CEROPLASTICA

Enciclopedia Italiana (1931)

CEROPLASTICA

Pietro ROMANELLI
Filippo ROSSI

. L'uso di fabbricare figure di cera fu assai comune presso Greci e Romani, e, per quanto ne abbiamo minori testimonianze, anche presso gli Egizî e i popoli dell'Asia anteriore. Di cera si facevano soprattutto le piccole immagini che servivano per trastullo ai fanciulli, o per il gioco che può assomigliarsi a quello degli scacchi, i cosiddetti ladrunculi di Plinio (Nat. Hist., VIII, 215), le figurine votive per le are domestiche dei Lari, ecc. Queste figure in cera, anche di dimensioni al naturale, erano particolarmente usate nelle pratiche magiche e nella punizione degli spergiuri: il rituale ha, si può dire, carattere universale, com'è naturale data la particolarità della materia che, liquefacendosi al fuoco, rende in maniera visibilmente efficace l'annullamento della figura. Infine di cera si facevano le maschere e le immagini dei defunti, da trasportare nelle cerimonie funebri, o soprattutto da conservare nell'atrio della casa insieme con quelle degli antenati. Tali immagini si dicevano cerae o cerae pictae. L'appellativo derivava dall'uso di ravvivare e di rendere più vicine al naturale le immagini colorandole; la colorazione poteva avvenire o mescolando il colore alla cera prima della lavorazione, o dipingendo la maschera e l'immagine dopo lavorata: nel primo caso naturalmente si otteneva una colorazione unica, uniforme. Il modo di lavorazione della cera, era pure duplice: o si plasmava a mano o si fondeva. Data la deperibilità della materia, non possediamo oggi quasi nessun'opera della ceroplastiea antica; due maschere funerarie furono rinvenute nel secolo scorso, in una tomba di Cuma, dove tenevano, sopra lo scheletro, il posto della testa mancante, una se ne conserva ancora nel Museo di Napoli, ma l'esame chimico non rende assolutamente certi che si tratti di cera.

Nel Medioevo e nell'epoca moderna la cera servì agli scultori per modellare figure od oggetti da fondere in metallo, per abbozzare opere da sviluppare poi in proporzioni maggiori, infine come vera e propria materia scultoria per fondere o modellare figure a tutto tondo o bassorilievi. La pratica della fusione a cera perduta (v. fusione) era nota alla metallotecnica medievale (v., per es., il candelabro pasquale di Gloucester, oggi nel Victoria and Albert Museum di Londra), e fu usata largamente anche dagli scultori della Rinascenza (Luca della Robbia, il Ghiberti, Jacopo Sansovino, ecc.) e soprattutto dai medaglisti, dal Pisanello in poi, come pure per i sigilli, e in genere per le oreficerie.

Di bozzetti in cera si sono conservati numerosi esempî anche di artisti insigni: di Michelangelo, quello del David (Firenze, Galleria Buonarroti) e varî di altre figure, quello del Perseo del Cellini (Firenze, Museo Nazionale), quello dell'Ercole e Caco del Bandinelli (Berlino, Kaiser Friedrich Museum), quelli di Ferdinando I de' Medici (Berlino, Kaiser Friedrich Museum) e di due rilievi della Passione di Giambologna (Londra, Victoria and Albert Museum), quello di Alessandro Farnese di Francesco Mochi (Firenze, Museo Nazionale), quello della Cacciata di Attila dell'Algardi (Dresda, Albertinum); in assai minor numero invece sono i bozzetti dovuti a scultori non italiani, anche perché fuori d'Italia furono preferite a tale scopo altre materie (soprattutto la terracotta e in Germania anche il legno).

Come materia scultoria vera e propria la cera servì principalmente alla ritrattistica, sia per figure funerarie che venivano esposte durante le onoranze rese alle salme di sovrani o di personaggi altrimenti illustri, sia per figure votive, sia infine per ritratti veri e proprî. L'uso delle figure funerarie in cera colorita e rivestite di sontuosi paramenti è attestato per lo meno fin dalla metà del secolo XIV, alle corti di Francia e d'Inghilterra, e anche presso la repubblica di Venezia: si conservano ancora nell'abbazia di Westminster undici di quelle figure, e nel tesoro di San Rocco a Venezia la testa del doge Alvise IV Mocenigo. Quelle figure erano affidate ad artisti di fama come Jean Foucquet, Konrad Meit, François d'Orléans, Jean Perréal, François Clouet; per quella di Enrico IV presero parte al concorso Guillaume Dupré Germain Jacquet di Grenoble e Michel Bourdin di Orléans e si conservano ancora i busti presentati dagli artisti (Chantilly, castello d'Aumale, Cassel, Museo; Parigi, Museo Carnavalet). La ceroplastica votiva è attestata fin dagli ultimi del sec. XIII, sia in Francia sia in Italia, e anche nell'Europa settentrionale. L'esempio più antico che ci sia giunto è quello della statua votiva di Leonardo, ultimo conte di Gorizia (1462-1500; Innsbruck, Ferdinandeum); e le notizie maggiori che si hanno su tal genere di figure provengono dall'Italia e soprattutto da Firenze, dove gli scultori del '400 non disdegnarono di modellare figure votive di cera: per lungo tempo la chiesa fiorentina dell'Annunziata accolse la più splendida e famosa serie di tal genere di figure (boti nel volgare fiorentino) di cui le più antiche risalivano fino al sec. XIV; tutte malauguratamente distrutte nel '600 e nel '700. Nei pressi della chiesa erano le botteghe dei fallimagini o ceraiuoli, fra cui si distinse soprattutto la famiglia dei Benintendi ai quali apparteneva quell'Orsino rammentato dal Vasari come scolaro del Verrocchio e autore delle immagini dedicate da Lorenzo de' Medici nel 1478 in ringraziamento dell'essere scampato dalla congiura dei Pazzi, e Paolo figlio di Zanobi autore dell'immagine del re di Danimarca dedicata nel 1496. Il Filarete vi aveva dedicato il proprio ritratto; Baccio da Montelupo fece nel 1513 l'immagine di Giuliano de' Medici per la stessa chiesa; e anche il Montorsoli ne ebbe a fare diverse e delle più famose; forse anche il Cellini ne fece una per Alessandro de' Medici.

Col sec. XVI la ceroplastica produce anche opere indipendenti dal significato votivo o funerario e sono frequenti soprattutto i medaglioni-ritratto, specialmente di artisti italiani, come il Cellini, Leone Leoni, Alfonso Lombardi, il Pastorino da Siena, Francesco Segala, l'Abondio, che ebbero gran voga anche oltr'Alpe. Ma ben presto quell'arte entrò nel periodo della maggiore decadenza e come ritrattistica si ridusse soprattutto fuori d'Italia a una funzione puramente aulica, come scultura di carattere sacro ebbe invece un carattere sempre più popolare; insignificanti ne sono le manifestazioni di carattere puramente decorativo. Va ricordata la deliziosa testa del museo di Lilla (sec. XVII) già attribuita a Raffaello e a Leonardo; dei secentisti, è degno di ricordo, più per raffinatezza di tecnica che per vera eccellenza d'arte, l'abate Gaetano Giulio Zumbo, autore di molte cere anatomiche e delle celebri raffigurazioni della Corruzione dei corpi e della Pestilenza (Firenze, Museo Nazionale). Cere anatomiche fecero anche il Cigoli ed Ercole Lelli a Bologna che ne trasse non comune rinomanza.

Ceroplasti italiani lavorarono allora anche in Francia alla corte di Luigi XIII (p. es. Bernardino Azzolini di Napoli); e la tradizione soprattutto dei ritratti di cera di carattere naturalistico si mantenne viva anche nel periodo successivo, con Nicolas Bidault, con gli svizzeri fratelli Keller e soprattutto con Antoine Benoist, ritrattista ricercato anche presso le corti straniere (ritratto di Luigi XIV a Versailles); neppure Coisevox disdegnò di modellare in cera un busto del principe di Condé.

In Germania si distinsero allora soprattutto il medaglista Raymund Faltz, i fratelli Neuberger di Augusta e nel '700 Federico Guglielmo Dubut di Monaco che fece figure, busti, rilievi e medaglioni per le corti di Polonia, di Russia, di Baviera, di Sassonia e di Francia, in Spagna e anche in Italia, specie nell'Emilia, prevalsero le figure e i gruppi di soggetto sacro. Notevoli esempî di ritratti di cera di principi di quel tempo si conservano nella Biblioteca Nazionale di Vienna, al castello di Rosenborg in Danimarca e all'Ermitage, ma se ne fecero ben presto anche di personaggi privati, come quello di fra Domenico Paganelli (Faenza, Museo civico) o quelli dei santi cappuccini nella chiesa veneziana del Redentore.

I Salons parigini dell'ultimo quarto del sec. XVIII e dei primi del successivo accolsero di frequente sculture di cera (del piemontese Orsi, di Cadet de Beaupré allievo del Clodion, di Étienne Gois e d'altri), segno questo della considerazione in cui tuttora era tenuta quest'arte nella quale si esercitarono fra gli altri Michel Clodion e Pierre Mérard allievo di Bouchardon. La ceroplastica servì pure da allora in poi di frequente per apprestare modelli di cammei e anche di decorazioni ceramiche (modelli del Flaxman per Wedgwood) e di tabacchiere, e nemmeno nel sec. XIX cessò di essere adoperata come materia adatta specialmente alle forme impressionistiche (v. Medardo Rosso), mentre seguitava a essere adoperata in quei musei di figure (M. Guérin, Parigi) di cui del resto si hanno i primi esempî fin dalla fine del '600.

Bibl.: H. Blümner, Technologie und Terminologie d. Gewerbe und d. Künste, II, Lipsia 1879, p. 151 segg.; E. Saglio, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire, s. v. Cera; per l'uso delle immagini in cera nelle pratiche magiche: J. G. Frazer, The Golden Bough: The magic art, 3ª ed., Londra 1911-1915, passim; per le maschere di Cuma: A. Ruesch, Guida illust. del Museo di Napoli, Napoli 1908, p. 482 segg.; J. Meisl, Kunst der Wachsarbeit, Linz 1837; Spire Blondel, Les cires de la collection Spitzer, in Gaz. des beaux-arts, 1881, II, pp. 289-96; idem, Les modeleurs en cire, ibid., 1882, I, pp. 493-504; II, pp. 259-72, 429-39; L. Courajod, La collection de médaillons de cire du Musée des antiquités silésiennes à Breslau, ibid., 1884, I, pp. 236-49; G. Le Breton, La sculpture en cire, in La Collection Spitzer, V, pp. 163-88; E. Molinier, Histoire générale des arts appliqués à l'industrie, Parigi s. a., II, p. 219 segg.; J. von Schlosser, Geschichte der Porträtbildnerei in Wachs, in Jahrb. der kunsth. Samml. des allerh. Kaiserhauses, XXIX (1910-11), p. 171 segg.; G. Masi, La ceroplastica in Firenze nei secoli XV-XVI e la famiglia Benintendi, in Riv. d'arte, IX (1916), p. 214 segg.; G. Mazzoni, I bòti della SS. Annunziata, Firenze 1923.

V. tavv. CCXV-CCXVIII.

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