CARAFA, Cesare

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 19 (1976)

CARAFA, Cesare

Carla Russo

Nacque in data imprecisabile (dopo il 1518) da Diomede, conte di Maddaloni, e dalla sua terza moglie Porzia Gaetani, dei conti di Traetto.

Le condizioni economiche della famiglia non erano troppo buone. Essa era stata colpita da processo dopo l'invasione del Regno ad opera del Lautrec, nel 1528, per avere in tale occasione il conte di Maddaloni manifestato le proprie inclinazioni filofrancesi, e aveva dovuto far fronte agli onerosi debiti contratti dal fratello primogenito del C., Giovanni Tommaso, premorto al padre. Ciò doveva pesare negativamente sulla vita del Carafa. Dalle non copiose notizie tramandateci egli risulta perennemente indebitato e non sembra che dovesse avergli giovato, per migliorare la sua situazione finanziaria, neppure la cospicua dote di 14.000 ducati portatagli dalla moglie Giulia Carafa, dei marchesi di Castelvetere, già vedova di Girolamo Gesualdo.

La notorietà del C. deriva in particolar modo dal processo subito, sotto l'accusa di fellonia, al tempo del viceré Toledo, che in lui volle colpire uno dei principali seguaci del principe di Salerno Ferrante Sanseverino, cui faceva capo la resistenza del baronaggio alla politica assolutistica perseguita dallo Stesso Toledo. Nel 1547, dopo i moti contro l'Inquisizione, il C., che già faceva parte dell'entourage del Sanseverino, lo accompagnò alla corte imperiale, nell'ambasceria inviata dalla città di Napoli per richiedere a Carlo V la sostituzione del Toledo. Tornati gli ambasciatori a Napoli nell'agosto, senza aver ottenuto alcuna soddisfazione, e spentisi oramai i moti contro l'Inquisizione, il Toledo dava inizio alla reazione procedendo a confische di beni e a condanne a morte nei confronti di molti esponenti della nobiltà ritenuti colpevoli di aver preso parte alla agitazione.

Dei proscritti faceva parte anche il fratello del C., Francesco, che si rifugiò a Roma presso il cardinale Nicola Caetani congiunto del Caraffa e di fazione filofrancese. Ovvi motivi di prudenza consigliarono anche al C. di allontanarsi da Napoli e di soggiornare a Roma fino all'anno successivo. Nel 1548, in occasione del ritorno a Napoli del principe di Salerno, accolto da gran parte della popolazione con manifestazioni di entusiasmo, il C., insieme con Placido de Sangro, gli andò incontro fuori della città per rendergli omaggio. Il successo popolare del Sanseverino e l'accoglienza fattagli dal C. e dal de Sangro non mancarono di provocare la reazione del Toledo. Ne derivò il primo processo contro il C. stesso, arrestato mentre era alla tavola del Sanseverino, sotto denuncia di aver preso parte ad una congiura ordita a Roma da Carlo Carafa di Montorio, nipote del futuro Paolo IV, e dagli esuli napoletani riuniti intorno a lui ed al cardinale Caetani, per impadronirsi dell'isola d'Ischia e darla al re di Francia (cfr. De Blasiis).

Sembra, tuttavia, che l'azione contro il C. fosse per il Toledo solo un pretesto per diffondere sospetti intorno al Sanseverino, dati i legami esistenti tra i due. Il che sembra confermato dal fatto che il C., arrestato nel 1549, rimase in carcere diciotto mesi e fu poi liberato, molto probabilmente per mancanza di prove sufficienti a suo carico. Tuttavia, egli fu obbligato a presentarsi alle competenti autorità tutte le volte che ne fosse stato richiesto.

Uscito di prigione, il C. non volle rimanere a Napoli. Proponendosi di raggiungere il Sanseverino - che, rifugiatosi a Venezia per sfuggire al Toledo, di li a poco rinunzierà i suoi possedimenti feudali all'imperatore per passare, al re di Francia - il C. non volle, tuttavia, scoprirsi troppo e perciò si recò, nel 1551, al seguito di Cesare d'Avalos, notoriamente devoto alla monarchia spagnola, dapprima a Genova e poi a Barcellona, dove rimase per qualche tempo. Alla ripresa delle ostilità con la Francia, il C., insieme con un altro nobile napoletano, Marcantonio d'Azzia, lasciò la Spagna, soffermandosi, lungo la strada del ritorno a Napoli, in Francia e in Piemonte per recarsi infine a far visita al principe di Salerno, a Padova.

Durante il processo si ritenne, nonostante le diverse giustificazioni date dal C., che il soggiorno in Francia ed in Piemonte fosse da collegarsi all'attività antispagnola del C. stesso e del d'Azzia e che essi avessero tenuto i contatti e preparato l'accordo tra il Sanseverino ed Enrico II di Francia, nei cui disegni il principe di Salerno avrebbe dovuto porsi alla guida di una spedizione contro il Regno di Napoli.

Una volta dichiaratosi il Sanseverino sciolto da ogni obbligo di sudditanza verso Carlo V, il C. si recò a Roma per unirsi al fratello, al cugino Carlo Carafa di Montorio e ad altri proscritti, che, legati all'ambiente del cardinale Gian Pietro Carafa, cospiravano a favore della Francia. Ma il tentativo del Sanseverino di attaccare per mare il Regno, con l'appoggio di una flotta turca, fallì e l'attività romana dei fuorusciti napoletani fu scoperta dal Toledo. Ne derivò per il C. un nuovo processo, in seguito ad alcune accuse pronunziate contro di lui a Roma e a Venezia. Egli rientrò a Napoli solo quando si convinse che il suo nome era stato incluso per errore tra quelli dei ribelli condannati e quando il viceré ebbe promesso un largo indulto, di cui avrebbe goduto anche il fratello Francesco. Ma il giorno dopo il suo ritorno fu arrestato e nuovamente processato per tradimento. Sotto la tortura il C. parlò dei complotti orditi a Venezia e a Roma, ma, in un secondo momento, ritrattò alcune delle affermazioni fatte, dichiarandole frutto dei tormenti inflittigli. Della non completa veridicità della sua confessione potrebbe essere una conferma anche l'atteggiamento assunto dal Toledo che volle gli fosse risparmiata la pena di morte, anche se non va trascurata l'ipotesi che un tale modo di procedere sia da riportarsi alle direttive imperiali ricevute dal viceré, e cioè di smorzare la tensione ed i risentimenti creatisi nel Regno in seguito alla dura politica del Toledo stesso. Il 30 marzo 1552 il C. veniva, dunque, condannato a prigionia perpetua.

A mutare la sua sorte non valsero né lo scadimento delle fortune dei Francesi in Italia né il progressivo oscuramento della fama del Sanseverino né la morte del Toledo né il fatto che il fratello Francesco e il nipote Diomede avessero dimostrato il loro lealismo nei confronti della Spagna combattendo nella guerra di Siena. Anche le speranze accesesi con l'elezione di Gian Pietro Carafa al pontificato nel 1555 si spensero ben presto con la sconfitta dei Francesi a San Quintino.

Fu, invece, la madre del C. che, versando una malleveria di 6.000 ducati, riuscì a far commutare la pena del figlio dal carcere a vita alla relegazione in Africa, nella fortezza della Goletta, dove era tenuto a prestare servizio militare, sostenendosi a sue spese. Giuntovi alla fine del 1559, il C. vi era ancora nel 1574, quando se ne impadronirono i Turchi. Fatto prigioniero da questi ultimi, il C. fu ridotto alla condizione di schiavo per qualche anno, finché la nipote Roberta Carafa, vedova di Diomede, lo riscattò, nel 1578. Graziato da Filippo II, dietro intercessione di papa Gregorio XIII, al ritorno in patria il C. diede inizio ad una lunga lite per questioni patrimoniali.

Il C. era stato escluso, in quanto colpevole di ribellione, dalla successione nei possedimendi feudali paterni, cui avrebbe avuto diritto dopo la morte dei fratelli Giovanni Tommaso e Francesco. Estintasi la linea maschile diretta, era stato riconosciuto erede dei duchi di Maddaloni Marzio Carafa, appartenente, per linea materna, a un ramo collaterale della famiglia. A questo il C. mosse lite in favore dei suoi eredi, i figli Diomede e Roberta, nati dal secondo matrimonio contratto, nonostante l'età avanzata, con Geronima Griffo, e il figlio naturale Pietro.

La lite si concluse, infine, con un accordo per 20.000 ducati in favore del C., che morì nel 1595, lasciando, tuttavia, in condizioni economiche non floride la moglie, passata poi a seconde nozze con Berardino Moccia.

Bibl.: G. A. Summonte, Dell'Historia della città e Regno di Napoli, Napoli 1675, IV, p. 246; B. Aldimari, Hist. geneal. della fam. Carafa, Napoli 1691, II, pp. 190-192; A. Castaldo, Istoria, in G. Gravier, Raccolta.... IV, Napoli 1769, p. 129; G. De Sivo, Storia di Galazia Campana..., Napoli 1859-1865, pp. 188, 190, 196; G. De Blasiis, Proc. contro C. Carrafa inquisito di fellonia, in Arch. stor. per le prov. nap., II (1877), pp. 758-851; A. Bulifon, Giornali di Napoli dal 1547 al 1706, a cura di N. Cortese, Napoli 1932, p. 21.

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