DURAZZO, Cesare

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 42 (1993)

DURAZZO, Cesare

Maristella Cavanna Ciappina

Nacque a Genova nel 1593 (fu battezzato il 26 giugno), penultimo dei sette figli di Pietro e di Aurelia Saluzzo di Agostino, duca di Garigliano.

Degli otto dogi che nel corso di due secoli la famiglia Durazzo diede alla Repubblica, ben quattro sono ascendenti o discendenti del D., oltre a lui stesso: si può quindi ben dire che egli appartenne al ramo ducale per eccellenza dei Durazzo. Furono dogi il nonno Giacomo nel 1573-75 (il vero artefice della fortuna politica della famiglia), il padre Pietro nel 1619-21; il figlio Pietro (fautore del riavvicinamento alla Francia) nel 1685.87 e il nipote Stefano nel 1734-36. Dei fratelli del D., Giacomo, dotato di qualche virtù letteraria, mori ventiseienne nel 1613; Maria e Cassandra furono spose rispettivamente di un Menghi di Forli e di Bernardo Garbarino; Battista e Nicolò ebbero numerosa prole e presero parte attiva alla vita politica; Stefano infine fu cardinale, pugnace e discusso arcivescovo di Genova.

Anche se questa linea dogale ha forse inciso meno, nella vita economica e culturale genovese, di quella discendente da suo zio Agostino, il D. dimostrò una forte personalità politica e una vasta competenza in vari campi, da quello diplomatico a quello economico, dall'amministrativo al giuridico al militare, lasciando l'impressione di una grande quantità di energie, profuse sempre con polemica generosità.

Secondo la tradizione familiare, il D. ricevette una accurata educazione umanistico filosofica: compi gli studi superiori a Milano, approfondendo la logica e la metafisica probabilmente presso le scuole "Arcimboldi", tenute dai barnabiti. Gli interessi letterari della giovinezza restano documentati da una raccolta di poesie latine in onore del cardinale Domenico Rivarola composte dal D. e pubblicate a Milano nel 1612 dal Paganelli in un volume insieme con alcuni trattatelli di filosofia del cugino Marcello Durazzo.

Tornato a Genova al termine degli studi, il D. venne ascritto al Libro d'oro della nobiltà il 24 nov. 1614. Dopo pochi anni intraprese il cursus honorum consueto per i giovani nobili: nel 1622, con Alessandro Spinola, fu incaricato dal governo di distribuire le elemosine raccolte a Genova ai poveri della Riviera di Levante (misura abilmente propagandistica in un momento in cui, a causa della guerra savoiarda, era fondamentale mantenere la fedeltà del dominio); quindi, alla fine dell'anno, facendosi più pesante la situazione militare, anche il D. venne arruolato come capitano insieme con altri trenta giovani del patriziato, cui era commessa la difesa di Genova e delle Riviere. Il D. fu inviato nella Riviera di Levante per presiedere all'arruolamento, per quasi tutta la durata del conflitto; poi (1625) fu messo a disposizione del cardinale F. Barberini, affinché lo accompagnasse in Francia con una galea genovese, secondo gli ordini di Urbano VIII, che lo aveva inviato a mediare la pace con la Spagna.

Alla fine del 1627, dopo la fine delle ostilità dovute al mutamento di campo dei Savoia, il D. venne mandato a reggere il capitanato di Chiavari, e fu probabilmente al suo ritorno a Genova e negli anni immediatamente successivi che si schierò coi gruppi nobiliari dei "giovani".

Questi; di fronte al rovescio del '27 (al pericolo militare si era più tragicamente aggiunto il rifiuto spagnolo di pagare le enormi somme dovute al sistema finanziario genovese, con la minaccia della rovina economica della città), si fecero apertamente sostenitori di una più esplicita politica di autonomia dalla Spagna e di una "rifondazione" del Prestigio dello Stato, attraverso riarmo marittimo e ripresa dei commerci.

Significativamente, proprio tra il 1628 e il 1630, negli anni di maggiore combattività del gruppo, il D. entrò nelle due magistrature che meglio rappresentavano la sfida alla vecchia gestione politica e la volontà del cambiamento: quella della costruzione delle triremi e quella della costruzione delle nuove mura (che il D. presiedette per tre anni consecutivi). Gli incarichi attivi di governo non escludevano quelli cerimoniali di rappresentanza: cosi tra il giugno e il luglio del 1630 il D., con altri cinque gentiluomini (Giannettino e Claudio Spinola, Nicolò Doria, Luca Giustiniani e Giovanni Vincenzo Imperiale), fece parte del comitato d'onore per l'infanta di Spagna Maria Anna di passaggio per Genova. Nel 1633 - dopo essere stato anche nel magistrato dei Cambi nel 1632 - fu incaricato delle accoglienze al cardinale infante Ferdinando, che era sbarcato a Nizza per venire in Italia, diretto a Como, dove si doveva ratificare il trattato di pace tra Genova e il duca di Savoia. Il D. lo scortò da Ventimiglia fino al palazzo del principe Doria, dove il cardinal infante venne regalmente ospitato; ma, al di là delle esigenze del cerimoniale, il vero incarico del D. dovette essere quello di interessare l'alta autorità spagnola al problema dell'insolvenza: e dovette riuscire convincente e ottenere dal cardinale qualche promessa di mediazione. Cosi il D., l'anno seguente, venne scelto come ambasciatore straordinario a Filippo IV, per appoggiare le proteste che Genova aveva già formulato attraverso il proprio ambasciatore ordinario, Giovan Francesco Lomellini, contro le ritenute sugli interessi spettanti ai cittadini genovesi dalle rendite sulle imposte nel Regno di Napoli.

Ricevute le istruzioni il 1º marzo 1634, partito il 21 da Genova e giunto il io aprile a Barcellona, il D., dopo aver preso residenza a Madrid presso il Lomellini, dovette attendere il ritorno del re da Aranjuez e venne ricevuto l'11 maggio. L'atteggiamento della corte verso il D. e le sue richieste fu particolarmente benevolo, grazie anche all'appoggio del cardinal infante che non venne meno alle promesse genovesi; ma il D. non si accontentò di buone parole e con fermezza chiese ed ottenne nuovi espliciti ordini per il vicerè di Napoli ed anche un decreto di ingiunzione ai baroni perché consentissero il controllo di commissari fiscali nelle loro terre.

Il successo politico della missione del D. non fu certo incrinato dalle meschine polemiche personali col successore del Lomellini, il nuovo ambasciatore ordinario Giacomo De Franchi, originate forse da vecchi rancori familiari; del resto le pagine che il D. dedicò per illustrare al governo di Genova l'argomento del contrasto (un problema di etichetta: la precedenza nella presentazione a corte tra lui, ambasciatore straordinario, e il De Franchi, ambasciatore ordinario) sono un autentico saggio di sapienza diplomatica, abilmente proposta in una prosa secentesca lucida ed elegante, di sapore che si potrebbe definire "scientifico".

Congedatosi alla fine d'agosto e rientrato a Genova dopo un viaggio piuttosto movimentato (un attacco di artiglieria della guarnigione francese alle isole Hières, una tempesta con sosta forzata a Monaco, a subire l'ostentato mancato ossequio del principe Onorato Il Grimaldi), il D. ricevette pubbliche congratulazioni per il suo successo. Nello stesso 1634 entrò nel magistrato di Guerra e in quello dei Provvisori dell'olio e, nel 1635, estratto senatore, entrò tra gli otto governatori della Repubblica. Terminato il biennio senatoriale, fu eletto al magistrato degli Straordinari e quindi, nel 1638, governatore a Savona: carica che l'acutizzarsi del conflitto franco-spagnolo coinvolgeva in più pesanti responsabilità. Dall'anno dopo, rientrato a Genova, ricopri in successione, anno dopo anno, le cariche di membro del magistrato di Guerra, sindacatore della Valle del Bisagno, membro del magistrato di Corsica; nel 1643 di nuovo nel magistrato di Guerra come presidente; nel 1644 inquisitore di Stato e mediatore finanziario col Banco di S. Giorgio.

Anche se i giudizi sul suo operato politico non sono documentati, dalla successione stessa delle cariche risulta confermata la linea del D. come ancora coincidente con quella della "nobiltà nuova" che, associata ad alcuni elementi della "vecchia", voleva attuare una autentica svolta nella direzione politica della Repubblica: sembrava aver riscoperto cioè il fascino dell'indipendenza dei liberi commerci e del riarmo marittimo, pur tra le molte contraddizioni e i molti compromessi con l'autoritarismo tradizionalmente connesso con l'esercizio del potere. E il D. in particolare, fratello e difensore del pugnace cardinale Stefano, sembrava personificare quei caratteri del perfetto aristocratico repubblicano che Anton Giulio Brignole Sale veniva delineando nelle sue lezioni accademiche: avveduto, zelante, cattolico, autoritano, capace di trattare alla pari coi " grandi".

Alla fine del 1645 il D. venne scelto come, ambasciatore a Milano, per discutere col governatore Antonio Sancho de Velada la sempre spinosa questione dei rapporti tra il Finale e la Repubblica. Pure in questa circostanza, l'abilità persona e e l'autorevolezza, di cui sapeva circondarsi anche nei rapporti coi più potenti interlocutori, consentirono al D. un lusinghiero successo, almeno sul momento (visto che il problema del Finale era destinato ad aggravarsi nel tempo). Rientrato a Genova nel settembre, fu eletto all'ufficio dell'Annona, che interruppe per la nomina a governatore di Corsica, dove succedeva a Francesco Imperiale.

Il D. rimase nell'isola dal 1646 al 1647, esercitando il comando con durezza, con quella insensibilità nei confronti dei diritti delle terre del "dominio" che caratterizzava la classe dirigente della Repubblica, anche quei "nuovi" il cui paternalismo "illuminato" restava rigorosamente circoscritto entro le mura della dominante. In Corsica il D. ordinò la requisizione dell'olio, come richiesto dal doge Luca Giustiniani con lettera-decreto del 13 ott. 1645; ma i metodi adottati dovettero essere cosi duri da provocare autentico odio nei confronti della sua persona: tanto è vero che, prima di ripartire per Genova, subi un attentato.

Dopo il suo ritorno a Genova poi, e nonostante un primo sindacato favorevole, il Senato, dietro forti pressioni politiche, chiese un secondo sindacato, per il quale furono inviati nell'isola Gerolamo Spinola e Antonio da Passano, mentre il D. riceveva l'ordine di non lasciare la città, sotto garanzia di 4.000 scudi d'argento. L'esito favorevole anche del secondo sindacato consenti al D. di riprendere l'attività politica e, soprattutto, il progetto del riarmo marittimo. Infatti, dopo una breve reggenza al capitanato di Recco nel 1651, dal 1652 al 1656 fu ininterrottamente deputato al magistrato degli Arsenali e, nel 1656, alla costruzione delle triremi.

All'esplodere della grande peste del 1656-57 il D. - di nuovo estratto senatore e posto tra i governatori nel giugno 1657, proprio nella fase di più acuta recrudescenza del contagio - fu tra i nobili che più attivamente si adoperarono per garantire, nell'emergenza, la continuità dell'azione di governo in tutti i settori possibili. Superata l'emergenza, nel 1658 il D. assunse con Cesare Gentile l'incarico di restaurare l'ordine pubblico prima nel Dominio, poi, nel 1659, in città, dove contemporaneamente ricopri la carica di membro del magistrato di Guerra. Finalmente, a settantadue anni, ancora pieno di energia, il 18 apr. 1665 venne eletto doge, con una votazione di significativa esiguità.

Incoronato il 5 dicembre (o forse il 12: esiste ambiguità nei cerimoniali), i discorsi pronunciati per la cerimonia furono vietati alle stampe per le polemiche suscitate dagli appellativi di regalità riservati alla persona del doge: in evidente polemica col fatto che, trent'anni prima, il fratello del D., cardinale Stefano, sostenitore della supremazia della autorità religiosa, aveva rifiutato l'incoronazione del doge con titolo regio. Perciò, dei due discorsi dell'incoronazione, uno, di Anton Cesare Rivarola, intitolato La primavera regnante, rimase manoscritto nella biblioteca di palazzo Rossol l'altro, del gesuita Matteo Taverna, nobile milanese, dal titolo La durevolezza della felicità presagita, ridondante di pesantissime metafore barocche, fu poi stampato a Milano.

Da doge il D. poté appoggiare e vedere attuato uno dei progetti cari alla nobiltà "nuova" ed alla sua famiglia in particolare: la riapertura dei traffici con l'Oriente, ottenuta dalla intraprendente abilità dei suoi nipoti (figli del cugino Gerolamo) Giovan Luca, per la preparazione diplomatica internazionale, e Giovan Agostino, artefice diretto delle negoziazioni col gran visir di Costantinopoli.

Completato il biennio ducale, il D. entrò tra i procuratori perpetui e continuò ancora per diversi anni l'attività politico-amministrativa: presiedette la giunta dei Confini; trattò insieme al collega ex doge Stefano De Mari, affari finanziari col Banco di S. Giorgio; nel 1674 - sempre solerte difensore dell'ordine pubblico - prese parte alla revisione dei "biglietti di calice" e infine, nel 1678, fu ancora sottoposto a sindacato come procuratore perpetuo, ultimo segno dei molti nemici che la sua politica energica gli aveva procurato.

Mori, probabilmente a Genova, l'8 dic. 1680, lasciando un legato di ben tremila messe e vaste beneficenze ad opere pie e confraternite, con l'affermazione testamentaria della sua inconcussa devozione mariana.

Da Giovanna Cervetto di Giacomo Maria, sposata il 25 nov. 1621, aveva avuto sette figli, ma ben quattro (Giacomo, Aurelia, Nicoletta e Maria Caterina) gli erano premorti: restavano Pietro (che sarà anch'egli doge nel 1685), Marcello (nunzio in Portogallo e in Spagna, vescovo di Faenza e cardinale, grazie all'appoggio dello zio cardinale Stefano) e Giovanni Battista, detto Baccio, poco stimato dal D., che nel testamento gli riservava la legittima, lasciando a Pietro il vasto patrimonio mobiliare e immobiliare.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Lettere min. Spagna, 30-2439; Ibid., Relaz. ministri, 2-2718 n. 3; M. Giustiniani, Gli scrittori liguri, Roma 1667, p. 165; A. Oldoini, Athenaeum Ligusticum, Perusiae 1680, p. 125; Istruzioni e relazioni, a cura di R. Ciasca, Roma 1951, II, ad Indicem; F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1800, V, pp. 53, 106; VI, pp. 95, 99; N. Battilana, Genealogie delle famiglie nobili di Genova, Genova 1825, I, p. 2; A. P. Filippini, Istoria di Corsica, Pisa 1827, III, app. CIII; G. Banchero, Genova e le due Riviere, Genova 1846, p. 394; L. Levati, Dogi biennali della Rep. di Genova, II, Genova 1930, pp. 226-242 (con bibliografia); V. Vitale, Diplomatici e consoli della Repubblica diGenova, in Atti d. Soc. ligure di storia patria, LXIII (1934), pp. 61, 175; D. Puncuh, L'archivio dei Durazzo, marchesi di Gabiano, ibid., n. s., XXI (1981), pp. 613 s. (con ind. bibliogr.); Id., Collezionismo e commercio di quadri …, in Rass. degli Archivi di Stato, XLIV (1984), p. 167.

M. Cavanna Ciappina

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