CITTADINI, Celso

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 26 (1982)

CITTADINI, Celso

Gianfranco Formichetti

Nacque il 1º apr. 1553 a Roma da nobile famiglia che vantava tra i propri avi Cecco Angiolieri; il padre Francesco era procuratore della corte romana dove si trovava dopo la fuga da Siena, città originaria della sua famiglia, in quel tempo nel caos delle violenze e dei disordini politici; la madre, Felice, apparteneva alla nobile stirpe dei Maddaleni.

Si dedicò fin da ragazzo allo studio dei classici latini e greci e allo studio delle lingue "così Oltremontane, che Orientali". Fu più volte segretario presso vari principi trovandosi ben adatto, per l'educazione ricevuta, ai raffinati ambienti cortigiani. Soggiornò presso Ranuccio I Farnese duca di Parma, si trasferì poi ad Urbino presso il duca Francesco Maria II Della Rovere, a Milano presso il cardinale Federico Borromeo; fu inoltre al seguito di Marc'Antonio Pescara, Giacomo Boncompagni, e altri, mai soddisfatto dei pur lauti compensi e sempre desideroso di nuove esperienze. Per volontà del padre, dal quale peraltro ricevette le prime nozioni di scienze giuridiche, conseguì il dottorato privatamente presso un certo monsignor Papio.

In questo periodo giovanile, in perfetta sintonia con il rilancio petrarchesco che il Bembo aveva vivificato, compose una serie di madrigali e sonetti per una giovane nobildonna romana che secondo gli schemi canonici volle chiamare Fiamma. Nelle lettere che egli invia a Roma ad alcuni amici è facile cogliere il repertorio dei sospiri e dello scoramento per il desiderio di rivedere la sua donna, peraltro nella consapevolezza che le poesie sarebbero state lette e diffuse in quegli ambienti intellettuali da lei frequentati.Dalla fine del 1575, da quando cioè aveva abbandonato Roma e la corte di Paolo Orsini per seguire a Conza monsignor Pescara, fino al 1581, anno del rientro a Roma, il C. scrive il suo canzoniere per madonna Hippolita. In una lettera datata 11 maggio 1583 a Scipione Bargagli il C. comunica che entro pochi giorni a Venezia sarebbe uscita la prima parte di queste poesie e che già ne andava preparando una seconda "senza comparazione migliore della prima". Nella stessa lettera (Siena, Bibl. com., cod. D.VII.11: Lettere di C. Cittadini, pp. 66-67) sono date le generalità della nobildonna romana: certa Hippolita Calcagni. In realtà le Rime platoniche videro la luce nel 1585; l'opera è dedicata alla "virtuosissima e graziosissima gentildonna Madonna Hippolita ... soprannominata la Fiamma" e fu stampata a Venezia presso Cornelio Arrivabene.

Il soggiorno a Roma è di breve durata e per altri cinque anni fino al 1589 il C. peregrinerà di corte in corte; di queste trasferte abbiamo però poche testimonianze epistolari. Ancora una volta il modello petrarchesco eserciterà il suo fascino. Saranno anni che il C. definirà di "tribolazioni, avversità, et pericoli continui" (ibid., c. 74). Naufraga intanto la sua intenzione di far seguire alle Rime platoniche un'altra opera intitolata La Fiamma. Dialogo di Celso Cittadini degli Angiolieri cittadino senese, che si sarebbe dovuta pubblicare a Venezia: il testo non vedrà mai la luce.

Non più una donna ma le donne sono l'argomento di una dissertazione tenuta nell'Accademia degli Incitati, della quale era membro con il nome di Infiammato; siamo nell'ottobre del 1589 e l'Apologia delle donne segnerà il trapasso dal rimatore petrarchista all'antiquario, erudito e filologo.

Il C. si trasferì a Siena donde era originaria la sua famiglia, si sposò con la nobile senese Eufrasia Petroni e anche in patria fu conosciuto e apprezzato dagli intellettuali e dai nobili; lo stesso granduca Ferdinando I lo nominò educatore del figlio Cosimo, e alla morte di Diomede Borghesi, primo titolare della cattedra di lingua toscana, sostenne la candidatura del C. come successore. Lo stesso C. del resto, ben addestrato dalla militanza cortigiana, si era dato da fare per porre la sua candidatura. Infatti aveva già dedicato a Ippolito Agostino, balì di Siena, una raccolta di versi di poeti senesi che egli dice di aver rinvenuta "nella più segreta parte della libreria Vaticana". Siamo agli inizi del 1597 e il Borghesi da qualche tempo non godeva buona salute; nel breve volgere di un anno, il 28 genn. 1598, verrà a mancare. Per la pressione del granduca e per l'appoggio del suddetto balì, il C. verrà designato successore del Borghesi, nonostante una parte dei deputati avesse proposto il nome forse più titolato di Orazio Lombardelli. In questa occasione, poiché venivano messe in dubbio le sue nobili origini, il C. ricostruì l'albero genealogico della famiglia dimostrando che tra i suoi avi figurava anche Cecco Angiolieri.

Il successo del C. fu sancito dall'accoglienza assai favorevole che i senesi più illustri e la comunità tedesca, allora presente nella città, riservarono alla prolusione letta pubblicamente nel 1598. Ciò rallegrò particolarmente Belisario Bulgarini e Scipione Bargagli, i due letterati senesi con i quali aveva da tempo fatto sodalizio e che lo avevano iniziato agli studi di lingua. E già nel 1591 aveva scritto un piccolo saggio, rimasto inedito, sul problema del dare del "voi" a una sola persona.

Ferdinando I lo nominò perpetuo archivista di Siena; in questo periodo raccolse notizie intorno alle famiglie nobili senesi per alcune delle quali ricostruì gli alberi genealogici. Ebbe anche interessi di natura scientifica: in una miscellanea di manoscritti della Biblioteca comunale di Siena è stata infatti rinvenuta una sua opera intitolata De medicina universali qua omnes humani corporis aegritudines indifferenter,et mirabili modo sanantur (Miscell., cod. C. VIII. 3, pp. 1-50).

Nello svolgimento della sua attività culturale, che gli dette grande fama presso i contemporanei, raccolse una ricca biblioteca andata purtroppo dispersa. Dell'attività archivistica e antiquaria una sola opera vide la luce circa un secolo dopo la sua morte: Della antichità delle armi gentilizie, curata e annotata da G. G. Carli (Lucca 1741); nella Biblioteca comunale di Siena si conservano manoscritte altre opere che dimostrano l'attività archivistica del C. (cod. A. V. 24: Alberi genealogici di famiglie nobili sanesi e non sanesi,con l'indice dei Sigilli dei Capitani delle Compagnie militari e del rampino riportati in penna ed illuminati) e antiquaria (cod. C.II.27: Iscrizioni che sonoin Roma,in altre città e luoghi dello StatoRomano,nell'Umbria,in Mantova,in Milano etc.). Sembra che avesse intenzione di scrivere una storia di Siena, come e possibile dedurre sia da un suo discorso (inedito anch'esso) intitolato Della nobiltàcivile di Siena (C. V. 24) sia dalle postille rinvenute nel Trattato dell'origine e accrescimento della città di Siena (Roma 1571).

L'attività che però lo assorbì maggiormente dopo il suo ritorno a Siena fu quella di grammatico e storico della lingua italiana. Egli studiò i problemi legati alla linguistica e alla grammatica; di questo lavoro ci resta la testimonianza delle postille fatte a numerosissime opere: dalle Novelle del Boccaccio al Vocabolario et orthographia della lingua volgare di Alberto Accarisi, per non parlare di quelle sulla Divina Commedia, il cui manoscritto solo nel 1824 venne riscoperto dall'abate De Angelis che subito dopo ne denunciò però la scomparsa (L. De Angelis, Biogr. d. scrittori sanesi, I, Siena 1824, p. 248).

Dopo una breve presenza a Roma nella biblioteca di Francesco De Rossi, lo scritto passò ai gesuiti di Vienna, per poi tornare definitivamente a Roma nella Bibl. Vaticana (segnat.: Ross. 1118) dove si trova. In un periodo che segnava il trionfo di Boccaccio e Petrarca il C. si sofferma ad analizzare l'opera di Dante, specie il De vulgari eloquentia del quale afferma l'importanza e la validità.

Un altro aspetto quasi sconosciuto della sua attività è quello di trascrittore di epigrafi. Si gioverà di questa ricostruzione diacronica dell'epigrafia latina dalle origini alla tarda latinità per lo studio della evoluzione grafica latina. Un recente studio sulla biblioteca manoscritta del C. ha dimostrato il suo tentativo di comprendere l'evoluzione della lingua, non solo attraverso la corruzione dei classici a opera dei trascrittori, o nel confronto tra testo latino e volgarizzamento ma, soprattutto, nell'attenzione per la letteratura popolare dei sec. XIV e XV.

Nel 1601 veniva pubblicata a Venezia la prima delle due opere filologiche del C., il Trattato della vera origine,e del processo,e nome della nostra lingua.

La derivazione dell'italiano dal latino popolare è la tesi di fondo di tutta l'opera. Già dal primo capitolo viene sgombrato il campo da possibili interpretazioni errate sulla nascita della lingua e l'autore afferma che l'origine del volgare non è da riferire alle invasioni barbariche, gotiche o longobarde, ma occorre risalire molto più indietro nel tempo fino ai Romani. Conseguentemente l'autore considera la lingua parlata in epoca romana dividendola in "prisca, latina, romana e mista "in corrispondenza di quattro fasi diverse e susseguenti. La prima lingua risale al periodo in cui non c'era scrittura, la seconda è quella parlata "sotto il Re Latino, e gli altri Re del Lazio, e poi sotto que' di Roma, nella quale scritte furono le leggi delle dodici Tavole...". La terza lingua definita "Romana" fu usata dal popolo romano dopo la cacciata del re fino all'impero d'Augusto, il suo nomederiva dall'essere usata solamente in Roma dai cittadini romani; in Italia e fuori, nelle province e nelle colonie, la lingua assumeva dei caratteri particolari e si diversificava. Lingua mista divenne dopo che la cittadinanza romana fu data a tutti i provinciali, essa "entrò nella città insieme co i costumi e co gli uomini di esse Provincie, scemandosene per tal cagione la schiettezza, e la purità del parlar Romano". Nel secondo capitolo è delineata la teoria delle due lingue latine coeve: "egli è da sapere, che per ogni tempo, e prima, e poi, furono in Roma due forme. L'una rozza e mezza barbara, la quale era propria del volgo, cioè de' Romani e de' Forestieri Idioti, o vogliamo dir, della gente bassa, e de' contadini senza lettere; i cui modi di dire, e le cui voci erano rifiutate dagli Scrittori, e da' dicitori nobili". Di questa seconda lingua non "abbiamo esempio alcuno di rilievo in iscritto; ma solamente se ne trovano così fatte reliquie in alcune iscrizioni, o titoli di statue, o di edifizi, e in alcuni epitaffi di sepolcri di que' tempi", oltre naturalmente alle testimonianze degli autori latini.

L'analisi fatta sulle epigrafi che egli stesso si preoccupò di trascrivere durante i suoi viaggi è, insieme con le testimonianze degli autori latini, il fondamento scientifico sul quale egli lavora. Nel ventiquattresimo capitolo, ultimo dell'opera, il C. trae le conclusioni a proposito della lingua dicendo che "ella non debba esser chiamata né Italiana né assolutamente Toscana, né Cortigiana, né Fiorentina, ma sì ben Volgare"; questa tesi egli ritiene del resto corroborata dall'autorità di Dante, Petrarca, Boccaccio, Castelvetro, Giovanni e Matteo Villani. In questo lungo capitolo conclusivo vengono considerate la lingua volgare e quella latina e il C. le presenta come due modi di esprimersi di due gruppi culturali diversi ma entrambi con legittima cittadinanza.

Congiunto al suddetto trattato e come esemplificazione delle teorie esposte, il C. pubblica il Trattato degli articoli e di alcune particelle della volgar lingua.

Nei primi due capitoli l'autore dimostra la derivazione degli articoli dal nominativo dei pronomi latini (anche per questa tesi si serve di testimonianze epigrafiche di chiese di Roma e Milano); nel terzo capitolo si parla del differente uso degli articoli e nel quarto dell'uso delle particelle pronominaliedelle preposizioni semplici "per" e "in" accompagnate dagli articoli.

Nel 1603 vedeva la luce a Siena un'opera che si riferiva all'attività accademica del C.: e cioè le Tre orationi del sig. Celso Cittadini gentilhuomo,e accademico sanese. L'editore S. Marchetti dedica l'opera a Cristofano Pflug e presenta l'autore come persona "che ama, e riverisce molto l'illustrissima Nation Tedesca"; del resto già nel frontespizio era chiara la destinazione dell'opera: "a beneficio dell'inclita Nation Tedesca", vale a dire la comunità tedesca che, fin dal primo momento, aveva accolto favorevolmente la scelta del C. per la successione nella cattedra di lingua toscana nello Studio senese. Le tre orazioni, che potremmo definire prolusioni di anni accademici, hanno i seguenti titoli: Della degnità del lenguaggio humano (1598); Della preminentia della lingua toscana fra l'altre tutte,che hoggi si parlano e scrivono (1600); In laude della lingua toscana (1602).

Nel 1604 fu pubblicata a Siena l'opera Le origini della volgar toscana favella, sulla quale sono sorte polemiche e controversie.

Alla fine del secolo scorso Filippo Sensi credette di provare che il C., a parte certe intuizioni originali e valide, si fosse abbondantemente servito dei testi di Claudio Tolomei. Dovevano passare circa trent'anni perché Armando Vannini, con una accurata e meticolosa indagine sui manoscritti, confutasse la suddetta teoria. Infatti il trattatello De fonti de la lingua toscana, attribuito al Tolomei perché inserito in un manoscritto contenente numerose sue opere (Siena, Bibl. comunale, cod. H.VII.15), non gli appartiene ma è invece certamente opera del C. e rappresenta una traccia della successiva opera. Lo stesso C. però cita il Tolomei come suo maestro e infatti il trattatello De fonti, secondo il Vannini, trova lo spunto principale nel trattato De le forme del Tolomei, ma è soprattutto il disegno per una più grande opera quale appunto sarà Le origini della volgar toscana favella. L'opera è dedicata a Fabio Sergardi "Gentiluomo Romano, Nobile Sanese ed Accademico Filòmato". Nella prefazione l'autore afferma che l'opera è una rassegna di quanto è andato insegnando in sei anni di attività accademica nello Studio di Siena e che la decisione di pubblicare tali materiali si doveva all'incoraggiamento degliamici e alle insistenze dello stesso Sergardi.

Per il C. nella lingua toscana si sono inseriti con il tempo, su un ceppo latino, alcuni vocaboli gotici, longobardi, greci, tedeschi e provenzali. Lo scopo che si propone è quello di venire "in cognizion certa, e sicura della dritta proferenza, ed anco scrittura de' sopradetti vocaboli"; vengono inoltreapprofondite le diversità degli idiomi della Toscana e in particolare dei due principali che sono il senese e il fiorentino cercandodi cogliere gli usi più appropriati. Una rilevante parte del lavoro è dedicata all'origine e alla pronuncia delle due vocali "e" ed "o" aperte e chiuse.

Il C., sulle orme del Biondo, si colloca su quella linea che avrà in Claudio Tolomei la figura di maggiore prestigio; ed è senza alcun dubbio di notevole rilievo l'aver colto la derivazione dell'italiano dal latino volgare. D'altro canto appare però chiaro che la differenziazione da lui fatta tra toscano, italiano e volgare è pressoché nominalistica; il volgare è sempre riferito, infatti, all'area toscana e il C. non sipone certo il problema dei volgari non toscani. La controversia tra senese e fiorentino èrisolta con un'oculata moderanza compromissoria che nasconde un certo conformismo e poca chiarezza, storicamente comprensibile, su argomenti per i quali ancora a lungo i grammatici continueranno a discutere. Del resto la carica ufficiale e pubblica ricoperta dal C. dimostrava la sua disponibilità verso le tendenze culturali municipalistiche che caratterizzavano in particolar modo l'ambiente senese della fine del sec. XVI e l'inizio del XVII; in coerenza con tutto ciò ricorre alla lingua latina allorché deve scrivere un trattato scientifico (l'inedito De medicina, cit.).

Nel 1604 viene pubblicata a Siena la Partenodoxa o vero Exposition della Canzone del Petrarca alla Vergine Madre di Dio. La dedica (dell'8 sett. 1600) è per la "Serenissima Madonna Christiana Gran Duchessa di Toscana".

Il C. analizza, scompone, ricompone e commenta in modo particolareggiato il testo e partendo da un'analisi lessicale giunge ad un commento filosofico-dottrinale. Nell'esegesi testuale sono continui i rimandi a fonti classiche latine e greche, alla Bibbia, agli autori cristiani e a quanti hanno sino a quel momento commentato la canzone.

Il C. conservò fino alla morte, avvenuta a Siena il 29 marzo 1627, la cattedra di lingua toscana; gli successe G. Piccolomini che lesse nell'Accademia Filomata (nella quale il C. era detto l'Incitato) un'orazione in suo onore. Nell'agosto 1628, a poco più di un anno dalla sua morte, veniva accordato alla moglie, a seguito di un'umilissima supplica, un sussidio di sopravvivenza dal rettore e dai deputati dello Spedale della Scala. Si trattava dell'ultimo atto di una poco oculata amministrazione dei beni da parte del Cittadini.

Circa un secolo più tardi, nel 1721, Girolamo Gigli pubblicò a Roma per Antonio De' Rossi una raccolta delle due opere principali con l'aggiunta dell'inedito Trattato degl'idiomi toscani al quale peraltro il C. rinviava nella conclusione delle Origini della volgar toscana favella. Alla fine del secolo scorso in un opuscolo per nozze (Stromboli-Rohr) furono pubblicate quattordici Lettere inedite di C. C. (a cura di G. Bizzarrini-A. Braccianti-A. Ciceroni-F. Merlo.-G. Milanesi-O. Nesi, Firenze 1890), indirizzate a Lorenzo Usimbardi, Cristina di Lorena, Angelo Firenzuola, Carlo di Tommaso Strozzi e al cardinale Leopoldo de' Medici.

Bibl.: G. Piccolomini, Orazione per l'esequie del sig. C. C., Siena 1628; I. N. Erythraei [G. V. Rossi], Pinacotheca Altera.... Coloniae 1645, pp. 174-75; F. I. Ugurgieri Azzolini, Le Pompe Sanesi, I, Pistoia 1649, p. 573; G. M. Crescimbeni, Dell'istoria della volgar poesia, II, 3, Venezia 1730, p. 442; F. S. Quadrio, Della storia e della ragione di ogni poesia, I, Bologna 1739, p. 474; II, ibid. 1741, pp. 186, 267; L. A. Muratori, Della perfetta poesia, III, 4, Napoli 1757, p. 417; G. Fontanini, Bibl. dell'eloquenza ital., con le annotazioni di A. Zeno, I, Parma 1803, pp. 13. 49; G. Tiraboschi, Storia della lett. ital., IV, Milano 1833, p. 575; C. Mazzi, Alcune reliquie della biblioteca di C. C., in Riv. delle biblioteche, III (1892), 31-32, p. 100; F. Sensi, C. Tolomei e C. C., in Arch. glottol. ital., XII (1893), pp. 441-60; L. Frati, Di alcuni testi di lingua appartenenti a C. C., in Bull. senese di storia patria, VII (1900), 1, pp. 151-59; C. Trabalza, Storia della grammatica ital., Milano 1908, pp. 283-92 e passim; A. Vannini, Not. intorno alla vita e all'opera di C. C., scrittore senese del sec. XVI, Siena 1920; V. Vivaldi, Storia delle controversie linguistiche in Italia, Catanzaro 1926, pp. 147-53; M. C. Di Franco Lilli, La biblioteca manoscritta di C. C., Città del Vaticano 1970; B. Migliorini. Storia della lingua italiana, Firenze 1971, pp. 342, 345.

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