Carlo Martello d'Angio, re titolare di Ungheria

Enciclopedia Dantesca (1970)

Carlo Martello d'Angiò, re titolare di Ungheria

Raoul Manselli

Figlio primogenito di Carlo II d'Angiò e di Maria d'Ungheria, nacque, non sappiamo dove, verso la primavera del 1271, prendendo un nome considerato augurale nella famiglia reale francese.

Allevato a Napoli, divenne ben presto il centro di una complessa serie di negoziati con cui il papa Gregorio X cercò di rafforzare la posizione di Carlo d'Angiò in Italia, mostrandogli il suo favore. Intervenne, infatti, nel 1294 presso Rodolfo d'Asburgo, allora re dei Romani, per concludere un matrimonio fra C., allora di tre anni, e una delle figlie di Rodolfo, Clemenza, coetanea probabilmente del principe angioino. Quando un accordo sembrava già raggiunto, tutto venne interrotto e ritardato dalla morte del pontefice; le trattative furono riprese solo da Niccolò III, il quale riuscì ad avviare a conclusione il matrimonio. Nel gennaio del 1281, Clemenza partiva da Vienna per raggiungere Napoli, ove fu allevata con C. e gli altri principi angioini.

Tanta serenità di vita veniva interrotta di colpo dalla battaglia nel golfo di Napoli in cui Carlo lo zoppo, padre di C., veniva preso prigioniero. Il re Carlo I, appena ritornato, dovette provvedere, infatti, ai problemi della successione: senza diseredare il figlio, come pur disse qualche cronista del tempo, volle che il giovanissimo nipote venisse nominato erede al trono sullo stesso piano e con gli stessi diritti del padre prigioniero. E fu provvida decisione perché poco dopo il re moriva (7 gennaio 1285), lasciando appunto a succedergli Carlo.

La sua autorità effettiva fu, tuttavia, poco più che nominale, continuando lo stato a funzionare con un consiglio di reggenza e sotto l'attenta sorveglianza dei papi Martino IV e Onorio IV. Quest'ultimo, in particolare, quando venne a sapere che nelle trattative per la liberazione di Carlo lo zoppo s'era parlato di matrimonio tra la principessa aragonese Iolanda e C., provvide a concludere il matrimonio fra C. e Clemenza (1287): essi ebbero, infatti, il primo figlio nell'anno successivo.

Si profilò quindi, durante i tentativi per la liberazione di Carlo II, il pericolo che C. dovesse subentrare al padre nella prigionia, ma alla fine questo triste destino toccò ai suoi fratelli minori Ludovico, Roberto e Raimondo Berengario.

Carlo lo zoppo, intanto, rientrato a Napoli (9 luglio 1289), in occasione di un solenne parlamento iniziato il 5 settembre armò cavaliere C., investendolo del principato di Salerno, dell'Onore di Monte S. Angelo, delle contee di Andria, di Manfredonia e di Lesina e ribadendo così la sua designazione di successore al trono. Poco dopo, C. si trovò di nuovo ad essere alla testa dello stato, sempre con un consiglio di reggenza, avendo dovuto il padre riprendere la via di Roma e della Francia, per risolvere la spinosa questione della sua libertà. Pur fra molte difficoltà il principe angioino fu un vicario accorto, docile agli esperti consiglieri che lo circondavano, attento al governo dei suoi feudi, che visitò più volte. Né trascurò l'attività legislativa provvedendo all'emanazione di una legge suntuaria, che imponeva alla nobiltà e ai funzionari e militi della curia regia una severa austerità, accompagnandola con una riforma amministrativa (Capitola et s'aiuta super regimine Regni, emanati a Melfi il 26 settembre 1290).

Il destino di C. fu però mutato di colpo dalle vicende d'Ungheria: morto re Ladislao IV (1290) Carlo lo zoppo si fece avanti tra i vari pretendenti alla successione, affermando i diritti di sua moglie, Maria, sorella del sovrano defunto. La richiesta angioina venne appoggiata anche dal papa Niccolò IV, tanto più che eran venute a cadere, per la morte di Rodolfo d'Asburgo e la successione di Alberto suo figlio a re dei Romani, le pretese austriache. La regina Maria cedette tutti i suoi diritti sull'Ungheria al figlio C. con un diploma del 6 gennaio 1292; il procuratore di C. raggiunse il nuovo re nei suoi domini di Puglia e l'incontrò tra il 16 ed il 20 marzo a Foggia: dal 20 marzo, infatti, C. datò l'inizio del suo regno d'Ungheria. Iniziò subito anche una febbrile attività politica per ottenere il suo stato, pur dovendo agire da solo per la lunga vacanza del soglio pontificio (dal 4 aprile 1292 al 5 luglio 1294, data dell'elezione di Celestino V): cercò di procurarsi l'appoggio di Venezia, strinse un'alleanza con Stefano re di Serbia, mandò messaggeri e ambascerie in Ungheria, riuscendo a ottenere il riconoscimento della sua sovranità su tutto il litorale dalmata (1292).

Durante queste vicende C., dopo aver sedato dei contrasti interni in Abruzzo, fu invitato dal padre, che rientrava nel suo regno, a venirgli incontro in Toscana, con grande solennità. I preparativi furono effettivamente grandiosi sia per il numero di coloro che dovevano accompagnarlo sia per il fasto. Né minori furono i preparativi in Firenze: venne anzi predisposta una delegazione capeggiata da Giano di messer Vieri de' Cerchi, della quale è assai probabile facesse parte anche Dante. A Firenze C. entrò all'inizio del marzo 1294, restandovi una ventina di giorni e sollevando uno schietto entusiasmo, in cui troviamo eco in G. Villani (VIII 13) e in altre testimonianze del tempo, fra le quali vanno ricordate per la loro importanza quella di D. e l'altra del frate domenicano Remigio de' Girolami, che rivolse un indirizzo di saluto al principe quando visitò s. Maria Novella (G. Salvadori-V. Federici, Le prediche di fra' Remigio de' Girolami, in Scritti vari di filologia in onore di E. Monaci, Roma 1901).

Rientrato con i genitori e i fratelli nel regno, ove giunse verso la metà di aprile, C. riprese la sua attività politica specialmente per quel che riguardava il regno d'Ungheria. L'elezione di Celestino V e la speranza dell'appoggio del nuovo pontefice, che aveva scelto l'Aquila come sua prima residenza, fece sì che C. lo raggiungesse in questa città e partecipasse poi alle travagliate vicende di quei mesi: la consacrazione papale di Celestino (23 agosto 1294), i maneggi politici e le pressioni morali sul nuovo papa, l'emozione di sapere che suo fratello Ludovico, ancora prigioniero in Catalogna, poteva realizzare la sua aspirazione di farsi ecclesiastico e veniva nominato amministratore della diocesi di Lione, e infine l'abdicazione del papa stesso. Anzi, nella sua qualità di vicario del regno (febbraio 1295) il principe dovette provvedere alla ricerca e poi alla cattura di Pietro da Morrone, fuggito prima da Montecassino, poi dall'eremo della Maiella; e lo raggiunse e arrestò a Vieste, proprio nel territorio di Monte S. Angelo, suo feudo.

Poco dopo C. insieme con sua moglie moriva di un'epidemia d'ignota natura prima del 19 agosto 1295. Va relegata fra le leggende la notizia che i due principi sarebbero stati avvelenati dall'invido Roberto d'Angiò.

C. è cantato da D. in Pd VIII 31-148 in un ideale contrasto con Pg XX, ove si parla di Capetingi e Angioini, e con gli altri passi ove si ricordano ancora e Carlo I e Carlo II d'Angiò. All'asprezza di condanna che D. non risparmia quando parla di questi principi si contrappone in una precisione di disegno accortamente disposta la figura di Carlo. Questi finisce, anzi, col ribadire la durezza e la condanna di D. verso i suoi familiari, collocandola su di un piano superiore e in una cornice di libera decisione umana. C. sin dalle sue prime parole mostra di conoscere con chi parla e gli esprime un vivo sentimento d'affetto personale: ciò indica particolarmente il ricordo della canzone Voi che 'ntendendo (Pd VIII 37) di cui si serve per dire a D. che è giunto nel terzo cielo, il che suscita la curiosità' e il desiderio di questi di domandargli chi sia.

La risposta, dopo l'iniziale malinconia di una giovinezza prematuramente scomparsa e la constatazione amara di un male affermatosi come conseguenza della sua morte, si ravviva e si accende nella letizia del Paradiso e nel ricordo dell'affetto grande che li unì.

È opportuno a questo punto sottolineare che questa espressione di un'amicizia grande e profonda, che dura oltre la vita, non nasce da un sentimento caldo e immediato, ma si manifesta dopo un lungo periodo di anni, dopo tutta l'esperienza politica e umana delle lotte interne fiorentine e dell'esilio (con tutto quanto di responsabilità dei suoi mali D. attribuiva agli Angiò), e dopo la composizione di una gran parte della Commedia. L'incontro dunque fra i due giovani dovette allora essere un'esperienza d'eccezione che viene accennata in tono e forma indefinita: Assai m'amasti, e avesti ben onde; / che s'io fossi giù stato, io ti / mostrava di mio amor più oltre che le fronde (vv. 55-57), ma dovette essere anche concordanza di gusti letterari, come mostra il richiamo esplicito alla canzone di D., e che s'estese anche - non ci sembra un'ipotesi ardita - ad altri aspetti della vita e della società loro contemporanea: a ciò induce a pensare sia l'accenno alla mala segnoria degli Angioini di Sicilia sia il biasimo per l'avara povertà di Catalogna che sfruttava l'Italia meridionale (vv. 72, 77).

Grandezza d'animo e fierezza regale, dopo il ricordo del lontano incontro e dell'amicizia eterna, caratterizzano l'indicazione dei regni di cui C. doveva esser sovrano: con precisione attentissima ricorda prima la Provenza e l'Italia meridionale, che gli sarebbe venuta alla morte del padre, poi l'Ungheria, di cui era già re. E il suo rimpianto va alla terra di Sicilia perduta per la sua stirpe a causa del cattivo governo e del Vespro che ne seguì.

A questo punto la dichiarazione fatta da C. di sé stesso, sempre più netta e precisa, si determina nel ricordo di Roberto d'Angiò, dell'unico Angioino finora non nominato e giudicato nella Commedia. E del fratello C. condanna l'avarizia, consigliando che smetta di avere intorno a sé tal milizia / che non curasse di mettere in arca, dopo aver accennato a la sua natura, che di larga parca / discese (vv. 82-84). Suscita così in D. la curiosità di sapere come mai non si ereditino le qualità morali (com'esser può, di dolce seme, amaro, v. 93); C. dà le spiegazioni richieste, permettendo al poeta di ribadire, sia pur sempre in un alone di indeterminatezza, ancora un aspettò negativo del carattere e della personalità di Roberto.

Se infatti è difficile attribuire a Ludovico d'Angiò l'accenno a coloro che, d'indole bellicosa, sono indotti con la forza a entrare in religione - questo principe infatti risulta sempre profondamente e intimamente legato al mondo francescano; e ciò era largamente noto -, è altrettanto difficile negare che l'espressione fate re di tal ch'è da sermone (v. 147) si riferisca a Roberto. C'è appena bisogno di ricordare le sue prediche, giunte fino a noi, la sua attiva partecipazione a problemi e discussioni teologiche, come a quella sulla povertà di Cristo e degli apostoli.

Anche in questo franco, deciso atteggiamento di rimprovero verso i suoi familiari C., che nell'intenzione di D. si ricollega chiaramente a Ugo Capeto e al canto XX del Purgatorio, è una figura animata da un suo coerente, intimo e vivo contenuto spirituale: amico sincero del giovane fatto adulto e ormai lontano dalla patria, ne accompagna col ricordo la solitudine e il dolore, confortandone con la concordia del suo giudizio sugli uomini e sulla loro dissennatezza, la tristezza dell'esilio, accettato pur di non arrendersi all'ingiustizia e alla prepotenza.

È un episodio estremamente significativo, allora, questo di C., perché il sentimento poetico di D., rifiutando il facile sentimentalismo dell'amico ritrovato e della " ricerca del tempo perduto ", si eleva, come già aveva fatto a proposito di un altro amico, Forese Donati, dai fatti personali all'eterno di Dio e della sua provvidenza, mostrando come la difficile posizione di giudice dell'umanità, assunta da D., nasce da una sublimazione totale e un superamento altissimo di tutti i propri affetti personali.

Vale la pena di avanzare, infine, il suggerimento che sia stato proprio il ricordo di C. a indurre D. ad attenuare sia pur lievemente l'implacabile durezza iniziale della condanna di Ugo Capeto, là dove, dopo aver detto (Pg XX 43-45) Io fui radice de la mala pianta / che la terra cristiana tutta aduggia, precisa, limitando le sue parole: sì che buon frutto rado se ne schianta.

Bibl. - Oltre ai commentatori antichi, piuttosto infidi e fantasiosi per quanto riguarda C. e D., i commenti e le ‛ lecturae ' moderne, va prima di tutto ricordato M. Schipa, Un principe napoletano amico di D. (C. Martello D'Angiò), Napoli 1962, che è rifacimento di un grosso lavoro erudito comparso in " Arch. Stor. Prov. Napoletane " XIV (1889) e XVI (1890).

Si veda inoltre F. Torraca, II Regno di Sicilia nelle opere di D., Napoli 1912, 376-378 e Davidsohn, Storia Il II 660-664.

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