziente lavoro dei canonisti bolognesi al servizio della politica pontificia che, alla fine dell'XI sec. e nel XII, moltiplicarono le collezioni canoniche e le raccolte di decretali coltivando l'ambizione di fondare un 'diritto nuovo'. Graziano non aveva scritto nel suo Decretum: "Constitutiones vero principum ecclesiasticis constitutionibus non preminent sed obsecuntur" (Concordantia discordantium canonum, D.10 tit., v. anche D.9 c.11 in Corpus iuris canonici, I, 1879, coll. 18-19)? Gregorio IX non si ingannava sulle intenzioni dell'imperatore, che tentò invano di distogliere dal suo progetto avvertendolo che rischiava di essere considerato il persecutore della Chiesa e il distruttore delle libertà pubbliche. Nella buona tradizione giuridica e retorica romana, malgrado le Costituzioni di Melfi avessero validità per il solo Regno di Sicilia, Federico II si proponeva come fonte unica di un diritto universale e come "lex animata in terris, iustitie pater et filius, dominus et minister" (Const. Pr. e I, 31, in DieKonstitutionen Friedrichs II., 1996, pp. 145-148, 185; lettera dell'aprile 1232, in Acta Imperii selecta, 1870, nr. 299, p. 264; lettera ai romani, gennaio 1238, in Historia diplomatica, V, p. 162 e in Schaller, 1965, nr. 7, p. 19-20; Encyclica contra depositionis sententiam, luglio 1245, in M.G.H., Leges, 1896, nr. 262, p. 365 e in Schaller, 1965, nr. 17, p. 64). Questa ripresa dell'antico paradosso dell'imperatore 'legge vivente', quindi 'non soggetto alle leggi', ma intenzionato a sottomettersi a esse per essere un sovrano legittimo, non era del tutto innocente, perché poco dopo fu riutilizzata nel divampare della polemica svuotandola del suo significato. Lo stesso Federico diede alla sua iniziativa un rilievo eccezionale inaugurando proprio allora una serie di titoli trionfali, lanciando un'emissione monetaria che esibiva la legenda Imperator Romanorum Caesar Augustus e facendo seguire alle Costituzioni, nel marzo 1232, la ripresa, il rafforzamento e l'estensione a tutto l'Impero delle leggi contro gli eretici che aveva promulgato come re di Sicilia. L'imperatore cessava di essere il 'braccio armato della Chiesa' per diventare il legislatore del mondo cristiano.

Sul problema delle investiture laiche, altra pietra di paragone del cesaropapismo, Federico non era il primo imperatore a scontrarsi con il Papato; ma il lungo conflitto precedente aveva perso parzialmente d'intensità, in quanto i sovrani avevano in genere rinunciato a considerarsi gli unici signori della loro Chiesa riconoscendo alla Sede Apostolica il diritto di investitura con il pastorale e l'anello. Il dibattito si riaccese, in buona parte, perché il confine fra i due poteri si era fatto incerto e il Papato stava cercando di trasformare il Patrimonium Petri in Stato della Chiesa e di affermare la sua tutela temporale sulla Sicilia e l'Italia, mentre l'imperatore dava corpo al suo grandioso progetto di unificare l'Italia. Quando rimise in discussione l'accordo concluso fra sua madre Costanza e papa Celestino III, Federico II non fece altro che riprendere le cattive abitudini dei suoi antenati, come scrisse papa Onorio III. Quando smise di riconoscere la Marca di Ancona e il ducato di Spoleto come distinti dall'Impero, affermava la sua volontà di controllo sul Regnum Italicum, ma ancora la Chiesa conservava la speranza di negoziare con lui come nel 1230 a San Germano. Tutto cambiò dopo la vittoria di Cortenuova su Milano e la Lega lombarda nel novembre 1237, che fece compiere un passo in avanti al culto imperiale e accentuò la deriva cesaropapista. Siamo ormai molto lontani dal problema giuridico e canonico delle investiture. Dietro la fascinazione per Roma, i suoi titoli e il suo cerimoniale, si indovina un progetto di renovatio che avrebbe fatto della capitale antica, grazie a un ritorno alle origini, la sede dell'Impero, lasciando al successore di s. Pietro unicamente il potere spirituale e la vocazione alla povertà. Il corteo che accompagnò il carroccio dei milanesi sconfitti perché fosse trasportato sul Campidoglio fu avvertito da Gregorio IX come una provocazione. La scomunica lanciata il 20 marzo 1239 contro Federico II, che sorprende per la violenza dei toni e l'esilità o l'assurdità delle accuse, si spiega piuttosto alla luce del timore di un colpo di mano su Roma. Prima e dopo la scomunica Federico II moltiplicò gli appelli all'antica nobiltà della città di Roma (gli Orsini, i Poli, i Frangipane, i Malabranca) e ai cardinali, ribattezzati 'senatori', affinché abbandonassero un papa indegno e si associassero al grande disegno imperiale. Il controllo dell'imperatore sull'Italia e sul suo clero in seguito non fece che rafforzarsi e la minaccia su Roma assunse contorni più netti: prima della morte di Gregorio IX, per impedire che si tenesse un concilio convocato contro l'imperatore nel 1241 (due cardinali, tre arcivescovi e cento prelati furono arrestati in questa circostanza e imprigionati da Federico II in Puglia), e dopo la morte del papa, per ritardare e poi controllare la nomina del successore, Innocenzo IV, ritenuto più conciliante, che tuttavia fuggì a Civitavecchia e poi a Genova e a Lione, da dove lanciò una nuova scomunica associata alla deposizione confermata da un concilio nel giugno 1245.

Queste ambizioni territoriali e queste violenze non rientrano in senso stretto nella definizione di cesaropapismo, concetto che, è opportuno ricordarlo, va valutato in rapporto alla distinzione tra spirituale e temporale. Ora, questa distinzione non ha più senso. Gregorio IX rimosse i prudenti limiti posti da Innocenzo III al diritto di scomunicare e deporre gli imperatori; Innocenzo IV, che nel suo Apparatus super quinque libros decretalium ‒ composto prima di salire al soglio ‒ prevedeva che il sovrano pontefice potesse sostituirsi alla giurisdizione laica per ragioni di ordine morale, affermò nella bolla Eger cui lenia, pubblicata subito dopo la scomunica del 1245 (ammesso che sia autentica), che scomunicando e deponendo l'imperatore per motivi puramente temporali il papa non faceva altro che esercitare la sua "monarchia non solo pontificia ma regale" e la "delega generale" (generalis legatio), vale a dire la sovranità indivisibile che gli era stata accordata non da Costantino ma da Cristo stesso (Acta Imperii inedita, II, nr. 1035).

All'acme del conflitto, ci si aspetterebbe di trovare nelle bolle di scomunica, nelle risposte con cui Federico II controbatte, o negli scritti polemici che le accompagnano, argomentazioni solide sui diritti o le usurpazioni dell'imperatore nel dominio ecclesiastico. Invece questo non accade: Federico II si limitava alla dialettica poco convincente delle due spade, metteva in guardia re e principi dalle ambizioni di un papa che minacciava il loro potere (lettera circolare del 20 aprile 1239), dichiarava di non rinvenire in alcuna legge divina o umana che il papa avesse il diritto di trasferire gli imperi a suo piacimento, di punire i re nella sfera temporale privandoli del loro regno o di giudicare i principi (lettera circolare contro Innocenzo IV del 31 luglio 1245). Le idee dottrinali facevano difetto allo stesso modo sul fronte pontificio, dove si insisteva, tra accuse insensate, sui molteplici attentati perpetrati dall'imperatore ai danni del patrimonio e dei diritti temporali della Chiesa (lettera circolare di Gregorio IX, 1o luglio 1239, rapporto di Ranieri da Viterbo al concilio di Lione e giustificazione di Innocenzo IV per la deposizione di Federico II, luglio 1245). Non si riscontrano che pochi elementi sparsi suscettibili di alimentare un vero 'processo per cesaropapismo': l'accusa di aver voluto abrogare il privilegio di unire e sciogliere in quo utique auctoritas et postestas ecclesie Romane consistit, quella di aver distrutto o secolarizzato chiese o monasteri e di aver profanato immagini e reliquie. Federico II, in questa prospettiva, è collocato nella linea 'sulfurea' degli imperatori iconoclasti dell'VIII e IX secolo. E appartiene allo stesso repertorio dell'iconoclastia, eresia imperiale per eccellenza e manifestazione di puro cesaropapismo, il paragone biblico con Ozia re di Giuda che volle riunire nella sua persona la funzione sacerdotale e la funzione religiosa, o anche l'immagine onnipresente dell'imperatore Anticristo o precursore dell'Anticristo (v.), che non dispiaceva ‒ così si dice ‒ a Federico II, ma senza l'allusione a Melchisedec sacerdote e re, che dava per tradizione alla condanna dell'eresia cesaropapista un fondamento esegetico e una prospettiva ecclesiologica. Se ne comprende agevolmente il motivo, in questo nuovo contesto in cui si affrontano un re-sacerdote e un sacerdote-re.

Federico II fu screditato da Gregorio IX e da Innocenzo IV anche in ragione delle sue simpatie per gli empi saraceni e i greci scismatici, trasformate in prove di apostasia e di eresia. Questi eccessi hanno perlomeno il merito di richiamare l'attenzione sulle influenze orientali, dirette o indirette, che conferiscono un tono particolare a quest'ultima germinazione del cesaropapismo in Occidente. È difficile precisarne l'importanza. Le conversazioni dell'imperatore con il sultano al-Malik al-Kāmil e soprattutto con l'emiro Fakhr al-Dīn, durante il soggiorno a Gerusalemme nel 1229, si concentrarono sulla matematica, la fisica e la storia naturale piuttosto che sulla religione o la politica. Tutt'al più Federico II ne ricavò la conferma che il sistema dinastico che regolava la successione nel califfato fosse preferibile al sistema elettivo dell'Impero e che un regime autocratico senza un contropotere ecclesiastico evitasse un gran numero di difficoltà. I rapporti con Bisanzio, meno esotici, sono più illuminanti. In gran parte passarono attraverso la Sicilia: infatti, malgrado la latinizzazione progressiva degli italo-greci, nella Magna Curia rimanevano parecchi notarii greci e nella cerchia dell'imperatore scrittori ellenofoni (Giovanni da Otranto, Nicola da Casole, Nicola da Otranto, Giorgio di Gallipoli), i quali nelle lettere, nei panegirici o nei pamphlets adoperavano con destrezza i temi e il vocabolario di un cesaropapismo soprattutto letterario, in uso a Costantinopoli o a Nicea. Ma alcune lettere di Federico II indirizzate a Giovanni III Vatatze, imperatore di Nicea, conservate in latino o in greco, testimoniano di relazioni più dirette e di preoccupazioni più propriamente politiche. L'imperatore germanico, sebbene consapevole della sua superiorità, si rivolgeva a Giovanni come a un imperatore d'Oriente. Aveva con lui legami di parentela poiché Vatatze nel 1241 era diventato suo genero ‒ un'alleanza aspramente deplorata dal papa ‒ ma a ciò si aggiungeva un'affinità ideologica che ravvisava nella Curia romana il nemico comune. Nella seconda delle lettere in greco (maggio 1250), Federico II si stupiva dei maneggi tra la Santa Sede e un Impero greco che Roma denunciava come eretico, e raccomandava a Giovanni di non ricevere Francescani e Domenicani, sospettati di complottare contro l'Impero: il papa è un falso profeta e i prelati sono lupi famelici; ai devoti Rômaioi, da sempre fedeli all'ortodossia, erano contrapposti gli "apostati della fede e fomentatori di scandali" (Quattro lettere, 1974-1975) della Chiesa latina. Il redattore siciliano conosceva perfettamente il vocabolario bizantino della polemica antilatina. Ma è la prima lettera in latino (1238?) a meritare la maggior attenzione. Evocava, con toni più personali, il dissidium permanente tra i veri cristiani d'Occidente e i capi della loro Chiesa, per concludersi con quest'esclamazione: "O felix Asia, o felices orientalium potestates que subditorum arma non metuunt et adinventiones pontificum non verentur!" (Historia diplomatica, VI, pp. 685-686), come se Bisanzio fosse al riparo dalle "armi dei sediziosi e dalle macchinazioni dei pontefici" che turbavano l'Occidente, come se il sogno autocratico di un imperatore cristiano non potesse realizzarsi altro che in Oriente.

Per meglio denunciare la 'teocrazia' pontificia si è cercato, nel solco della Riforma, di raffigurare Federico come un eroe della resistenza contro il Papato e, in modo ancor più opinabile, come un precursore della modernità, difensore di un ideale di equilibrio fra temporale e spirituale a cui Dante avrebbe dato in seguito un'enorme risonanza. Il bel libro di Kantorowicz aggiunge a questa proiezione dell'ombra del grande imperatore sul futuro anche una brillante analisi psicologica, e tenta di dimostrare la coerenza di un pensiero politico che sembra articolarsi, in un primo tempo, intorno all'idea di un 'impero di giustizia' precorritore dello stato laico (all'epoca delle Costituzioni di Melfi), per poi evolvere ‒ sotto l'influsso della spiritualità francescana e di un millenarismo diffuso ‒ verso quella di un imperatore messianico, designato da Dio per essere il suo 'flagello', per purificare e ringiovanire la Chiesa, e instaurare qui sulla terra l'età dell'oro. Quest'interpretazione è stata criticata in particolare da quegli storici che, a buon diritto, vedono in Federico II l'ultimo degli imperatori del Medioevo e il degno erede degli Hohenstaufen piuttosto che un sovrano rinascimentale. Uno spoglio più accurato delle fonti e dei riferimenti adoperati dall'imperatore oggi consente di comprendere meglio che il cesaropapismo di Federico II non era una teoria ben definita, ma una lenta costruzione in cui intervennero influenze ed eredità diverse (germaniche, normanne e orientali), modelli eterogenei (antichi, biblici, bizantini, forse francescani e millenaristi), nozioni giuridiche di antica o più recente tradizione, retorica che è stata presa alla lettera. Sono innanzitutto la fede nel proprio destino e una personalità sfolgorante a dare coesione e forza a quest'insieme di elementi di-sparati. Ed è stata senz'altro la politica della Santa Sede, arroccata su posizioni estreme, a trasformare una restaurazione della funzione imperiale, nello spirito degli Hohenstaufen ‒ o, in una prospettiva più remota, di Costantino il Grande e di Bisanzio ‒ e con quella buona dose di cesaropapismo intrinseca all'idea di Impero, in uno scontro fra due assolutismi e due universalismi che non sono più nemmeno in grado di distinguere fra temporale e spirituale. La coabitazione, a questo livello, non era più possibile e il dualismo dei 'poteri' o delle 'spade' diventava impensabile.

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(traduzione di Maria Paola Arena)

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