CASTIGLIONE, Giovanni Benedetto, detto il Grechetto

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 22 (1979)

CASTIGLIONE, Giovanni Benedetto, detto il Grechetto

Giuliana Algeri
Fabia Borroni

Figlio di Gio. Francesco e Giulia Varese, nacque a Genova nel 1609, come risulta dalla registrazione del battesimo, avvenuto il 23 marzo nella parrocchia dei SS. Nazario e Celso (Alfonso). Probabilmente giovanissimo entrò nella bottega del pittore G. B. Paggi e, alla morte di questo (1627). proseguì e completò la formazione genovese accanto a Sinibaldo Scorza, presente in città, dopo un lungo periodo di lontananza, appunto dal 1627 alla morte improvvisa nel 1631.

Solo recentemente le ricerche d'archivio hanno consentito di stabilire con sicurezza la data di nascita del C.; la testimonianza documentaria, ponendo fine alle controverse ipotesi formulate dagli studiosi tendenti da una parte (Blunt) ad anticipare questa data fino al 1600 e dall'altra (Percy) a posticiparla fino al 1611, meglio chiarisce l'orizzonte culturale entro il quale si svolgono le esperienze giovanili dell'artista.

Le opere attribuibili al primo periodo di attività genovese (L'entrata degli animali nell'arca, Genova, Accademia Ligustica; Noè fa entrare gli animali nell'arca, Firenze, Gall. degli Uffizi, inv. 1336; per le molte versioni, vedi Meloni) mostrano il C. attento soprattutto alla tradizione di pittura animalistica - rappresentata a Genova da parecchie opere dei Bassano e dall'attivo gruppo fiammingo facente capo ai fratelli de Wael e a Jan Roos - ed estremamente vicino, nell'impianto delle scene e nel taglio compositivo, alla pittura dello Scorza (di quest'ultimo vedere soprattutto Noè che accoglie gli animali nell'arca, firmato e datato 1630, Genova, Gall. di palazzo Spinola).

Nel 1632 il nome del C. appare registrato negli Stati d'anime della parrocchia romana di S. Andrea delle Fratte, e così per il 1633 e per il 1634, quando, insieme col suo, compare anche il nome del più giovane fratello Salvatore (Percy, 1967). Sempre nel 1634 il C. è membro dell'Accademia di S. Luca (Piacentini) e in questa veste egli partecipa alla seduta del 26 novembre dello stesso anno (Delogu, 1928). Dalla testimonianza del pittore G. B. Greppi, al 20 febbr. 1635 l'artista risulta dimorante a Napoli (Bertolotti, 1884), non sappiamo se per un breve soggiorno o per un periodo più lungo.

Il contatto con l'ambiente artistico romano degli anni '30, dominato da un lato dalle nascenti forme barocche del Bernini e di Pietro da Cortona, dall'altro dalla pittura di Nicolas Poussin volta ad una rievocazione fantastica del mondo classico, opera una profonda trasformazione sulla cultura d'immagine del C., trasformazione che si rivela innanzi tutto nei disegni (Satiro e ninfa, Adorazione del vitello d'oro, Windsor Castle, Bibl. reale), in cui specie la componente poussinesca ha immediato riscontro.

Il 25 febbr. 1639 il C. è nuovamente a Genova, come si desume dal suo testamento pubblicato dall'Alfonso; attorno al '40-41 sposa Maddalena Cotuzia, genovese, verosimilmente nella città natale dove sembra essere presente con la famiglia ancora nel febbraio 1646, allorché è registrato il battesimo della figlia Livia Maria (Alfonso).

La mancanza di opere datate fino al 1645, anno in cui il C. firma la pala d'altare con la Natività per la chiesa di S. Luca a Genova (Morassi, p. 62; bozzetto ad olio nell'Accademia Carrara di Bergamo), limita una ricostruzione precisa dell'iter pittorico dell'artista; tuttavia le opere con qualche sicurezza attribuibili a questa fase genovese mostrano abbastanza chiaramente come il suo linguaggio - ancora legato nel Sacrificio di Noè (Genova, Palazzo Bianco) agli schemi compositivi giovanili sebbene sullo sfondo compaiano delle figure esplicitamente desunte da modelli romani - venga arricchendosi di una nuova dimensione spaziale in cui confluiscono suggerimenti colti nell'ambiente romano e napoletano (Viaggio di Abramo, Genova, Palazzo Rosso; Rebecca e Isacco, Napoli, Museo naz. di S. Martino; Viaggio di Giacobbe, Dresda, Gemäldegalerie). La stessa matrice culturale è ravvisabile anche nelle opere di soggetto religioso: la Visione di s. Bernardo (Genova-Sampierdarena, S. Maria della Cella) e S. Giacomo che scaccia i Mori (Genova, oratorio di S. Giacomo della Marina; bozzetto a Petworth, coll. Wyndham) in cui soprattutto si rivela la conoscenza della pittura di Aniello Falcone. Negli stessi anni, dapprima probabilmente nella produzione grafica, il C. comincia a elaborare, non dimenticando le rievocazioni archeologiche di Poussin, un linguaggio fantastico in cui - sullo sfondo di un mondo antico suggerita da elementi archeologici come erme, busti, vasi, rovine emergenti da una vegetazione che li ricopre e in parte li nasconde - le figure, a volte satiri e ninfe, assumono una dimensione irreale e quasi magica (Satiro e baccante, Mosca, Museo Puškin; Sacrificio a Pan, Leningrado, Ermitage).

Nella primavera del 1647 il C. è nuovamente a Roma con la famiglia e dagli Stati d'anime risulta presente nella città fino al 1651 (Percy, 1967). Durante questo secondo soggiorno romano il C. fu in contatto con la famiglia Raggi, in particolare con il cardinale Lorenzo (di cui, secondo il Soprani, eseguì anche un ritratto), padrino al battesimo di sua figlia Ortensia (ibid.). Accanto a una vasta serie di incisioni, dell'attività dell'artista in questi anni è fondamentale testimoni la cosiddetta Immacolata di Osimo (conservata oggi all'Inst. of Arts di Minneapolis; bozzetto a Windsor Castle, Bibl. reale). L'opera, che venne affidata in un primo momento a Pietro da Cortona ed eseguita dal C. tra il 1649 e il 1650 (Gabrielli), segna, specie nell'impianto spaziale e compositivo, il momento di maggior vicinanza dell'artista al linguaggio del barocco romano. Contemporaneamente, il C. sviluppa anche in pittura i temi fantastico-archeologici delle incisioni (Baccanale, Museo de Arte, Ponce, Puerto Rico; Festa del dio Pan, Bartsch, XXI, 16; Diogene, Madrid, Prado; Diogene, Bartsch, XXI, 21). In questo genere di opere, soprattutto, si rivela la reale essenza della pittura del C., troppo spesso interpretata e apprezzata come una facile pittura di genere, sottovalutando la portata intellettuale e filosofica che traspare dai Baccanali o dalle rappresentazioni di Circe (già Genova, coll. Sanguineti, datata 1653; Hartford, Wadsworth Atheneum; Firenze, Pal. Pitti: Meloni; e M. Chiarini, in Paragone, XXVI [1975], n. 301, p. 69) o dai dipinti allegorici (Allegoria della vanità, Kansas City, Nelson Gallery of Art, coll. Kress; Allegoria della musica, Genova, coll. privata; Cerere o Allegoria dell'abbondanza, Genova, pal. Doria). Dopo il 1651 non abbiamo notizie precise sugli spostamenti del C., e fino a queste momento la data di un suo eventuale trasferimento a Mantova si è basata solamente su congetture.

Risultata insostenibile l'ipotesi del Blunt, che collocava il trasferimento del C. a Mantova entro il 1648 (Gabrielli; Percy, 1967), una qualche indicazione può forse venire dalle parole del Baldinucci che riferisce di aver visto nel 1654, nell'anticamera di Isabella Clara d'Austria, un quadro del C. "fatto per la gloriosa memoria di Carlo I". Identificando, come suggerisce il Baldinucci, i personaggi dell'opera (oggi scomparsa, ma riprodotta dal Delogu, 1929, fig. 8, e di cui esiste anche un'altra versione pubblicata dalla Percy, 1971, fig. 22) con i membri della famiglia Gonzaga, si può verosimilmente ritenere che il C. abbia celebrato in quest'allegoria la nascita, nel 1652, di Ferdinando Carlo, figlio di Carlo II, rappresentato nelle vesti di Marte, e di Isabella Clara, mentre il vecchio vicino alla tomba simboleggerebbe Carlo I e la continuità della famiglia.

Sulla base delle notizie fornite, dal 1659, dal C. e dal fratello Salvatore nelle lettere al duca di Mantova, Carlo II (Meroni), sembra di poter rilevare che i rapporti tra l'artista e la corte dei Gonzaga debbano essere intesi, anche per gli anni precedenti, non come una dipendenza che implicava una continua presenza a Mantova, ma piuttosto come un legame non vincolante che lasciava ampio margine di libertà negli spostamenti e nell'attività del pittore. Pertanto non appare improbabile pensare il C. nuovamente a Genova, sia pure non ininterrottamente, dopo il 1651.

Questa ipotesi può essere inoltre avvalorata dalla presenza nella chiesa genovese di S. Maria di Castello di una pala rappresentante la Visione di s. Domenico di Soriano (bozzetto a Worms, Stiftung Kunsthaus Heylshof) che diversi elementi portano a collocare intorno al 1655. Infatti, da una parte l'opera trova un immediato precedente nella pala di Osimo, di cui riprende l'impostazione spaziale, ma con una maggior compattezza compositiva e una maggiore ricchezza cromatica, dall'altra mostra dei legami stilistici, ad esempio nell'accentuazione dell'espressione dei visi, con il Deucalione e Pirra datato 1655 (Berlino, Bodemuseum), mentre in alcuni punti, specie nelle vesti, le forme cominciano a sfaldarsi secondo un modo che diverrà abituale nelle opere tarde (Sacrificio di Noè, datato 1659, Genova, coll. privata: vedi Emporium, CXXXIII [1961], p. 70).

Sugli ultimi anni del C., dalle lettere, che contengono anche interessanti indicazioni sull'acquisto di quadri per conto del duca di Mantova (Meroni, I, pp. 23-83), sappiamo di una sua presenza a Genova nella primavera del 1659, di un soggiorno a Venezia tra il '59 e i primi mesi del '61, di una breve sosta a Mantova tra il marzo e il maggio del '61 e infine, dopo l'improvviso abbandono della corte ducale, di un ritorno a Genova dove risulta ancora presente il 4 marzo 1663. Fu questa l'ultima notizia sul C., di cui ignoriamo la data della morte, avvenuta in Mantova, verosimilmente nello stesso anno 1663, secondo l'indicazione del Passeri (J. Hess, Die Künstlerbiographien von G. B. Passeri, Berlin 1934, p. XXXIX) e comunque entro il 1665, data riportata nell'iscrizione della tomba del C. nel duomo di Mantova.

A questi ultimi anni, accanto all'ultima opera datata, L'entrata degli animali nell'arca del 1662 (Genova, coll. privata; Percy, 1971), appartengono con ogni probabilità le due piccole Crocifissioni (Genova, Palazzo Bianco e coll. privata) in cui, nello sfaldamento delle forme e nell'uso di una pennellata rapida e corposa, è possibile ravvisare l'ultima evoluzione del linguaggio del Castiglione.

Il C. ebbe un seguace e un continuatore nel figlio primogenito Gio. Francesco, nato probabilmente a Genova nel 1642. La Fuga in Egitto (Genova, coll. privata: P. Costa Calcagno) siglata con le iniziali del padre e del figlio fa pensare che Francesco abbia cominciato l'attività di pittore in collaborazione con il padre e abbia continuato a seguirne i modelli iconografici e stilistici (Scena pastorale, Milano, Pinac. Ambrosiana datata 1689; Ciro allattato dalla cagna e Viaggio di Abramo, già Genova, coll. Balbi Piovera). Il 30 luglio 1662 lo zio Salvatore raccomandava il giovane ad Ottavio Gonzaga (Meroni, I, pp. 73-77) affinché fosse impiegato nella decorazione della villa di Portiolo (Mantova) o potesse lavorare presso la corte dei Gonzaga. Francesco svolse gran parte della sua attività a Mantova, presso Ferdinando Carlo Gonzaga, da cui fu nominato pittore di corte nel 1681 (Meroni, I, pp. 106 s.). Morì a Genova nel 1710 (Alfonso).

L'attività di incisore del C. merita un discorso a parte. Durante il soggiorno romano, dopo essersi ispirato a Van Dyck, egli fu tra i primi ad apprezzare le acqueforti di Rembrandt e, interessato alla soluzione degli stessi problemi tecnico-compositivi, a mutuarne l'effetto brillante del chiaroscuro. Le esperienze fiamminghe non gli impedirono di trar partito dai modi delle scuole ligure, romana, napoletana, veneziana, e dal soggiorno mantovano. Il C. firmò in modi diversi, "Castiglione geiep" (cioè "genovese invenit et pinxit"), "G. B. Castilione fec.","Gio. Benedetto Castiglione" e simili, e talora usò monogrammi (Nagler), fra cui quello con "BC" intrecciato e seguito dalla specificazione "genovese". Spiritose e brillanti sono le sue settantasette stampe descritte dal Bartsch (numero invariato in Le Blanc), di soggetto sacro (spesso pretesto per il suo "animalismo"), allegorico, figurativo ed esotico (come le due serie di teste di orientali, Bartsch, nn. 32-53, che risentono però più del fare di Lievens che di quello di Rembrandt) e i cinque monotipi "dans le goût de l'acqua-tinta" (Bartsch, p. 41). Il C., infatti, fu il primo, verso il 1645, ad usare la tecnica del monotipo anche in temi iconografici tradizionali come il Ritrovamento delle salme di s. Pietro e di s. Paolo, del 1650 (Calabi, 1923, p. 223 n. 1): infatti il monotipo, più che una incisione, è una stampa ricavata una volta sola da una lastra tinta in nero o a colori, ottenendo le luci e le mezzetinte con l'asportazione totale o parziale della tinta. Pertanto era ben congeniale allo spirito improvvisatore e fantastico del Castiglione. Il Mariette gli assegna anche il Ritratto di Antonio Brignole Sale del 1641, malamente ritoccato a bulino da un incisore anonimo e pubblicato in Le Glorie degli Incogniti, Venezia 1647. Molte delle sue incisioni riprendono temi già trattati in dipinti, in repliche per amatori, come Noè fa entrare gli animali nell'arca (Bartsch, nn. 1-2) e nei molti disegni noti in più versioni, sì che la parabola stilistica del C. resta meglio documentata. Oltre alla emblematica Malinconia (Albricci), il Genio della pittura del periodo genovese (Bartsch, n. 23) è la sintesi dell'ardua personalità critica del C. e può essere rafflontato per tema, stile e soluzione dei problemi chiaroscurali con uno dei più bei disegni di Windsor Castle, l'Allegoria in onore della duchessa di Mantova (Blunt, 1954, p. 40). Alcune incisioni del C. ci consentono di avere notizie di quadri e disegni attualmente irreperibili (Meroni, II, p. 58). Poiché l'acquaforte pura consentiva, come per Rembrandt, di tradurre efficacemente il linguaggio pittorico ed espressivo, questa fu la tecnica usata dal C. anche se non disdegnò talora il ritocco a bulino (vedi i due stati di Bartsch, n. 2). Nei soggetti bacchici (Bartsch, nn. 15-18), mitologici, pastorali (Bartsch, nn. 19-21, 25, ecc.), per lo più del periodo romano e postromano, si ritrova l'esuberanza e l'impostazione stilistica dei disegni di derivazione poussiniana, fra echi dell'ascendenza fiamminga dello Scorza, del dinamismo berniniano, del decorativismo di Pietro da Cortona e anche del "maestro della betulla" (presumibilmente il giovane Gaspard Dughet). I rami tirati a Roma sono quelli la cui fortuna e il cui iter sono più facilmente documentabili: il C., venendo a Roma, portò con sé le matrici di rami già incisi; qui ne incise dei nuovi, qui ritoccò quelli del periodo genovese e del suo primo girovagare. La calcografia dei de' Rossi era la più adatta per il lancio di un artista così multiforme: fra il 1645 e il 1648 suo editore fu Giovanni Giacomo de' Rossi divenuto proprietario dei rami (Bartsch, nn. 15 16). In seguito Giovanni Domenico de' Rossi pubblicò almeno cinque rami (Bartsch, nn. 12, 16, 23, 24, 26) e infine, nel 1724, Lorenzo Filippo de' Rossi ne mise in vendita altri dieci (corrispondenti a Bartsch, nn. 6-7,12, 15, 21, 25, 27). Alcuni di questi rami sono gli stessi le cui matrici sono possedute dalla Calcografia naz. a Roma che, ancora in tempi recenti, ne ha tirati: negli anni, durante le vicissitudini della Calcografia, sono andate perdute due matrici, la Resurrezione di Lazzaro e la Vergine inginocchiata (Bartsch, nn. 6, 7), mentre è stato invece acquisito il rame della SS. Trinità (Bartsch, n. 11). Tranne il Litigio di donne (Bartsch, n. 27, dal Guercino), le incisioni sono tutte da invenzione del Castiglione. Altre matrici erano possedute a metà del Settecento da amatori francesi (Mariette, I, p. 336).

Il modo del C. di incidere alla pittoresca, la luminosità acquafartistica, il suo interpretare in modo più discorsivo la tecnica e le vibrazioni cromatiche di Rembrandt lo collocano fra gli acquafortisti più personali del Seicento. Il C. influenzò la grafica italiana e francese anticipando i capricci veneziani del Tiepolo, i toni argentei e la delicatezza di tratti dei "lontani" di Piranesi, gli scherzi lirici di Fragonard: si veda, ad esempio, come l'erma del Gruppoche osserva il serpe presso una fonte del Tiepolo (A. de Vesme, La peintre-graveur ital., Milan 1906, p. 388 n. 24) sembra esemplata da Pan e il Dio Termine del C. (Bartsch, n. 17). Perciò il C. incisore piacque molto ai collezionisti cosmopoliti del Settecento, specie a quelli veneti come Gerardo Sagredo (Meroni, II, p. 55) e Anton Maria Zanetti senior che ne tenne presente la tecnica incisoria, e a Pierre Mariette, che possedé sue incisioni provenienti dalla collezione Zanetti (Basan) e disegni da cui furono tratte le acqueforti (Mariette). Incisioni del C. sono oggi conservate nelle maggiori raccolte europee, mentre le collezioni degli Stati Uniti tendono ad acquistarne esemplari per colmare le lacune o per averne almeno qualche saggio. Il gruppo più nutrito di acqueforti e monotipi è conservato all'Albertina di Vienna, ricca anche di disegni e - in questo campo - seconda soltanto alla collezione reale di Windsor Castle.

F. Borroni

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