CENTRI STORICI

XXI Secolo (2010)

Centri storici

Pier Luigi Cervellati

Nei prossimi anni, ciò che resterà della città storica sarà forse considerato archeologia ‘urbana’. Non farà più parte del lessico urbanistico e la questione ‘centro storico’ (tanto discussa, specie in Italia, per tutto il Novecento) sarà probabilmente relegata a qualche ricerca settoriale. In questi primi anni del nuovo secolo è già stata in parte rimossa a causa dello sconvolgimento del territorio operato dall’esponenziale crescita urbana avvenuta ovunque. Il centro storico – inteso quale forma e contenuto di un luogo caratterizzato da una spiccata identità – fa parte della cultura urbana europea e, oggi, può essere trattato connettendolo all’assetto urbano complessivo. Nella città del passato, la città dell’Ancien régime – percepita e vissuta come bene immateriale, appartenente, di fatto, alla comunità dei cittadini – il centro storico non è mai esistito: ha coinciso infatti con la città stessa. Per secoli la costruzione dell’immagine della città ha coinvolto i suoi abitanti ed è stata inquadrata da norme (si pensi al diritto romano) che hanno subordinato la proprietà dei privati al pubblico interesse.

Per un lungo periodo, alto e forte è stato il sentimento d’appartenenza. In particolare, la città italiana (e non solo la città-Stato) s’identificava con i suoi abitanti. Nel ‘costituito’ medievale di alcune città, per es. Siena, chi governava doveva avere a cuore massimamente la bellezza della città, per diletto dei forestieri, per onore, prosperità e accrescimento del centro abitato e dei cittadini. La proprietà giuridica del singolo bene poteva essere privata o pubblica: ma il rapporto degli edifici rappresentativi dell’articolazione urbana del potere civile e/o religioso era sempre e in ogni caso di pertinenza pubblica. La città storica esprimeva valori comunitari, e il rispetto della cosa pubblica si conformava in un legame di responsabilità reciproca che assumeva il moderno significato di un mutuo e consolidato ‘patto di cittadinanza’.

Con le cosiddette rivoluzioni materiali, tecniche e scientifiche (e quindi economiche), la città diventò produttrice di rendita, bene materiale, capitale economico; assunse una diversa configurazione, sia per il progressivo allargamento dell’urbanizzato, mediante l’insediamento di fabbriche (ai margini del costruito) con la conseguente attrazione di lavoratori dalla campagna, sia per la ristrutturazione urbanistica dei vecchi, affollati quartieri, causa non ultima dell’espulsione dei ceti sociali più poveri. Dalla Parigi di metà Ottocento alla Pechino d’inizio Duemila, indipendentemente dal sistema politico ed economico in vigore, il paradigma di trasformazione e sviluppo urbano, con o senza soluzioni di continuità, è rimasto pressoché inalterato. La modernità è stata perseguita con strumenti tesi a pianificare, bonificare e regolare – mediante norme urbanistiche e prospettive urbane raramente corrispondenti alle caratteristiche del luogo – l’espandersi dell’urbano nell’ambiente circostante, e a risanare rinnovando (spesso in modo cruento) i vecchi quartieri fatiscenti. L’opposizione contro i ‘grandi lavori’ di bonifica e rinnovamento di Parigi, eseguiti sotto la guida del prefetto Georges-Eugène Haussmann, non fu culturale, bensì politico-ideologica. Poco incisiva, stemperata di nostalgia, la protesta di poeti e letterati. I pittori impressionisti furono invece affascinati, e colsero il significato nuovo della ‘città in movimento’. I tecnici (in particolare gli architetti, definiti da Haussmann ‘modesti e incapaci’) restarono in disparte, quasi nell’attesa di creare uno stile adeguato ai tempi. In quegli anni a Parigi si anticipava il futuro e ci si prendeva cura del passato inventando persino strutture architettoniche mai esistite. Negli stessi anni in cui si abbattevano secolari, malsani isolati a colpi di palle di piombo per costruire spettacolari fognature, nuovi fabbricati, ampie strade e boulevards alberati, Eugène Viollet-le-Duc, restaurando Notre-Dame e studiando contestualmente il gotico dell’Île-de-France, individuò archetipi costruttivi e formali da inserire anche là dove non erano stati mai realizzati, ponendo in tal modo le basi teoriche e tecniche del moderno restauro architettonico.

La città divenne moderna, non prescrivendo valori ideali (come la bellezza), ma, anzi, producendo rendita, sollecitando investimenti, arricchendo, favorendo lo sviluppo e fornendo nuovi servizi. La città moderna apparentemente si fonde nella memoria dei capisaldi monumentali del passato e, a un tempo, nell’oblio dell’eredità ricevuta. Si demolì, si rinnovò e ci si prese cura dei monumenti maggiormente simbolici, iniziando un dibattito sui criteri del mantenimento di quelli valutati opera d’arte. Le teorie e le tecniche fissate da Viollet-le-Duc furono fin dall’inizio avversate da ultraconservatori capeggiati da un poligrafo seducente e ascoltato, John Ruskin, teso a contrastare tutto ciò che era definito moderno – soprattutto il restauro (considerato perversa opera di falsificazione) – imprecando un ripetuto ‘giù le mani dai monumenti’.

I futuristi, qualche decennio dopo (1910), elettrizzati dai grandi lavori parigini, con un clamoroso manifesto bollarono Venezia «cloaca massima del passatismo». Per far rinascere la città lagunare si doveva agire contro il «decadentismo borghese», incendiare tutte le gondole e «colmare i canali puzzolenti con le macerie dei palazzi crollanti e lebbrosi». La terapia propagandata dai futuristi, pur contestata, fu ampiamente condivisa. Lasciò un segno profondo, e non soltanto a Venezia. Altre città, fra Otto e Novecento, per evitare l’invecchiamento, la ‘perversa’ decadenza e gli ambigui interventi di restauro considerati ‘falso storico’, ripeterono con altrettanto vigore, ma con risultati notevolmente più modesti, l’opera di bonifica ‘igienica’, diradamento e allargamento urbano che era stata effettuata a Parigi.

La cultura architettonica e urbanistica, in Europa e in particolare in Italia, si divise in due partiti contrapposti, pur con molti distinguo al loro interno: i ‘conservatori’, considerati malinconici restauratori del tempo perduto, e i ‘modernizzatori’, i futuristi (tutti coloro che aspirano a essere moderni, nuovi), giudicati euforici iconoclasti della memoria. La ‘supremazia del nuovo’ sembrò sconfiggere la dipendenza dal passato; ma avvenne anche il contrario. Per oltre un secolo, con diatribe e clamorose dispute, a fasi alterne, gli uni hanno prevalso sugli altri. Entrambe le parti hanno contribuito nel tempo a consolidare un modello nel quale convivono i monumenti, intesi ormai come reliquie, e i nuovi insediamenti, considerati indispensabili, dalla durata temporale breve, rispetto alla quasi eternità dei monumenti. Fabbricati, magari eclatanti, assoggettati tuttavia alle leggi del mercato, al plusvalore ricavabile con il loro ampliamento, o con la sostituzione delle funzioni, possono essere abbattuti, indipendentemente dal fatto di essere di recente o antica fattura. L’ambiente circostante, sia esso campagna o tessuto edilizio, è trattato alla stregua di una cornice, mutabile più volte nel corso di una stessa generazione. Orfani del contesto, costruito o naturale, manifestazione in ogni caso della storia e del lavoro dell’uomo, i monumenti isolati, per quanto mantenuti, non restituiscono l’identità del luogo. L’oblio, alla fine, prevale sulla memoria. L’organizzazione urbana e territoriale del presente e dei prossimi anni sembra segnata da un’omologazione morfologica, da una banalizzazione dei modelli di sviluppo che alterano la fisionomia consolidata della città e del suo territorio e di conseguenza, cancellando la singolarità dell’insediamento storico, finisce per annullare quel senso di responsabilità collettiva proprio della città del passato.

Negli ultimi anni del Novecento, la discussione in merito agli interventi sul singolo fabbricato considerato di valore storico e artistico si è spenta o perlomeno si è assopita; sulla città definita centro storico, i due partiti contrapposti sono ugualmente spiazzati da un futuro senza prospettive riguardo alla continuità (o meno) del paradigma ottocentesco. Le poche città dotate di uno strumento regolatore del centro storico, non riuscendo a farlo convivere per le alterazioni funzionali al suo interno e le esigenze di espansione della periferia, lo hanno tolto dai loro programmi di pianificazione. Annullato il piano regolatore, la problematica della città storica rimane irrisolta. Dall’analisi di alcuni recenti casi italiani si può cogliere l’evoluzione (o involuzione) disciplinare che sta alla base del crescente degrado urbano e territoriale dovuto al progressivo disinteresse verso la città storica. L’oblio della memoria produce la non città, o sprawl, come si usa dire in questo inizio di secolo.

Le ultime polemiche

A Parma, all’inizio del 2000, è stato inaugurato, non senza polemiche, il nuovo assetto di piazzale della Pace, antistante il cinquecentesco Palazzo della Pilotta. Partigiani del lasciare tutto inalterato e fautori di un nuovo moderno assetto si sono scontrati fra loro e con chi auspicava una ricostruzione filologica – com’era, dov’era –, un ritorno al passato, prima delle distruzioni e demolizioni. La soluzione per definire un assetto architettonico del piazzale non può appartenere alla sfera della creatività progettuale, e neppure la ricostruzione (più o meno conforme) di un luogo tanto modificato nel corso degli ultimi secoli può trovare soluzioni da tutti condivise. Il progetto per questo piazzale è ricco d’insidie e d’incognite, al di là di qualsiasi appartenenza, conservatrice o innovatrice. Che fare di un luogo pubblico centralissimo, mai finito, progettato e riprogettato, tormentato e bombardato, diventato un desolante parcheggio? Avrebbe dovuto essere (nel 1766) un sontuoso Palazzo reale (una vera e propria reggia), disegnato in trionfante stile rococò da Ennemond Alexandre Petitot. Progettato, si pensa, per non essere mai realizzato. La predisposizione dell’area, tuttavia, demolendo parte degli edifici che vi sorgevano, iniziò (1800) con l’abbattimento di una chiesa (San Domenico). Nell’area di sedime fu edificato un teatro (Reinach, poi Paganini) mentre Maria Luigia di Asburgo, XIV duchessa di Parma, riattò il Palazzo ducale addossandogli nuovi corpi di fabbrica per la biblioteca e il museo. In seguito fu realizzata la Prefettura, e furono eseguiti altri rimaneggiamenti e ammodernamenti. I bombardamenti dell’ultima guerra distrussero il teatro e parte del palazzo (in particolare la biblioteca). La Prefettura fu demolita completamente negli anni Cinquanta.

All’inizio degli anni Ottanta, Giancarlo De Carlo (1919-2005) fu incaricato di elaborare un disegno ‘funzionale e moderno’ per organizzare le varie attività a cui il luogo era destinato. La soluzione proposta suscitò proteste e opposizioni tali da insabbiare il progetto. Dopo una decina d’anni fu incaricato un nuovo progettista, Mario Botta (n. 1943), ma il progetto riaccese le vecchie polemiche. Botta proponeva un auditorium a forma di cilindro, dalle dimensioni piuttosto ingombranti. Alle contestazioni, per la prima volta si affiancarono gli elogi, o addirittura l’entusiasmo, dei giovani architetti, desiderosi di esprimersi secondo creativi modelli contemporanei, e lo stesso accadde a Modena qualche anno dopo, con un progetto, sempre nel centro storico, di Frank O. Gehry. L’ultimo progetto di Botta, quello realizzato (2001), è minimalista: solo prati e lame d’acqua che riflettono piccoli lumi. Il minimalismo non soddisfa nessuno: non entusiasma i costruttori del moderno e lascia perplessi i conservatori. Piace però ai cittadini che frequentano, specie di giorno, il piazzale il cui aspetto, la sera, quando vengono accese le luci, è suggestivo anche se leggermente funereo.

Il giro di boa del secolo sembra coincidere con una nuova teoria circa gli interventi nei centri storici: non più sventramenti, sostituzioni moderne, o premoderne colate di cemento, né rifacimenti in stile o falsi storici; solo composizioni ‘leggere’, ma altrettanto irreversibili, e solo apparentemente funzionali. Sottostante ai prati e alle lame d’acqua in piazzale della Pace vi è infatti un parcheggio di notevoli dimensioni.

Per tentare di captare il futuro del centro storico, ancora in bilico fra mantenimento conservativo o rinnovamento progressivo, sono necessari altri indizi, alla piccola e grande scala. La misura edilizia è funzionale a comprendere il restauro o la ristrutturazione del singolo edificio. La dimensione urbana e territoriale aiuta a fissare le inevitabili connessioni con l’avvenire degli aggregati urbani di appartenenza, specie là dove il centro storico occupa una parte sempre più piccola del tessuto urbanizzato. A Parma non si può ignorare la sistemazione della Galleria nazionale all’interno della Pilotta, la chilometrica struttura/impalcatura di ferro colorata di bianco, griffe della ristrutturazione museografica di questo palazzo. Alla grande scala, l’urbanizzato si allarga, si diffonde nel territorio, rimpicciolisce la campagna coltivata, parte integrante della Parma storica, e i nuovi insediamenti diventano la causa principale della perdita di abitanti del centro. La città vecchia si ammoderna nelle forme ma perde, come quella nuova, il senso di città.

Una polemica dai risvolti politici

Assopita ma non spenta, la polemica fra costruttori del nuovo e conservatori ha assunto all’inizio del Duemila una configurazione politica, con scambio delle parti (e dei partiti). È il caso di una centrale piazzetta bolognese (piazza Re Enzo), falso medievale (e dunque falso storico), realizzata nei primi del Novecento da creativi ‘costruttori del passato’ che tentavano di conciliare il rigore ideologico di Ruskin con la ricerca di ciò che non c’era mai stato ma che avrebbe dovuto e potuto esserci, secondo i canoni di Viollet-le-Duc. Nel 2003, nella piazzetta furono inseriti due luccicanti cilindri di vetro a pianta ovoidale (opera di Mario Cucinella), che formavano una specie d’ingresso/padiglione per un interrato – un tempo adibito a sottopasso pedonale – destinato a esporre progetti di opere pubbliche o private. Appropriata la scelta di trasformare il sottopassaggio, realizzato negli anni Cinquanta per consentire alle auto di non essere intralciate dai pedoni, in luogo d’incontro e di dibattito dei progetti sul futuro della città. Superflui, invece, i due cilindri; inutili e costosi, dimostrano tuttavia un fatto tautologico: l’architettura moderna si connota come opera d’arte, ‘monumento’, nel momento stesso in cui viene collocata nel cuore della città storica, opera d’arte fra le opere d’arte del passato.

La polemica suscitata dalla pensilina per la nuova uscita della Galleria degli Uffizi a Firenze, detta anche la loggia di Arata Isozaki (l’architetto vincitore nel 1998 del concorso internazionale), aveva bloccato la sua costruzione. Il caso di Bologna dimostrava la fattibilità di un ‘inserimento’ che solo nel decennio precedente sarebbe stato respinto ancor prima di essere proposto. E riduceva la questione a un fatto partitico: di destra o di sinistra, con passaggi, dall’una all’altra parte, assai repentini. La sinistra a Bologna attaccava Cucinella (mentre a Firenze elogiava Arata Isozaki e implicitamente l’amministrazione di sinistra), facendosi paladina della salvaguardia per opporsi all’amministrazione di centrodestra. Gli oppositori rispolverarono un perentorio ‘giù le mani’ dal centro storico, già usato sempre a Bologna nel 1912 da Giuseppe Bacchelli (padre del romanziere) contro gli sventramenti operati dal sindaco socialista Francesco Zanardi. I due cilindri – definiti due gocce – avevano modesto impatto, erano quasi un doppio gazebo e occupavano un posto dove, in certe occasioni, veniva allestita una giostra o un grande abete natalizio. Le ‘due gocce’ avevano carattere di precarietà, diversamente dalla nuova loggia fiorentina, senz’altro provocante e dissacrante, fermata dalla destra e ripresa quando il centrosinistra tornò al governo nazionale. Lo smantellamento delle gocce avvenne nel 2005: furono collocate dalla nuova amministrazione di sinistra nel cimitero monumentale ma non per questo il trasferimento fu festeggiato come se fosse un funerale. Si era mantenuto l’impegno preso in campagna elettorale, ma lo spostamento di un esempio, per quanto modesto, di architettura contemporanea dal centro storico, a elezioni avvenute con la sconfitta del centrodestra, contrastava con le idee di chi aveva contestato la sua presenza. Specie i giovani architetti sostenitori del ‘nuovo’, in parte gli stessi che avevano un tempo manifestato contro, ottenute cariche dirigenziali dalla nuova amministrazione si dimostrarono subito partigiani del rinnovamento delle politiche sul centro storico, mediante appunto l’inserimento al suo interno di architetture contemporanee. I due cilindri di vetro rappresentavano una svolta radicale nella città in cui era stata sperimentata la conservazione integrata del centro storico, ovvero il mantenimento delle pietre ma anche e in particolare degli abitanti. Con l’inserimento delle ‘due gocce’ si era ritornati al passato, quando si riteneva che la modernità coincidesse con la velocità, quando, come negli anni Cinquanta e Sessanta, si riteneva ‘moderno’ mandare i pedoni sottoterra per consentire ai mezzi motorizzati di sfrecciare nel centro della città.

Una inconcludente diatriba

Erano gli anni in cui si sosteneva, nel mondo della critica e della professione, la differenza fra l’architettura (con la ‘a’ maiuscola) monumentale, la cui tutela era affidata alle soprintendenze, appunto, ai monumenti, e l’edilizia (con la ‘e’ minuscola) magari storica, ma minore, non opera d’arte, bensì di artigianato, fatta da capimastri e abili muratori, la cui permanenza dipendeva invece dalle amministrazioni comunali. Si citavano sempre gli stessi esempi di architettura moderna considerati perfettamente inseriti e capisaldi dell’ammodernamento del centro storico: dalla stazione ferroviaria di Santa Maria Novella a Firenze (di Giovanni Michelucci e altri, 1935), agli eleganti interventi di Franco Albini a Genova e a Parma, alla Torre Velasca (dello studio BBPR, Gianluigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers, 1958) a Milano. Tutti citavano la Tour Eiffel, tanto denigrata al suo sorgere da letterati e poeti, e quindi assunta a simbolo della modernità parigina. A Venezia, mentre si rifiutavano progetti di maestri dell’architettura moderna fra i più noti, da Le Corbusier a Louis I. Kahn a Frank Lloyd Wright, si realizzavano, perfino sul Canal Grande, voluminosi fabbricati voluti dalla speculazione edilizia. Era difficile paragonare i progetti dei maestri agli interventi speculativi, ma per i conservatori non si trattava di paragonare l’arte architettonica all’edilizia speculativa, quanto di valutare l’insieme urbanistico, il continuum fra monumento e tessuto urbano. Di fronte a questi inserimenti considerati esemplari, chi continuava a ritenere tutto il centro storico unico monumento da trattare con i canoni del restauro urbano, elencava i soliti esempi negativi, firmati da altrettanto noti maestri: dallo sventramento dei Borghi a Roma, per realizzare via della Conciliazione (Marcello Piacentini, Attilio Spaccarelli), alla ricostruzione del quartiere di Por Santa Maria a Firenze o alla devastazione di gran parte del quartiere di Santa Croce, descritto da Vasco Pratolini, per costruire il mastodontico fabbricato delle Poste. Le ‘due gocce’ avevano, per quanto dimenticato, un modello illustre: le celebri cupole prismatiche in lega leggera e vetro ideate da Richard Buckminster Fuller (1895-1983), in auge negli anni Sessanta quando l’International style era il nuovo linguaggio preglobale dell’architettura. Fuller sosteneva, da ultimo avanguardista, l’inserimento nei centri storici di nuova architettura tutta rivestita di vetri riflettenti che avrebbero rispecchiato l’intorno formato dall’architettura storica (nessuno ricordava l’incendio a Boston, avvenuto nei primi decenni del Novecento, di una vecchia chiesa di legno, causato dall’alto fabbricato costruito al suo fianco, rivestito di vetri riflettenti come specchi che, in una giornata molto soleggiata, agirono proprio da specchio ustorio e causarono l’incendio della chiesa).

Le ‘due gocce’ avevano suscitato solo polemiche partitiche, mentre la maggioranza dei cittadini era rimasta quasi indifferente. La metamorfosi del centro di Bologna iniziata dieci, quindici anni prima, faceva apparire questa costruzione il prolungamento delle circostanti vetrine illuminate di negozi realizzati nei palazzi svuotati per lasciar spazio agli empori che occupavano tutta la volumetria del fabbricato. A Bologna, come altrove, dietro facciate quasi inalterate si realizzavano grandi magazzini. Le ‘due gocce’ furono solo la premessa per cancellare definitivamente il piano per il centro storico varato con successo quarant’anni prima. Firenze non si è mai data un piano per il centro. In un celebre pamphlet, Firenze a pezzi e bocconi (1957), Giuseppe Papini aveva denunciato gli scempi compiuti nel centro con la nuova stazione, i nuovi alberghi e la ricostruzione postbellica. Gli argomenti non sono cambiati per tutto il corso del Novecento; anzi, sono peggiorati, e Firenze è stata recentemente paragonata a un suk (a tale proposito, si veda l’illuminante immagine che ne dà un intuitivo regista come Ridley Scott nel film Hannibal, 2001).

A Bologna, prima del piano degli anni Sessanta e Settanta, con la ricostruzione postbellica vi erano stati interventi lesivi dell’integrità storica; e prima ancora, con l’abbattimento delle mura e gli sventramenti di alcune strade principali (con demolizione di torri medievali), gli interventi erano stati accompagnati da rifacimenti di gusto neomedievale. Il paradigma parigino si era infatti ripetuto anche a Bologna. Le nuove costruzioni, in un ibrido stile classicheggiante, erano contestuali a scenografiche invenzioni: dall’VIII centenario dell’università (1888) alle merlature neoghibelline, all’uso quasi esclusivo del rosso per intonaci, mattoni, coppi e basole di porfido; sullo sfondo le odi ad Alberto di Giussano di Giosuè Carducci.

Per tutto il Novecento, l’ansia del moderno si è alternata (e si è contrapposta) alla nostalgia del passato. I conservatori hanno sempre cercato di dimostrare l’omologazione provocata dalla moderna architettura, caratterizzata da stilemi che, inseriti nelle città storiche, ne alterano l’unica, esclusiva morfologia, la loro singolare identità. A ciò gli aspiranti al moderno hanno sempre replicato che non si deve imbalsamare la città storica e tanto meno la si deve camuffare da città medievale. Gli stessi restauratori hanno opinioni contrastanti. La parola restauro (restaurare in senso etimologico sta per restituire) è stata sostituita con l’ossimoro restauro conservativo, quasi a rispondere alle tante accuse di ‘restauro distruttivo’. Non è sufficiente la sottolineatura conservativa per evitare la distruzione dei monumenti. Non tutte le attività che si possono svolgere all’interno del fabbricato storico, magari correttamente restaurato, sono compatibili con la sua conformazione tipologica e strutturale, con il suo inserimento nell’articolato quadro urbanistico. Molto ambiguo è anche il riferimento al ‘restauro corretto’. Non esistono precise norme da rispettare. Nel secolo scorso varie metodologie si sono alternate e intrecciate: il rifacimento in stile, detto appunto falso storico; il rigoroso mantenimento di ciò che rimane del fabbricato storico – indipendentemente dalle alterazioni subite, dalle superfetazioni aggiunte, trattate con la stessa meticolosità di un fregio scolpito o di un affresco – ma spesso con l’inserimento creativo di elementi moderni, possibilmente dissonanti per forma e materia, ritenuti necessari per adattare, ammodernare e rinnovare la vecchia costruzione destinandola a nuovi utilizzi; ovvero il restauro creativo, una libera traduzione modernista del linguaggio originale.

L’assenza di normativa per il restauro architettonico si riflette sul restauro urbano che dovrebbe costituire la guida per il mantenimento della città storica. Il mantenimento delle pietre è necessario ma non sufficiente. Senza abitanti, senza botteghe, senza forestieri, viene meno il concetto stesso di città. Tanto più che la città storica, nel confronto fra passato e presente, è, secondo alcuni, la vera città moderna. L’insediamento contemporaneo, specie in Italia, è privo delle strutture pubbliche e attrezzature collettive (non potendosi considerare tali i supermercati) in grado di rendere moderna quella parte di aggregato urbano definita periferia. L’insediamento contemporaneo non può essere inteso come bene comune, bene immateriale, dove la ricerca della bellezza è finalizzata al benessere dei cittadini: è a tutti gli effetti una ‘non città’, un aggregato urbano marginale, appunto periferico.

Nuove diatribe

Quando, all’inizio del Settecento, Clemente XI inaugurò il porto sul Tevere che a lui deve il suo nome (battezzato subito di Ripetta per distinguerlo da quello di Ripa grande), complimentandosi con l’architetto Alessandro Specchi per il risultato ottenuto, non poteva immaginare nessun legame di quel luogo con il passato imperiale e pagano di Roma. L’Ara Pacis era ancora sepolta negli scantinati di un nobile palazzo dov’era un tempo Campo Marzio. Lo scenografico porto di Ripetta era il completamento delle sistemazioni urbanistiche del secolo precedente e conferiva alla città eterna il senso di una modernità spettacolare. Si portava a compimento l’assetto urbanistico ideato da Gian Lorenzo Bernini a onore e gloria della Controriforma tridentina.

Benito Mussolini, inaugurando nel 1938 la teca di vetro e cemento contenente l’Ara Pacis, messa lì a settant’anni dal ritrovamento (dopo restauri e pellegrinaggi vari) per conferire ‘romanità’ a piazza Augusto Imperatore, fece esplicito riferimento all’impero romano, a quella ‘eternità’ che s’innovava trionfalmente nell’impero fascista. Demolendo la sistemazione settecentesca, aveva ‘cancellato secoli di decadenza’ per ristabilire la genesi ‘virile’ del suo impero. Il barocco, tanto avversato dai futuristi, in quegli anni era sinonimo spregiativo di decadenza, frivolezza o, nel migliore dei casi, follia. Non solo i politici ma anche gli intellettuali usavano il termine barocco in senso dispregiativo. La teca, opera di Vittorio B. Morpurgo, al pari della sistemazione di piazza Impero, non era particolarmente trionfale e neppure rappresentativa del regime o della nuova modernità di Roma. La pensava così anche Mussolini che, tramite il ministro della Cultura popolare, Giuseppe Bottai, apportò modifiche al progetto originale.

Le stampe e le incisioni, allora come oggi in circolazione, e i lavori di scavo archeologico durati decenni, mostrano la clamorosa differenza qualitativa rispetto alle sistemazioni precedenti (non si deve dimenticare che l’anno dopo, nel 1939, il ministro predispose due fra le più importanti leggi di tutela dei monumenti e del paesaggio emanate dallo Stato italiano). La sistemazione di piazza Impero rafforzava il convincimento, per i più inconfutabile (allora come oggi), che la città si sia formata per stratificazioni successive. Ogni epoca si sovrappone a quella precedente esprimendo, sempre e in ogni parte, il proprio tempo. Per rimanere città, affermano gli innovatori, deve rinnovarsi, magari riscoprire il passato remoto anche distruggendo il passato recente. Appartiene agli ultimi decenni un principio opposto al vitruviano concetto di firmitas, di solidità, ossia l’usa e getta, il nuovo imperativo categorico da applicare anche in architettura, traducibile in produci e consuma, demolisci e costruisci.

Il giudizio su piazza Augusto Imperatore, considerata superfetazione urbanistica e architettonica, brutta opera di regime, è condiviso: nessuno infatti si è opposto all’abbattimento della teca disegnata da Morpurgo. Fin dall’inizio era stato chiesto a Richard Meier, nell’ideare il nuovo padiglione dell’Ara Pacis, di non rinunciare alla sua creatività progettuale, ma di rapportarsi alla sistemazione settecentesca, restituendo l’immagine della città storica che si rispecchiava nel Tevere. Il fabbricato in realtà accentua l’allontanamento dal fiume e modifica volutamente la fisionomia della città eterna; in più sovrasta e annulla la presenza dell’Ara Pacis, rappresentando però il trionfo dell’architetto moderno.

La storia e l’architetto

Meier, a proposito del padiglione che, oltre a incapsulare l’Ara Pacis, ospita mostre e attività varie, nel giorno stesso dell’inaugurazione dichiarò che Roma è una città stratificata nella quale ogni secolo ha depositato un’infinità di capolavori e di monumenti sottolineando come a lui fosse toccato il compito di inaugurare il nuovo strato del 21° secolo. Si riafferma così il senso dell’eternità di Roma, città obbligata a rinascere, stratificazione dopo stratificazione, secolo dopo secolo, per mantenere immutato il suo trionfale splendore.

Se si confrontano le due opere romane di Meier – quasi coeve ed entrambe in bianco cemento, ma costruite in luoghi differenti: il fabbricato per l’Ara Pacis (inaugurato nel 2006) e la chiesa parrocchiale di Dio padre misericordioso a Tor Tre Teste (2002), in periferia – si misura il senso di una valutazione storica distorta. La chiesa, dalle caratteristiche tre vele bianche rivolte a sud, è un capolavoro dell’architettura contemporanea, che può avviare un processo di riqualificazione dell’informe agglomerato cementizio della periferia romana. Il padiglione per l’Ara Pacis è struttura anomala e dissonante, tale da banalizzare ciò che resta della città storica, riaccendendo la polemica sul recupero e innescando una questione fondamentale forse irrisolvibile. Sono infatti tutti concordi nel sostenere che la città storica non può essere imbalsamata né può essere trattata come se fosse una qualsiasi periferia moderna o contemporanea. Il rifiuto della storia urbana coincide con il rigetto dell’identità del luogo. Le conseguenze del nuovo padiglione non sono state ancora valutate nella loro dirompente strategia, tesa a eliminare la città storica per dare spazio all’architettura contemporanea. Il modello proposto all’Ara Pacis non salva neppure i monumenti codificati come tali. Leggi e buoni propositi non sono garanzia di mantenimento dei monumenti: isolati dal loro ambiente, appariranno vuoti simulacri di un incomprensibile passato. Si elimina una bruttura non per ripristinare un’area storica, bensì per avviare un’ulteriore fase di trasformazione e banalizzazione della città storica nella periferia.

L’estensione di Roma imperiale può forse essere paragonata alla Roma realizzata e programmata nel Novecento. La superficie considerata storica (consolidata e stratificata fino a metà Ottocento, prima dell’arrivo dell’esercito sabaudo e del suo passaggio a capitale del regno d’Italia) non è neppure un trentesimo dell’attuale area urbanizzata. Il nuovo strumento urbanistico ha ridotto ulteriormente ciò che resta dell’agro romano, già deturpato da un’urbanizzazione incontrollata, e ha portato la superficie urbanizzata da 44 a 56.000 ettari. La questione centro storico, tuttavia, presenta, proprio con le due opere di Meier a Roma, un risvolto innovativo. L’architettura moderna intesa come opera d’arte può riscattare la scombinata periferia. Collocata nel centro, ammesso che sia di pari qualità, lo altera e lo impoverisce, accelerando la sua scomparsa e distruggendone la fisionomia.

Vecchie e nuove teorie

Il padiglione romano dell’Ara Pacis, nel loro piccolo le ‘gocce’ bolognesi e i non pochi interventi in fase di costruzione in molte città storiche s’inseriscono nel rinnovato interesse verso l’architettura moderna sostenuto con forza dallo stesso Ministero per i Beni e le Attività culturali. Con il Codice dei beni culturali e del paesaggio (d. legisl. 22 genn. 2004 n. 42) sono state istituite anche strutture ministeriali concernenti l’architettura moderna, intesa appunto come bene culturale, segnando un ritorno al passato. L’interesse ministeriale di questi anni verso l’architettura moderna è paragonabile a un’azione di propaganda, quasi a imitazione del celebre ministro Bottai. Senza dimenticare che anche gli sventramenti compiuti sotto la guida di ‘Mussolini urbanista’ (A. Cederna, Mussolini urbanista, 1975), oltre all’architettura littoria, erano definiti moderni. Il revival bottaiano ha suscitato adesioni entusiaste. Gli architetti, specie quelli ministeriali appartenenti ai ‘beni culturali’, sono stati abili a tradurre l’aggettivo della nuova architettura da moderna a contemporanea. Paravento, lo si è detto, il citato Codice, dove per la prima volta si legifera la tutela delle «pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico» (art. 10, 4° co., lett. g), ovvero dove per la prima volta sono tutelate alcune componenti del centro storico e non solo quelle rappresentate dai singoli monumenti. Nessun accenno al centro o alla città storica intesa quale unico monumento. Riferirsi alle pubbliche piazze, strade e così via favorisce il confronto, l’intervento moderno, la sostituzione di tutto ciò che può apparire minore, poco rappresentativo e scarsamente documentale, se e in quanto valutato come edificio a sé stante e non parte formativa del luogo storico. Bottai, coerentemente con le sue idee, si oppose al ripristino quale complemento dell’intervento di restauro. Le leggi del 1939 lo sanciscono senza specificarne il metodo. Tuttavia, Bottai non ha mai sostenuto la conservazione della città storica. Neppure si può scambiare la legge di tutela dei monumenti, del paesaggio e delle opere d’arte con il recupero del centro storico. Per lo stesso paesaggio, citato ovunque anche come ambiente o territorio (la Corte costituzionale italiana ha decretato nel 2007 la totale interscambiabilità dei termini), non si hanno riferimenti metodologici circa le diagnosi e le prognosi, la metodologia di salvaguardia e tutela e i criteri di valorizzazione che ne possono derivare.

Si trasforma la società, cambiano le leggi di tutela, ma nella sostanza tutto resta immutato e non ci si accorge che la città moderna non può essere assimilata a quella del passato. Viceversa non si è compreso che l’architettura moderna o contemporanea non può manifestarsi all’interno del perimetro storico proprio per la sua morfologia. Il Codice riflette il mancato approfondimento culturale fra tutela e valorizzazione, intese come se fossero interscambiabili, come se la città storica e il paesaggio fossero beni culturali disgiunti. Dal 2004 a oggi, tale Codice è stato già cambiato due volte (2006 e 2008). Non è improbabile che nei prossimi anni lo sarà ancora, e forse si potranno raccogliere le novità delle ricerche compiute sull’argomento. Per ora non ci si può accontentare dell’inserimento nel Codice della tutela di quelle parti (strade, piazze e spazi aperti urbani di interesse artistico o storico) che unitamente ai fabbricati considerati monumentali dovrebbero costituire oggetto di vincolo. Questo per due motivi: il vincolo non ha mai salvaguardato l’integrità della città storica e il frazionamento degli elementi che la formano non favorisce una città che, per corrispondere veramente alle esigenze della modernità, non dovrebbe rinunciare al senso di responsabilità e dignità di appartenenza che caratterizzano la città storica. Senza dimenticare quella identità morfologica che rischia di essere distrutta dall’opera di omologazione che si sta diffondendo nella prassi quotidiana dei vari interventi.

Coincidenze fallimentari

In questi primi anni del nuovo secolo, nei quali si legifera in Italia su alcune parti del centro storico, si manifesta chiaramente il fallimento delle due maggiori esperienze progettuali nell’ultimo decennio del Novecento: quelle che coinvolgono l’intero centro storico di Venezia e di Palermo.

A Palermo, la gestione pubblica del piano per il centro storico è stata, più che fallimentare, disastrosa, ma al tempo stesso ha offerto elementi di riflessione per il futuro. Negli ultimi anni del secolo scorso vi erano case vuote, non solo ruderi, che si potevano acquisire con poco o nulla, restaurare e rendere abitabili. Vi erano zone abbattute, abbandonate da decenni, in cui si poteva ricostruire (mediante il ripristino tipologico previsto dal piano) lo storico tessuto edilizio abitativo. Vi erano risorse economiche in abbondanza per fare case pubbliche, per inserire nuovi abitanti, per relazionarsi e collaborare con le proprietà private dei sontuosi palazzi, per rendere nuovamente questa città unica come tutte le città storiche. Tutto questo inoltre sarebbe stato possibile in tempi brevi per il vantaggio, rispetto alle altre, di avere un centro storico quasi privo di residenti, con poche botteghe aperte e molti locali da adibire ad attività artigianali. La stratificata, complessa struttura urbana imponeva il recupero graduale dell’intero tessuto urbanistico, privilegiando i fabbricati che avrebbero permesso il ritorno della residenza popolare. Il recupero non doveva, come invece poi è stato, limitarsi alla compagine monumentale con il risultato di pietrificare la città, di trasformarla in museo e il rischio di allargare il commercio finalizzato al turismo.

Il piano (1989-1993) era stato redatto con la formazione di un apposito ufficio di progettazione sulla base delle esperienze realizzate negli anni precedenti in alcune città, non solo italiane. Un piano per il centro storico si deve considerare un piano di restauro urbano, con forti implicazioni tecniche, culturali, economiche e, non per ultime, sociali. Obiettivo fondamentale dovrebbe essere il completo rovesciamento delle tendenze in atto in modo da bloccare l’esclusivo utilizzo privato e distorto del centro stesso per fini commerciali o per attività di lusso, deformando l’identità complessiva della città, pur lasciando apparentemente integre le facciate. L’analisi delle tipologie (senza voler entrare in tecnicismi) è decisiva proprio per definire sia le modalità d’intervento di restauro, ripristino o ristrutturazione, sia gli usi ammissibili per ogni tipologia. Nel caso di Palermo la tipologia detta catoio, per es., rappresentata da vecchi fabbricati con alloggi monovano, abitati un tempo da famiglie povere, avrebbe dovuto interfacciarsi con la tipologia dei palazzi nobiliari o delle residenze altoborghesi. Il piano offriva infatti varie soluzioni per ricostruire le tipologie storiche rendendole abitabili, veramente moderne, senza alterare l’impianto urbano. A Palermo si è preferito invece restaurare qualche ‘contenitore’ in disuso: una chiesa rudere, un convento da riabilitare come sede di burocrazia, fabbricati di indubbio valore simbolico e architettonico, ma scarsamente incisivi per il recupero complessivo della città storica. Intervenendo con denaro pubblico su alcuni capisaldi, le macerie, le case fatiscenti, le aree abbandonate, tutta l’edilizia residenziale minore sono diventate merce di lusso per le imprese immobiliari che hanno conservato, pretendendo però di ottenere cospicui ricavi, e modificando i criteri operativi basati sulle tipologie, per adeguare le costruzioni ai modelli di maggior prestigio residenziale. Hanno inoltre preferito continuare a espandersi, avendo tutto l’interesse a far sì che la città storica non fosse abitata anche dai ceti sociali meno abbienti. Il recupero del centro storico ha così limitato l’espansione edilizia periferica e ha interrotto il ciclo edilizio innescato a Palermo con l’abbandono del centro. Dopo dieci anni il piano è considerato obsoleto. Concorsi internazionali – a Palermo come altrove – fanno in realtà da paravento alla trasformazione del luogo da bene pubblico da restituire alla comunità a privato capitale economico.

A Venezia, Leonardo Benevolo – con il nuovo piano regolatore (1995-1998) – aveva ribaltato decenni di inutile pianificazione. Veniva superato lo stereotipo dello sviluppo sostenibile, se e in quanto restava inscindibile l’unione della città lagunare con la periferia in espansione in terra ferma. Si dimostrava che Venezia da ‘centro’ poteva ritornare a essere ‘città’ storica. Poteva ritornare, con interventi di manutenzione, di restauro e di ripristino, a essere abitata, vissuta e non solo usata e consumata dai turisti. Veniva predisposto uno scenario dove l’acqua era di nuovo protagonista della sua identità formale e, modificando l’approdo e i percorsi, recuperando ambiti abbandonati, la mobilità turistica non doveva più coincidere con quella di chi a Venezia abita e lavora. Si predisponeva così la fattibilità di ciò che ripetuti referendum hanno sempre impedito: separare la città lagunare dalla terra ferma. Il ritorno alla precedente, originale, situazione amministrativa, in cui Mestre era un Comune a sé stante (fino al 1926), avrebbe permesso alla terra ferma di non dipendere più dalla città storica. Mestre, con questo piano, da periferia era per la prima volta pianificata come città. Separate, distinte, le due polarità venivano unite dal grande parco lagunare.

Nei primi anni del nuovo secolo la nuova amministrazione è ritornata alle vecchie strategie abbandonando la pianificazione per il marketing territoriale. L’immagine consolidata si è trasformata in marchio, logo, inteso quale vuoto simbolo per una virtuale economia in grado di offrire l’archetipo di tante Disneyland riprodotte in facsimile. Così operando si è rovesciata la situazione: adesso Venezia è diventata la periferia di Mestre.

Proliferazione di camere a ore, bed & breakfast, paninerie e pizzerie fin dentro i canali (la cui pulizia era iniziata negli anni della stesura del piano) predispongono a un’ulteriore espansione del turismo includendo la modernità permanente. Venezia – tutta albergo, niente città – punta ancora e solo sul turismo. Le trombe della pubblicità annunciano dal 2002: domani o dopodomani si ammirerà il quarto ponte sul Canal Grande, opera firmata da Santiago Calatrava. Un capolavoro di architettura contemporanea? O un’opera di scarsa utilità per restituire a Venezia il senso di città isola? Il ponte della Costituzione è stato inaugurato (2008) con grande ritardo per ragioni (si dice) di ingegneria strutturale. Poiché molte altre città si sono date ponti, passerelle, viadotti dello stesso autore, che ha una spiccata personalità progettuale, c’è il forte rischio dell’omologazione. La città unica al mondo diventerà un’appendice posticcia della modernità marinettiana? La «serva padrona», come la definì lo storico Fernand-Paul Braudel, rispolvera il suo duplice ruolo. Piange e con fare servile, allarma: la città più bella del mondo ha i giorni contati. La città scende, il mare sale. Il MOSE (MOdulo Sperimentale Elettromeccanico, di arretrata tecnologia) deve essere fatto a tutti i costi anche se costa molto e danneggia il paesaggio lagunare (che della città storica è parte integrante) e in più non risolve il problema dell’acqua alta. Si tratta però di un investimento colossale, e come tale rende molto. Con il materiale di risulta degli scavi si potrà restaurare la laguna in modo esemplare: persino chiudere il canale dei petroli e trasferire altrove porto e il nulla rimasto del petrolchimico (fino a ieri intoccabili). Riconvertendo le aree dismesse ci saranno altri ricavi, altri lavori, nuove erogazioni. Venezia ritornerà ‘padrona’, il ‘mostro’ MOSE diventerà attrazione turistica. La diga dentro la laguna è venduta come opera d’arte contemporanea. Può contribuire a rafforzare il primato di Venezia: la città storica più importante per l’arte contemporanea.

Ulteriori indizi

L’insuccesso della pratica progettuale e amministrativa, il ritorno a logore quanto sterili diatribe sull’inserimento della nuova architettura all’interno della città storica, il disastro dell’urbanistica italiana disorientano sull’azione stessa di tutela e sui criteri del progetto di restauro degli edifici di valore storico e artistico, sottomettendoli così a una mercificazione quasi coatta. All’architettura, ritenuta infestante dai conservatori, si aggiunge la mobilità motorizzata, inquinante nel centro più che altrove. Tutti, però, vogliono la propria auto sotto casa, mentre i mezzi pubblici, la cui gestione (quasi sempre privatizzata) è sempre più costosa e inefficiente, devono convivere con le auto, utilizzando le stesse strade, inidonee al traffico motorizzato. In nome della contemporaneità si formano così gruppi di sostegno e comitati che si oppongono ai grossi tram o ai giganteschi autobus proposti negli ultimi anni in alcune importanti città storiche. Un tram di ultima generazione dovrebbe sfiorare l’abside di Santa Maria del Fiore a Firenze, mentre un elefantiaco filobus a guida ottica potrebbe rodere le due Torri e altri monumenti bolognesi. La micrometropolitana di Perugia, inaugurata nel 2007, con la presenza di una macrostazione, firmata da un protagonista dell’architettura contemporanea, Jean Nouvel, ha peggiorato il panorama settentrionale della città. La metropolitana di Brescia ha distrutto reperti di archeologia medievale. Un’ipotetica ‘sublagunare’ dovrebbe circumnavigare Venezia sotto le acque della laguna. Ai tram e alle metropolitane si sono aggiunti i parcheggi: a Milano sotto la basilica di Sant’Ambrogio, ad Assisi davanti alle mura medievali. Può stupire il parere favorevole di chi dovrebbe tutelare per legge i beni culturali. Stupiscono ancor più i risultati ottenuti. Sventramenti per nuove strade, parcheggi in superficie e interrati, mezzi di trasporto pubblico e privato, semafori ingombranti come i cartelloni della segnaletica, non sono riusciti, in oltre tre quarti di secolo, a risolvere il problema del traffico e (è drammatico constatarlo) non solo nei centri storici.

L’indizio più grave sul futuro dei centri storici è la perdita del paesaggio agrario. Argomento questo desueto ed elitario, con identica prospettiva di scomparire al pari della città storica. In Toscana, per es., fino a tutto l’Ottocento in un’area di circa 1000 ha si potevano contare 65 tipologie – seminativi arborei, prati e pascoli, boschi ecc. – organizzate in circa 600 tessere di un ricchissimo mosaico paesaggistico. Sulla stessa estensione adesso se ne contano 18. Là dove c’erano campi promiscui con vegetazione e colture diverse, ora si espandono monocolture: tutto mais, tutto girasole, tutto vite, tutto ulivo, tutto fico d’India. Concimi chimici, agricoltura industriale, nuove urbanizzazioni fanno scomparire paesaggi tradizionali ritenuti ostacolo alle produzioni intensive, all’espandersi delle periferie, alla diffusione delle villette, alle ripetute esigenze del nostro tempo. Nell’ambiente agrario (non urbanizzato) si inseriscono i cosiddetti centri storici minori, borghi e insediamenti del passato che non hanno avuto o non sono stati mai riconosciuti come città. Pittoreschi e affascinanti singolarmente e nel loro insieme, presentano rigorose tipologie urbane di appartenenza. S’ignora la loro consistenza numerica: poche le regioni europee che li hanno censiti. Moltissimi, quelli abbandonati o utilizzati per pochi giorni in un anno, crollano lentamente per incuria o per cause naturali traumatiche. Alcuni sono trasfigurati dalla presenza turistica, nello stesso modo delle grandi città storiche, e altri aspirano a diventare albergo diffuso. Rari sono quelli che ci riescono dopo essere stati acquistati in blocco e imbalsamati fino a sembrare un set cinematografico. L’uso di corpi illuminanti in ghisa stampata e gli stereotipi di una produzione standardizzata diventano l’inevitabile premessa di una loro prossima fine.

Segni di un diverso approccio

In questo inizio di secolo non sono mancati restauri appropriati di singoli fabbricati e in alcune città (per es., Siena) sono stati completati i provvedimenti contro l’uso indiscriminato delle auto, permettendo così di cogliere e contemplare la bellezza della città storica. Si registra tuttavia una clamorosa sconfitta, e non per eccesso di architettura moderna o contemporanea, ma per l’assenza di soluzioni progettuali in grado di rapportare la città storica al territorio, urbanizzato e non, accentuando così il disfacimento e l’impoverimento delle stesse zone urbanizzate. Non vi è neppure l’obbligo di disegnare il perimetro dell’insediamento storico e, di conseguenza, di regolare le funzioni al suo interno. Il fatto di costituire l’area più pregiata di tutto il territorio, nelle grandi e medie città, ha generato una metamorfosi forse inarrestabile. Di censimento in censimento diminuiscono gli abitanti, mentre il mantenimento dei monumenti diventa sempre più oneroso e il degrado aumenta. Interi palazzi svuotati per allestire stores o alberghi o bed & breakfast. Iniziative apparentemente appropriate, come l’istituzione di nuovi musei e nuove attività culturali, finiscono per ledere la struttura stessa della città privandola della componente umana. Mai come in questo inizio di secolo la città storica di grande e media dimensione è stata usata e non vissuta. Negozi monomarca con vistose insegne e con illuminazione accecante hanno trasformato il corso – la strada in genere dedicata al re o all’eroe nazionale, che segnava nelle città storiche un rituale di fondazione, una precisa referenza di orientamento con il corso del sole – in duty-free shops aeroportuali. Il rifiuto di teorie e prassi tese a mantenere la città come luogo, come matrice dell’assetto territoriale, ha generato una crisi più profonda, che si ritorce su tutto l’ambiente. Come lo smemorato non riesce a programmare il presente e tanto meno il futuro, così l’aggregato urbano (moderno o contemporaneo), trasfigurata la sua matrice storica, che senza memoria non ha prospettive, è in balia dell’iniziativa personale, del potere economico, del libero mercato delle aree e dei fabbricati. La lunga battaglia per mantenere i centri storici sembra perduta. Dalla sconfitta emergono però i segni di un diverso approccio culturale: inquadrando il tema ‘centro storico’ nella sua dimensione territoriale, si può individuare l’occasione (forse l’ultima) per riscattare almeno la ricerca teorica, per evitare gli errori e le lacune che hanno rafforzato la prassi distruttrice.

Convinti (o con la presunzione di credere) che nel lungo periodo siano gli sconfitti a compiere i maggiori avanzamenti nella ricerca disciplinare, gli approfondimenti compiuti in questi ultimi anni possono determinare una prospettiva diversa, che potrebbe sfociare in un sentimento comune, alternativo a quello in essere. L’impulso a rimuovere la battaglia perduta sorge dal riconoscimento delle nostre incapacità di affrontare l’argomento in modo adeguato. Non è la prima volta che ciò accade: da quando è iniziata a formarsi la città moderna, l’attenzione al centro storico si è spenta e poi riaccesa, coinvolgendo non solo tecnici e/o amministratori, mentre la ricerca sperimentale è continuata.

L’irrisolta questione del centro storico riflette, lo si è detto, la crisi della città. A sua volta, il malessere urbano rispecchia il disfacimento del territorio. Nuovi segni riguardano il passaggio concettuale da centro a città storica, e il territorio inteso quale insieme di luoghi rappresentativi di uno scenario collettivo dove si possono cogliere elementi (anche controversi) di un possibile futuro sia per le grandi città del passato, sia per i borghi o per i nuclei storici rimasti ancora integri, magari in alcune località abbandonate. Il futuro dei centri storici – se un futuro ci sarà – non è affidato agli amministratori o agli urbanisti sensibili. Nessuno riuscirà a sostenere soluzioni praticabili senza aver prima definito (e tentato di ricostituire) la città. Da non confondere con la città ideale, anch’essa mai esistita come il centro storico; ma, come la città ideale ha rappresentato un traguardo astratto verso cui tendere, così la costruzione della città contemporanea può rappresentare l’alternativa al paradigma ottocentesco di rinnovo ed espansione, e delle teorie che a esso si contrapponevano. L’anticittà, declinata in varie forme – dalle città-giardino, sostenute dai seguaci di Ruskin, fino alle ‘villettopoli’ di questi ultimi decenni – hanno alterato quel concetto di città in cui la bellezza, intesa quale bene immateriale appartenente all’intera comunità, ha contribuito a formare il rispetto dei cittadini verso la cosa pubblica.

Da città a centro storico

Proprio in questi ultimi anni di rivalsa dell’architettura contemporanea e di tracollo dell’urbanistica per assenza d’idee sulla città futura e ancor più sull’assetto del territorio, si registra il cambiamento concettuale (con precise conseguenze disciplinari) del passaggio da ‘città storica’ a ‘centro’. Non è solo questione di termini, bensì di significato e di un diverso rapporto con la sistemazione urbana e territoriale del 21° secolo.

In Italia la città era un luogo spesso cinto da mura, in cui avveniva la convivenza degli abitanti sotto le medesime regole. Le città si erano formate e trasformate nel corso dei secoli assumendo una dimensione formale in cui, detto in modo assai schematico, si fondeva a volte il modello greco (ippodameo), filtrato da Roma, con principi urbanistici arabi (musulmani). Era ripartita in ambiti, rioni, quartieri; poi, già sul finire del primo millennio, nel periodo travagliato della crescita, le parrocchie e le ubicazioni dei vari ordini conventuali assunsero un ruolo ‘strutturale’ nell’organizzare la città. Le parrocchie erano ambiti di una diocesi metropolitana la cui giurisdizione si estendeva oltre il perimetro urbano, nella campagna circostante, ed erano sin dalla loro origine tese a rafforzare il senso della comunità. La diocesi era costituita dalla chiesa metropolitana, chiesa matrice delle altre parrocchie. La centralità urbana in genere era costituita da una o più piazze su cui prospettavano le sedi (unite o separate) del potere civile e religioso; non di rado la piazza era luogo di mercato, sagre e processioni rituali, tornei e fiere. Le molte varianti dell’assetto formale, la forma urbis appunto, derivante anche dalla natura del terreno su cui la città sorgeva e dal periodo della sua fondazione (o rifondazione, addizione ecc.), non inficiavano il significato intrinseco di città. Significato accentuato dalla sua identità formale, singolare quanto corrispondente alle varie fasi della sua evoluzione storica. Coabitata da classi socialmente differenti – con prevalenza di poveri e di mendicanti – non aveva un solo centro e, soprattutto, non aveva periferia. Le parrocchie e i conventi costituivano epicentri sociali e culturali anche se localizzati ai margini dell’abitato. La povertà di molte case era compensata dalla ricchezza dei luoghi d’incontro della comunità: dalle chiese e dall’architettura delle strade e delle piazze su cui sorgevano i palazzi, dall’insieme degli edifici della sua struttura urbana.

La città si è successivamente espansa oltre le mura e nell’espandersi di solito le ha abbattute. Si sono quindi insediate le attività produttive e la fabbrica, pur innescando il processo di espansione periferica, ha contribuito, per tutta la fase che ha preceduto la Seconda guerra mondiale, all’affermazione di un nuovo e forse ancor più incisivo concetto di città/comunità di appartenenza. La fabbrica, diventato luogo del lavoro collettivo, ha generato una nuova classe sociale che all’inizio del suo insediamento si è integrata con le altre, in un rapporto anche conflittuale, teso a rivendicare e ad accrescere i luoghi pubblici d’interscambio, dalle scuole dell’obbligo alle biblioteche popolari, alle attrezzature ricreative. Con l’ulteriore crescita, la città è diventata progressivamente aggregato urbano. La città storica si è trasformata in ‘centro’, mentre la moderna zona esterna si è venuta configurando come periferia del centro. Più si allarga la periferia, più la zona centrale assume funzioni moderne, spesso – come le auto – incompatibili con la sua struttura. Nell’espandersi, la zona esterna diventa sempre più periferica, marginale, proprio perché priva di centralità, e nel centro le nuove attività urbane prendono il posto di quelle storiche. Si usa il centro, diventato ‘centro urbano’, non lo si vive, non lo si abita.

Espandendosi nella campagna, l’attuale periferia ha continuato a usare e consumare tutte le strutture della città storica. Per rinnovarla, sono stati inseriti nuovi fabbricati, allargate strade, sostituite le botteghe artigianali con negozi, allontanati ceti sociali e attività povere per dare spazio a nuove mansioni maggiormente redditizie. Considerare la città storica l’equivalente di un ‘centro’ ha contribuito a deformare il significato stesso di città. Il centro, per quanto storico, non è equivalente a città. La periferia come tale non può essere considerata centrale, attrattiva, urbana. Considerare centro la città storica è stato un doppio errore: ha impoverito il significato e il ruolo della città (di ciò che essa ha rappresentato e che dovrebbe continuare a svolgere) e ha contribuito a produrre periferia. La periferia, è opportuno affermarlo, non si trasforma (o risana) dilatandola.

Da città storica a componente della città metropolitana

Per riguadagnare il ruolo perduto è basilare per la città storica riconvertire la periferia in città. Il centro (ormai a tutti gli effetti urbano) ritornerà a essere città storica se si riuscirà a suddividere la periferia (e il suo hinterland, per quanto concerne le città storiche di media o grande misura) in nuove municipalità. Solo così la città del passato non sarà più il solo centro dell’area metropolitana. Alcuni aggregati urbani (attestati in prossimità di importanti centri storici) sono stati pianificati per avviare (seppure timidamente e parzialmente) un processo teso a formare una rete di nuovi municipi. La nuova municipalità deve possedere lo stesso grado d’attrazione della città storica, ma gli elementi attrattivi dovranno essere diversi e ugualmente rappresentativi nel formare la complessità di una città metropoli (in senso opposto al significato che si attribuisce a questo termine).

La rete di municipi assume il significato di una città di città o città metropolitana, e si riallaccia alla rete dei municipi individuata dalla scuola territorialista italiana. In questa prospettiva, la rappresentazione identitaria del territorio offre un quadro di riferimento progettuale tale da predisporre un diverso rapporto fra l’insediamento storico e il territorio, in cui le zone agricole, le zone abbandonate e il paesaggio, non siano più area di riserva per altre, nuove urbanizzazioni, bensì risorse fondamentali per definire uno scenario urbano territoriale inteso quale valore identitario condiviso. Lo ‘statuto dei luoghi’ richiamato in alcune leggi regionali diventa guida per l’elaborazione di piani che dovrebbero, per la prima volta nella storia dell’urbanistica moderna, regolare un diverso, realmente alternativo, paradigma di sviluppo.

Lo squilibrio del territorio, non solo italiano – ma quello italiano ne risente maggiormente per la sua specifica qualità – è causato anche dalla crisi della disciplina urbanistica degli ultimi cinquant’anni. Si utilizzano metafore e ossimori per illustrare (e in molti casi sostenere) l’estensione dell’urbanizzato, inteso quale forma nuova della città contemporanea: città diffusa, città infinita, città visibile (come contraltare alle troppo citate città invisibili di Italo Calvino). Ovvero, in negativo, ma quasi senza alternative progettuali: sprawl, ‘contro-urbanizzazione’, città dispersa, città perduta. Lo sfaldamento della città mette in crisi l’idea stessa di città. Il sostantivo città è seguito da un aggettivo che la nega come luogo della convivenza e dell’interscambio sociale. Non c’è città se essa è dispersa o diffusa o frantumata nel territorio ex agricolo. Il territorio è invaso dall’insostenibile eccesso di costruzioni, soffocato dalle alterne ‘bolle’ edilizie, dipendenti o meno dagli strumenti urbanistici in essere.

Dalla fine del secolo scorso a oggi, la produzione edilizia ha superato in molti Paesi, non solo occidentali, la quantità del costruito degli ultimi cinquant’anni. La produzione edilizia è diventata un fatto strutturale dell’economia, specie in Italia in cui la costruzione di case occupa dal 35 al 40% della forza lavoro e attira l’investimento del risparmio. In tutte le città europee la popolazione è quasi stazionaria, mentre la produzione edilizia è aumentata vertiginosamente. Il furore costruttivo dell’ultimo decennio ha accelerato l’uso improprio del centro. Riconsiderare (e dunque programmare, pianificare) quale obiettivo condiviso il centro della città storica presuppone un analogo processo di riconversione della periferia in città, riorganizzando, come si è detto, la frantumazione urbana in ‘città di città’. La città storica esiste già, e se s’intende mantenerla, restituirne la bellezza e ritornare ad abitarla, occorre costruire altre città, finalmente moderne, in grado di assorbire centralità per trasformare appunto la periferia in città.

Un diverso progetto dell’assetto del territorio, se si prefigura la restituzione della città storica, ribalta l’imperativo dello sviluppo, dell’espansione e utilizza i parametri della cosiddetta decrescita. Il territorio non potrà rimanere terra in attesa di essere edificata. Una città capace di diventare metropoli suddividendosi al suo interno e operando sull’esistente per formare la rete di municipi, interrompe il ciclo edilizio, causa ed effetto dello stravolgimento del territorio. Furore costruttivo, con periodiche crisi e rapide riprese, decisivo nel determinare il duplice passaggio da città storica a centro urbano, e da città presuntamente moderna a periferia.

Con la seconda rivoluzione industriale, la città, diventata aggregato, dopo aver attratto chi abitava in campagna o nei vecchi e poveri isolati del centro, si è svuotata, ha visto diminuire la sua popolazione, allontanata nelle marginali villettopoli, e, con avidità, ha accentrato dentro di sé, specie nella parte storica, tutte le funzioni ricche che è riuscita ad assorbire dal suo hinterland. I nuovi fabbricati, realizzati dove sorgevano le industrie (ormai dismesse, chiuse o delocalizzate), sono adibiti quasi dovunque a supermercati, provocando nuove congestioni e nuovi abbandoni. La continuità del ciclo edilizio si può interrompere se, oltre al significato e ruolo della città storica, si riconoscono, si rappresentano e si riqualificano i valori identitari del territorio. La città storica di tali valori rappresenta un caposaldo, unitamente ai paesaggi agricoli, lagunari, costieri, appenninici, fluviali e così via. La conoscenza della struttura fisica e morfologica del territorio deve quindi estendersi alla rappresentazione identitaria del territorio stesso (La rappresentazione identitaria del territorio, 2005) per tracciare una metodologia e una prassi progettuale capaci di mutare i consolidati, per quanto obsoleti, principi disciplinari e professionali. La politica di decrescita dell’urbanizzato impone scelte economiche in cui l’interesse privato ritorni a essere subordinato a quello pubblico, come lo era nella città fino a quando è rimasta tale. E impone altresì il riconoscimento del territorio non urbanizzato quale prolungamento della città storica. Territorio che deve riconquistare quella firmitas in grado di opporsi all’usa e consuma inerente il ciclo edilizio innescato con la crescita dell’urbanizzato.

Il restauro urbano

Individuato un possibile scenario territoriale in grado di stabilire il recupero della città storica, si deve accennare alla sua restituzione mediante il metodo del restauro urbano, disciplina codificata con la pubblicazione di una lunga e paziente ricerca di Leonardo Benevolo (2004) che, per un quarto di secolo, ha studiato piazza San Pietro. Lo studioso considera piazza San Pietro la «vicenda [urbana] forse più clamorosa e ricca di conseguenze di tutto il ciclo del Rinascimento italiano» (p. 5), in quanto, per opera di Bernini, avvenne la riconciliazione fra la basilica e la città. La ricostruzione storica della metamorfosi della città diventa così indispensabile e al tempo stesso prioritario approccio per valutare l’eccellenza e l’organicità dello scenario manomesso con il nuovo stradone realizzato alla metà del Novecento. L’obiettivo dichiarato consiste nel delineare «le premesse per una effettiva modernizzazione realistica e storicamente consapevole che ripristini l’integrazione della cittadella vaticana nella città» (p. 6).

L’analisi dello stato di fatto al momento in cui Bernini affrontò la sistemazione complessiva in rapporto ai cambiamenti avvenuti dopo, esplicita il metodo progettuale – urbanistico e paesaggistico – per il recupero di Roma barocca. La sovrapposizione e il confronto della metamorfosi urbana costituiscono un’innovazione nel campo della storiografia urbanistica rendendo tecnicamente percettibile e misurabile la complessità del progetto originale. L’inserimento nel tessuto urbano preesistente del grande ovale a quattro centri, localizzato sull’obelisco, è in funzione della dimensione della chiesa e del suo sagrato, e «richiede una forma contrapposta, conclusiva, girata su se stessa» (p. 6). L’ovale della piazza risolve anche una serie di rapporti fra la cittadella vaticana e la città stessa, non indagati in precedenza. L’asse obliquo di via Alessandrina forma un traguardo prospettico, ribaltando al di qua del Tevere il portone di bronzo e avvicinando al contempo la facciata.

Questa ricerca, grafica e fotografica, basata su un sapiente intreccio di storia e letteratura, restituisce in pieno il progetto esecutivo del Bernini. Restituisce altresì le sue straordinarie invenzioni prospettiche per superare i cospicui dislivelli non modificabili. Si evidenzia in tal modo la strategia urbanistica: Bernini conserva e innova, esalta e riusa, incorpora preesistenze, stabilisce prospettive e costruisce un profondo rapporto fra la scala monumentale e quella quotidiana, agganciando la spettacolare piazza al tessuto urbano esistente. Nel ripercorrere il piano urbanistico, l’analisi diventa progetto. Con rigore filologico, studiando ciò che precede e analizzando con la stessa congruenza lo stravolgimento successivo di Piacentini e Spaccarelli, Benevolo elabora una metodologia applicabile non solo al Borgo San Pietro che consente di mettere a fuoco regole di restauro urbano adottabili da tutte le città storiche. Non è esagerato comparare questa elaborazione alle teorie di Viollet-le-Duc espresse nel Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIe au XVIe siècle (1854-1868). Viollet-le-Duc esercitò un’influenza sui criteri del restauro architettonico di lunga durata. La restituzione di un progetto che ha determinato l’assetto complessivo di Roma preunitaria può diventare il nuovo paradigma progettuale per restituire la fisionomia originaria delle parti alterate della città storica. Ripristinare l’assetto sconvolto, riqualificare l’esistente invece di far dilagare la periferia, è una sfida che adesso può sembrare perdente. Benevolo però non ci offre solo un metodo. Da storico e da architetto ci avverte che la crisi della città storica non è prodotta solo dai politici o dagli affaristi. È causata anche da chi opera: dai critici e dagli storici che commentano l’architettura e l’urbanistica da un punto di vista ideologico, e dai professionisti che, ignorando storia e cultura, si esaltano (e vengono esaltati) per la loro sterile creatività.

Lo scenario territoriale possibile

Le ricerche sul territorio, l’inquadramento e la suddivisione degli agglomerati urbani in una rete di municipi, le ipotesi sul fatto che il centro storico ritorni a essere una città, con una propria univoca vocazione integrata alle altre città formate con le nuove municipalità, e gli stessi criteri metodologici elaborati da Benevolo per il restauro urbano, indicano una prospettiva progettuale da valutare quale disegno di un possibile futuro per le città storiche. Senza troppe illusioni, dato che il pessimismo derivante dalle sconfitte e reso più acuto dall’assenza, minaccia il futuro urbano, proprio in questi anni di crisi soprattutto culturale, di tracollo dell’urbanistica e della partecipazione dei cittadini. Recente è tuttavia il passaggio della città da bene immateriale a territorio urbanizzato indefinibile, con un suo preciso valore economico, una sua potenziale (reale e virtuale) rendita. Sono anni in cui, pur aumentando l’urbanizzato fino a unire gli aggregati urbani formando un’ininterrotta dispersione di fabbricati e strade, mancano i ‘fondatori’ di nuove città. Neppure gli architetti, o gli urbanisti, neppure i più illustri, possono essere scambiati per àuguri di romana memoria. Per quanti edifici questi inaugurino (o abbiano inaugurato), si continua a progettare e a realizzare solo periferia, a produrre solo entropia.

Senza cittadini ‘committenti’, la ri-fondazione della città e del suo territorio è impossibile, perché essi sono i soli che possono conoscere (e ri-conoscere) la città quale patrimonio collettivo. Conoscere la città, e il suo futuro, in un periodo in cui trionfa la privatizzazione di tutto, è difficile e pieno di tranelli. Ci possono aiutare la storia e la voglia di riconquistare una specifica identità urbana. Non è facile ricostruire la città già costruita. Abituati come siamo a distruggere e a espanderci, a demolire e costruire, non sembra possibile mutare l’attuale comportamento. Si ripete invano che il territorio non è un bene riproducibile, ma non si riesce a impedire di urbanizzarlo e ritornare a urbanizzarlo.

Non ci sarà futuro per la città storica se il suo insieme, il tessuto urbano che la forma, sarà adulterato ulteriormente e se il territorio circostante, un tempo tutto agricolo o naturale, continuerà a essere distrutto, sommerso da quella che è stata definita una crosta di cemento. Un nuovo approccio territoriale rappresenta una conquista, un presupposto culturale e progettuale per restituire alla città storica il suo ruolo identitario tramite il restauro, trasformando contestualmente la periferia in città. Gli studi sulla società dell’antica Grecia, in particolare quelli di Jean-Pierre Vernant (2004), ci fanno riflettere sullo spazio umano, sul rapporto fra il luogo e la comunità, sul significato da attribuire al termine identità, più volte ripetuto in queste note. Le città europee e, più in generale, le città occidentali hanno quasi tutte matrici greco-romane; è importante capire la polarità dello spazio umano e rapportarlo al concetto di città. Scrive Vernant: «la polarità dello spazio umano è fatta di un dentro e di un fuori. Questo dentro è rassicurante, turrito, stabile. Il fuori è aperto, mobile, inquietante» (trad. it. 2005, p. 169). Viene subito in mente la città chiusa da mura, circondata dalla campagna, dall’ambiente naturale che spesso coincideva con l’infinito, con lo sconosciuto. Il fuori da un ‘luogo’ è diventato uno ‘spazio’ chiuso da costruzioni che hanno soffocato il senso della città. Non solo. Vernant spiega contestualmente cosa si deve intendere per identità, per valori identitari: «Se ogni gruppo umano, ogni società, ogni cultura si pensasse e si vivesse come la civiltà di cui si deve mantenere l’identità e assicurarne la permanenza contro le irruzioni dall’esterno e le pressioni interne, nondimeno ciascuna sarebbe confrontata al problema dell’alterità nella varietà delle sue forme. Per mantenere l’identità occorre aprirsi all’altro fino ad ottenere quelle alterazioni che continuamente si producono nel corpo sociale attraverso il flusso delle generazioni che fanno posto ai necessari contatti, agli scambi con lo straniero del quale nessuna città può fare a meno. La propria identità non può né concepirsi né definirsi se non in rapporto all’altro. Alla molteplicità degli altri. Se l’identico resta chiuso in sé stesso non c’è pensiero possibile. E quindi neppure civiltà possibile. L’interscambio libera forze rigeneratrici e ci rende più responsabili» (p. 151).

L’esempio più calzante è Venezia. Finché è rimasta fedele alla propria identità di città d’acqua ha saputo rigenerarsi: arricchendosi, culturalmente e materialmente, si è rapportata con l’altro, lo straniero, la ‘terra ferma’. Quando questo rapporto è cessato, quando si è chiusa in sé stessa ha iniziato a perdere la sua identità. L’altro, lo straniero – che non sia un turista – è respinto. Per riacquistare l’identità perduta, Venezia deve ritrovare il ‘dentro’ e trasformare, contaminare e riqualificare il ‘fuori’: contaminare la sterminata periferia del Nord-Est. Se il fuori continuerà a diminuire a causa dell’assedio del cemento, non ci sarà futuro per il dentro, la città storica, in cui ormai vive una sola generazione di vecchi, senza ricambio. L’attenzione sarà ancora una volta catturata dalle alterazioni interne, senza comprendere che sono anch’esse a produrre lo scempio devastante il fuori. Se il restauro urbano e territoriale, inteso quale restituzione di una nuova identità, riuscirà a incidere sulla pianificazione dell’urbano e del territorio, contribuendo a formare la ‘città di città’ in cui si manifesta la restituzione della ‘città storica’, forse si riuscirà a considerare vincente la sfida posta con l’attenuarsi della competizione economica e i segni, per ora molto labili, della crisi del ciclo edilizio e quindi dell’avvio di una decrescita dell’urbanizzato. Parafrasando il filosofo francese André Gorz (2008), si può ipotizzare che l’eventuale ‘città di città’ in cui inserire la rifondazione e il ruolo della città storica dipende dalla qualità dell’ambiente di vita, dalla qualità dell’educazione, dai legami di solidarietà, dalle reti di aiuto di mutua assistenza, dall’estensione dei saperi comuni e delle conoscenze pratiche, dalla cultura che si riflette e si sviluppa nelle interazioni della vita quotidiana: cose che non possono assumere forma di merce, che non sono scambiabili con altro, che non hanno un prezzo, ma ciascuna un valore intrinseco. Cose non negoziabili, come si usa dire in questo inizio di secolo, difficilmente realizzabili anche se da esse può scaturire il nuovo senso, la nuova identità della città metropolitana, può forse iniziare il futuro stesso della città storica.

Bibliografia

L. Benevolo, San Pietro e la città di Roma, Roma-Bari 2004.

J.-P. Vernant, Entre mythe et politique, 2° vol., La traversée des frontières, Paris 2004 (trad. it. Senza frontiere: memoria, mito e politica, Milano 2005).

La rappresentazione identitaria del territorio, a cura di A. Magnaghi, Firenze 2005.

A. Gorz, Écologica, Paris 2008 (trad. it. Milano 2009).