VIOLA, Cesare Giulio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 99 (2020)

VIOLA, Cesare Giulio

Paolo Puppa

– Nacque a Taranto il 26 novembre 1886 da Caterina Cacace, figlia di un ricchissimo banchiere di origini napoletane, e da Luigi, di Galatina nel Leccese, professore di greco e latino, poi fondatore del Museo archeologico di Taranto (con regio decreto del 1887) e ispettore archeologico con importanti scoperte all’attivo.

Lo stesso Luigi, che ebbe sei, tra fratelli e sorelle, fra cui Ettore, padre di Sandro, giornalista e tra i fondatori di Repubblica, entrò spesso nell’opera del figlio, anche per l’instabilità drammatica della sua posizione sociale: sindaco di Taranto nel 1890-91, dopo sfortunate iniziative economiche, morì infatti da solo e in miseria nel 1924 a 73 anni.

All’anagrafe, in omaggio al grande condottiero romano, il nome del futuro scrittore recitava Giulio Cesare: appena possibile si affrettò a invertirne l’ordine per alleggerirlo, anche se poi, divenuto ormai famoso negli ambienti teatrali, si fece chiamare Cecé. Di stazza minuta, con il colletto della camicia inamidato alto almeno otto centimetri, a sentire i ricordi di Lucio Ridenti (Il dramma, 1958, p. 4), tenne sempre all’estrema eleganza del vestiario, segno di appartenenza a una provincia colta. E gli occhi scuri nel volto bruno ne confermavano la geografia originaria. Da adolescente seguì il padre impegnato nelle visite e negli studi presso i musei siciliani e napoletani. Si trasferì a Roma, dove nel 1904 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, dalla quale però, senza avere completato il corso di studi, chiese quindici anni più tardi il trasferimento all’Ateneo di Napoli.

Durante la prima guerra mondiale, fu aviatore nelle neonate squadriglie del Mediterraneo, piazzato in un idrovolante armato di radio e di mitragliatrici. Guidare velivoli anche in tempo di pace fu il suo passatempo, assieme alla pittura amatoriale.

Dopo la guerra, Viola conobbe a Roma Vittoria, della famiglia dei principi Pignatelli della Leonessa, e la sposò il 26 novembre del 1920, nonostante l’esplicita avversione della famiglia di lei. Il matrimonio si rivelò tanto solido da resistere al momento in cui il commediografo confessò alla moglie di attendere un figlio dall’attrice Elsa Merlini.

La nobildonna, condannata fisicamente alla sterilità, permise che lui lo riconoscesse, a condizione che il bimbo restasse lontano da loro. Il piccolo Luigi venne di fatto allevato dalla zia paterna Livia, sposata a Vincenzo Coppola, e con i due si trasferì in Brasile, mantenendo con il padre contatti solo epistolari.

Critico teatrale in varie testate romane, tra cui la terza pagina della Tribuna, Viola divenne nel 1926 redattore capo della Nuova Antologia, incarico che conservò sino al 1931. Esordì con un fugace assaggio poetico, L’altro volto che ride (Napoli 1909): serie di dieci poemetti articolati in stanze, impregnati di spiritualismo e di romanticismo tardoottocentesco alla Arturo Graf da un lato e di simbolismo dannunziano, persino con qualche timida assonanza criptofuturista, dall’altro. In seguito, si cimentò nella narrativa con un volume di novelle, Capitoli (Milano 1922), agile e spigliato in situazioni differenziate e caratteri tratteggiati di scorcio (poi in parte ripreso nei racconti di Perché?, Roma 1946), e soprattutto con un romanzo che lo lanciò sulla ribalta nazionale, Pricò (Milano-Roma 1924). Tradotto pure in molte lingue, narra una storia depressiva: il dissidio coniugale con tradimento di lei e suicidio di lui, visto dagli occhi del figlio, che cresce (il titolo significa in effetti «precoce» nel dialetto salentino) attraverso lutti e traumi. Fu la volta quindi, con minore risonanza, e molto spostati in avanti, di Quinta classe (Milano 1953), sulla sua esperienza scolastica al liceo tarantino Archita, e di Pater: il romanzo del lume a petrolio, dalla lunga e tormentata stesura (Milano 1958), uscito nell’anno della morte, biografia devota centrata appunto sul genitore, e messo in relazione con sessant’anni di storia nazionale.

Ma fu la drammaturgia il territorio privilegiato di Viola, con almeno una trentina di testi, di larga circolazione, richiesti dalle ditte primarie più garantite dal box office. Venne inserito nel gruppo dei crepuscolari e intimisti, ovvero Fausto Maria Martini, Guglielmo Zorzi, Guido Cantini e Cesare Vico Lodovici, per intenderci, ma si distinse con una sua cifra personale.

Il vero debutto teatrale avvenne nel 1907 allorché all’Argentina di Roma Edvige Reinach e Amedeo Chiantoni portarono Mattutino, delicato atto unico scritto con Martini e centrato su due vecchi nonni visitati e scandalizzati dalla nipote che ripete alla fine gli atteggiamenti trasgressivi della madre. Nel 1915 seguì L’ombra, cofirmata assieme a Luigi Antonelli e affidata alla compagnia Reiter-Carini, cupa vicenda di un avvocato che sposa – dopo averla fatta assolvere – una donna accusata di aver ucciso il marito, per poi perdersi in una gelosia retroattiva e in dubbi devastanti.

In generale, Viola si vuole partecipe del proprio tempo, calato a osservare il reale, metodo da lui definito «presentismo» (Scorrano, 1996, p. 209), in cui collocava del resto anche Luigi Pirandello, ai suoi occhi autentico sismografo della società italiana di quegli anni e stimato soprattutto per i legami con la sua terra.

Di fatto, puntò alla rappresentazione della vita borghese quotidiana tra le due guerre, di là dai trionfalismi di facciata del fascismo. E osò mostrare, pur con inevitabile prudenza, un destino di mediocrità senza via di uscita, con una verbosità dialogica avvocatesca, non sempre trattenuta. E non mancavano mai colpi di scena, con adulteri e pentimenti, vedi La donna dello scandalo del 1927, dove l’amante si rivela uno squallido ladro. Altre volte, invece, la figura femminile si erge ad angelo domestico, votato al sacrificio di cui solo gli spettatori erano consapevoli, come in Quella del 1933, in cui Emma Gramatica recitò la parte di una madre sofferta, nonché vedova, costretta dal suocero altolocato, contrario alle nozze del figlio con una ex canzonettista, a lasciargli i figli pur di vederli crescere nel benessere. Una versione televisiva del testo venne diretta nel 1957 in Rai da Guglielmo Morandi, con una magnetica Lilla Brignone. Lo scrittore avrebbe voluto antologizzare in una raccolta dal titolo Commedie dell’istinto quest’ultimo dramma, assieme ad altri: Il giro del mondo del 1931, affidato all’estro misurato sempre di Gramatica, genitrice mal maritata costretta a vendersi al direttore della banca in cui il figlio impiegato ha rubato, con tanto di scena straziante per la relativa confessione, prelevata allo stile Niccodemi; Stratosfera, del 1935, dove un anziano scrittore, affidato a Luigi Carini, rinuncia nobilmente alla sua giovane amante (Maria Melato), lasciandola al passionale poeta (Febo Mari) che s’è messo in casa; La ronda di notte del 1932, con Tatiana Pavlova e diretta da Anton Giulio Bragaglia, ambientata in un lupanare con brigadieri corrotti ed etere che muoiono, salvo poi comunicare dall’aldilà, spettacolo interrotto dalla questura e dagli schiamazzi irritati in sala dopo poche repliche; infine, L’Inferno del 1937, in cui Gramatica e Memo Benassi sono rispettivamente la consorte vittima e il marito usuraio acceso nei sensi per la serva al punto da mandare la moglie in manicomio, per poi pentirsi in un finale edulcorato. L’autore avrebbe avuto buon diritto, in un simile progetto, dal momento che l’intera sua drammaturgia appariva tesa a far salire la tensione tra i suoi personaggi, evitando però l’esplosione.

Il nucleo familiare poteva ospitare varianti virtuosistiche sul triangolo, come in Vivere insieme del 1939 con la ditta Ricci-Adani, dove una donna inquieta, dopo la sbandata, si macera tra marito e amante che la sorprendono di continuo tra gesti egoisti e generose offerte d’amore. Si arriva anche a orrori e oscure pulsioni incestuose. Ad esempio, in Canadà del 1933, l’amante di una signora corrotta si incapriccia della figlia di quest’ultima, il tutto rivelato dai due innamorati alla moglie e insieme madre disperata in una sequenza di forte impatto nel secondo atto. Oppure può essere un figlio illegittimo nato fuori casa, con qualche rimando alla pirandelliana La ragione degli altri, ma dal sapore altresì autobiografico, a corrodere il fragile equilibrio del nucleo coniugale, come in E lui gioca! del 1936, con un bimbo che seguita a giocare mentre intorno a lui tre adulti si tormentano.

Trionfale fu l’esito, a partire dal 1925, di Il cuore in due, portato in giro per anni dalla russa italianizzata Pavlova anche in America. Qui, due fratelli scrittori vedono il loro rapporto artistico incrinarsi all’arrivo di un’ammiratrice, di cui entrambi si innamorano, finché il più giovane si sacrifica per l’altro. Renato Simoni annotò a tale proposito che l’autore sapeva portare in scena «uomini quasi impeccabili e passioni temperate» (Trent’anni di cronaca drammatica, 1951-1958, II, 1954, p. 381). Successo non ripetuto l’anno successivo con il citato La donna dello scandalo, ancora con Pavlova. Tra le tante star del tempo che si contendevano i suoi titoli, emerse Ruggero Ruggeri quale suo interprete fedele, raggiungendo forse gli esiti più convincenti nel tardivo In nome del padre (1952), febbrile nei panni insoliti di un monsignore, dal torbido passato di marito fedifrago, che cerca di convincere la figlia a non divorziare. Dispiegò pure una capacità indubbia nel contrasto tra tipologie umane opposte, come in Gavino e Sigismondo del 1940, con la compagnia Maltagliati-Cimara-Ninchi. Qui, un timido intellettuale porta via la donna, una comparsa cinematografica, a un rozzo e sensuale pugile. Mostrava altresì sensibilità sociali in Poveri davanti a Dio del 1947, con uno sguardo coraggioso sui disastri provocati dalla seconda guerra mondiale. Sorprese per doti insospettate di comicità, sia pure in tematiche sofferte, come in Salviamo la giovane del 1951, compagnia Bagni-Cimara, con un professore universitario epurato, il figlio reduce dai campi di concentramento e la moglie del primo che si finge benefattrice per risollevare invano il rango della famiglia.

Viola fu abile nel rifacimento di storie antiche, firma di altri autori, specie classici, come nell’apprezzata Nora seconda del 1955 con Lida Ferro, tre mesi in cartellone, dove l’eroina ibseniana si mostra vent’anni dopo pentita delle proprie scelte e nostalgica del ruolo di moglie/madre ricusato in gioventù.

Nel 1938 Viola scrisse inoltre i dialoghi per il film Luciano Serra pilota di Goffredo Alessandrini, e soggetti e sceneggiature cinematografiche, tra cui il coevo Napoli d’altri tempi di Amleto Palermi, e Turbine di Camillo Mastrocinque. Di gran risalto quella nel 1943 per I bambini ci guardano di Vittorio De Sica, tratto dallo stesso Pricò. Nel 1946, collaborò a Sciuscià di Cesare Zavattini e De Sica, che concorse nel 1948 all’Oscar quale migliore sceneggiatura originale. Da sottolineare come per lo schermo, almeno nei casi migliori, la lingua si snellisse rispetto alla già vista tendenza ad allungarsi della battuta teatrale.

Tuttavia, nel secondo dopoguerra, Viola patì come gli altri autori italiani un drastico ridimensionamento di attenzione, nella decisa sprovincializzazione dei repertori, oltre alla nuova presenza di registi ostili ad autori nostrani. Pagò anche in parte il fatto di avere avuto un ruolo di spicco nel sindacato fascista scrittori e autori. Nel 1928 si era affiliato al gruppo letterario dei Dieci, sotto l’egida di Filippo Tommaso Marinetti e benedetto dal duce. Ma nel 1937 la censura del regime vietò l’uscita alla ribalta del suo copione Giappone, mentre nel 1940 il suo Re Tabor, interpretato da Renzo Ricci, mostrò ambiguamente le ragioni della pace oltre che quelle della guerra.

Nel 1952 si candidò per il Partito liberale italiano (PLI), senza venire eletto. Nel 1955 il suo Venerdì santo fu insignito con il premio Napoli (nel 1950 aveva conseguito anche l’IDI-Saint Vincent, premio assegnato dall’Istituto del dramma italiano).

Scritto per Gramatica che lo volle portare in scena all’indomani della morte dell’autore, il dramma mette in bella mostra, durante la processione della festa locale, la ferocia e l’ipocrisia della famiglia borghese perbenista contro una parente caduta nella prostituzione, cui si riserva solo il foglio di via.

Morì il 3 ottobre del 1958, in una delle sue ville a Positano, residenza estiva, per un incidente, cadendo dalla seggiola sulla terrazza e sbattendo la testa.

Stava lavorando alla revisione dell’ultima sua opera, Candido, che riprendeva il motivo ossessivo del figlio nato fuori da una coppia sterile. Venne sepolto nella cappella di famiglia Pignatelli nel cimitero del Verano a Roma. Nel 2008, un suo nipote, figlio della sorella Bianca, Cosimo Cinieri, autorevole attore teatrale sperimentale, anche lui tarantino (morto nel 2019), tenne un recital nella città natale Ciao, Cecè... dalla penna di Cesare Giulio Viola, rapsodia per Taranto con fisarmonica, tammorra e banda, drammaturgia e regia di Irma Immacolata Palazzo.

Opere. Per la produzione narrativa: L’altro volto che ride, Napoli 1909; Capitoli, Milano 1922; Pricò, Milano-Roma 1924; Perché?, Roma 1946; Quinta classe, Milano 1953; Pater. Il romanzo del lume a petrolio, Milano 1958. Le commedie furono per lo più ospitate in riviste: in particolare in Comoedia e quindi ne Il Dramma (che gli dedicò il n. 266 nel 1958 per la morte); altre apparvero separatamente in volume e nella Biblioteca teatrale moderna della Mondadori.

Fonti e Bibl.: Presso la Biblioteca Museo teatrale SIAE (Società Italiana degli Autori ed Editori), in Roma, si conservano copioni, sceneggiature, recensioni teatrali, cronache radiofoniche, articoli e racconti (interessante, a mezzo tra narrativa e divagazioni diaristiche, Il brogliaccio, che raccoglie pagine sparse e annotazioni occasionali).

Utili considerazioni e valutazioni di Viola sulla drammaturgia, dalla fine Ottocento ai contemporanei, sono contenute in Il teatro italiano esiste. Panorama di oltre mezzo secolo, in Teatro, II (1950), pp. 36-39. Si vedano le puntuali e opportune, dense recensioni di Renato Simoni in Trent’anni di cronaca drammatica, I-V, Torino 1951-1958, ad vocem. Inoltre: L. D’Ambra, Ritratti letterari: C.G. V., in Comoedia, XI (1929), 8, pp. 23 s.; E. Possenti, C.G. V. e il suo teatro, in Il Dramma, XXXIV (1958), n. 266, pp. 5-13; L. Scorrano, Il polso del presente. Poesia, narrativa e teatro di C.G. V., Modena 1996; P. De Stefano, C.G. V. narratore e romanziere, Taranto 2008.

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