Catone il Vecchio

Enciclopedia Dantesca (1970)

Catone il Vecchio

Antonio Martina

Marco Porcio C., il Censore, chiamato anche C. il Vecchio per distinguerlo dall'Uticense, nacque a Tuscolo nel 234 a.C., fu censore nel 184 e morì assai vecchio a 85 anni nel 149.

D. ricorda C. il Vecchio tre volte (Cv IV XXI 9, XXVII 16, XXVIII 6) citando dal De Senectute di Cicerone, dove la figura di C. è idealizzata e rappresenta il simbolo del passato repubblicano di Roma. Egli non è quindi in D. un personaggio reale o storico, ma ciceroniano. Nel De Senectute D. assai più di una suggestione sente la presenza, umana e ideale insieme, di un uomo che la lunga vita ha condotto assai vicino alle soglie della morte.

Quanto all'immortalità dell'anima, l'autore del Convivio si fondava sugli autorevolissimi scrittori e filosofi antichi, oltre che sulla fede religiosa: E questo massimamente par volere Aristotile in quello de l'Anima; questo par volere... ciascuno Stoico; questo par volere Tullio, spezialmente in quello libello de la Vegliezza (Cv II VIII 9). E proprio a proposito della natura dell'anima (IV XXI 9) D. ha occasione di ricordare C. il Vecchio, quando per chiarire il suo pensiero ricorre alla sentenza di Tullio in quello De Senectute, che, parlando in persona di Catone, dice: " Imperciò celestiale anima discese in noi, de l'altissimo abitaculo venuta in loco lo quale a la divina natura e a la etternitade è contrario " (Cic. Senect. XXI 77).

Dopo aver parlato delle quattro età e averne fissati i termini, D. osserva che l'anima nobile ne la senetta sì è prudente, sì è giusta, sì è larga, e allegra di dir bene in prode d'altrui e d'udire quello, cioè che è affabile, e ricorda un passo del De Senectute, dove Cicerone dice che a ciascuna parte de la nostra etade è data stagione a certe cose (Cv IV XXVII 2; cfr. Senect. X 33). E appresso (§ 16), a esemplificazione della quarta virtù che nel senio induce a ragionare lo bene in quanto questa etade pur ha seco un'ombra d'autoritade, per la quale più pare che lei l'uomo ascolti che nulla più tostana etade, si richiama all'autorità di Tullio, che in quello De Senectute, in persona di Catone vecchio, dice: " A me è ricresciuto e volontà e diletto di stare in colloquio più ch'io non solea " (Cic. Senect. XIV 46).

Come nei passi citati, anche in Cv IV XXVIII 6 D. convalida le sue parole con quelle che dice Tullio, in persona di Catone vecchio: " A me pare già vedere e levomi in grandissimo studio di vedere li vostri padri, che io amai, e non pur quelli [che io stesso conobbi], ma eziandio quelli di cui udi' parlare " (cfr. Senect. XXIII 83).

L'opinione di chi sostiene, come il Chistoni, che D. abbia confuso C. il Censore e Catone l'Uticense (v.) non ha fondamento. Di C. il Vecchio non si fa parola in s. Agostino né in s. Tommaso; appena un cenno in Orosio, lo storico più studiato da D., che considera terminata la seconda guerra punica nel 546 ab U.c. (Hist. IV XX 1) e che a proposito della guerra contro Antioco di Siria dice che avvenne " L.Valerio Flacco M.Porcio Catone consulibus " (§ 12). Per Orosio, Catone l'Uticense si dà la morte dopo il 700 ab U.c. (VI XVI 4, e cfr. XIV 5). Da ciò il Chistoni è indotto a dire che " pare quasi che la confusione cominci dall'epitomatore stesso " (p. 112). Qualche elemento di distinzione è in Virgilio Aen. VI 843 (che poteva tuttavia riuscirgli oscuro), Lucano VI 789 (" maior Carthaginis hostis / non servituri maeret Cato fata nepotis "), e soprattutto in Seneca (Vita b. 21) dove si fa un confronto tra Catone l'Uticense e C. il Censore, del quale ultimo si parla anche in Epist. 87, in un parallelo con Scipione. Ma la fonte di D. è solo Cicerone che ci offre, per risolvere il problema, tutti gli elementi che invano cercheremmo altrove.

Quando scriveva il trattato IV del Convivio, D. aveva letto di Cicerone, come egli stesso testimonia, il De Amicitia, il De Officiis, i Paradoxa, il De Finibus, oltre naturalmente al De Senectute, che, come si può vedere anche da Mn I I, era considerata una delle opere fondamentali della cultura medievale. Aveva perciò precisi elementi per identificare e distinguere i due Catoni. Nel De Amicitia (I IV), dove è anche un accenno al duplice titolo del De Senectute, C. il Vecchio è ricordato come colui che " et diutissime senex fuisset et in ipsa senectute praeter ceteros floruisset ". Nel De Officiis (III IV 16) è ricordato insieme a C. Lelio come sapiens ed è detto (III I 1) fere aequalis di P. Scipione Africano e già morto (I XXIII 79) quando scoppiò la terza guerra punica. È ricordata inoltre una sua lettera al figlio, che combatteva nella guerra macedonica contro Perseo sotto il comando di Popilio (I XI 37), in un passo che precede immediatamente la famosa citazione dei versi enniani (cfr. 194 ss. ed. Vahlen) a proposito di Pirro, che D. trascrive di peso in Mn II IX 8. Nei Paradoxa (I II 12) è ricordato insieme ai due Africani, nel De Finibus (V I 2) tra Scipione e Lelio.

Dei numerosi passi del De Senectute che potevano fornire a D. precisi elementi per l'identificazione di C. il Censore, alcuni sono soprattutto da ricordare. In VI 19, parlando della necessità di distruggere Cartagine, C. dice: " Quam palmam utinam di immortales, Scipio, tibi reservent, ut avi [cioè di Scipione Africano Maggiore, il vincitore di Zama] reliquias persequaris " e subito dopo, accennando alla morte di Scipione, precisa che avvenne " anno ante me censorem... novem annis post meum consulatum, cum consul iterum me consule creatus esset ". In IX 30, D. trovava un riferimento a Lucio Cecilio Metello (da non confondere con Q. Cecilio Metello di cui parla Lucano [III 153-157 e 167-168] e che D. ricorda in Pg IX 137-138) console, che nel 250 a.C. sconfisse sotto Panormo l'esercito cartaginese. In X 32 aveva infine i dati più significativi per inquadrare cronologicamente l'attività del Censore: " Sed redeo ad me: quartum ago annum et octagesimum; vellem equidem idem possem gloriari quod Cyrus, sed tamen hoc queo dicere non me quidem eis esse viribus quibus aut miles bello Punico aut quaestor eodem bello aut consul in Hispania fuerim aut quadriennio post cum tribunus militaris depugnavi apud Thermopylas M.Acilio Glabrione consule, sed tamen, ut vos videtis, non plene me enervavit, non adflixit senectus ".

La menzione di C. accanto a Scipione e Lelio avrà certamente agevolato la collocazione storica di C. il Censore come personaggio diverso dall'Uticense. Quanto a Scipione, D. non si poteva confondere, né si è confuso. Basterebbe ricordare a proposito Cv IV V 19, dove D., volendo dimostrare che i Romani furono strumento della divina provvidenza, che si manifestò nei personaggi e negli eventi della loro storia, scrive: E non puose Iddio le mani, quando, per la guerra dʼAnnibale avendo perduti tanti cittadini che tre moggia dʼanella in Africa erano portati, li Romani volsero abbandonare la terra, se quel benedetto Scipione giovane non avesse impresa l'andata in Africa per la sua franchezza? (D., più che Livio XXII LIII, ha presente Orosio Hist. IV XVI; cfr. P. Toynbee, Studies 124; Ricerche e note, I 18). Da Scipio iuvenis o adulescens di Orosio (Hist. IV XVII 13) deriva infatti il dantesco Scipione giovane, con cui D. allude alla " precocità bellica " di Scipione Africano Maggiore (F. D'Ovidio, p. 39; cfr. M. Scherillo, D. e Tito Livio, in " Rende R. Ist. Lomb. " 1897, 6). Della qual cosa si ha una riprova in Pd VI 52-53 Sott'esso [il ʽ sacrosanto segno ʼ] giovanetti trÏunfaro / Scipione e Pompeo, dove peraltro gli eventi più importanti della storia di Roma son ben distinti per periodi e non c'è nessuna traccia di confusione cronologica tra le guerre puniche e gli eventi determinati da Cesare.

Quanto all'espressione in persona di Catone vecchio, che ricorre in due delle tre citazioni come volgarizzamento del latino " Catoni seni ", va rilevato che D. usa tale espressione quando prima o dopo si parla di C. Uticense; si limita invece a chiamare Catone il protagonista del De Senectute, quando non c'è possibilità di confusione (F. D'Ovidio, p. 39; E. Proto, p. 196). È da tenere presente inoltre che il volgarizzamento toscano del libro " Della Vecchiezza " di Cicerone, conservato in cinque codici fiorentini tutti tardivi (sec. XV e XVI) e pubblicato per la prima volta in Roma da Guglielmo Manzi nel 1819, traduce " Marco Cato Vecchio ", come si può vedere da una comunicazione di C. Marchesi (". Rass. bibliogr. lett. ital. " XII [1904] 298 ss.; e cfr. E. Proto, p. 196).

La differenza tra i due Catoni era chiaramente indicata anche in Giovanni di Salisbury (Policraticus VII 13, II 149). Si pensi poi che nel XIII secolo Hugo di Trimberg nel suo Registrum multorum auctorum scriveva: " Nam Catones plurimos Romae fuisse datur / diversis temporibus, ut Cato Uticensis, / in Africa quem Iulii minax fugat ensis, / Catoque Censorius, rigidusque Cato".

Infine, non fa difficoltà il fatto che subito dopo aver ricordato C. il Vecchio a proposito della morte naturale, D. parli dell'Uticense, in un passo derivante da Lucano, dove l'Uticense diventa il simbolo di Dio e Marzia dell'anima nobile; così come non fa difficoltà accettare, senza con ciò esser costretti ad attribuirgli un'età assai avanzata, che Catone l'Uticense si sia data la morte nel senio, se si tiene presente Cv IV XXIV 7, dove è detto che le età della vita possono essere più lunghe e più corte secondo la complessione nostra.

Vero è che D. ha derivato dalle fonti solo gli elementi che egli riteneva necessari. Giustamente ha osservato É. Gilson (D. et la philosophie, Parigi 1939, 266) che " un personaggio conserva della sua realtà storica solo quel tanto che è richiesto dalla funzione rappresentativa che D. gli assegna ".

Perciò sulle orme del Renaudet possiamo concludere che D. non ricorda in lui né l'enciclopedico che nelle sue opere trattava di diritto, agricoltura, storia, medicina, né l'oratore sdegnoso e tenace, né l'uomo sprezzante della grandezza e della ricchezza. Non ricorda la sua inflessibile dirittura morale, non l'intemperanza dei giudizi, non la sua attività politica e militare, e nemmeno la censura che, conseguita nel 184 a.C., lo rivelò tanto severo, terribile e a volte spietato, da meritargli il titolo di Censore per antonomasia. In lui D. vede soltanto il simbolo dell'antica saggezza e delle virtù della Roma repubblicana.

Bibl. - Toynbee, Dictionary; F. Chistoni, Le fonti classiche e medioevali del C. dantesco, in Raccolta di studi critici dedicata a A. D'Ancona, Firenze 1901, 97 ss.; Id., La seconda fase del pensiero dantesco, Livorno 1903, 134 ss.; N. Vaccaluzzo, Le fonti del C. dantesco, in " Giorn. stor. " XL (1902) 140 ss.; F. D'OviDiO, Il primo canto del Purgatorio, in Il Purgatorio e il suo preludio, Milano 1906; E. Proto, Nuove ricerche sul C. dantesco, in " Giorn. stor. " LIX (1912) 193 ss.; E.G. Parodi, recensioni e note in " Bull. " ad indicem; A. Renaudet, D. humaniste, Parigi 1952, special. 85, 496 e 536; P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, ibid. 1954, ad indicem; E. Paratore, Tradizione e struttura in D., Firenze 1968, 85 n.

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