Guerra, catastrofi e memorie del territorio

L'Italia e le sue Regioni (2015)

Guerra, catastrofi e memorie del territorio

Gabriella Gribaudi

La memoria, le memorie

In questi anni memoria è parola diffusa, quasi abusata. Viene utilizzata per indicare fenomeni estremamente differenziati, non sempre legati ai processi di elaborazione dei ricordi. Spesso sinonimo di discorso, si riferisce alle grandi narrazioni che la nazione ha generato per rappresentarsi. In realtà si dovrebbe sempre parlare di memorie al plurale e differenziare i vari ambiti e livelli cui attiene la memoria. Come suggerisce Jan Assmann, esiste una memoria-narrazione, una ‘memoria culturale’ che comprende un corpo di immagini, rituali, monumenti, che tendono a stabilizzare e costruire la rappresentazione di una società, una memoria estremamente selettiva e manipolata politicamente: sceglie gli avvenimenti da ricordare, relega nell’oblio quelli che non confermano la raffigurazione politica scelta (La memoria culturale, 1997). Non si tratta, tuttavia, di un blocco omogeneo: i monumenti come le date scelte per celebrare un evento o per rafforzare una narrazione, sono frutto di decisioni politiche, possono rivestire un significato positivo per alcuni gruppi, negativo per altri, come mostra la dura battaglia di memorie nelle terre di confine, dove ogni data, ogni luogo, ogni monumento divide le popolazioni riproducendo antichi conflitti: al 25 aprile si oppone il 1° maggio, alla risiera di San Sabba la foiba di Basovizza. Il monumento alla Vittoria a Bolzano è motivo di orgoglio per gli abitanti di lingua italiana, e una ferita per gli abitanti di lingua tedesca. Si tratta di casi estremi, frutto dei nazionalismi che hanno segnato in modo drammatico le vicende dei confini con le terre dell’ex impero asburgico, ma la divisione delle memorie attraversa anche la comunità nazionale, come per es., nel caso del ricordo delle rappresaglie naziste che divide molto spesso i paesi colpiti.

Gli eventi e le storie scelte per costruire una narrazione congruente vengono enfatizzati e reinterpretati nella retorica nazionale. Ma le esperienze e i vissuti delle persone non coincidono, o, in alcuni casi, possono essere irrimediabilmente dissonanti dalle rappresentazioni retoriche. Non trovando linguaggi e immagini con cui identificarsi, permangono quindi come memorie private, si trasmettono nei circuiti familiari. Ricordi sopiti possono riapparire seguendo le tappe delle vite individuali o riproporsi al mutare delle fasi storiche e politiche, com’è avvenuto in Europa con la fine della guerra fredda. Ci sono poi alcuni avvenimenti, spesso quelli più drammatici, che lasciano tracce molto più profonde e più dense nella memoria. Sono anche gli eventi che segnano le biografie delle persone, le storie di determinate comunità, di una generazione.

Uno degli obiettivi di questa sezione è quello di dare conto di questa complessità e di presentare i processi di rammemorazione tra narrative pubbliche e ricordi privati, tra livello nazionale e locale. Il ricordo pubblico come l’interpretazione di un determinato evento sarà legato alla capacità e alla possibilità dei protagonisti di farsi sentire, di accedere ai mezzi di comunicazione attraverso cui circolano le idee, alla loro forza e alla loro legittimazione sulla scena nazionale.

Che ruolo hanno avuto in Italia le istituzioni? Quale parte hanno giocato le regioni e i territori nei processi di costruzione della memoria pubblica?

La ‘comunità immaginata’ in Italia è irrimediabilmente dicotomica. Tutti i discorsi, le narrazioni che si sono prodotte e sviluppate nel corso della storia nazionale hanno rafforzato la rappresentazione di due opposte realtà sociali e culturali, Nord e Sud. Stereotipi, interpretazioni dotte, visioni politiche hanno contribuito di volta in volta a leggere e tramandare in ogni frangente storico determinante della nazione una memoria dualistica. Le rappresentazioni regionali sono rientrate anch’esse in questa divisione manichea. La nascita delle regioni, in quanto istituzioni, ha poi dato nuove cornici al discorso pubblico senza cambiare sostanzialmente la narrativa dominante. Ha, semmai, contribuito a rafforzare categorie e divisioni stereotipate: i siciliani, i sardi, i veneti, gli abruzzesi, i friulani sono diventati nei discorsi pubblici popolazioni compatte con caratteristiche culturali proprie, a loro volta incastonate nella geografia reale e immaginaria di Nord e di Sud. Le regioni, tranne rarissimi esempi, hanno fatto pochissimo per contribuire a costruire e a salvare memorie ed eventi dimenticati. Come si vedrà, i processi di rammemorazione sono in Italia strettamente locali e risiedono soprattutto nelle comunità: comunità in quanto gruppo di persone legate da un’esperienza particolarmente traumatica, comunità in quanto municipi.

Non è semplice scegliere quali memorie e quali luoghi privilegiare. Le date attraverso cui la nazione ricorda gruppi o eventi significativi sono infinite (G. De Luna 2011) ma in gran parte passano ignorate dalla maggioranza dei cittadini. Si è scelto qui di trattare quegli eventi e quelle memorie che si potrebbero definire ‘dense’. Memorie traumatiche, che hanno segnato e segnano la storia e le identità del Paese, delle regioni, delle comunità. Come ha scritto Charles Maier, «le memorie collettive tendono a concentrarsi non sulla storia di lungo periodo di un popolo, ma sui suoi più dolorosi episodi di vittimizzazione». In questo senso i processi di rammemorazione sono spesso legati alla richiesta di «rispetto, attenzione, legittimazione» della sofferenza subita. Per questo le comunità cercano, non sempre con successo, di costruirsi uno spazio nella narrazione pubblica in un’interazione complessa tra livello locale e nazionale e in relazione ai cicli politici della memoria (C. Maier, Un eccesso di memoria?, «Parolechiave», 1995, 9, pp. 37, 39).

Le comunità locali appaiono come i veri, spesso unici, luoghi della memoria del Paese: interpretano quella nazionale, conservano quella locale. Se ne fanno promotori sindaci, associazioni, gruppi di cittadini. Negli anni trascorsi dal dopoguerra l’intreccio tra memorie pubbliche e memorie private si è fatto più intenso con il crescere dell’attenzione alle forme della soggettività individuale: dal monumento al milite ignoto della ‘grande guerra’ si è passati ai memoriali, al ricordo di donne, uomini, bambini con nome, cognome, biografia. Si sono costruiti portali per dare voce direttamente ai testimoni. Sul web si moltiplicano gli interventi spontanei di individui e di associazioni, che ricordano episodi, si contrappongono a visioni generali, propongono il loro punto di vista sulla storia. Il ‘bricolage’ si fa sempre più complesso. Si è provato qui a ricostruirne dei frammenti a partire da alcune delle vicende che hanno segnato in maniera indelebile la memoria nazionale.

Le memorie della guerra

Le diverse rappresentazioni della Resistenza

La Seconda guerra mondiale è uno di quegli eventi discrimine nella storia della nazione, in Italia come in tutti i Paesi europei: morti di massa, paesi distrutti, lutti impossibili da elaborare, società traumatizzate, guerre civili, popolazioni sradicate dai loro territori, uomini reduci da lunghe prigionie. L’elaborazione della memoria non è stata semplice. La composizione delle vittime delle violenze di guerra era estremamente differenziata e irriducibile in un’unica categoria. Venne spesso scelto il silenzio. Il peso della sofferenza passata era inoltre così forte che si sentiva la necessità di dimenticare quello che era accaduto e andare oltre. Ricostruire, lasciarsi alle spalle un passato di rovine era lo spirito che informava parte dell’opinione pubblica del tempo. Dal punto di vista politico era poi necessario in Italia occultare il fascismo, la guerra a fianco della Germania nazista, la Repubblica di Salò, le sconfitte umilianti, la guerra civile. Come è noto, il mito della Resistenza servì nell’immediato per oscurare tutto ciò e divenne il mito fondativo della nazione repubblicana, trasformandosi nel tempo, secondo le congiunture politiche. È storia lunga ormai molto nota e studiata. (Gribaudi 2004; Schwarz 2010; Focardi 2013). Qui verranno ripresi solo gli elementi utili a capire le divisioni e le differenze che hanno caratterizzato le mappe della memoria.

Immediatamente dopo la guerra, l’enfasi sulla Resistenza armata serviva a sottolineare l’apporto militare degli italiani nella liberazione del proprio Paese. I combattenti venivano inoltre presentati in questa narrazione come l’avanguardia di una popolazione che non solo aveva rifiutato il fascismo durante la guerra, ma era stata solo superficialmente coinvolta con il regime: vittima e non attivamente partecipe. I partiti nati dall’esperienza del Comitato di liberazione nazionale (CLN) si presentavano in questa visione come i legittimi rappresentanti della Resistenza e della nuova Repubblica. Con la fine dei governi di unità nazionale, mito e rappresentazioni politiche si dividevano: da un lato i comunisti, che si raffiguravano come i veri eredi della lotta armata antifascista, dall’altro i democristiani, interessati a rintuzzare la visione politicizzata della Resistenza, sminuendone il valore morale e militare. Negli anni Sessanta, con la nuova svolta politica e l’affermazione del centrosinistra, la narrativa della Resistenza riemergeva e si riaffermava come mito nazionale. L’esperienza dei partigiani veniva reinterpretata in chiave eroica e retorica, appiattendo e oscurando diversità e contraddizioni.

In realtà i rapporti tra i partigiani e le popolazioni, in particolare i contadini, non erano sempre stati idilliaci. Molte contraddizioni e divergenze avevano attraversato la stessa Resistenza: badogliani, comunisti, azionisti, cattolici si erano spesso scontrati anche aspramente. Un conflitto durissimo aveva caratterizzato le bande partigiane ai confini orientali. Il Nord si era poi diviso tra oppositori e sostenitori della Repubblica di Salò, in quella che è stata definita una vera e propria guerra civile. Quando il volume di Claudio Pavone (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, 1991) la propose addirittura nel titolo, si scatenò un’accesa discussione. Contro il libro si scagliarono i difensori di una sorta di ortodossia resistenziale. Ma l’analisi di Pavone, che arrivava proprio nel momento del disgelo delle ideologie, agli inizi degli anni Novanta, apriva a tutta una serie di studi su temi analoghi e favoriva il disgelo delle memorie.

La guerra civile è storia del Nord. Una parte del territorio meridionale ha vissuto duramente la violenza nazista con le rappresaglie, i durissimi ordini delle leggi di guerra tedesche, la deportazione degli uomini, ma solo i territori al di là della linea Gustav e ancora di più quelli al di là della Linea gotica hanno vissuto quel ‘di più di violenza’ descritta da Pavone nel capitolo sulla guerra civile (sull’argomento si veda anche Gagliani 1999; Rovatti 2011).

Il 25 luglio del 1943 il fascismo era naufragato miseramente sotto il peso della sua stessa inadeguatezza e degli esiti catastrofici della guerra. Crollava senza clamori, senza alcuna violenza. Si assisteva a una «silenziosa uscita di scena dei fascisti» consci di essere stati sconfitti (H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, 1997, p. 9). Ma nell’ottobre del 1943 il fascismo rinasceva nel Nord, rispolverando e portando alle sue estreme conseguenze la radicalità delle origini. Il risultato fu una feroce guerra civile e soprattutto negli ultimi giorni e nell’immediato dopoguerra una guerra di classe, che riproponeva il sanguinoso conflitto del 1920-21 (Pavone 1991). Per questo la resa dei conti che avvenne a guerra finita, contro un avversario che aveva esso stesso usato una violenza indiscriminata, si fece molto più aspra. Non era più consentito ai fascisti uscire di scena silenziosamente. La popolazione pretendeva una dura epurazione, che avvenne attraverso le corti militari di guerra, le corti di assise straordinarie, e la giustizia sommaria dei primi giorni dalla liberazione. In quello stesso momento, aprile-maggio 1945, a Trieste, i partigiani comunisti stavano uccidendo antifascisti democratici. Il Sud invece faceva i conti con la lunga occupazione alleata, mentre gli ex fascisti si erano trasformati in collaboratori degli Alleati e del nuovo governo. Una geografia della guerra che si sarebbe trasformata in una geografia della memoria differenziata e contraddittoria.

Sebbene nel Sud le prime misure di epurazione fossero state prese già nel novembre del 1943, esse furono rese vane dalla resistenza della vecchia élite e dall’atteggiamento contraddittorio degli Alleati. Ciò salvò e rafforzò l’apparato ex fascista. La gente si trovò di fronte i nemici di sempre (i poliziotti, l’esercito, gli impiegati di prefettura, gli impiegati degli ammassi ecc.) come se le cose non fossero cambiate. Intanto la vita si era fatta sempre più difficile, con città e paesi distrutti, centinaia di migliaia di senzatetto, popolazioni evacuate. I partiti del CLN che erano entrati nel nuovo governo, attardati a discutere di equilibri politici, vennero visti anch’essi come estranei e come nemici.

È in questo contesto che bisogna inserire le storie meridionali. I due anni di occupazione alleata e di governi di unità nazionale condussero in effetti alla delegittimazione di ogni tipo di autorità e al rifiuto assoluto di una collaborazione, che si esplicitò in primo luogo nella decisione di non riprendere le armi contro un nuovo nemico, a fianco di quel medesimo re che aveva condotto i soldati a combattere, morire, finire prigionieri nella guerra fascista. Lo stesso Benedetto Croce nel suo diario annotò tale situazione. «Ma perché vi fate ammazzare per il re?». Così la popolazione aveva accolto, secondo i racconti che gli avevano riportato testimoni diretti, i soldati superstiti della battaglia di Montelungo. E il 9 gennaio il filosofo aggiungeva: «Ho veduto il Piccardi, che veniva dal campo dei soldati del re, e che mi ha fatto un quadro sconsolato dello stato d’animo di quelle poche migliaia di uomini che combattere non vogliono, e molto meno per il re» (cfr. Taccuini di guerra (1943-1945), a cura di C. Cassani, 2004, pp. 59, 72). Gli uomini che non risposero all’appello furono migliaia: 80.000 nel dicembre 1944, 200.000 due mesi dopo. Nel dicembre 1945 scoppiarono le lotte dei ‘non si parte’, duramente represse dal nuovo governo. L’amnistia del 22 giugno 1946 avrebbe assolto i combattenti della Repubblica di Salò, ma non i disertori del Centro-Sud.

Il rifiuto della guerra aveva accomunato i giovani soldati sparsi fra l’Italia e i vari fronti. Coloro che erano stati presi nei Balcani avevano scelto la prigionia pur di non tornare a combattere; nel Nord la maggior parte di loro aveva deciso di non rispondere alla chiamata alle armi della Repubblica di Salò, una parte era confluita nelle bande partigiane, mentre altri avevano passato i due anni dal 1943 al 1945 a nascondersi e fuggire dai soldati tedeschi e repubblichini. Nel Sud quella stessa opposizione alla guerra si esplicava nel rifiuto a tornare a combattere per il Regno del Sud (10 sett. 1943 - 4 giugno 1944), per gli stessi governanti, per gli stessi generali che avevano guidato le truppe nell’Italia fascista. Ma, mentre la diserzione al bando della Repubblica sociale italiana (RSI) si inquadrava nella narrazione mitica della lotta di liberazione, la diserzione agli ordini del nuovo governo veniva interpretata come un atto reazionario di fedeltà al vecchio regime e ai suoi ideali. Si accentuava in questo modo il distacco fra retoriche e memorie e si riproponevano le rappresentazioni dicotomiche Nord/Sud. Il ‘vento del Nord’ era il portatore dei nuovi ideali di libertà e di democrazia, il ‘vento del Sud’, invece, veniva identificato nelle narrative nazionali come il portatore dei vecchi valori conservatori e arretrati.

In questa visione, tutta la tormentata vicenda della guerra nel Mezzogiorno è stata sussunta sotto queste categorie, sono state oscurate storie, interpretati in maniera ideologica vicende e comportamenti che avrebbero invece potuto trovare uno spazio originale nelle narrative nazionali sulla resistenza all’occupazione nazista. Il caso più evidente è quello della memoria dell’insurrezione napoletana. A forgiare una certa interpretazione delle Quattro giornate conversero due opposte tendenze ideologiche: quella antifascista che negava una compiuta politicità a un’insurrezione popolare e spontanea (che non avrebbe potuto essere altrimenti dati i tempi, all’indomani dell’8 settembre); e quella conservatrice che mirava a enfatizzare la spontaneità meridionale, la dimensione popolare, interclassista e patriottica contrapponendola, in questo caso come modello positivo, alla guerra civile che si era svolta nel Nord del Paese, sotto la guida e la spinta dei comunisti. Nel 1948, allorché venne conferita la medaglia d’oro alla città, il quotidiano locale rappresentò l’insurrezione come una rivolta guidata dalla ‘plebe’, dagli ‘scugnizzi’, dai poveri. Lo scugnizzo, immortalato nel monumento più importante dedicato all’evento, divenne l’icona duratura dell’insurrezione, alimentando ulteriormente scetticismo e indifferenza. «Uno, guardando il monumento dello scugnizzo, dice: va be’, ma chistecà è ’na cosa ’i niente, se Napoli con quattro scugnizzi si è liberata». Sono le sconsolate parole di un giovane combattente di allora, uno di quelli che furono definiti ‘scugnizzi’ (Gribaudi 2005, p. 305).

L’immagine dello scugnizzo conduce poi direttamente alla tesi negazionista, che contesta, cioè, l’esistenza stessa dell’insurrezione, definendola una lotta condotta da ragazzi di strada (gli scugnizzi appunto) contro poche retroguardie tedesche in ritirata, che non avrebbero avuto interesse e intenzione di rispondere alle armi degli insorti con il dovuto ardore. Per la destra ridimensionare le Quattro giornate era operazione naturale: Napoli doveva rimanere la città monarchica e fascista che essa vagheggiava e la rivolta doveva risultare il frutto di un’invenzione antifascista. La tesi si fece strada a partire dal dopoguerra alimentata da fonti diverse: i monarchici, la destra postfascista. È una tesi presente a livello politico e nei mass media e fatta propria da una parte della popolazione.

Contro questa rappresentazione a livello cittadino e politico si è spesso usata una retorica che non ha fatto che approfondire la pubblica rimozione dell’insurrezione. Una memoria vuota, ampollosa, che non si radica nel vissuto della gente, viene giustamente rifiutata e alla fine alimenta il negazionismo. Il risultato di tutte queste dinamiche è stato un diffuso scetticismo fra una gran parte della popolazione, cui si contrappongono ricordi individuali netti e profondi tra coloro che videro o vissero gli episodi di resistenza o di violenza delle truppe tedesche. Insomma, non si è creata una narrazione pubblica in cui individui e gruppi che avevano partecipato ad atti di resistenza e di disobbedienza potessero identificarsi, e coloro che non ne erano stati partecipi potessero comunque accogliere come credibile.

Nel 2013, nel 70° anniversario, si è verificato un particolare sforzo per ribaltare la tradizione. Ci sono state iniziative all’università, nei quartieri cittadini, che sono culminate nella cerimonia al Maschio angioino alla presenza del presidente della Repubblica. In questa occasione, il 28 settembre, Giorgio Napolitano ha pronunciato un discorso volto a riportare la vicenda delle Quattro giornate di Napoli nella grande narrazione nazionale della Resistenza, stigmatizzando proprio quel processo attraverso cui la rappresentazione della città è stata storicamente filtrata dai peggiori stereotipi.

(Napoli) la prima metropoli europea a levarsi contro il nazifascismo con le sole forze del suo popolo. Di questo titolo d’onore per l’Italia la Repubblica deve dare pieno riconoscimento a Napoli traendone le ragioni di un rispetto e di una fiducia che Napoli merita […]. Dico ogni mia parola come rappresentante dell’unità nazionale […] unità che poggia su un riavvicinamento nella solidarietà e nella coesione tra le sue regioni e vorrei dire tra le sue capitali. In Italia come in Europa non reggono rozze contrapposizioni tra un Nord virtuoso e un Sud ridotto a zavorra, a palla al piede della comunità nazionale e di quella europea […]. Napoli e i napoletani non avrebbero potuto dar vita a un moto di rivolta popolare inimmaginabile sulla base dei peggiori stereotipi diffusi contro di loro se non avessero posseduto in sé esperienze storiche e risorse umane e morali che restano un formidabile potenziale per tutto il paese (www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=2758).

Il discorso del presidente della Repubblica riprende in effetti le tematiche che in questi anni sono state affrontate dalla storiografia, ma soprattutto propone alla comunità nazionale di rispettare e legittimare l’insurrezione. Le celebrazioni del Settantesimo hanno avuto una grande eco sulle pagine dei quotidiani locali, meno su quelli nazionali dove, all’opposto, più o meno apertamente sono riemersi gli stereotipi e le immagini che influenzano la visione della città e delle sue vicende. Significativo l’articolo comparso su «la Repubblica» il 20 settembre 2013, nel supplemento «Il venerdì», dove già il titolo propone una rappresentazione: «Audaci nella cacciata dei nazisti, 70 anni fa, ma, poi periodicamente preda di fantasmi e demoni che fanno della città una specie di laboratorio del cattivo governo, della clientela, della malavita. Viaggio tra i due volti di un mistero» (p. 25). Il testo, invece di celebrare l’insurrezione, è un inventario di stereotipi della peggiore specie. «Napoli è il luogo comune del male civico: della plebe che non si è fatta popolo, della classe dirigente che non ha diretto, ma spadroneggiato, della camorra della munnezza […] colonizzata dalla peggiore modernità […] non sarà mai una città normale, ridicolo pretenderlo. Neanche l’Italia lo è. Ma un po’ più normale no?» (p. 26). Il ricordo dell’insurrezione è solo un pretesto per fare l’ennesimo ritratto folcloristico e spregiativo della città. Quello che la comunità nazionale vuole sentirsi dire da sempre. La documentazione tedesca del tempo, i registri dei morti con l’elenco delle vittime di quel fatidico settembre 1943 hanno dimostrato la realtà e la forza dello scontro tra popolazione e soldati, ma i contenuti degli studi sull’argomento non riescono a filtrare oltre lo schermo della narrazione massmediatica (Gribaudi 2005). Non esiste interazione fra le acquisizioni scientifiche sulla storia del Mezzogiorno e la divulgazione attraverso i media nazionali. Questo è problema che non investe solo il ricordo delle Quattro giornate di Napoli, ma, come vedremo, quasi tutte le rappresentazioni delle vicende meridionali.

Tutto ciò non fa che alimentare lo scetticismo se non le peggiori rappresentazioni della Napoli in guerra, a livello nazionale ma anche nell’autorappresentazione difficile e tormentata della città. L’immagine della città in guerra si è poi fissata nelle figure e nelle vicende legate all’occupazione alleata e immortalate da Eduardo De Filippo in Napoli milionaria (1945) e da Roberto Rossellini in Paisà (1946). Come per il resto del Mezzogiorno, il periodo ‘americano’ ha oscurato tutta la storia precedente: i bombardamenti, gli eccidi, gli episodi di resistenza e così via.

In anni più recenti, tuttavia, anche nel Mezzogiorno sono stati riscoperti e riportati alla memoria pubblica molti episodi di violenza nazista e di resistenza da parte di quelle popolazioni che vissero una breve ma durissima occupazione tedesca. Quali i motivi? Da un canto una generale riproposizione della memoria della guerra attraverso l’esperienza dei civili, che accomuna l’Italia con il resto dell’Europa. Non ultima l’attenzione della storiografia, che in alcuni casi si è incontrata con la richiesta locale di memoria.

La ricerca svolta sulle stragi naziste in Campania, alla fine degli anni Novanta, ha fatto emergere un oblio diffuso da parte delle istituzioni e nella popolazione ricordi personali vivissimi, accompagnati a volte da un forte risentimento verso quelle stesse istituzioni che avevano dimenticato le vittime. Senza, tuttavia, tralasciare alcune notevoli differenze strettamente legate alle vicende locali (Terra bruciata, 2003). Difficile è stata, per es., per molti anni la memoria della strage di Caiazzo (Caserta, 13 ottobre 1943), dove a morire furono interi nuclei familiari che vivevano fuori del paese e che soffrirono proprio questa scarsa appartenenza alla comunità, oltre all’indifferenza delle istituzioni. A tenere viva la memoria della strage ci fu la volontà tenace di un corrispondente di guerra americano che si trovava sul luogo al momento della scoperta dei cadaveri. Alla sua morte il testimone fu raccolto da un italoamericano che proveniva da un paese vicino e da uno studioso e militante politico di sinistra; questi fecero ricerche presso gli archivi americani e pubblicarono i risultati in un testo a tiratura locale. La comunità si risvegliò soltanto quando giunse, imposto ancora dall’esterno, il processo contro l’ufficiale che si era reso responsabile del massacro e che era stato identificato con sicurezza già nel 1943. Da allora il ricordo ufficiale è estremamente vivo. A pochi chilometri di distanza, a Bellona, invece, dove il 7 ottobre si era verificata una rappresaglia per vendicare un soldato tedesco ucciso, immediatamente dopo la strage si era costituito un comitato, presieduto dal fratello di una delle vittime. L’anno successivo veniva eretta una stele in memoria dell’eccidio. E Croce in persona ne stendeva il testo. Veniva poi innalzato un mausoleo dove ogni anno si commemora il massacro. La memoria è radicata e condivisa da tutta la comunità per una serie di motivi, tra cui, solo per accennarne brevemente alcuni, il fatto che la rappresaglia abbia colpito trasversalmente tutta la società (pastori, contadini, sacerdoti, esponenti dell’élite locale), il fatto che la scoperta dei corpi in una cava non lontano dal paese e la loro sepoltura siano stati eventi corali su cui si è formata una memoria collettiva tenace, e che, intorno a ciò, si sia creato un capro espiatorio, il giovane che aveva ucciso il soldato tedesco per difendere la sorella (pp. 251-75).

I casi di Bellona e di Caiazzo mostrano come la memoria si differenzi e come sia legata in maniera inscindibile alle vicende e alle caratteristiche delle comunità locali. Gli esempi potrebbero essere molteplici, non solo per il Sud.

Un caso significativo è quello di Sant’Anna di Stazzema, pochi borghi intorno alla chiesa, dove il 12 agosto 1944 avvenne il massacro di 560 persone, soprattutto donne e bambini, poiché gli uomini erano scappati nei boschi per paura dei rastrellamenti. Pochi i superstiti, solo alcuni bambini che erano riusciti a nascondersi o erano finiti sotto i corpi di altre vittime. Cumuli di corpi feriti, straziati, bruciati si presentarono agli occhi dei superstiti e degli uomini che accorrevano dai boschi. La comunità era quasi interamente distrutta. Iniziava un doloroso percorso della memoria. Non si poteva accettare e spiegare una violenza così efferata e indiscriminata contro i più inermi e innocenti della popolazione: donne, ma addirittura neonati, bambine e bambini piccolissimi. Immediatamente, le colpe dell’accaduto furono attribuite ai partigiani, come in molti altri casi di rappresaglie o massacri: i partigiani attaccavano, provocavano la reazione prevedibile dei tedeschi e poi fuggivano, lasciando la popolazione alla mercé delle rappresaglie. Si tratta di una memoria sotterranea, quasi una memoria ‘carsica’ che sparisce e riemerge, seguendo un ciclo interno alla comunità dei superstiti ma anche relazionandosi agli stimoli esterni (C. Di Pasquale, Il ricordo dopo l’oblio. Sant’Anna di Stazzema, la strage, la memoria, 2010).

In una prima fase il ricordo del massacro viveva quasi unicamente nella sfera privata dei superstiti. L’oblio della strage andava di pari passo con l’abbandono del paese, senza strada per raggiungerlo, invaso dal bosco e dai rovi. Gli uomini si risposavano e andavano via, i bambini finivano negli orfanatrofi. I santannini si sentivano completamente abbandonati dalle istituzioni, verso cui crescevano sfiducia e risentimento. In una seconda fase, che corrispondeva al riemergere a livello nazionale della narrativa della Resistenza, la memoria antipartigiana si attutiva, poiché il massacro poteva finalmente trovare riconoscimento nella narrazione nazionale. Alcuni elementi concorrevano a determinare il cambiamento: la costruzione della strada, che attestava una nuova attenzione delle istituzioni, il ruolo della Regione Toscana che riconosceva Sant’Anna di Stazzema come Centro regionale della Resistenza e decretava un finanziamento annuo per salvaguardare il ricordo dell’eccidio. La comunità si riconosceva allora in una narrazione su cui non era stata unanime. Fu effettuato un allestimento museale e la memoria fu affidata a un discorso univoco e politicizzato. Il riconoscimento massimo avvenne con l’arrivo del presidente della Repubblica Sandro Pertini il 29 settembre 1982.

Negli stessi anni Ottanta, tuttavia, il percorso della memoria si modificava ancora, in concomitanza con la nuova stagione politica seguita alla fine della guerra fredda e alla crisi delle ideologie politiche. Un altro importante fatto contribuiva, inoltre, a ridefinire la memoria: si svolgeva dopo tanti anni il processo ai perpetratori del massacro, che venivano condannati. Nel processo il massacro non veniva presentato più come una rappresaglia nei confronti di un’azione partigiana, ma inserito nella logica della «guerra ai civili» che aveva caratterizzato l’occupazione tedesca. I morti non erano solo più martiri della Resistenza ma vittime della violenza di guerra. Il progetto del museo cambiava e si affermava l’idea di un parco della memoria per la pace (C. Di Pasquale, Il ricordo dopo l’oblio, 2010). La giustizia, pur arrivata dopo molti anni, aveva intanto restituito non solo verità ma – per usare ancora le parole di Maier – ‘rispetto e legittimazione‘ alla comunità di Sant’Anna. Un aspetto, questo, che caratterizzerà tante altre storie di stragi, non necessariamente legate alla violenza di guerra.

Le memorie dei bombardamenti

Gli scheletri dei palazzi bombardati erano uno degli aspetti del quotidiano. Il suono delle rovine era stata la nenia che aveva cullato l’intera mia infanzia e gran parte dell’adolescenza, era normale che una città recasse ancora nel proprio ventre i resti della guerra [… ]. Le macerie mi erano familiari. Erano parte integrante del corpo di Palermo, qualcosa che esiste da sempre, essendo il tempo – o, meglio, la sua percezione – qualcosa che era nata con me. Questo era stato l’orizzonte della mia formazione, il posto in cui strutturai memoria e astrazione simbolica. La rovina era parte integrante dello sguardo (D. Enia, Maggio ’43, 2013, p. 98).

Le rovine hanno fatto da sfondo per anni al panorama delle città, diventando, come nella Palermo evocata da Davide Enia, un’immagine quotidiana, abituale, tale da non provocare interrogativi inquietanti. Winfried G. Sebald ha scritto, a questo proposito, pagine significative (Lufkrieg und Literatur, 2004; trad. it. Storia naturale della distruzione, 2004). Sebald era nato nel 1944 in Germania, le rovine della guerra avevano accompagnato i suoi primi anni di vita. Ma, come per molti altri tedeschi, esse avevano fatto parte di un paesaggio naturale, su cui non ci si interrogava. Ricordava di aver giocato spesso per interi pomeriggi negli anni Cinquanta su un terreno che era stato devastato dalle bombe al centro del paese e su cui si era sviluppata una folta vegetazione ‘una natura incolta e selvaggia’ che ben poteva fare da sfondo ai giochi avventurosi di un gruppo di fanciulli. In una intervista resa poco prima della sua morte spiegava che fino all’età di 16 anni non aveva saputo nulla di tutto ciò che era accaduto durante la guerra, né delle sofferenze inflitte dai tedeschi né di quelle vissute. Suo padre era tornato dalla prigionia nel 1947, dopo aver combattuto sul fronte orientale, e aveva mantenuto un rigoroso silenzio sulla sua esperienza. Solo più tardi, dunque, egli era stato in grado di fare il collegamento tra le rovine, la guerra e la morte di persone reali.

Le morti di massa e le rovine provocate dai bombardamenti aerei erano state tra le esperienze più comuni della guerra, eppure fu difficile parlarne negli anni successivi. Nel dopoguerra gli Alleati si rifiutarono di affrontare l’argomento: nella Convenzione di Ginevra del 1949, come nei protocolli aggiuntivi del 1977, non c’è alcun riferimento alla questione. A Norimberga i difensori dei gerarchi nazisti equipararono le vittime delle incursioni aeree alle vittime dei campi di sterminio. Ciò ha reso difficile riflettere sui risultati delle bombe sganciate in massa sulle città e sui paesi durante la Seconda guerra mondiale. Con la crisi della Prima repubblica e dei partiti legati alla Resistenza la memoria dei bombardamenti è, tuttavia, tornata a emergere e in alcuni casi si è riproposta come motivo di conflitto politico, come mostrano le vicende di Treviso e di Gorla, dove le amministrazioni di centrodestra hanno ripreso le categorie della propaganda fascista, eguagliando i morti dei bombardamenti e le vittime della violenza nazifascista. In alcuni casi a riproporre gli argomenti di allora sono in prima persona i gruppi neofascisti, come è avvenuto per es. a Battipaglia, dove il 21 giugno 2011, ricordando i bombardamenti che rasero al suolo la cittadina prima e durante lo sbarco nel golfo di Salerno, Forza nuova distribuiva un volantino in cui la condanna dei raid si intrecciava ad argomentazioni fasciste e a discorsi antiamericani (www.atuttadestra. net/index.php/archives/85484).

Dunque il tema è delicato. Chi lo affronta con spirito libero rischia di essere equiparato a simili soggetti politici. Anche per questo la memoria pubblica ha scelto prevalentemente di oscurare le responsabilità. Il ricordo ufficiale chiama in causa la guerra con la sua brutalità e le sue tragedie, le vittime sono martiri innocenti travolti dalle ‘atrocità della guerra’, dall’ ‘abisso dell’iniquità umana’ in cui cadde il mondo tra il 1940 e il 1945. Così recitano le lapidi del Nord, ma testi analoghi si trovano anche nel Mezzogiorno. Nella Napoli distrutta dell’immediato dopoguerra gli abitanti di due fra i quartieri più colpiti posero delle lapidi con espressioni simili: «Ai caduti civili della zona industriale che dal profondo abisso della iniquità umana irrorando il cammino di sangue innocente assunsero alla gloria dei cieli. 19 aprile1945». «Tra gli urli delle sirene e lo scoppio lacerante delle bombe generosi figli del popolo di sezione San Lorenzo soffrirono come soldati le atrocità della guerra. Colpiti a morte baciarono la propria terra insegnando ai posteri il sacrificio della patria […]. 1947». Un linguaggio analogo si trova nelle motivazioni alle medaglie al valore civile per le comunità colpite dai raid aerei: le vittime dei bombardamenti sono inscritte nella retorica dei morti per la patria. Parole arcaiche reinterpretano morti e sofferenze subite da una popolazione disarmata come sacrificio consapevole per la patria.

D’altro canto il linguaggio segnala una difficoltà: quella di inserire queste storie in una cornice politica, dovendo evocare le violenze compiute dagli Alleati, gli alleati-nemici descritti da David Ellwood (1977), e, nello stesso tempo venire incontro alle pressanti richieste delle comunità affinché venga riconosciuto il loro tributo di sofferenza nella guerra. Indica, inoltre, la persistenza delle simbologie nazionali ottocentesche: martiri sacrificatisi per la patria secondo il modello del martirio cristiano riformulato nell’Ottocento per celebrare i morti della nazione, in un intreccio indissolubile fra linguaggio civile e linguaggio religioso (A. Banti, La nazione del Risorgimento, 2006). Ma, se dopo la Prima guerra mondiale questo linguaggio poteva avere ancora un senso, dopo la Seconda cozzava con l’esperienza. Tutte le vittime senza distinzione si erano volontariamente immolate per la patria? Per quale patria si erano immolati i soldati dal 1940 al 1943? Se le vittime dei bombardamenti erano morte per una ‘guerra assurda’, per una ferocia indistinta, quale ideale patriottico poteva giustificare la loro morte? Le parole perdevano vieppiù di significato, diventavano vuota retorica. Tuttavia, l’elenco delle vittime della Seconda guerra mondiale continuava a essere affisso sui monumenti ai caduti accanto ai soldati morti al fronte nella Prima guerra mondiale.

Il peso della tradizione era schiacciante non solo sul piano dei contenuti e dei codici retorici ma anche sotto il profilo stilistico e formale, tanto che fu spesso difficilissimo operare nel senso di una radicale innovazione. Anche quando non ci si limitava ad apporre nuovi elenchi su monumenti vecchi, quando si procedeva alla creazione ex novo di lapidi e cippi commemorativi, si riscontrava la sopravvivenza di un codice linguistico e di scelte grafiche di impronta alquanto tradizionale (Schwarz 2010, p. 217).

Se a livello nazionale il ricordo dei raid aerei è stato estremamente flebile, quando non assente, e non ha comunque trovato parole adatte per elaborare il lutto, si scoprono, a livello locale, memorie tenaci fin dall’immediato dopoguerra, che, in alcuni casi hanno trovato un linguaggio più empatico per esprimersi, come le campane suonate a distesa a Caserta e a Pescara il giorno e l’ora del bombardamento più feroce. In quasi tutte le cittadine e i paesi colpiti dalle bombe si trovano opuscoli, libri composti da studiosi e storici locali, o semplicemente da qualcuno in grado di scrivere meglio degli altri. Vi si possono leggere i nomi delle vittime, le immagini, le biografie. Sono molti i volumi che contengono le testimonianze dei sopravvissuti. Una storia orale locale, sconosciuta al di là delle mura del paese, che mostra il desiderio di lasciare testimonianza dell’esperienza vissuta. A volte sono i giovani a proporre il ricordo di nonni e genitori. Sono ormai i siti Internet a gestire la memoria. Se si digita in Internet il nome di una città insieme alla parola ‘bombardamento’, compaiono video, fotografie, documenti, nomi, resoconti.

Il 2013, anniversario di tanti raid aerei – i bombardamenti strategici che colpirono le città italiane a partire dall’autunno del 1942 e si svilupparono per tutto il 1943 fino all’armistizio ai fini di provocare il ‘collasso morale’ degli italiani, e quelli tattici legati agli sbarchi – è disseminato di celebrazioni, quasi sempre solo a livello locale. Sono soprattutto i paesi e le cittadine di non grandi dimensioni, dove si sono costituite delle vere e proprie ‘comunità mnemoniche’ a ricordare l’evento con particolare cura (M. Halbwachs, La memoria collettiva, 1987).

Più difficile per le città, colpite ripetutamente, scegliere una data. Ma quasi sempre una data c’è. A Palermo, città che ancora porta i segni delle rovine, è il 9 maggio 1943. E nel 2013, il 9 maggio, il sindaco ha inaugurato un rifugio restaurato a via Maqueda con una mostra sulla distruzione del centro storico e sulle esperienze della popolazione in guerra. L’opera teatrale e il già citato romanzo di Enia è il racconto di quel giorno, ricostruito attraverso le memorie familiari. In altri casi il ricordo dei bombardamenti alleati è passato in secondo piano per lasciare posto alla celebrazione di eventi che meglio si inquadrano nella retorica gloriosa della Resistenza. A Napoli, come già visto, si è privilegiato la rievocazione delle Quattro giornate. I ricordi dei bombardamenti, pur estremamente diffusi e tenaci, si trasmettono nella sfera privata e familiare. Attraverso la storia orale emergono memorie di quartiere e di vicinato con la trasmissione di immagini e vicende che esprimono delle vere e proprie rappresentazioni collettive: il bombardamento del 4 dicembre 1942 con i ‘morti che camminano senza testa’, il 4 agosto 1943 immortalato dalla notissima canzone “Munastero ‘e Santa Chiara”, il massacro tra la folla di un rifugio, il bombardamento di un tram e così via (Gribaudi 2005). Restano, tutte queste storie, in gran parte memoria privata, non integrata in una narrazione pubblica che superi le mura delle comunità.

Come ha scritto Sebald parlando della difficoltà a narrare le rovine della guerra, c’è un’intrinseca inadeguatezza del linguaggio a esprimere esperienze ai limiti della tollerabilità. «Il racconto si fa discontinuo, ha una peculiare qualità erratica inconciliabile con una normale istanza della memoria», non trova parole che non siano espressioni stereotipate e inautentiche per narrare l’accaduto (W.G. Sebald, Storia naturale della distruzione, 2004, p. 35). Più di ogni altra documentazione di tipo narrativo l’oralità può restituire immagini, ricordi dolorosi e difficilmente descrivibili. Il narratore orale può esprimersi con il linguaggio quotidiano, può andare avanti e indietro, interrompersi, può descrivere l’inimmaginabile con i gesti, con le sospensioni. L’immagine ritorna alla mente con la stessa forza di un tempo, una rappresentazione fotografica che si conserva inalterata nella mente. Come racconta Giovannina Addelio che perse la mamma, il papà, il fratello maggiore e due sorelline: «Pare adesso […]. Quando mi viene in mente pare proprio adesso» (Gribaudi 2005, p. 576). Il trauma riappare quasi come un’istantanea, una fotografia che può essere rimossa, messa da parte, ma difficilmente rielaborata.

Enea Cervasio racconta con un’immagine durissima i corpi di tutta la sua famiglia: padre, madre, due fratelli e una sorella straziati da una cannonata sulle montagne dietro Salerno, dove erano sfollati, nel settembre del 1943. Un’immagine fotografica terribilmente nitida. Ma dice anche: «da un certo punto in poi ho dovuto e ho deciso di allontanare da me il ricordo, quando mi tornava in mente lo cacciavo, altrimenti non avrei potuto sopravvivere». Solo dopo molti anni, 30-40 anni da quel fatidico settembre ’43, il ricordo si è potuto ‘fare più dolce’, ha potuto affrontarlo ed è stato allora che ha ripreso i corpi dei genitori e dei fratelli tumulati a Salerno e li ha ricomposti insieme in una tomba a Napoli, la loro città. Per lui, come per tanti altri testimoni, narrare la morte dei propri cari è di nuovo elaborare il lutto, ricordarli e anche offrire a loro una nuova sepoltura (Intervista a Enea Cervasio, www.memoriedalterritorio.it). Un’altra testimone descrive con grande tenerezza i «corpiccioli» delle sorelline e della mamma uccise da una bomba mentre lavoravano i campi nel casertano. Ricorda la cura del padre nel ricomporre i corpi (Gribaudi 2005, p. 582-84). Rosina Monteriso narra con poche parole la morte del fratello: «Non me lo posso mai dimenticare, truvaie mio fratello a terra cun nu pare d’uocchie sgranate, isso po’ me facette segno con la testa e po’ murette» (p. 584).

Il ricordo appare come un risarcimento postumo alle atrocità delle morti, ai corpi smembrati e profanati, all’impossibilità di dare loro una degna sepoltura. La fonte orale introduce spesso con grande delicatezza nella dimensione della morte. Ma i racconti si fanno anche terribilmente realistici nella descrizione delle morti di massa.

A terra stevene e muorte accussì, stevene a terra. Poi coi camion venivano, li pigliavano da terra e li ammassavano come le galline [...]. Ci stavano tre camionette sotto sopra con i cristiani morti dentro, chi stava con una gamba da fuori chi con una gamba dentro, gente che andava là, gente civile che levava loro le scarpe dai piedi e se le prendevano, qua, dentro il paese. E tu se vedevi […] ho detto: chi vede la guerra vede la fine del mondo! (pp. 577-78).

I bombardamenti appaiono spesso nelle narrazioni come catastrofi naturali. È il lessico del destino a descriverli. Il discorso ufficiale degli strateghi dell’aria ha trovato una traduzione nel linguaggio e nella cultura popolare. La bomba è qualcosa che giunge dal cielo. Nel linguaggio comune una cosa caduta dal cielo simboleggia proprio la sorte imponderabile in agguato. La bomba invera il linguaggio, cade letteralmente in testa e interrompe qualcosa, a volte la vita.

C’è poi nelle testimonianze una speciale contraddizione: nonostante tutti parlino di bombardamenti a tappeto, non smettono tuttavia di cercare i motivi dei raid che hanno travolto le loro case, la vita di parenti e vicini, usando la teoria degli stessi americani: quella dei bombardamenti di precisione. L’opuscolo di Mario Lamboglia sul bombardamento del paese lucano di Lauria si intitola Il tragico errore: i bombardieri avrebbero scambiato un deposito di pelli in un deposito di armamenti (Bombe su Lauria/Il tragico errore, 2003). A Serre un incendio avrebbe attirato gli aerei inglesi. A Carinola un cortile con le lenzuola stese sarebbe stato preso per un accampamento.

Poi ci sono i capri espiatori, i colpevoli. A Buccino, comunità della Valle del Sele in provincia di Salerno, fu la figura di un pittore maltese, William Apap, rifugiatosi in paese durante la guerra, a provocare i sospetti della popolazione: fu ritenuto una spia al servizio degli Alleati, colpevole di aver segnalato la presenza di soldati tedeschi in paese. A Paternò «la voce popolare indicò subito la causa del bombardamento nella presenza di una spia» (Mangiameli 2013, p. 166).

Molti casi, tuttavia, appaiono ancora inaccettabili e incomprensibili alle popolazioni colpite. Sempre a Buccino, durante il bombardamento del 16 settembre 1943, un aereo inglese «effettuò due sventagliate di mitraglia» sulla piazza principale, uccidendo dieci ragazzini fra i 10 e i 13 anni che stavano giocando a pallone. Nonostante tutto la gente provò a dare delle spiegazioni. I bambini si erano confusi in mezzo a un gruppo di tedeschi? Le foto scattate dai ricognitori nei giorni precedenti avevano forse immortalato i bambini insieme ai tedeschi? Ma nessuna spiegazione sembrava plausibile: era, dunque, semplicemente la guerra con i suoi danni collaterali. I bambini, nelle parole pronunciate da un relatore in uno dei primi anniversari, erano stati inconsapevoli oggetti di un «assurdo tiro al bersaglio di una follia sfrenata e tuttavia lucida […]» (E. Catone, 16 settembre 1943. …quando i padri seppellirono i figli, 2013, p. 47).

A Napoli nel quartiere di San Pietro a Patierno, dove il 4 aprile 1943 fu colpito il tram che portava dalla stazione all’aeroporto di Capodichino, i racconti rappresentano la gente che fuggiva e gli aeroplani che scendevano a mitragliare i fuggitivi. Di «vittime innocenti massacrate dalla barbarie della guerra» parla la lapide posta nel 1946 a Pellestrina, in Veneto, a ricordo del bombardamento che il 13 ottobre 1944 colpì il traghetto Giudecca con oltre 200 passeggeri. Anche in questo caso i superstiti e i parenti delle vittime non riuscirono a trovare giustificazioni. Perché bombardare una motonave carica di civili, in mare, lontano da obiettivi strategici? Anche l’errore pareva poco probabile. L’affondamento appariva ‘incomprensibile’ un «errore-orrore che rappresentava un’onta per le forze liberatrici» (S. Ravagnan, errori/orrori della guerra. L’affondamento del “Giudecca”, www.iagi.info/araldica/civica/venezia/giudecca2000/giudeccaop.html).

La condanna e il rifiuto delle ragioni della guerra sono tanto più forti quando a morire sono i bambini. La morte dei bambini provoca un trauma quasi insuperabile. È il caso di Gorla, quando il 20 ottobre 1944 gli aerei centrarono la scuola del quartiere provocando la morte di 184 bambini; è anche il caso di Buccino, sopra citato, con i bambini mitragliati mentre giocavano sulla piazza principale; e quanto accaduto a Sonnino, piccolo villaggio del basso Lazio, in cui il bombardamento del 22 aprile provocò la morte di 33 bambini ospitati in un istituto religioso (Gribaudi 2013, p. 50-51); a Reggio Calabria, dove il 21 maggio 1943 le bombe colpirono il brefotrofio uccidendo 55 bambini, 12 balie, 2 bambinaie e una suora (Marcianò 2005).

Sono bambini i protagonisti di uno dei pochi romanzi, usciti nel dopoguerra, incentrati sui bombardamenti e sulle rovine: Il cielo è rosso di Giuseppe Berto (1946). Orfani, denutriti, abbandonati si aggirano tra le macerie in cerca di una sopravvivenza impossibile. Vengono proposti dall’autore come il simbolo estremo dell’iniquità della guerra.

In quegli stessi anni sarà il cinema a proporre i bambini come vittime e protagonisti della guerra: lo sciuscià immerso nelle macerie e nella miseria di Napoli in Paisà (1946), l’Edmund di Germania anno zero (1948), entrambi di Rossellini; Pasquale e Giuseppe, i ragazzi abbandonati che per sopravvivere si danno alla delinquenza, in una Roma sconvolta dalla guerra e occupata dalle truppe alleate, in Sciuscià (1946) di Vittorio De Sica.

Le donne: icone della sofferenza e dei mali della guerra

I bambini ma anche le donne assurgono a immagine simbolica della guerra e della sofferenza. E saranno ancora Rossellini e De Sica a proporre, nei loro film, figure di donne che si radicheranno nella memoria della nazione. Nell’ultima scena di Roma città aperta (1945), attraverso la fine della moglie e madre Pina (Anna Magnani), Rossellini ha voluto condensare tutto il dramma della guerra: il marito prigioniero che si allontana sulla camionetta, lei che urla, lo insegue e viene ferita a morte, il figlio riverso sul corpo della madre che piange disperato, il sacerdote che sorregge il corpo.

Una madre è la protagonista principale del film di De Sica La ciociara (1960), tratto dal romanzo di Alberto Moravia (1957), per cui Sofia Loren conseguì il premio Oscar per la migliore interpretazione. La madre lacera e piangente china sulla figlia stuprata da un branco di soldati è un’altra delle icone possenti delle vittime della guerra.

Il cinema neorealista, in controtendenza rispetto alle narrazioni ufficiali del dopoguerra, mise al centro l’esperienza e la sofferenza della gente comune e non ebbe, nell’immediato, una facile accoglienza (G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal neorealismo al miracolo economico 1945-1959, 1982, p. 105). Tuttavia nel tempo le rappresentazioni si sono fissate nell’immaginario nazionale. Passato lo shock dell’immediato dopoguerra, quando una sorta di amnesia terapeutica ha prevalso sul ricordo delle sofferenze subite, esse hanno potuto essere accolte, confermando e rafforzando i ricordi individuali.

Anche nei racconti orali la sofferenza della guerra trova spesso espressione nella rappresentazione del dolore delle madri. È l’immagine della mater dolorosa che simboleggia e catalizza su di sé il dramma della morte. Appaiono sullo sfondo le figure della tradizione religiosa: la deposizione della croce, Maria che piange, Maria che segue coloro che portano il corpo del figlio. «Mammà era un’addolorata [...] mammà camminava dietro a papà come quando Gesù Cristo steve ‘n coppa a croce [...] per me era a stessa cosa» (Gribaudi 2005, p. 588).

Ci sono le madri che proteggono, che salvano. La lotta delle madri e delle mogli con i soldati per la difesa di figli e mariti è un elemento chiave nella narrazione della guerra. Donne che salvano gli uomini dai rastrellamenti, che accolgono i soldati sbandati, madri e mogli che strappano letteralmente i figli o i mariti ai razziatori. Fastidiosa, ovviamente, quando si fa retorica ampollosa e avulsa da fatti e figure concrete, la raffigurazione rimanda però a un riferimento reale: le madri, le mogli e le donne in genere sono i soggetti portanti di quella resistenza civile di cui si è parlato molto tardi. Sono ancora le donne spesso ad accompagnare i corpi dei loro cari al cimitero.

«Lo misero in una cassa e mia sorella si mettette ‘n capa la cassa e lo portarono al cimitero. Fino ‘n copp’o cimitero o purtava ‘n capa». E ancora: «Ci fu una donna […] quella donna quando cacciarono il marito […] quando lo cacciarono lei se lo mise in testa [..] la bara, no? Se la mise in testa e arrivò al cimitero, se lo portò lei al cimitero» (p. 576).

L’immagine delle donne con la bara in testa è di enorme suggestione. È una sorta di icona che non ha bisogno di commenti. Rimanda a un ruolo e a una forza che difficilmente potrebbero essere tradotti in parole. È, ovviamente, anche l’immagine di un tempo molto lontano. Di una realtà che riemerge dal passato come se si trattasse di un altro mondo. Sono, queste, immagini che emergono dal ricordo, dall’esperienza soggettiva: visioni concrete radicate in una esperienza reale.

Madri e figlie compaiono ancora come rappresentazioni di una sofferenza estrema nelle testimonianze degli stupri avvenuti nel basso Lazio, dopo lo sfondamento della Linea Gustav. Nei racconti vengono raffigurate madri che si offrono ai soldati pur di risparmiare le figlie, madri che piangono:

Mamma mia passava e gnurnate a piagnere, la notte n’durmeva pe niente, alluccava pe gnu terrore… ha sofferto tanto pe me e la sora mia […]. Figlie disperate. [...] Che dolore! Nun sapevo mancu che cosa significasse quelle cose, però capivo che steveno a fa del male a mia madre che, vrevo, cercava con tutte le poche forze di ribellarsi […] (Gribaudi 2005, p. 531).

Il racconto più struggente è quello di una donna di Lenola, che all’epoca aveva 13 anni, la quale narra di essere stata violentata per tutta una notte da più soldati, di essere stata abbandonata in un campo dove fu ritrovata da padre e fratello che la dovettero portare a spalla in un luogo protetto: lei non riusciva più a camminare (p. 523-24).

Sono racconti di esperienze quasi indicibili. Rappresentano una testimonianza unica e incomparabile. Colpisce la differenza con il racconto letterario di Moravia e quello cinematografico di De Sica. Entrambi i lavori, notevoli per altri aspetti e importanti, comunque, per aver affrontato un argomento tabù nel dopoguerra, non rendono appieno il trauma, il dolore fisico e psichico, la disperazione, che appare invece con incredibile forza nelle testimonianze orali. Nel film, dopo la violenza, la ragazza si alza, cammina. La sera scappa per andare a ballare con un uomo incontrato per caso. Ovviamente l’episodio è simbolico: sottintende il dolore per la perdita di quell’innocenza tenuta così gelosamente in serbo; è come se la giovinetta volesse assecondare fino in fondo il destino che l’ha oltraggiata e colpita, cercando altre umiliazioni e ferite. Ciononostante, dopo aver letto le testimonianze, la visione di quella scena provoca un certo disagio. I racconti veri sono quelli di un dolore e di una disperazione senza fine. E poi di un calvario tra medici, ospedali, mortificazioni e così via. Sembra quasi che anche Moravia e De Sica abbiano registrato l’onore perduto e non la sofferenza.

La madre lacera e piangente china su una figlia attonita ci conduce a un altro tema. Al centro della scena non ci sono solo madre e figlia con il loro dolore, ma il loro corpo. Il corpo stuprato allude al corpo stuprato della nazione, alla perdita dell’onore: lo stupro delle donne colpisce l’onore degli uomini che non hanno saputo difenderle.

Ma l’onore degli uomini è colpito anche quando le donne scelgono di fraternizzare con i soldati stranieri. Sono noti i casi di rasature di capelli e di vere e proprie sevizie inflitte a quelle donne che avevano avuto rapporti con i soldati tedeschi. Casi analoghi, seppure di minore violenza, si verificarono anche verso donne che avevano relazioni con i soldati alleati.

I rapporti fra le donne e i soldati alleati erano stati intensi. Maria Porzio (2011) ha contato nei registri dello stato civile i matrimoni fra donne napoletane e soldati alleati a Napoli negli anni 1944-47 e ha trovato 2062 unioni miste, di cui 1446 con militari americani, 780 dei quali italoamericani. L’autrice è riuscita a intervistare alcune di queste spose che hanno raccontato la loro storia e i motivi del loro innamoramento.

Non ti posso dire che cosa mi colpì. Non era un uomo come gli altri, come quelli che avevo sempre visto a Napoli, era diverso: era gentile, era pulito, odorava, con le divise sempre pulite e profumate, con un portamento […] poi era bello, biondo, sembrava un attore americano. E poi era generoso, appena poteva portava cose che gli altri si sognavano (p. 193).

Belli, vincitori, liberi, diversi, come gli attori americani, essi rappresentavano la contrapposizione con la dura realtà che si era vissuta fino ad allora: la guerra, la miseria, ma anche i fidanzamenti claustrofobici, sorvegliati da mamma e papà. In un mondo in cui la separazione fra i sessi e il controllo sulle donne era ancora molto forte, la guerra e la presenza degli Alleati allentò questo controllo e donne e ragazze se ne avvantaggiarono. Da qui la ritorsione degli uomini, sconfitti dai vincitori sia sul campo di guerra sia nella vita quotidiana. Emerge una fitta documentazione che testimonia di scontri tra italiani e Alleati a causa delle donne, e aggressioni alle giovani che andavano in giro con gli Alleati, scoprendo la presenza di un fenomeno che si credeva interessasse soltanto il Nord, cioè le ‘tonsure’. Molte donne sono state rasate (a volte denudate) perché accusate di frequentare i soldati alleati. Il motivo delle ‘rapature’ è noto: si punivano le donne che avevano collaborato con i nemici. Colpisce il fatto che nel Centro-Sud si volessero castigare donne che collaboravano con gli ‘amici’, fatto questo che indica l’ambigua caratterizzazione del soldato alleato agli occhi dei giovani italiani. Emergono poi elementi di fondo comuni con le tonsure settentrionali. Colpendo il corpo delle donne fedifraghe si colpisce in effige l’occupante inviolabile. Il corpo delle donne rappresenta simbolicamente quello della nazione che non può essere violata. Le donne hanno così il dovere di mantenersi integre per salvare l’onore della nazione. Non a caso Lydia Cirillo divenne un’eroina del difficile dopoguerra: la donna che uccise il soldato britannico che l’aveva illusa, ingannata e abbandonata.

«I danni della seduzione. Una giovane di Torre Annunziata uccide a colpi di pistola un ufficiale inglese». È l’11 ottobre 1945 e questa è la notizia che compare sui giornali italiani. Lydia Cirillo uccide l’uomo con cui aveva avuto una intensa relazione amorosa fin dal 1944, quando scopre di essere stata ingannata e tradita. L’ufficiale le aveva solennemente promesso di sposarla, nascondendole la presenza di una moglie e due figli in patria. Nel momento in cui sta per lasciare l’Italia rifiuta di vederla ancora e respinge le sue accorate rivendicazioni. Lei prende una pistola e lo uccide. La donna diventò un’eroina: «Divenne l’emblema della rivincita delle donne italiane sullo straniero usurpatore», colei che aveva difeso il suo onore e quello delle donne italiane. Il processo che si svolse a Roma fu seguito da un folto pubblico, ed ebbe grande risonanza mediatica. Il risultato fu una condanna mite e la grazia concessa dal presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, nel 1949 (Porzio 2011). Nel 1952 venne realizzato anche un film sulla storia di Lydia Cirillo.

Il caso venne poi dimenticato, anche la memoria orale non ne conserva traccia, poiché gli anni della ricostruzione, con l’enfasi sul ruolo degli Alleati e sugli aiuti americani, misero a tacere le immagini negative. La storia di Lydia fa emergere, dunque, alcuni aspetti dimenticati dei sentimenti che una parte della popolazione coltivò verso gli Alleati. Nell’immediato essi erano stati accolti con enorme gioia, veramente come i liberatori da una guerra che nessuno voleva più, ma poi era emersa anche la durezza di quella che in effetti era un’occupazione militare: requisizioni di case, continui incidenti stradali provocati dalle camionette militari ai pedoni che affollavano le strade delle città, ricerca continua di donne, in molti casi anche violenza verso le donne. Tutto ciò provocava un certo risentimento da parte dello sconfitto che sentiva il suo ‘onore’ calpestato. Era una generazione educata al mito della patria che si incarnava appunto nel discorso dell’onore: la ragazza, che uccideva l’inglese che l’aveva ingannata, difendeva, agli occhi di molti, l’onore degli italiani.

Attraverso il ‘prisma del genere’ ci si addentra in una dimensione inedita dell’Italia liberata, che mette in crisi le tradizionali dicotomie attraverso le quali guerra e dopoguerra vengono rappresentati (amici/ nemici, vincitori/vinti, liberatori/occupanti). Si scopre una conflittualità finora taciuta fra uomini e donne, che ha caratterizzato i dopoguerra di tutti i Paesi europei.

La donna appare nella doppia veste rappresentata tradizionalmente nella religione cristiana dalle figure contrapposte di Eva e di Maria; l’una, la donna madre, incarna la virtù, ma anche il dolore, la sofferenza e la capacità di sopportazione, l’altra, la peccatrice e tentatrice, di cui gli uomini sono le vittime.

Dure figure di peccatrici emergono dalla letteratura. È il caso, per es., della protagonista della commedia Napoli milionaria di De Filippo, donna Amalia Jovine: dura e cinica contrabbandiera contrapposta alla figura del marito, ex tranviere deportato in Germania, che al suo ritorno assiste attonito e impotente alle trame e ai traffici che governano la vita della città. In questo caso la vittima della guerra è l’uomo, e la donna viene a incarnare tutte le terribili conseguenze che la guerra produce nell’etica e nella vita quotidiana.

Immagini ancora più estreme si colgono nella rappresentazione di Napoli data da Curzio Malaparte, nel romanzo La pelle (1949), in cui le folle di donne che si prostituiscono, che ostentano il loro povero corpo, sono l’emblema estremo della sconfitta, della fame e della miseria in cui la città è immersa.

‘Eva’ e ‘Maria’ convivono in tutte le guerre e in tutti i dopoguerra: accanto alla mater dolorosa c’è quasi sempre la peccatrice. Convivono anche nella memoria diffusa e sono, non a caso, enfatizzate da una letteratura prevalentemente maschile.

Monumenti, luoghi, riti della memoria

Con il declino delle ideologie politiche che avevano contrassegnato la guerra fredda, i linguaggi nazionalisti ed eroici sembrano aver subito una crisi definitiva. In alternativa si propongono modelli diversi di rammemorazione: le vittime vengono ricordate in quanto persone, senza attribuire alla loro morte un significato etico o patriottico. Si leggono i nomi a uno a uno, si costruiscono monumenti che ricordano i cimiteri, come il grande memoriale della Shoah di Berlino (Denkmal für die ermordeten Juden Europas), progettato da Peter Eisenman, tra il 1996 e il 2005. Si tratta spesso di una memoria dal basso, che nasce nelle comunità. Quasi tutti gli opuscoli prodotti negli ultimi anni portano gli elenchi delle vittime, quando è possibile le loro fotografie e la loro storia: un modo di elaborare il lutto, di offrire loro una nuova sepoltura, onorarle con un rituale che mancò alla loro morte (Pirazzoli 2010).

Se si analizza meglio la vicenda dei monumenti nel passato, si scopre, tuttavia, che questo modo di onorare e ricordare i morti è un modello popolare più antico, che nell’immediato dopoguerra si propose e contrastò spesso con i rituali e gli spazi pubblici gestiti dalle istituzioni. Pietro Chiodi nel suo diario partigiano ricordava di aver visto, girando per Torino, mazzi di fiori e fotografie nei luoghi in cui erano stati uccisi dei partigiani. A Milano, nel cimitero monumentale, dove era stata eretta un’opera astratta in memoria dei caduti nei campi nazisti, i parenti delle vittime disseminarono l’aiuola circolare «di piccole foto-ricordo ovali o quadrate montate su dei cavicchi e conficcate a filo d’erba» (Schwarz 2010, pp. 206, 215).

Ma il caso più significativo è quello del Sacrario dei partigiani di Bologna:

Il 21 aprile 1945, subito dopo la liberazione della città, sul muro di Palazzo d’Accursio (il palazzo del Comune), nel punto esatto in cui erano state effettuate le fucilazioni degli oppositori politici, durante gli anni più crudeli del fascismo e della guerra, iniziano a essere attaccate fotografie e fiori. Si tratta dei ritratti delle vittime del fascismo, prevalentemente di partigiani, portati da parenti e amici. È un memoriale spontaneo quello che inizia a nascere, che cresce di giorno in giorno, cambia forma e assume un significato sempre maggiore per la città, fino a diventare un “altare del popolo […]. Alcuni anni dopo il muro del ricordo venne trasformato in un memoriale permanente con le immagini riprodotte in vetro resina (Pirazzoli 2010, p. 19).

Ne fece una descrizione vivida nel suo libro,Voyage en Italie, lo scrittore Jean Giono che lo vide negli anni Cinquanta.

Bologna ha il monumento ai morti più straordinario che ci sia […]. È un muro, […] e il nome di ogni morto è illustrato dalla sua fotografia, la fotografia fornita dalla sua famiglia. Ci appaiono dunque com’erano agli occhi di chi li amava: il grande e paffuto uomo coi baffi a manubrio, il bel tenebroso con la cravatta impeccabile, [...]. Mi sono venute le lacrime agli occhi davanti a un nome che era stato illustrato da una madre, certamente non corneliana, con la fotografia di un biondino in braghini corti e colletto alla marinara. Aveva voluto custodirlo nel ricordo a quell’età […]. Questi fantasmi disposti lungo un marciapiede, in uno dei luoghi più frequentati della città e così com’erano nella loro umile vita, sono più commoventi di tutti i grandi ordini architettonici (Pirazzoli 2010, p. 19).

Nel caso bolognese la pietà popolare si è imposta e il muro con le fotografie domina la piazza principale di Bologna.

In altri casi, invece, si verificano veri e propri conflitti. Paradigmatica è la vicenda del monumento ai caduti delle Fosse ardeatine. Fin dal 1944 i governi succedutisi intendevano fare del monumento ai martiri delle Fosse ardeatine un ‘nuovo altare della patria’. I rituali annuali, con la presenza massiccia delle Forze armate e l’accostamento dei morti per la rappresaglia con i soldati caduti in battaglia, tendeva a dare al lutto una dimensione nazionale, sottraendola a quella familiare. Ciò fu rifiutato dai parenti delle vittime, che si riunirono in un’associazione con il proposito di controllare la costruzione del monumento e la gestione della memoria. Contestarono i rituali e i progetti monumentali che affogavano il sacrificio dei propri cari in una retorica patriottica, che negava l’individualità delle vittime e il senso della loro morte. Imposero il rispetto totale del luogo, impedendo la costruzione di un monumento che cancellasse le tracce del paesaggio in cui la rappresaglia era avvenuta. I parenti pretesero che le Fosse ardeatine venissero totalmente preservate e divenissero esse stesse il monumento alla memoria, in quanto luogo sacro, evocativo con la sua nudità della tragedia che vi si era svolta. E in effetti la volontà dei parenti si impose. Il progetto realizzato si inseriva nel paesaggio e portava il visitatore attraverso un cammino lungo le gallerie a ripercorrere i passi compiuti dai condannati incontro alla morte. Fu il primo caso in cui nella realizzazione di un sacrario di tale importanza, «le istituzioni statali abbiano giocato un ruolo limitato», mentre giocò «un ruolo cruciale un’associazione di privati cittadini» (Schwartz 2010, p. 81).

Altrove sono state le rovine a diventare il ‘luogo sacro’. Uno dei casi più noti è quello della cittadina di Oradour in Francia. Oradour ‘villaggio martire’ (massacrati 642 abitanti e poi incendiato e distrutto il paese) venne ricostruito in un nuovo sito e le rovine furono conservate a perenne testimonianza delle sofferenze francesi sotto l’occupazione tedesca, divenendo un luogo sacro, testimonianza diretta della guerra. In Italia un caso analogo è rappresentato dal villaggio di San Pietro Infine, raso al suolo dagli Alleati durante la Seconda guerra mondiale, nel dicembre 1943, per sfondare la Linea Bernard e proseguire verso Montecassino e Roma. Il suo nucleo storico non è stato più ricostruito, tuttora si erge su uno sperone di roccia, a mezza costa sul monte Sammucro. Si possono percorrere ancora i vicoli, le centinaia di scale attraverso cui si sviluppava il paese, scorgere mura coperte dalla vegetazione, vedere i perimetri di quelle che erano state case. Nel 2008 il villaggio è diventato Monumento nazionale ed è stato creato un museo multimediale all’ingresso del paese diroccato, in un vecchio frantoio. A San Pietro Infine, John Huston, giovane cineoperatore al seguito della Quinta armata, durante e subito dopo la battaglia, girò uno dei combat film più famosi della campagna d’Italia, The battle of San Pietro (La battaglia di San Pietro, 1945). Ed è questo filmato a concludere lo spazio espositivo del museo. Vi compaiono i soldati e i combattimenti, ma vi compare anche la popolazione. Le scene sono girate tra le rovine. Lo sguardo della cinepresa si ferma su vecchi zoppicanti, donne con bambini in braccio, ma soprattutto sui bambini. Essi hanno nel filmato un ruolo particolare: sono scalzi, laceri, ma sorridono. Icone della guerra che colpisce gli innocenti, devono diventare, nell’intenzione dell’autore, anche il simbolo di una possibile rinascita.

Le rovine di San Pietro Infine sono fra le memorie più suggestive della terribile esperienza subita dalle popolazioni che vissero tra Campania e basso Lazio tra le bombe e i cannoneggiamenti degli eserciti in una vera e propria terra di nessuno. Come ha scritto Sarah Farmer a proposito di Oradour:

questi luoghi commemorativi traggono la loro forza proprio dalla loro materialità; essi servono da testimonianza diretta di ciò che vi accadde. […] facendo affidamento sull’esperienza visiva, i luoghi commemorativi funzionano come narrazioni visive del passato. Si ritiene che gli stessi resti fisici raccontino una storia che insegna qualcosa a chi si ferma a guardarli (S. Farmer, Le memorie di Oradour-sur-Glane. Resti materiali e memoria, «Parole chiave», 1995, 9, nr. monografico: La memoria e le cose, p. 158).

Il modello di memoria che oggi sembra ‘postmoderno’ appare qui avere origini più antiche: nasce nel lutto privato, si impone con il tempo alle retoriche della patria. Al contrario di quello che si potrebbe credere, queste espressioni del lutto e della memoria, individualizzate e antiretoriche, vengono dal basso. Le forme di commemorazione che si sono imposte negli ultimi anni hanno in fondo raccolto aspirazioni e desideri che venivano dalle popolazioni, che più o meno sotterraneamente avevano attraversato tutto il periodo della guerra fredda.

Le memorie della Shoah

È degli anni Settanta la decisione di costruire il memoriale della deportazione italiana al Blocco 21 di Auschwitz. Fu l’Associazione italiana degli ex deportati (ANED) a prendere l’iniziativa e a curare il progetto che fu assegnato a uno dei più importanti studi di architettura del tempo (BBPR), fondato da quattro architetti: Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Gian Luigi Banfi, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers, che rappresentavano compiutamente le vicende della deportazione politica e razziale. Belgioioso era un ex deportato politico reduce di Mauthausen, dove aveva trovato la morte Banfi. Gli altri due fondatori erano un ex partigiano e un ebreo rifugiatosi in Svizzera durante il periodo della persecuzione. A realizzare l’opera pittorica venne chiamato l’artista siciliano Pupino Samonà. Primo Levi scrisse i testi, Luigi Nono compose la musica che accompagnava i visitatori. Il memoriale intendeva evocare la storia che precedeva e seguiva l’esperienza della deportazione: una grande spirale avvolgente, che man mano cambiava colore a rappresentare simbolicamente i vari momenti e i diversi soggetti della persecuzione, si dipanava all’ingresso del Blocco 21 scelto per installare il Memoriale italiano. Due le sue caratteristiche pregnanti: il linguaggio e le scelte tematiche. Innanzitutto il linguaggio astratto che doveva evocare e non narrare la storia in maniera letterale. Poi l’astrazione fu una scelta tematica precisa: rimandava all’impossibilità di descrivere la morte di massa e anche alla complessità delle vicende di deportazione. Più che spiegare intendeva provocare un’emozione. Inoltre voleva simbolicamente rappresentare l’intera vicenda, a partire dalle politiche persecutorie del fascismo fino alle diverse esperienze della deportazione nel 1943-45. I colori rappresentavano, come disse Pupino Samonà, i vari momenti storici.

Il memoriale fu inaugurato nel 1980. Linguaggio e scelte tematiche rispecchiavano le culture e le narrazioni pubbliche del tempo con la predominanza del ricordo della deportazione politica. Ma con il passare degli anni cominciò a deteriorarsi, e il deterioramento si accompagnò al declino della narrazione cui era legato. Alcuni storici fecero notare che il linguaggio non era più adeguato alle domande e alle esigenze poste dai tempi: sarebbe stato necessario documentare Auschwitz con una esposizione che privilegiasse la dimensione audiovisiva e gli aspetti didattici (G. De Luna, «La Stampa», 21 genn. 2008). In quegli stessi anni la storia della deportazione andava mutando: la deportazione politica finiva sullo sfondo e al centro della scena si stagliava invece la deportazione razziale. Il compito di restaurare il memoriale, ed eventualmente di comporne uno nuovo, veniva conseguentemente affidato alle organizzazioni ebraiche, scatenando la reazione dell’ANED e anche di chi aveva criticato il monumento e ne aveva proposto la modernizzazione con intenti didattici.

Il caso può rappresentare un esempio significativo per inquadrare la vicenda della memoria della Shoah in Italia. Il memoriale ci rimanda a un periodo storico in cui è egemone la storia della deportazione politica. Come fanno notare Anna Bravo e Daniele Jalla (Una misura onesta, 1994) nello stato che nasce dalla guerra «appare ancora saldo, sul piano simbolico, uno dei fondamenti tradizionali della cittadinanza, che lega la sua pienezza alla prerogativa del portare le armi, facendo degli inermi per necessità o per scelta figure minori, cittadini in seconda» (p. 21). La deportazione veniva assimilata alla resistenza e il ricordo si concentrava dunque sui casi emblematici da questo punto di vista. Fu estremamente difficile per i sopravvissuti all’olocausto far sentire la propria voce.

Subito dopo la guerra, dal 1945 al 1948, vennero pubblicate alcune memorie. L’impulso a scrivere fu quasi un obbligo per raccontare, ai fini di testimoniare, quell’esperienza inaudita che si era vissuta. Un obbligo morale, ha detto Primo Levi, verso gli ‘ammutoliti’, i sommersi che non potevano più raccontare. (I sommersi e i salvati, 1986, p. 65). Ma la ricezione fu estremamente difficile. Noto è il caso dello stesso libro di Levi, Se questo è un uomo, pubblicato da una piccola casa editrice nel 1947, sconosciuto ai più, e ripreso da Einaudi soltanto nel 1958.

Il ritorno degli scampati era stato estremamente difficile e doloroso. In alcuni paesi il loro reinserimento fu pressoché impossibile. In Italia dovettero comunque negoziare, in un certo senso, il loro ritorno: non fu facile tornare in possesso dei beni, riprendere carriere interrotte, far accettare la propria storia. Fu necessario tenere un profilo basso, cercare di tornare alla vita normale come se nulla fosse avvenuto. Come ha scritto David Bidussa, mentre in Polonia e in altri territori dell’Europa orientale, furono letteralmente cacciati, coloro che rientravano nei Paesi dell’Europa occidentale dovettero pagare «un ‘ticket d’ingresso’: la messa in mora del trauma» (2009, p. 83).

Il silenzio delle istituzioni ha, in un certo senso, assecondato il silenzio delle vittime che avevano difficoltà a farsi sentire, ma avevano anche il bisogno di dimenticare, rimuovere, cercare di ritrovare la normalità della vita quotidiana. Molti sono stati in silenzio per anni. Caso esemplare è, a questo proposito, quello di Elisa Springer, giovane donna di Vienna, sopravvissuta ai campi di sterminio, profuga in Italia, dove sposò un italiano e visse con lui a Manduria, una cittadina pugliese. Elisa tenne rigorosamente per sé per cinquant’anni la sua storia, perché la famiglia del marito preferiva che non si sapesse che era ebrea e perché sentiva di non poter essere capita. Fu il figlio ad aiutarla a riappropriarsi dei suoi ricordi. Ne nacque un libro, Il silenzio dei vivi, pubblicato nel 1997.

A partire dagli anni Novanta le memorie si sono moltiplicate. Poi, con l’istituzione nel 2005 del Giorno della memoria, celebrata il 27 gennaio di ogni anno, la Shoah diventa la rappresentazione centrale della deportazione. Si capovolge il processo: questa volta è la deportazione politica a finire sullo sfondo. Si riaccende la polemica.

Se da un lato, per decenni la memoria della Resistenza, dell’antifascismo e della deportazione politica era così straripante da annettersi anche quella della Shoah, oggi la situazione si è capovolta e nel segno della Shoah a rischiare di sparire dal discorso pubblico e dalla nostra memoria collettiva è proprio l’antifascismo […]. Per prendere le distanze dal fascismo basta condannare l’infamia delle leggi razziali del 1938, quasi che quelle leggi esaurissero per intero la dimensione totalitaria del regime e possano oggi costituire un ottimo pretesto per chi vuole dimenticare che il fascismo prima uccise la libertà e la democrazia e poi perseguitò gli ebrei […]. Oggi la Shoah rischia di essere imbalsamata in una elefantiaca dimensione istituzionale: le celebrazioni per la ‘giornata della memoria’, gli sforzi per diffondere nella scuole una specifica ‘didattica della Shoah’, l’intervento della Presidenza del Consiglio su un ‘luogo’ come il Memorial, adombrano una monumentalizzazione che avrebbe effetti devastanti proprio sui delicati meccanismi della trasmissione della memoria alle nuove generazioni: una storia sovraccarica di ‘ufficialità’ favorisce più l’oblio che il ricordo (G. De Luna, «La Stampa», 28 febbr. 2008).

Sono molti gli autori che, come Giovanni De Luna, paventano il rischio di una sacralizzazione astorica della Shoah, che ne riduca il senso e la portata critica (Pisanty 2012). Lo sterminio degli ebrei d’Europa diventa, in questa visione sacrale, il male assoluto, collocato in una bolla astorica in cui si oscurano dinamiche contingenti e responsabilità: un orrore accaduto molto lontano da noi e perpetrato da qualcuno diverso da noi, frutto di malvagità e di follia umana. Ciò serve poi a dimenticare il ruolo degli italiani, le leggi razziali, la collaborazione attiva delle Repubblica di Salò, e a confermare il mito del ‘bravo italiano’ (Bidussa 1994; Focardi 2013). Quando venne istituito il Giorno della memoria, il tema emerse in modo indiretto nella discussione sulla data da indicare per la commemorazione: il 27 gennaio, giorno della liberazione di Auschwitz, una data europea di valenza internazionale, che rafforzava l’idea dell’olocausto come evento unico al di sopra delle storie nazionali, o il 16 ottobre, data della razzia del ghetto di Roma, che avrebbe reso concreta la vicenda della Shoah italiana, alludendo a un luogo materiale, a esperienze incarnate in donne e uomini con nome e cognome? Come è noto, fu scelto il 27 gennaio e le baracche di Auschwitz sono diventate la vera e unica icona della Shoah. Il rischio è, da un canto, che la Shoah sacralizzata diventi un simbolo intoccabile e unico e oscuri tutte le altre violenze di guerra, e dall’altro che la sua trasformazione in mito, in rappresentazione retorica, provochi il rifiuto. L’epoca del suo trionfo potrebbe diventare, secondo Bidussa, il momento della sua crisi (2009, p. 52).

Per contrastare le retoriche astratte e dare concretezza e spessore storico al ricordo, si sono intraprese in questi anni strade diverse, cercando di collocare le vicende, i nomi, le biografie in contesti precisi, ritornando ai luoghi in cui avvennero le discriminazioni e le deportazioni. Un esempio è il Memoriale della Shoah di Milano, costruito al binario 21 della stazione centrale, da cui partirono circa venti convogli con centinaia di deportati. Venti targhe in cemento con caratteri in bronzo ricordano i convogli, e, di fronte, il Muro dei nomi, lungo 67 m, raccoglie i nomi di tutte le persone deportate dal quel binario. In uno spazio specifico sono poi raccolte le testimonianze dei sopravvissuti. Da un canto, quindi, un luogo concreto, in una città italiana, dall’altro l’elenco dei nomi per offrire una sorta di sepoltura ai morti insepolti, ridare loro l’identità negata.

L’iniziativa di raccogliere e rendere pubblici tutti i nomi delle vittime della Shoah italiana aveva già caratterizzato il lavoro del Centro di documentazione ebraica contemporanea (CDEC) e si era concretizzato nel volume di Liliana Picciotti Fargion, Il libro della memoria (1991), che raccoglieva circa 8900 nomi con la data dell’arresto, della deportazione, della morte o della liberazione. Nel 2009 è apparso il lavoro di un altro ricercatore del CDEC, Marcello Pezzetti, che ha raccolto le testimonianze di oltre cento sopravvissuti, ritagliandole e presentandole come una memoria corale, attraverso i vari momenti in cui si è snodato il percorso verso la deportazione e il ritorno: il mondo di prima, l’occupazione, Auschwitz-Birkenau, la vita nel campo, la liberazione, il futuro (Il libro della Shoah italiana. I racconti di chi è sopravvissuto).

In questi anni si è molto discusso sulle testimonianze. Il pericolo, si è detto, è quello di una loro decontestualizzazione, che confini queste storie, come si è detto prima, in una bolla astorica, che susciti emozioni e non un approccio razionale per capire l’accaduto (A. Wieviorka, L’era del testimone, 1999). La testimonianza, tuttavia, resta una fonte fondamentale, permette un accesso all’esperienza, al sentire di quelle donne, quegli uomini e quei bambini, consentendo proprio di affrontare alcuni dei temi fondamentali per ricostruire il contesto e i momenti cruciali dello sterminio: le storie di famiglia, l’inserimento nella società locale prima e dopo, il presagio o no del pericolo, i campi, il ritorno.

Le fonti orali svolgono dunque un ruolo centrale nella storia della Shoah. La raccolta delle testimonianze diventa un dovere morale. Si moltiplicano gli archivi: il più noto, con circa 50.000 registrazioni video, è quello della Shoah foundation creato da Steven Spielberg, di cui sono visibili in Italia le 433 interviste in italiano a cura dell’Archivio centrale dello Stato: Ti racconto la storia: voci dalla shoah (www.shoah.acs.beniculturali.it). La testimonianza riveste un ruolo sacrale, etico: tornare per raccontare, testimoniare le sofferenze e l’ingiustizia, raccontare l’indicibile.

Sulle testimonianze di deportazione è costruito il documentario di Ruggero Gabbai, Marcello Pezzetti e Liliana Picciotto Memoria, che raccoglie le storie di sopravvissuti da tutte le maggiori comunità italiane intervistati nelle loro case e nei luoghi che videro la loro deportazione e la loro detenzione (www.webmemoproject.eu/index.php?option). Il documentario Dal cancello secondario (2001, a cura di Gabriella Gribaudi, per la regia di Alessandra Forni e Fabio Esposito) ricostruisce, sempre attraverso interviste videoregistrate, la storia degli ebrei napoletani tra leggi razziali e guerra (www.memoriedalterritorio.it). La deportazione è in questo caso l’esito drammatico di alcune storie familiari (ebrei greci rimpatriati, parenti che si vennero a trovare oltre il confine del Regno del Sud), ma al centro c’è lo shock delle leggi razziali, il rapporto con la città, il ruolo delle istituzioni. L’intenzione è quella di narrare la vicenda mettendo in luce, oltre alle storie singole, la responsabilità dello Stato italiano. Le testimonianze orali restituiscono la complessità della situazione, le contraddizioni del momento. I fratelli Remo e Tullio Foà ricordano favorevolmente il commissario di polizia che avrebbe aiutato la loro madre a celare la presenza della famiglia al Vomero, ma nello stesso tempo rammentano i giovani compagni di giochi figli di un fascista che non li facevano salire sulle biciclette, perché, essendo ebrei, le avrebbero sporcate. Aldo Sinigallia parla degli attestati di stima e di solidarietà attribuiti alla sua famiglia, ma anche del prestanome, cui dovettero intestare la loro ditta, che poi li raggirò. Mario Levi sostiene che tutti gli italiani intorno a lui si comportarono benissimo, ma poi ricorda che a scuola i bambini lo prendevano in giro e dicevano che gli ebrei avevano la coda. Bice Foa cita il professor Pane, noto intellettuale del tempo, che attraversava la strada per regalarle un palloncino, ma insieme le tornano alla mente tutte le raccomandazioni della famiglia: non dire che sei ebrea, non parlare per prima. Alberto Defez sceglie due figure di riferimento per spiegarci la complessa situazione di allora: il compagno di scuola, diventato un notissimo intellettuale nel dopoguerra, che scriveva sul giornale dei Gruppi universitari fascisti (GUF) delle vere e proprie delazioni contro gli ex amici che contravvenivano alle regole imposte dalla leggi razziali, e, per contrasto, l’ingegnere che lo assunse trasgredendo volutamente alle imposizioni del regime. Alberto Bivash, Roberto Piperno, i fratelli Foà, Vittorio Gallichi raccontano della classe nella scuola Vanvitelli in cui furono radunati in quanto alunni ebrei. E anche qui la narrativa prende l’andamento delle contrapposizioni: da una parte l’iniziativa è presentata come un modo per far andare a scuola i bambini ebrei, aggirando le norme, ma dall’altra emergono tutte le vessazioni, le umiliazioni cui essi dovettero fare fronte: entrare dal cancello secondario e non da quello principale, vedere i film nell’ultima fila distanziati dagli altri, fare l’intervallo in spazi chiusi e riservati, lontani dagli altri bambini e molto altro (www.memoriedalterritorio.it).

Nel tornare a quella storia, la memoria propone un’interpretazione: ed è il contrappunto la forma adottata per narrarle: ‘bravi ma…’. Come se si volesse presentare una società circostante non nemica, quasi solidale, per far vedere la concreta integrazione nella città, ma nello stesso tempo mostrare le ferite inferte dalla legislazione razziale. Quasi un giudizio sospeso, incerto fra due polarità, due paradigmi interpretativi: il bravo italiano filosemita e solidale si contrappone all’italiano fascista, obbediente al regime, infido. Questo appare un modo estremamente significativo di raccontare la vicenda: fa capire la condizione degli ebrei italiani stretti tra il bisogno di sentirsi integrati e accettati e la necessità di ritornare a quel momento fatidico in cui la vita quotidiana si spezzò. Non a caso le memorie tornano con più forza dopo tanti anni. Molti dei sopravvissuti sono morti dopo aver mantenuto il silenzio per tutta la vita. Spesso la seconda generazione cerca di rompere il silenzio dei genitori, aiutandoli a ricordare, come fece il figlio di Elisa Springer, oppure cercando di ricostruire i fili di storie oscure o spezzate, ridando vita a persone inghiottite nel nulla.

Un’altra storia emblematica è narrata da Miriam Rebhun nata nel 1946 da una ebrea napoletana e un soldato della brigata ebraica che stazionò a Napoli per molti mesi tra il 1944 e il 1945. Suo padre, Heinz Rebhun, era tedesco ed era emigrato in Israele insieme al fratello Kurt nel 1936, lasciando i genitori a Berlino. Nel 1948, quando Miriam non aveva ancora due anni, suo padre morì, raggiunto da un cecchino arabo mentre si recava al lavoro in autobus. Pochi mesi dopo morì anche lo zio, ucciso nei combattimenti della prima guerra fra arabi e israeliani. I genitori berlinesi erano stati nel frattempo inghiottiti dalla Shoah. Una famiglia cancellata. Miriam e la madre tornarono a Napoli, riaccolte e protette dalla famiglia materna. Miriam sposò civilmente un cattolico. Anche se ha sempre conosciuto la sua storia, è solo a un certo punto della sua vita che le ‘mancanze’ sono diventate insopportabili: «Man mano, accanto a tante presenze amate e importanti, cominciano a entrare sempre di più nella mia vita e nei miei pensieri gli assenti, quelli che non ho conosciuto, non per rievocarli nostalgicamente ma per capire da dove vengo» (Rebhun 2011, p. 102). Gli assenti la richiamano. «Nell’età matura, quando mi sono sentita in grado di farlo, quando ero ormai abbastanza forte, ho scelto di ripercorrere le loro esistenze, di riappropriarmi delle mie radici, di farli entrare nella mia vita» (p. 128). Decide di ricostruire la loro storia, tornando sui loro passi, cercando documenti. Va in Israele e poi in Germania, dove scopre l’iniziativa commemorativa delle «pietre d’inciampo» (Stolpersteine). Finalmente, dopo tante ricerche, riesce a ritrovare l’abitazione dei nonni e di fronte alla casa da cui erano stati deportati pone la sua pietra d’inciampo. «Sono emozionata, ma anche serena, mi sembra di aver portato a termine un compito, di aver fatto quello che mio padre e suo fratello non hanno potuto fare» (p. 126).

Le pietre d’inciampo furono ideate dall’artista tedesco Gunter Demnig nel 1993 per ricordare le deportazioni dei cittadini rom e sinti di Colonia, completamente dimenticati. L’iniziativa si estese poi agli ebrei e a tutte le vittime delle persecuzioni naziste. Le pietre sono sampietrini di ottone con i nomi, le date di nascita, di deportazione e di morte degli abitanti delle case di fronte a cui sono posti. In Italia sono state realizzate soprattutto a Roma, a partire dal 2010, al ghetto, ma anche in diversi altri quartieri. Sono un modo di ricordare concretamente individui e luoghi, facendo metaforicamente ‘inciampare’ lo sguardo e il pensiero dei passanti e sfuggendo a quella retorica che rischia ormai di essere rifiutata. Un segno tangibile e antimonumentale: con un linguaggio minimale agiscono sulla quotidianità, costringono i passanti a interrogarsi, legano passato e presente (www. arteinmemoria.it).

Le memorie delle catastrofi

Terremoti

Un mio cugino che aveva perso moglie e figli […] co sta chitarra che suonava e cantava, e mia zia che piangeva: sto disgraziato, sto delinquente, sto farabutto, mia figlia è morta, la moglie è morta, la figlia è morta e questo canta. Dico: zia, ma quello poverino, ma sai come sarà scioccato. Lui era rimasto orfano, era stato in orfanotrofio da piccolino fino a 18 anni; a 18 anni si era diplomato, aveva avuto l’insegnamento qua a Laviano, aveva conosciuto mia cugina e si era sposato. Era così contento che teneva una famiglia, una bella figlia, una bella moglie, na bella casa, in un momento distrutto tutto, certo che quello è impazzito e mo’ canta cu sta chitarra, se metteva là e cantava. Erano, eravamo impazziti tutti quanti, non ci si rendeva conto di quello che si faceva […] il terremoto è una cosa terribile, perché ti toglie tutto, ti toglie i ricordi […] ti toglie tutto il tuo passato, tu sei senza passato.[…]. Noi abbiamo perso amici d’infanzia, persone carissime con cui abbiamo condiviso tante belle cose e le abbiamo perse in un momento […] come se un vento ce le avesse strappate dalle braccia.

Sono le parole di Rita Falivena di Laviano, il paese campano completamente distrutto dal terremoto del 23 novembre 1980 (www.memoriedalterritorio.it). Su 1500 abitanti ne morirono 300. Il paese arroccato su una montagna si sbriciolò letteralmente. Famiglie intere vennero travolte.

Questa è un’esperienza che molte popolazioni hanno vissuto in Italia, ma, a parte qualche commemorazione retorica, ci si interrogati troppo poco su che cosa significhi riprendere a vivere, ricostruire una comunità dopo una lacerazione così intensa. Troppo poco si è indagato sulle vite delle persone, sui loro ricordi.

Per certi aspetti la memoria della catastrofe è simile a quella delle vittime della guerra aerea. In un attimo si perde tutto: persone, affetti, oggetti che hanno accompagnato la vita, segnato identità.

I racconti offrono la memoria fotografica del momento della catastrofe. L’esperienza del trauma viene riattualizzata, si ripresenta come se la si rivivesse in quel momento:

[…] sembrava il giorno dopo dell’Apocalisse. […] lamenti, grida, imprecazioni […] lungo le strade si incontrava di tutto. Molte persone pensano che il terremoto sia solo quelle immagini che si vedono per televisione, il dopo, ma ecco, la vostra attenzione è nell’immediato, è devastante: le teste schiacciate, i ragazzi che stavano nel bar e in piazza, nella piazza, qualcuno addirittura sotto la pensilina, si trovarono in una sorta di sandwich di quattro piani, che si vedeva la mano, la testa, di Tommasino, Mimì, di altre persone che […] pochi secondi, pochi secondi, pochi centimetri e sarebbero stati vivi, ma quei pochi centimetri li hanno strappati alla vita […]. Si intravedevano, ahimè, anche semmai il corpo devastato, distrutto dalle macerie. E quindi questi sono i ricordi immediati, dell’immediato dopo terremoto, di una angoscia, rabbia.

Questa è la testimonianza rilasciata da Tonino Lucido di Sant’Angelo dei Lombardi, l’altro paese colpito dal terremoto del 1980. Il terremoto porta alla luce quanto c’è di più atavico e radicalmente profondo nella società che viene coinvolta. Emerge il legame che unisce una comunità, «si accorre al soccorso dei parenti e dei vicini». C’è la ricerca affannosa dei familiari. «C’è stato questo peregrinare alla ricerca di tutti i familiari, prima si faceva la ricognizione: chi è vivo, la somma, quello è morto, quello già si sa che è morto, quello sta sotto le macerie» (Intervista a Tonino Lucido, www.memoriedalterritorio.it).

Eravamo tutti pieni di polvere quindi eravamo proprio come degli zombi e in un paese che non era più paese. Poi il continuo abbracciarsi e la cosa che mi ha molto segnata e colpita era che tutte le persone che incontravi ti chiedevano: “hai visto mamma?”, “hai visto Rocco?”, “hai visto [...]”; quando tu dicevi “no”, capivi che probabilmente quella persona non l’avresti rivista più (Intervista ad Assunta Fasano, www.memoriedalterritorio.it).

Il terremoto è una cesura che segna la vita delle comunità e delle persone. E la cesura è amplificata dalla memoria. La memoria scandisce il tempo in un prima e in un dopo, dilatando le dinamiche che normalmente insorgono con il passare degli anni. Prima c’è la comunità intatta, armoniosa, felice, dopo c’è la disgregazione, la corruzione. Come per la guerra il tempo si divide in prima e dopo. Continua Tonino: «I primi periodi eravamo tentati tutti di dire sempre: prima del terremoto e dopo il terremoto. Ci ha segnato proprio, era un’altra vita per noi: una prima e una seconda vita».

È così anche per Assunta Fasano:

E […] crescere dopo è stato penso completamente diverso, la vita è inevitabilmente cambiata per tutti quanti noi. Io ho sempre avuto il desiderio, so che è irrealizzabile, avrei voluto e vorrei tornare un giorno solo, un secondo a prima, per vedere io oggi cosa potevo essere, oppure il paese, le persone che non ci sono più abbracciarle per un secondo. Lo so [...] non è possibile, però penso che me lo porterò fino alla tomba questo desiderio […] perdere le persone, così in un attimo: è terribile.

Il prima e il dopo sono in molti casi segnati dalla trasformazione totale del paesaggio, dalla delocalizzazione del paese, dalle nuove costruzioni che hanno cancellato i segni del passato provocando uno spaesamento duraturo. E qui gli esempi potrebbero essere molteplici, anche se diversi fra loro. I paesi di Conza della Campania, Senerchia, Romagnano al Monte sono stati ricostruiti altrove. Romagnano al Monte, a picco su un monte che si affaccia sulle gole del fiume Platano, si era salvato dalla distruzione, venne tuttavia dichiarato inagibile ed evacuato perché il monte stesso era attraversato da diverse fratture. L’abitato fu ricostruito a 2 km di distanza al di fuori della vista del vecchio paese, che si erge tuttora come un ‘paese fantasma’. Conza della Campania, come la maggior parte dei paesi irpini, appollaiato su un colle, completamente distrutto dal terremoto del 1980, è stato ricostruito a valle. Si è scelto di lasciare le rovine così come sono state trovate, a memoria della distruzione. Il nuovo paese è stato ricostruito con una tipologia completamente diversa, in completa difformità con le forme architettoniche che avevano caratterizzato la comunità e la vita quotidiana degli abitanti: larghi spazi, villette unifamiliari, incroci più che piazze, in cui la popolazione stentava a ritrovarsi.

Storie analoghe emergono anche dalle vicende del terremoto del Belice del 1968. La vicenda di Gibellina è assurta a simbolo estremo di questo tipo di dinamiche. Il nuovo paese sorge addirittura a 30 km dall’antico abitato e le rovine sono state cancellate e completamente coperte dal grande Cretto di Alberto Burri, una coltre di cemento realizzata tra il 1984 e il 1989, un’opera di land art, considerata di grande valore artistico, ma contestata da molti degli abitanti. Nell’idea di Burri il Cretto doveva essere un gigantesco monumento della morte: una sorta di sudario steso sulle macerie. Sul Cretto si è fatto teatro, Marco Paolini vi ha ambientato il suo monologo su Ustica, ma gli abitanti di Gibellina l’hanno vissuta per la maggior parte come una prevaricazione. Non poter vedere le rovine, ritrovare le tracce delle strade e delle case in cui si è vissuti ha in molti aumentato lo spaesamento, già forte per le caratteristiche del paese nuovo anch’esso disseminato di opere d’arte, ma completamente estraneo alle forme architettoniche del territorio. Nel 2008 nel documentario girato a Gibellina il regista Emanuele Svezia organizzò una grande fotografia con 988 abitanti sul Cretto: un tentativo di aiutare la popolazione ad appropriarsi di quella grande distesa di cemento (Earthquake ‘68 - Gente di Gibellina).

Negli stessi territori, in Sicilia come in Campania, ci si trova di fronte a scelte diverse che producono memorie diverse. In molti casi la decisione è stata quella di costruire ‘dov’era com’era’, ma la ricostruzione non è mai tale e quale al vecchio abitato, e lo spaesamento rimane. Spesso lo stile e gli spazi dell’antico abitato sono stati completamente sovvertiti. È il caso di Laviano dove palazzoni di svariati piani hanno trasformato il paese in una sorta di periferia urbana, provocando uno spaesamento duraturo per tutta una generazione. Il vecchio paese ricorre nei sogni:

Se noi proviamo […] a sognare, noi sogniamo sempre il vecchio paese […]. Dico: Madonna, ma quella strada che portava dalla chiesa a quell’altra parte, io non ricordo più […] ma com’era? e mi sforzavo di ricordare […] la notte l’ho sognato il paese esattamente com’era. Io nel sonno dicevo: mo’ mi debbo ricordare, e io a piedi rifacevo tutta la strada che mi portava dalla chiesa al castello, perché talmente che m’ero sforzata il giorno per ricordare ma dalla chiesa come s’arrivava a casa di mia nonna, non mi ricordavo più, la notte me lo sono sognato e me lo sono rivisto identico al paese com’era prima. Ma io mo’ se debbo sognare questo paese, perché non è mio e non è più lo stesso […] (Intervista a Rita Falivena, www.memoriedalterritorio.it).

La frattura della memoria è legata allo spaesamento fisico, alla perdita dei propri riferimenti territoriali. Viene in mente la storia citata da Ernesto De Martino: il pastore di Marcellinara sempre più angosciato man mano che la vettura dove è stato accolto si allontana dal villaggio e scompare alla sua vista il campanile. «Sempre stava con la testa fuori del finestrino, scrutando l’orizzonte, per veder riapparire il campanile di Marcellinara: finché quando finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una patria perduta» (E. De Martino, La fine del mondo, 1977, p. 481).

Anche a questo proposito si possono trarre forti analogie con la ricostruzione postbellica: antichi palazzi abbattuti, paesi e quartieri ricostruiti secondo stili e modelli che nulla hanno a che vedere con il contesto ambientale e storico in cui vengono inseriti, ma che richiamano il mito della modernità e del progresso. Le scelte di dislocazione sono in genere spiegate attraverso questa logica: contro le comunità presepe abbarbicate sulle montagne, chiuse in spazi angusti, si disegnano paesi ‘moderni’ con vie larghe, spazi aperti, a volte anche a chilometri di distanza dal vecchio paese. Spesso il nuovo modello urbanistico è imposto senza nessun rapporto con la realtà sociale e fisica del territorio.

La perdita dei luoghi: il caso delle dighe

Le storie di delocalizzazioni e di perdite sono molteplici in Italia non solo per i terremoti e non solo come conseguenza di catastrofi naturali. Spesso gli spostamenti sono stati imposti dall’alto, come per es. nel caso della costruzione di dighe, contro il volere delle comunità coinvolte. Alla perdita della propria casa e del proprio paese si aggiunge il senso di impotenza, di sopraffazione di fronte a un atteggiamento delle istituzioni distante e autoritario. Questa è un’altra delle caratteristiche che accompagnano la storia e la memoria di tutte le catastrofi e di tutte le delocalizzazioni. Su questo si tornerà più avanti.

Il caso delle dighe è emblematico: esse rappresentano il tipico investimento degli anni Cinquanta e Sessanta, gli anni del ‘progresso’, del boom economico, con una fiducia illimitata nella tecnica, con il bisogno impellente per lo sviluppo di incrementare l’apporto di energia elettrica. Quasi tutte le dighe costruite in quegli anni sommersero dei paesi, provocando la protesta e i tentativi disperati di resistenza degli abitanti. Ma che cosa potevano poi contare poche migliaia di montanari di fronte allo sviluppo? Non si discusse con le popolazioni, non si negoziarono le condizioni.

Uno dei casi più contrastati e più dimenticati fu quello della diga del Passo di Resia, in Alto Adige. Il progetto della diga, già elaborato in epoca austroungarica, venne ripreso dal governo italiano e attuato subito dopo la guerra dalla Montedison che nel 1947 ne annunciò la costruzione. Nel 1950 la grande muraglia era pronta e la valle fu inondata. Vennero distrutti 677 ettari di terreno agricolo e 167 case. 150 famiglie persero, oltre alla casa, i campi e rimasero senza risorse. La popolazione aveva fatto di tutto per contrastare il progetto. Una delegazione di abitanti era andata addirittura dal papa a Roma per impetrare, inutilmente, il suo aiuto. Gli sfollati ebbero risarcimenti minimi e furono allocati in baracche costruite dalla Montedison, inadeguate per affrontare le rigide temperature dell’inverno alpino. Il paese di Curon-Graun fu interamente sommerso, rimase fuori solo una parte del campanile, che divenne oggetto della memoria: emerge dal lago, in un’ansa della strada, immagine singolare, esotica, fotografato da migliaia di turisti. Anche se, nello spiazzo antistante, la comunità ha voluto narrare con alcune teche la vicenda simboleggiata dal campanile, alludendo esplicitamente alla sofferenza della popolazione, l’impressione che si ha è che la memoria sia sopraffatta dallo sguardo superficiale tipico del turista. La fotografia del campanile, scattata migliaia di volte ogni anno da viaggiatori attenti a cogliere immagini sorprendenti, oscura, in un certo senso, la tormentata vicenda delle popolazioni (www.peacelink.it/nobrain/a/19378.html; www. reschensee.com/index_htm_files/storia-Curon-ital.pdf).

Un caso analogo avvenne in Valgrisenche (Valle d’Aosta) dove la diga, realizzata tra il 1949 e il 1958 dalla Società idroelettrica piemontese (SIP) contro il volere delle comunità e dello stesso presidente della Regione, sommerse 7 villaggi situati nella zona più fertile della valle. Il muraglione della diga era stato costruito su un costone caratterizzato da un movimento franoso; fu per questo che, dopo il disastro del Vajont, l’invaso fu ridotto a un decimo delle sue capacità e abbattuto infine di 53 m nel 2013 (mariobadino. noblogs.org/post/2008/02/15/tcheu-son-ya-storia-di-un-esodo-dimenticato).

Gli abitanti della Valgrisenche devono il ridimensionamento della diga e la loro salvezza alla tragedia del Vajont, in Veneto. La diga più grande d’Europa, più alta del mondo, era stata costruita in una valle strettissima fra due sponde franose di monti, cosa che ben sapevano gli abitanti dei due paesi che si affacciavano sulla valle e sulla diga, che tuttavia non furono ascoltati. La diga era stata progettata dalla Società adriatica di elettricità (SADE) nel 1940, la concessione venne data nel 1948 e la costruzione ebbe inizio nel 1957. Già durante la costruzione si avvertirono rumori e si aprirono pericolose fenditure nella roccia. Furono attuate una serie di perizie concordate e negoziate fra l’impresa, gli organi di controllo dello Stato, il Ministero dei Lavori pubblici. I pericoli vennero minimizzati, le voci contrarie non vennero ascoltate. La diga fu riempita senza tutte le prove di invaso necessarie. La popolazione di Longarone, il paese che si distendeva proprio sotto l’altissimo muraglione della diga, non fu mai avvertita del pericolo di cui anche i tecnici erano in parte coscienti, neppure quando il monte cominciò a franare e spostarsi a vista d’occhio. Quando la frana finì nella diga, la sera del 9 ottobre 1963, si alzò una colonna di acqua di 250 m che colpì i due paesi di montagna ai lati della diga, Erto e Casso, gli stessi i cui abitanti, espropriati di terreni e case, avevano lungamente protestato e fatto presente l’avanzare della frana, i rumori, le fessure. Poi un’onda di 160 m oltrepassò il muro della diga e si abbattè sul paese sottostante, Longarone. 1917 morti. Solo 1000 corpi ritrovati. Il paese era una distesa piatta di fango. I giornali accreditarono la versione della SADE (poi ENEL) e delle istituzioni dello Stato, che avrebbero dovuto controllare e non lo avevano fatto: si trattava di una catastrofe naturale imponderabile, dovuta alla montagna e non all’uomo. Giornalisti importanti come Giorgio Bocca e Dino Buzzati confermarono la narrazione su «Il Giorno» e il «Corriere della Sera». Solo la giornalista de «l’Unità», Tina Merlin, che aveva da tempo denunciato il pericolo ed era stata per questo accusata di divulgare ‘notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico’ continuò a svelare le responsabilità e a difendere gli abitanti superstiti che cercavano giustizia. Era la voce di un giornale di opposizione, fu addirittura accusata da Indro Montanelli di ‘sciacallaggio’ (Tina Merlin ha ricostruito la vicenda sua e del Vajont nel volume Sulla pelle viva, 1983). Ci vollero tre gradi di giudizio per avere finalmente giustizia, con il processo trasferito da Belluno a L’Aquila per legittima suspicione, rendendo quasi impossibile, agli abitanti dei paesi distrutti, seguire il processo e far valere le proprie ragioni. I giudici di primo grado accettarono la tesi della catastrofe dovuta all’imprevedibilità della natura e non agli errori umani. Sarebbe stata la Cassazione nel 1971 a riconoscere l’accusa di inondazione aggravata dalla previsione dell’evento. Soltanto quarant’anni dopo si è però conclusa la causa civile per danni, e solo nel 1997 è stata fissata l’entità del risarcimento.

Dunque una storia lunga e dolorosa: per lungo tempo i superstiti di Longarone, Erto e Casso si sentirono abbandonati. La memoria pubblica ha potuto affiorare solo dopo molti anni con il riconoscimento delle responsabilità della SADE, finalmente ottenuto dalla giustizia. Il legame fra memoria e giustizia è un legame cruciale: senza giustizia la verità è offuscata insieme alla memoria, come anche nel caso delle stragi politiche.

Un altro ruolo cruciale ha svolto lo spettacolo di Marco Paolini (Il racconto del Vajont), che, messo in scena nel 1993 per il trentennale della catastrofe e trasmesso dalla televisione nel 1997, ha avuto una risonanza nazionale.

Nel caso del Vajont la perdita e lo spaesamento sono stati massimi. Longarone, il paese che stava proprio sotto la diga e che fu letteralmente spazzato via dalla valanga d’acqua, è stato ricostruito nello stesso luogo, ma con forme architettoniche del tutto diverse dalle antiche.

Subito dopo la catastrofe ci fu la proposta di trasferire il paese in una zona più sicura, lontano dalla diga e si formò immediatamente un comitato di cittadini, che pretendeva la ricostruzione nello stesso luogo. Il 10 febbraio 1964 il comitato attuò un blocco stradale: pretendeva che fosse apprestato il piano di ricostruzione, che venissero consegnati i risarcimenti, che venisse data alla popolazione la possibilità di controllare momento per momento le decisioni. I motivi della discordia erano innumerevoli, ma il principale verteva proprio sulla ricostruzione del paese, sul dove e sul come. Il nuovo piano regolatore proposto dagli architetti nominati da Roma non teneva in alcun conto gli assetti della vecchia Longarone: proponeva case a schiera divise dalla zona commerciale e da una zona culturale, secondo divisioni funzionali sconosciute alla vita del paese. Si creò allora un conflitto mai sopito fra comitato dei superstiti, sindaco, ministero (L. Palla, in Il Vajont dopo il Vajont, 2009). Longarone fu ricostruita nello stesso luogo, ma i superstiti non si sarebbero mai riconciliati con il nuovo paese. Lo spaesamento derivava dalla nuova architettura, ma non solo. La catastrofe aveva decimato la popolazione nativa. Sull’onda della ricostruzione e del piano di sviluppo arrivarono in paese nuovi abitanti. L’integrazione fra i due gruppi fu, ed è, estremamente difficile. Tra i superstiti permane la memoria della catastrofe e dei morti, una memoria sacra, di fronte a cui i nuovi arrivati appaiono come dei profanatori. Questi vengono poi accusati di approfittare immeritatamente delle incentivazioni che la valle ha avuto per riavviare le attività produttive.

Un caso significativo scoppiò a proposito del cimitero. Subito dopo la catastrofe erano state scavate delle fosse nella contrada di Fortogna e vi erano stati deposti i corpi: in soli quattro giorni era sorto un cimitero.

Sopra le tombe dei parenti riconosciuti, superstiti misero subito lapidi e fiori. Poi misero fiori, lapidi e croci anche sopra resti che chissà a chi appartenevano […]. Nel campo 8-B c’era la tomba della famiglia Paiola, sette morti di cui tre bambini: “Barbaramente e vilmente trucidati per leggerezza e cupidigia umana attendono invano giustizia per l’infame colpa. Eccidio premeditato”. A scriverla è stato Luigino Paiola, marito di Giovanna Cesco Bolla e padre di Gianni, Maurizio e Roberto, sette, sei e quattro anni. Tutti morti. Quando ha messo questo lapide, il magistrato voleva fargliela togliere. Lui ha risposto: “Chi la tocca è un uomo morto. Questa lapide deve rimanere qui, per sempre!”(Vastano 2003, 20134, cap. 14).

E tante altre erano le lapidi, le fotografie, i ricordi appuntati spontaneamente dalla gente. Nel 2003 i parenti dei superstiti si videro arrivare una lettera che annunciava la chiusura del cimitero per un anno e invitava i parenti a rimuovere «le cose personali dalle tombe». Sarebbe stato costruito un nuovo cimitero con tombe e cippi uguali. Il vecchio cimitero venne recintato, molte lapidi vennero rotte, altre rimosse. La protesta fu vivissima. Scriveva un superstite in una lettera spedita ai giornali locali e al sindaco: «Quarant’anni fa il cinismo, l’arroganza e la prepotenza dei padroni della diga hanno cancellato un intero paese con i suoi abitanti, ora lei con lo stesso cinismo, arroganza e prepotenza sta cancellando l’ultima memoria». Un altro dei superstiti, Cencio Teza, rifiutò per i suoi familiari i cippi di stato «tutti uguali, scelti da qualcuno che non lo (aveva) nemmeno consultato»: voleva mantenere i cippi scelti dalla sua famiglia. La risposta del sindaco era stata secca e burocratica: il cimitero delle vittime del Vajont era realizzato con un decreto del presidente della Repubblica per conservare in perpetuo le salme delle 1910 vittime decedute ed era riconosciuto monumento nazionale «quale segno di omaggio alle vittime e di monito per le future generazioni». Non ci sarebbe stato più spazio per interventi privati e soggettivi. Cencio Teza, dopo aver cercato invano l’aiuto del vescovo e del tribunale dei diritti dell’Aja, si recò al cantiere del cimitero e sfilò i cippi infilati a terra con i nomi dei suoi cari e se ne andò via. «Da allora non (avrebbe) mai più messo piede al cimitero dove riposava la sua famiglia. Come lui (avrebbero fatto) altri superstiti che non riconosce(vano) più a quel luogo la sacralità del vecchio cimitero». «Il vecchio cimitero di Fortogna era parte integrante della storia del Vajont, con quelle sue croci e quelle sue lapidi era la sua memoria stessa», ed era andata perduta. (Vastano 2003, 20134, cap. 14).

Anche nei paesi di Erto e Casso, quelli inerpicati sulla montagna al di sopra della diga, il rapporto con le istituzioni centrali fu difficile fin dall’inizio. Gli abitanti furono evacuati e si decise di delocalizzare la popolazione in due nuovi paesi in pianura. La popolazione si divise: una parte voleva a tutti i costi salvare il paese e ricostruirlo in loco; altri accettarono il trasferimento pensando di ottenere condizioni di vita e possibilità di lavoro migliori. Nel 1971 gli abitanti di Erto che difendevano il vecchio paese impedirono alle autorità di trasferire il comune con tutti i documenti, con un posto di blocco che durò otto giorni. Erto sarebbe stata ricostruita a quota 830 m, sopra il vecchio paese; scelse di rimanervi il 21% circa della popolazione. Gli altri abitanti (circa il 64%) si divisero tra la ‘Nuova Erto’, che divenne una frazione di Ponte delle Alpi, in provincia di Belluno, e il nuovo paese di Vajont all’imbocco della Val Cellina, in provincia di Pordenone.

Le vicende fin qui riportate hanno in comune molti elementi. Fra questi un difficile rapporto tra lo Stato centrale con le sue istituzioni e le comunità: ovunque contrasti fra le istituzioni e le popolazioni (nascita di comitati di base, blocchi stradali, manifestazioni), che in alcuni casi riescono a rinegoziare le decisioni prese dall’alto, in altri escono sconfitte. Come si è visto, la popolazione di Longarone ottiene di avere il paese ricostruito dov’era, anche se con un’architettura che non rispecchia le sue aspirazioni, ma non riesce a difendere il cimitero; la gente di Erto riesce a salvare in parte il vecchio abitato, ma non a preservare la comunità che si divide in tre nuovi paesi; in Friuli gli abitanti impongono la costruzione dei nuovi villaggi ‘dov’erano e com’erano’, dopo duri contrasti con le autorità regionali; gli irpini, dopo un breve periodo di protagonismo dei sindaci e dei comitati locali, sono sopraffatti da una pianificazione spesso ispirata a criteri estranei alla cultura e alle economie locali; nel Belice, seguendo una lunga tradizione di repressione delle masse popolari e di interventi autoritari, si attua fin dall’inizio una politica centralista che passa sulla testa della gente e produce sofferenza, spaesamento, una memoria difficile e fragile. Un fenomeno simile, pur con la differenza cruciale dei metodi di repressione, sembra avvenire a L’Aquila (colpita dal terremoto nel 2009), dove le decisioni e gli interventi sono stati interamente sussunti dalla struttura centrale.

Rappresentazioni pubbliche

Terremoti e catastrofi sono eventi ricorrenti e incardinati nella storia del Paese stretto fra due continenti che si avvicinano, con fiumi e torrenti incontrollabili, coste franose, ma, quando si ripropongono, sembra sempre la prima volta. Eppure le mappe sismiche sono costruite su dati e memorie storiche (L’Italia dei disastri, 2013).

In Italia il grado di rimozione è, com’è noto, piuttosto elevato. Chi ricorda, per es., che nel 1908 a Messina morirono fra le 80.000 e le 100.000 persone su una popolazione di 140.000 abitanti, che, nell’isola di Ischia, a Casamicciola, nel 1883 si verificò un terremoto accompagnato da uno tsunami e morirono 2333 persone? Chi ricorda che prima del 1980 in Irpinia si erano verificati tanti altri terremoti e che nel 1930 c’erano state circa 1400 vittime? Per una tragica coincidenza i due più importanti storici meridionali, Benedetto Croce (1866-1952) e Gaetano Salvemini (1873-1957), persero tutta la famiglia nei terremoti, Croce a Casamicciola perse padre, madre e sorella, Salvemini a Messina moglie e cinque figli, rimanendo solo. Ignazio Silone (1900-1978) perse la madre nel terremoto del 1915 in Abruzzo, lui stesso ne trovò il corpo disteso accanto al camino e riuscì a salvare il fratello scavando nelle macerie.

Il periodo successivo alla catastrofe è notevolmente influenzato da un’informazione politicizzata, spesso divisa su posizioni politiche precostituite. La verità diventa difficile da stabilire. Lo si è visto anche nel caso de L’Aquila, quando addirittura si è scoperta una falsa testimone presentata in una trasmissione televisiva come una drammatica superstite. Tutto il dibattito che si è sviluppato fin dai primi momenti è stato attraversato dalla divisione politica che caratterizzava la scena nazionale.

Nella vicenda del Vajont rischi e responsabilità negate sono andate di pari passo con una narrazione pubblica opaca o addirittura falsa, sottomessa ai poteri forti della SADE prima, e dell’ENEL e Montedison poi. Come già detto, l’unico giornale a denunciare il rischio che le popolazioni stavano correndo fu «l’Unità» con le inchieste di Tina Merlin.

Erano gli anni della guerra fredda, il conflitto politico si riverberava su tutte le manifestazioni della vita della nazione. Un primo caso significativo era stato quello del Polesine (1951). Molti comuni, fra cui quello del capoluogo di provincia, Rovigo, erano amministrati da giunte di sinistra, socialiste o comuniste. «L’alluvione colpì una provincia ‘rossa’ (Rovigo) di una regione ‘bianca’ (Veneto) in un momento di accesa dialettica fra governo e opposizione, fra filo-occidentali e filo-sovietici» (Sorcinelli, Tchaprassian 2011, p. 30). Le istituzioni si scontrarono immediatamente sulle misure da prendere e sui soccorsi. Il governo, i ministri, il prefetto remavano contro il presidente della Provincia e contro i sindaci; la Pontificia commissione di assistenza e la Democrazia cristiana combattevano i soccorsi organizzati dal sindacato e dal Partito comunista. Venivano negate informazioni ai rappresentanti del territorio, le operazioni non venivano coordinate. Il prefetto sciolse i comitati spontanei che erano sorti per aiutare i profughi, nominando un commissario prefettizio, per arrivare a instaurare, attraverso l’arrivo di 1193 carabinieri e 7600 agenti di polizia, un vero e proprio «stato di assedio e di coprifuoco in tutta l’area alluvionata» (p. 214). E il conflitto si ripropose ovviamente sulla stampa e sull’informazione nazionale, amplificando il caso, ma al contempo dividendo profondamente l’opinione pubblica del Paese.

Inoltre, nella rappresentazione delle catastrofi appaiono repertori, categorie, stereotipi forgiatisi nel tempo. Essi vengono riadattati per dare un volto alle vittime, per rappresentare il dolore; attraverso di essi si costituisce il cuore di una narrazione che si radica nell’immaginario nazionale (e internazionale, nell’era della globalizzazione).

Nel caso italiano è di nuovo la dicotomia Nord/Sud a fare da traccia ai racconti. È una storia lunga. Così nel 1905 e nel 1908, dopo i terribili terremoti che colpirono la Calabria e la Sicilia, emersero due rappresentazioni contrapposte degli italiani coinvolti con ruoli diversi nelle catastrofi: il Nord e i comitati di soccorso moderni, generosi, attivi, razionali; il Sud e le vittime passive, irrazionali, ignoranti, sudice, troglodite. Al meridione le inefficienze, invece di essere attribuite alla inadeguatezza dell’intervento pubblico e al mancato coordinamento delle iniziative, venivano attribuite al comportamento delle vittime: «frutto del carattere asociale delle genti meridionali che non riuscivano a informare il loro vivere ai valori e ai canoni della modernità» (L. Caminiti, La grande diaspora. 28 dicembre 1908, 2009, p. 104). Le proteste degli abitanti contro il trasferimento dei loro villaggi, per il restauro dei centri storici, venivano bollate dalle autorità e dai comitati di soccorso settentrionali come risultato dell’ignoranza, della resistenza all’innovazione di una popolazione «naturalmente eccitabile e facilmente suggestionabile», posseduta dalla propria irruenta natura mediterranea (p. 105). La catastrofe «fu letta e vissuta dall’inizio in chiave dualistica: il Nord che interviene con pronta generosità nei soccorsi mentre il Sud è barbaro e arretrato, indolente e rassegnato» (G. Giarrizzo, Conclusioni , in “Il disastro è immenso e molto più grande di quanto si possa immaginare”. Il sisma calabro-siculo del 1908, a cura di L. Caminiti, 2010, p. 214).

Questa traccia tornerà con i terremoti successivi, nel caso del Belice, dell’Irpinia e altri ancora. La popolazione meridionale incarnava l’arretratezza, una povertà irredimibile, estranea di per sé stessa al vivere civile. Immediatamente le immagini della devastazione servirono a suscitare pietà per le vittime, tanto più compassionevoli quanto più povere e immerse in un mondo misero e arcaico. Poi la stessa arretratezza divenne lo stigma usato per spiegare gli errori e i ritardi della ricostruzione. Così i tratti stereotipati, in un primo tempo serviti a descrivere la condizione della vittima e ad accrescere il sentimento di pietà, si possono poi ribaltare, in un secondo momento, per spiegare le mancanze della ricostruzione. Le narrazioni si trasformano. Una prima versione si impernia sulla storia della ricostruzione: è una memoria eroica che enfatizza gli elementi del racconto legati alla rinascita, e tende a cancellare le rovine. Invece una seconda versione è la storia della sconfitta, si concentra sulle mancanze, sull’incapacità di agire, sulla corruzione. Entrambe le narrazioni cancellano l’evento catastrofico e le sue conseguenze sulle vite delle persone, oscurano la memoria viva dell’esperienza.

Conclusioni

Una volta, una giovane donna che aveva perso tutta la famiglia in un incidente stradale confessava di provare fastidio, quasi rabbia, di fronte all’esposizione di vittimismo, al ricordo ossessivo di massacri e stragi pubbliche. Non è un tema di poco conto. Le morti hanno in realtà pesi diversi e finiscono in diversi spazi della memoria. Anche tra le vittime della guerra si creano differenze: il fratello di Giovannina Addelio di Bellona ucciso in una rappresaglia nazista è sepolto, assieme agli altri ostaggi assassinati, nel mausoleo costruito sulla cava dove avvenne l’eccidio, che ogni anno viene ricordato con una celebrazione pubblica; la madre e le due sorelline travolte da una bomba sono morti private, che solo la famiglia ricorda. Si è visto, tuttavia, che in tempi più recenti le comunità, rivendicando la loro storia di sofferenza e il loro ruolo nella guerra, hanno riproposto la storia delle vittime. Come già detto all’inizio del saggio, Maier ricorda che le comunità dei superstiti chiedono rispetto e legittimazione della sofferenza patita: il riconoscimento dello Stato, l’integrazione nella memoria nazionale attraverso atti pubblici.

Rimane sempre, tuttavia, uno iato profondo tra il ricordo dei superstiti e quello pubblico. Nei casi di eccidi di massa e di eventi catastrofici ci sono alcuni fatti che fissano il ricordo e lo fermano in una dimensione unica ‘sacrale’: la ricerca dei corpi, il rituale della loro ricomposizione, il cordoglio funebre. I racconti orali sono animati dalle immagini di persone reali con le loro storie particolari. Nelle comunità esse rendono il ricordo concreto, lo trasformano in un’autentica memoria collettiva: la donna con la bara in testa, quella che spinge il carretto con i corpi del marito e del figlio a Bellona, lo zio che ha perso moglie e figlio a Laviano e così via. Il mondo perduto è popolato da queste figure. Assunta Fasano di Sant’Angelo dei Lombardi vorrebbe poter tornare indietro, riavvolgere il filo della storia, provare a pensare la vita come sarebbe stata con tutte quelle persone travolte dal terremoto, quelle vite spezzate (www.memoriedalterritorio.it).

La morte di massa spezza legami, interrompe la continuità delle famiglie, dei vicinati, del paesaggio, sconvolge la vita quotidiana:

Noi siamo stati spazzati via in tre minuti. E non mi riferisco ai morti, ma ai vivi, a quelli rimasti. A coloro che il 10 ottobre del ’63, ancora con il terrore addosso, dovettero iniziare una nuova vita, sconosciuta, incerta [...]. Per noi il passato esiste. È fatto di dolore e rimpianto. Per molti di odio mai sopito. Anche se i fatti di quella notte lontana s’affievoliscono ogni giorno di più, il passato per noi esiste ancora (Corona 2006).

Ad aggravare lo spaesamento dei superstiti c’è poi il paesaggio perduto:

L’unica cosa che non era caduta era il castello […] ma la cosa strana dici: ma dov’è, dove sono tutte quelle case, sembravano un mucchietto di pietre, dici, ma dove sono finiti i mobili di queste case, può essere?! […] Non c’era più niente, era desolato, era come se gli spazi si fossero ristretti, sembrava tutto piccolino… La piazza piccolina, sembrava che tu dalla piazza nu momento arrivavi qua sopra, mentre prima dovevi camminare un bel po’ per arrivare qua… come se si fosse ristretto il paese […] (intervista a Rita Falivena, www.memoriedalterritorio.it).

Al mattino ho rivolto lo sguardo a Longarone e ho visto questa riga diritta, questa piana bianca […] sono rimasto così, non mi rendevo conto [...]. Cosa avrei dovuto vedere? So quello che ho visto e non ricordo cosa c’era al suo posto il giorno prima […] c’è voluto del tempo per ricostruire l’immagine normale che avevo da quel posto […]. Vedere Longarone il 9 e il 10 ottobre […] è stato uno choc incredibile [...]. Non c’erano più contorni, non si distingueva più niente; una cosa strana come se fosse vuoto sotto (C. Zaetta, A. Favaro, in Il Vajont dopo il Vajont, 2009, p. 300).

La ricostruzione poi si sovrappone alle rovine e muta ancora più indelebilmente il paesaggio. È capitato ai paesi travolti dalla guerra e a quelli distrutti da terremoti o alluvioni.

Molti degli eventi catastrofici sono avvenuti nelle aree interne, aree povere considerate ‘arretrate’, in un periodo in cui la nazione viveva o aveva appena vissuto il miracolo economico, con le risorse e i miti di modernità e di progresso che vi erano connessi. Eppure in alcuni paesi dell’Appennino campano e lucano colpiti dal terremoto del 1980 molti abitanti non avevano ancora l’acqua, le donne con la conca andavano a prenderla alla fontana, le strade erano poche, e malridotte. Nel Belice del 1968 la situazione era ancora più grave. Dunque la catastrofe si presentava come l’occasione per cancellare l’arretratezza, per ridisegnare il territorio, fare una vera e propria opera di ‘ingegneria sociale’ (Parrinello 2013). Al fondo c’era l’idea che questi territori non avessero una storia che valesse la pena di essere conservata: vennero abbattuti palazzi storici, sventrati quartieri per creare spazi aperti, vennero costruiti nuovi villaggi squadrati, ‘razionali’ e così via. Le curve sinuose dei vicoli, le piccole piazze, i luoghi oscuri, i meandri barocchi in cui perdersi sparirono. Tutto venne squadrato, reso uguale come il rettangolo del nuovo villaggio del Vajont, che sostituisce la vecchia Erto abbarbicata sulla montagna, o Gibellina o Conza della Campania. Come il cimitero di Longarone con i cippi tutti uguali a sostituire la varietà e la singolarità delle lapidi poste spontaneamente dalle famiglie.

Gli stimoli alle trasformazioni sono giunti dall’esterno e sono stati amplificati dai modelli di pianificazione e dai centri di decisione dell’epoca, ma vi hanno partecipato in parte anche gli abitanti e le istituzioni locali. Il miraggio della modernità e del progresso, l’aspirazione a condizioni e stili di vita nuovi era presente anche nell’orizzonte di molte tra le persone coinvolte nelle catastrofi. In parecchi casi le comunità si sono divise, come gli abitanti di Erto che si separarono tra quelli che difendevano il vecchio paese e vi rimasero a tutti i costi, e quelli che scelsero invece di scendere in pianura nei nuovi villaggi. A Conza, in Irpinia, il sindaco dovette indire un referendum per decidere se delocalizzare o no il paese abbarbicato su un colle, e vinse la delocalizzazione. Tuttavia, una parte dei conzani continua ancora a rimpiangere il vecchio paese. Altre comunità hanno lottato perché la ricostruzione avvenisse sullo stesso luogo: ‘dov’era com’era’. È avvenuto in Friuli, ma anche in molti paesi dell’Irpinia e della Lucania. Alcuni sindaci hanno difeso con forza le antiche vestigia: il sindaco di Sant’Angelo dei Lombardi, per es., che fermò le ruspe e si oppose all’abbattimento di molti palazzi storici. Altri accolsero acriticamente le proposte più azzardate e avveniristiche con l’idea di innovare, di ‘sconfiggere povertà e arretratezza’. In una interazione complessa tra forze locali e nazionali, tra istituzioni diverse, a volte in conflitto tra loro, il paesaggio ha comunque subito una profonda trasformazione. Si sarebbe comunque trasformato, come è avvenuto nel resto del Paese, nelle città e nei territori non colpiti da eventi distruttivi, ma nei casi di catastrofi e distruzioni il cambiamento è stato più veloce, e, soprattutto, è stato segnato da una rottura divenuta periodizzante nella storia e nella memoria pubblica come nelle storie e nelle memorie private. La catastrofe, oltre a segnare la frattura nelle vite delle persone, segna uno spartiacque fra due epoche, inducendo un irriducibile sentimento di nostalgia, tanto più forte quando alle spalle si sono lasciate persone, case, oggetti cari.

Le memorie non sono tuttavia immobili, ma si trasformano secondo cicli legati allo svolgersi delle generazioni e degli eventi storici. Dopo la Seconda guerra mondiale si cercò di dare risposte alla distruzione e alle rovine, rimuovendo le macerie, costruendo palazzi e quartieri nuovi con stili giudicati allora ‘moderni’. La furia di cancellare e costruire era anche la furia di dimenticare, di ripartire, rinnovare la vita. Ricostruzioni selvagge, che a uno sguardo superficiale appaiono semplicemente il frutto della speculazione edilizia degli anni Cinquanta e Sessanta, sono spesso il risultato di scelte urbanistiche del dopoguerra. E, a un’analisi più attenta, emerge il legame con le distruzioni della guerra. Oggi si assiste frequentemente a un’ulteriore fase nel ciclo della memoria, che si esprime attraverso una nuova generazione e si traduce in nostalgia per qualcosa di prezioso che è stato perso, che non si è conosciuto, ma a cui ci si ispira per ritrovare un’identità perduta.

In entrambi i casi – guerra e catastrofi – i luoghi del ‘prima’ diventano i luoghi della memoria. Le fotografie del ‘prima’ si affiancano alle fotografie del ‘dopo’ e diventano il paesaggio dell’anima, del sogno, dell’identità perduta.

Bibliografia

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