CAVALCABÒ, Cavalcabò

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 22 (1979)

CAVALCABÒ (de Cavalcabobus), Cavalcabò

Giancarlo Andenna

Marchese di Viadana, nacque verso la fine del sec. XII dal marchese Guido ed era pertanto nipote di quel Sopramonte che era stato investito della signoria di Viadana dall’imperatore Federico Barbarossa.

La sua famiglia apparteneva all’alta feudalità italiana e derivava da un ramo del ceppo obertengo. Installatasi da tempo in Viadana, un importante centro sul corso del Po, in posizione centrale rispetto a Cremona, Parma, Reggio, Modena e Mantova, aveva saputo fare della località un centro di signoria rurale e feudale munitissimo e sicuro contro qualsiasi attacco da parte dei Comuni vicini. Nel contempo i suoi membri acquisivano la cittadinanza di Cremona e partecipavano attivamente alla vita comunale.

Il giovane C., tra il 1218 e il 1221, partecipò alla quinta crociata con quattro cavalieri e sei servitori armati. Subito dopo il ritorno sposò Alazais de Magon, ma il matrimonio non fu felice, giacché abbiamo notizia che il C. avrebbe tentato di uccidere la moglie con il veleno. Attorno al 1222 iniziò la sua attività politica ponendo in atto un ampio disegno strategico per crearsi una signoria nella Val Padana, comprendente Cremona, Parma, Reggio Emilia e Modena: la tecnica usata prevedeva la conquista del potere non attraverso la violenza, ma con l’imposizione in ciascuno dei quattro Comuni di podestà strettamente legati a lui. I progetti del C. erano inoltre facilitati dalla circostanza che nei primi decenni del Duecento la politica delle quattro città padane aveva sostanzialmente un indirizzo unitario.

A Cremona nel decennio tra il 1223 e il 1232 il C. riuscì a costituirsi un forte nucleo di famiglie a lui legate, attraverso parentele o interessi, in modo da esercitare di fatto per oltre dieci anni la signoria della città. Basta osservare l’elenco dei podestà per rendersene conto, tenendo presente che la nomina era in genere effettuata dalla maggioranza politica del Consiglio di credenza. Nel 1223 fu podestà Gerardo Cornazano da Parma, scelto molto probabilmente dal C. che aveva forti amicizie anche a Parma. L’anno successivo la massima magistratura cremonese spettò a Rolando Rossi da Parma, membro di una famiglia strettamente imparentata con i marchesi Lupi di Soragna, con ogni probabilità un ramo collaterale dei Cavalcabò.

Il dominio del C. su Cremona dovette continuare anche nel 1225, poiché durante la sua podestaria a Modena, egli, dopo aver fatto abbattere le torri delle maggiori famiglie modenesi a lui contrarie, fece bandire i capifazioni a Cremona. Il 1226 vide podestà di Cremona il veronese Guglielmo Lendinara, un membro della cui famiglia, Nicolò, aveva sposato una figlia del C., Giovanna. Tra il 1226 e il 1229 non abbiamo notizie molto sicure per Cremona, ma nel 1229, anno di crisi politica per la città, riappaiono i consoli, e fra costoro Enrico de Advocatis rappresentò certamente il partito del Cavalcabò. Per il biennio 1230-1231 i podestà furono Ugo Lupi da Parma e Bernardo di Rolando Rossi, proveniente da famiglie molto legate ai Cavalcabò per vincoli di parentela. Soltanto nel 1232 il podestà non gli fu più favorevole, sintomo di una precisa rottura politica, aggravata da una sconfitta militare allora subita dal Cavalcabò. In quell’anno, per bocca del suo podestà Guglielmo da Fogliano, Cremona, travagliata da lotte intestine, chiese a Federico II di liberarla da “un perfido nemico” che la opprimeva e a garanzia di ciò volle che la nomina del podestà avvenisse per autorità imperiale, in modo che l’uomo designato fosse estraneo alle fazioni cittadine. Per il 1233 venne infatti nominato dall’imperatore il conte di Acerra Tomaso d’Aquino.

Al dominio esercitato indirettamente su Cremona il C. affiancò l’esercizio diretto del potere, per ben due volte su Modena, di cui fu podestà nel 1225 e nel 1230, e su Parma, ove ricoprì la suprema magistratura nel 1229, anno in cui era probabilmente anche podestà di Faenza. Ma d’altra parte, nel luglio del 1226, Federico II, ospite nella città di Cremona, confermò al “fedele” C. la signoria di Viadana, aumentando in questo modo il suo potere personale e politico.

Il Tiraboschi ci ha conservato alcuni atti relativi alla podestaria del C. su Parma, in cui appare evidente l’interesse che egli manifestava nei confronti di Reggio e dei territori del suo episcopato. La documentazione riguarda infatti il problema della demarcazione dei confini tra i due Comuni e il possesso della rocca di Vallisnera, che entrambi asserivano essere sotto la propria giurisdizione. Il C. si comportò in modo ambiguo: promise in un primo tempo che non sarebbe intervenuto a occupare la rocca di Vallisnera, fintanto che non si fosse di comune accordo proceduto alla definizione dei confini, ma successivamente la prese con la forza, suscitando le aspre reazioni dei rappresentanti di Reggio, i quali dimostrarono che la località apparteneva alla loro diocesi, giacché la chiesa del castello era sottoposta alla giurisdizione dell’arciprete di Campuolo e riceveva i sacramenti dal vescovo di Reggio.

I contrasti con Reggio, una città che non mostrava di piegarsi tanto facilmente ai desideri del C., si inasprirono ulteriormente quando Reggio elesse a podestà un nemico personale del C., Nicolò Dovara, cremonese, che tra il 1231 e il 1232 impresse alla politica comunale un atteggiamento nettamente ostile nei confronti di Parma e Modena, mentre a Cremona stessa la fazione che faceva capo al Dovara si stava irrobustendo. Al C. non restò che la via delle armi per piegare i suoi nemici a Reggio e per sconfiggere con loro la stessa fazione cremonese avversa. Nell’ottobre del 1232, dopo aver radunato un forte numero di soldati, forse in gran parte modenesi, tentò di occupare di sorpresa Reggio, ma a Mancasale, come ci informa Salimbene de Adam, venne sconfitto e messo in fuga da Bonaccorso da Palude e dai da Sesso, a cui era stata affidata la difesa della città. La sconfitta segnò anche la fine del predominio del C. sul Comune di Cremona, dove dal 1233 in poi i podestà saranno di nomina imperiale. La ragione principale di questa rovina improvvisa si deve ricercare, secondo il Gualazzini, nel fatto che la signoria del C. non “rispondeva ad alcun importante interesse collettivo”. Ciò vuol dire che il tentativo di signoria del C. non andava al di là delle mire di un signore di campagna, cui era sfuggita l’importanza politica dei nuovi ceti commerciali, che subordinavano la direzione degli affari politici ai loro precisi interessi economici.

Dopo la sconfitta il C. dovette avvicinarsi a Ezzelino da Romano, giacché nel 1234 con la sua mediazione sposò in seconde nozze Palmeria Dalesmanini. Nel 1236 venne ancora eletto podestà di Arezzo: rimangono a testimonianza del suo operato in quella città due pergamene, del 19 aprile e del 12 maggio 1236, in cui il C. appare in qualità di mediatore tra il vescovo e il partito guelfo da una parte e i ghibellini al potere dall’altra. Infatti quel Comune si era impossessato, durante la podestaria di Pietro Saraceno da Roma, di due castelli appartenenti alla Chiesa aretina ed era stato scomunicato dal vescovo Martino. Durante la podestaria del C. si giunse a una serie di accordi trattati direttamente dal podestà con il legato papale maestro Zaccaria, in base ai quali il C. restituì alla Chiesa aretina i due castelli, promettendo di rispettarne in perpetuo la libertà e di cancellare dal libro degli Statuti di Arezzo le disposizioni contrarie al bene dell’episcopato; nel contempo si impegnava anche a versare, a nome del Comune, trecento libbre di moneta pisana a titolo di risarcimento dei danni. Da parte sua il legato papale assolse il podestà, il Consiglio di credenza, tutti gli ufficiali del Comune di Arezzo dalla scomunica che era stata lanciata contro di loro dal vescovo Martino. Questi fatti lasciano supporre che il C. si fosse avvicinato al partito guelfo, a cui aderiranno, alcuni anni dopo, i suoi successori.

Dopo ciò non possediamo più alcuna notizia diretta sulla vita del C., che comunque deve essere morto prima del 1246-1247, periodo in cui a Cremona si formò un forte partito avverso a Federico II e favorevole al pontefice, capeggiato dal figlio del C., Corrado, e da Martino degli Amati.

Fonti e Bibl.: J. F. Böhmer, Acta Imperii selecta, V, Innsbruck 1866, p. 786; Registri dei cardinali Ugolino dOstia e Ottaviano degli Ubaldini, a cura di G. Levi, Roma 1890, p. 130; Cod. dipl. Cremonae, a cura di L. Astegiano, I, Torino 1895, p. 254; Salimbene de Adam, Cronica, a cura di O. Holder-Egger, in Mon. Germ. Hist., Scritt., XXXII, Hannoverae et Lipsiae 1905-13, pp. 68, 499; Annales Arretinorum maiores, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XXIV, 1, a cura di A. Bini-G. Grazzini, p. 5; G. Tiraboschi, Mem. stor. modenesi, IV, Modena 1794, pp. 97-99; Fr. Stieve, Ezzelin von Romano, Leipzig 1909, p. 107 n. 19; C. Vicini, I podestà di Modena, Roma 1913, p. 67; G. Torraca, Donne italiane, in Studi medievali, Torino 1928, pp. 487-491; C. Manaresi, Le origini della fam. Cavalcabò, in Misc. di studi lomb. in on. di E. Verga, Milano 1930, pp. 6 ss.; A. Cavalcabò, La sign. dei Cavalcabò in Viadana, Viadana 1931, pp. 32-54; Id., Alazais de Magon, in Cremona, III (1931), pp. 32-49; E. Scarabelli Zunti, Consoli, governatori e podestà di Parma, Parma 1935, p. 14; U. Gualazzini, Una mancata signoria nella Valle Padana, in Studi in onore di E. Besta, IV, Milano 1938, pp. 145-166; A. Cavalcabò, I rettori di Cremona. in Boll. stor. cremonese, VIII (1938), pp. 94-104, 150-160; R. Schumann, Auctority and the Commune, Parma 833-1133, Parma 1973, pp. 60-64.