CREMONINI, Cesare

Enciclopedia Italiana (1931)

CREMONINI, Cesare

Armando Carlini

Nato a Cento nel 1550 (o 1552), morto nel 1631. Insegnò prima a Ferrara; poi, morto lo Zabarella, fu chiamato a succedergli, a Padova, nel 1590, col titolo di philosophiae interpres ordinarius (v. la sua Prolusione stampata a Ferrara nel 1591). La fama del suo insegnamento fu grande, anche fuori d'Italia. Il Senato di Venezia gli assegnò uno stipendio doppio che al Galilei. Le sue opere a stampa (edite tutte nella prima metà del '600, e non più ristampate) trattano di fisica e di psicologia aristotelica. Ma restano inedite copie numerose delle sue lezioni.

Egli passò per un aristotelico puro, tanto che fu chiamato "Aristoteles redivivus". Ma, in verità, egli, da un lato, interpretava Aristotele al lume di dottrine neoplatoniche, mescolate con principî presi parte dall'averroismo e parte dalla psicologia di Alessandro d'Afrodisia; e dall'altro, vi univa dottrine o tomiste o scotiste, sì che il tutto veniva trasformato in un singolare eclettismo, nel quale si riflettono al vivo le controversie del tempo. Un punto fondamentale, da lui tenuto fermo, fu l'indipendenza della fisica (nel senso antico di scienza della natura, o filosofia naturale) dalla teologia. La natura del mondo e le sue leggi sono da ricercare indipendentemente dall'essere di Dio: questo ci vien suggerito dalla considerazione teleologica del mondo, ma il mondo ha una sua anima, ch'è il principio eterno della sua esistenza e dei movimenti che si notano nelle sue parti. Dio, insomma, è causa finale, non efficiente, del mondo. Il cielo si distingue in un sistema di sfere mosse da pure intelligenze mediante le anime informanti i corpi celesti incorruttibili. Anche l'anima umana è forma vivente del corpo, di cui l'organo principale è il cuore, sede della virtù vitale che subordina la molteplicità materiale all'unità formale del composto. La sintesi di materia e forma, di corpo e anima, viene operata, secondo il C., da un principio attivo ch'egli chiama calidum innatum. Come dianzi veniva escluso il dogma della creazione, così, qui, non si vede come più giustificare l'immortalità e spiritualità dell'anima umana. Le difficoltà non erano minori per il concetto di Dio: il quale viene, neoplatonicamente, concepito come atto semplice di pensiero in cui intelligenza e intelligibile s'identificano, sì che resta escluso ogni suo rapporto con il pensiero discorsivo proprio dell'uomo e con ogni forma di conoscenza che abbia per oggetto il mondo. Non solo: ma, essendo Dio pura e immutabile verità, neppure si può a lui attribuire la libertà, la quale implica mutamento e novità. La personalità e provvidenza non trovavano posto in questa concezione di Dio. Naturalmente, per quanto egli evitasse premurosamente di aver brighe con la Chiesa, non poté andar libero da qualche noia a più riprese, da parte dell'Inquisizione; la sua Disputatio de coelo fu messa all'Indice. Egli dimostrò in queste controversie molta dignità e fermezza, ma anche abilità nel destreggiarsi tra ragioni discordanti: ché, pur insistendo su la distinzione tra verità propria della filosofia naturale e quella rivelata, resta indeciso poi sul loro rapporto. Talora considera la prima come inferiore e subordinata alla seconda; tal'altra le pone alla pari, onde par non escludere, per la loro concordanza, che l'errore possa essere dalla parte della teologia. Anche qui si rivela la sua tendenza eclettica. In virtù di questa, egli, fermo all'antica rappresentazione del mondo, non volle aderire alla concezione moderna matematico-meccanica della natura; e, amico personale di Galilei, era tanto lontano dalla mentalità di lui, che dicesi si rifiutasse di guardare più nel telescopio dopo la scoperta dei satelliti di Giove. Ma, nello stesso tempo, risuonano ne' suoi scritti motivi di pensiero comuni all'età nuova: là dove, ad esempio, contrappone l'uomo alla Natura, e la grandezza dell'uomo ripone nella potenza di riassumere in sé le ragioni tutte dell'universo, di elevarsi al di sopra della Natura e del finito sino a Dio, d'instaurare in sé una vita ch'è immagine di quella divina. L'uomo, qui, sottratto al precedente naturalismo, è pura coscienza di sé, e "tanti est se ipsum cognoscere, quanti est philosophum esse".

Il c. in gioventù compose anche parecchi drammi, o poemi o favole, come egli li chiamò: per es. Il nascimento di Venezia (Venezia 1617); Clorinda e Valliero (ivi 1629); Le pompe funebri (Vicenza 1630), ecc.

Bibl.: L. Crasso, Degli elogii degli huomini letterati, Venezia 1676, II; I). Berti, Di C. C. e della sua controversia con l'Inquisizione di Padova e di Roma, Roma 1878 (estr. da Mem. della R. Acc. dei Lincei, sc. mor., 1877-78); A. Favaro, C. C. e lo studio di Padova, Venezia 1883. Studio d'insieme: L. Mabilleau, C. C., Parigi 1881; e in J. R. Charbonnel, La pensée italienne au XVIe siècle et le courant libertin, Parigi 1919, p. 230 segg.; ivi, per opere del C., a stampa e mss., pp. O-S.

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