Carlo II d'Angio, re di Sicilia

Enciclopedia Dantesca (1970)

Carlo II d'Angiò, re di Sicilia

Raoul Manselli

Figlio di Carlo d'Angiò e della sua prima moglie Beatrice di Provenza, nacque nel 1248.

Principe di Salerno, dopo la conquista da parte del. padre del regno di Sicilia, sposò nel 1270 Maria, figlia di Stefano V, re di Ungheria. Partecipò, in posizione di rilievo, all'attività politica del padre: nel 1271 fu luogotenente nella parte continentale del regno, nel 1276 ne divenne vicario generale, e fu inviato, quattro anni dopo, a governare la contea di Provenza.

Rientrato in Italia, partecipò a molte operazioni militari della guerra del Vespro: ma, il 5 giugno 1284, comandando la flotta napoletana contro quella siculo-aragonese, venne sconfitto al largo del golfo di Napoli, da Ruggero di Lauria e fatto prigioniero. In questa circostanza, minacciato di decapitazione, fu risparmiato, pare per intercessione della regina Costanza d'Aragona, figlia di Manfredi, cui fece liberare la sorella Beatrice, ancora imprigionata nei sotterranei di Castel dell'Ovo a Napoli.

Condotto in Sicilia e poi in Aragona, rimase prigioniero fin quando, con la morte di Carlo I, suo padre (1285), sorse il problema della successione al trono. Si iniziarono così delle trattative che si conclusero solo col trattato di Canfranc del 27 ottobre 1288, per cui C., col pagamento di trentamila marche d'argento, veniva liberato di prigione, mentre al suo posto venivano consegnati tre suoi figli. Dalla Catalogna passato in Provenza, tornò poi in Italia raggiungendo a Rieti il papa Niccolò IV che lo incoronò re di Sicilia il 19 giugno 1289.

Si trovò quindi in contrasto con gli Aragona; infatti alla morte di Alfonso III (1291), quando Giacomo fu chiamato a succedergli, in Sicilia venne come reggente il fratello Federico; Niccolò IV prospettò quindi l'opportunità di una pacificazione generale; si iniziarono (1291) allora delle trattative che furono però interrotte dalla lunga vacanza del trono pontificio e dal pontificato di Celestino v. Su questo papa C. aveva fondato grandi speranze, cercando d'influenzarlo in ogni modo e di piegarlo in direzione favorevole alla sua politica, tanto che non è da escludere una qualche responsabilità del re per l'abdicazione del pontefice, stanco delle pressioni a cui veniva sottoposto dal sovrano.

Ripresi i negoziati per una pace con l'Aragona, sotto gli auspici di Bonifacio VIII, C. stabilì con il re Giacomo un accordo per cui quest'ultimo gli avrebbe restituito la Sicilia, rinunciando a tutti i suoi diritti; avrebbe poi avuto in cambio la Sardegna e la Corsica, sotto l'alta sovranità della Chiesa. Il fratello di Giacomo, Federico, avrebbe sposato Caterina di Courtenay, che aveva il titolo di imperatrice di Bisanzio, e avrebbe avuto l'appoggio papale per far valere i diritti suoi e di sua moglie. Ma, quando l'accordo sembrava già raggiunto, Federico d'Aragona, facendo leva sul fortissimo sentimento antiangioino dei Siciliani, rifiutò il suo consenso, e ottenne di essere eletto re nel marzo del 1296.

Ripresero allora le operazioni militari, in cui paradossalmente C. e Giacomo d'Aragona, che ne aveva sposato la figlia Bianca, vennero col papa a combattere i Siciliani. Questi resistettero valorosamente, obbligando i loro avversari a uno sforzo militare, il cui peso ricadde tutto sul re C. e sui Francesi: venne tuttavia predisposta una grande spedizione, di cui fu capo Carlo di Valois. Questi, sostenuto dall'appoggio finanziario e spirituale del papa, riunite le forze venutegli dalla Francia, dai guelfi d'Italia, e appunto da C., iniziò le operazioni militari sbarcando in Sicilia e ponendo l'assedio a Sciacca nella tarda primavera del 1302.

Ma, stremato dalle difficoltà dell'impresa e da un'epidemia che gli decimò le truppe, dovette iniziare dei colloqui che misero capo alla pace di Caltabellotta (1302). Questa pace, impegnando Federico d'Aragona a restituire, alla sua morte, la Sicilia agli Angioini, poteva dare a C. la sensazione che la partita non fosse ancora perduta. Si concludeva così - la pace riceveva anche l'approvazione del papa l'anno seguente - la ventennale guerra accesa dal Vespro siciliano.

Mentre ancora si lottava per la Sicilia, C. aveva già iniziato un'attenta e abile trama politica che mirava a insediare suo figlio Carlo Martello sul trono d'Ungheria: lo spingeva già il fatto che egli era marito di una principessa ungherese e che una sua sorella, Isabella, aveva sposato il re d'Ungheria, Ladislao rv. Morto questi, nel 1290, senza figli, C. cominciò col rivendicare i diritti della moglie o, appunto, di Carlo Martello, ostacolando l'elezione dell'ultimo discendente maschile della dinastia degli Arpadi, Andrea Veneziano. Durante i lunghi contrasti che ne seguirono, morto Carlo Martello, il re di Sicilia sostenne allora i diritti del figlio di questi, Carlo Roberto. In queste circostanze potè giovarsi soprattutto dell'appoggio di Bonifacio VIII, che, superando gli ostacoli frapposti dalle nobiltà locali e giovandosi della qualità di negoziatore del suo legato, Niccolò Boccasini, riuscì a ottenere che il principe angioino venisse in più luoghi proclamato re. Infine il 17 novembre 1308 C. ebbe la gioia di sapere che il nipote era stato solennemente riconosciuto re, ma non potè vederne l'incoronazione avvenuta il 27 agosto 1310 e, quindi, dopo la sua morte.

Difficoltà non minori ebbe C. col regno di Gerusalemme; pensò prima di riunire tutti i mezzi finanziari e militari degli ordini cavallereschi per riconquistare almeno quel territorio, sia pur minuscolo, su cui aveva governato suo padre; poi, caduto questo progetto, cercò, senza grandi risultati e, in realtà, senza troppo impegno, di stabilire rapporti coi Tartari contro i Turchi.

Mentre, sempre con l'appoggio di Bonifacio C. riusciva ad affermare la sua autorità in Epiro e in Acaia, ottenne un vero successo in Piemonte dove la potenza angioina verso la fine del Duecento era ridotta al minimo per defezioni e contrasti locali. Egli riuscì a inserirsi di nuovo nelle lotte politiche piemontesi dopo che Alba (28 luglio 1303) lo chiamò come signore. Si iniziò così una serie di annessioni di città e luoghi che culminò con la sottomissione del Monferrato (7 febbraio 1306) e con una serie di accordi che gli assicurarono una tranquilla attività di governo. Nel quadro di questa espansione dell'influenza angioina nell'Italia settentrionale, che si collega sempre alla grande politica guelfa di Carlo i, sembra che vadano collocate anche le nozze di Beatrice d'Angiò, figlia di C., col marchese Azzo (1305), che furono vivacemente discusse dai contemporanei e che D. bollò come turpe mercato (Pg XX 79-81). Dopo due anni di soggiorno in Provenza, sentendosi avvicinare la morte, tornò a Napoli ove morì il 5 maggio 1309.

Personalità sfuggente per i contemporanei che a lui si accostarono con giudizi di maniera o con ferma ostilità - e fra questi fu certo D. -, C. non è stato finora studiato con l'attenzione che meriterebbe la sua pazienza nell'affrontare difficoltà quasi disperate, la sua indiscutibile abilità di politico, sia pure non geniale, la tenacia nel perseguire i suoi fini. Non riuscì certo a vedere sempre i risultati della sua azione, ma senza dubbio egli va considerato, con suo padre, l'artefice della grandezza e della potenza angioina in Europa.

D. non solo coinvolge C. nella condanna generale della famiglia e della dinastia di Francia, ma è anche verso di lui singolarmente aspro e duro. A lui nominativamente (come a Federico III d'Aragona) rivolge, nel Convivio (IV VI 17-20), il rimprovero di governare senza saggezza, senza badare al fine de l'umana vita sottolineando che meglio sarebbe a voi come rondine volare basso, che come nibbio altissimo cote fare sopra le cose vilissime. Sempre nominandolo chiaramente, nel De vulg. Eloq. (I XII 1-5) alla nobiltà e rettitudine degli illustres heroes, Fredericus caesar et bene genitus eius Manfredus, D. contrappone la vacuità di C. e degli altri potenti del suo tempo: Quid nunc personat tuba novissimi Frederici, quid tintinabulum secundi Karoli, quid cornua Iohannis et Auonis marchionum potentum, quid aliorum magnatum tibiae, visi " Venite, carnifices; venite altriplices; venite avaritiae sectatores ? ", rimproverando perciò di favorire la crudeltà e soprattutto, alla conclusione di un ‛ climax ' ascendente di bassezza spirituale, l'avarizia, l'avidità cioè che D. condanna sopra ogni altra colpa morale. Proprio la mancanza di grandezza morale egli rimprovera a C. e ciò spiega il disprezzo con cui ne parla, sia che lo ricordi come ben inferiore a suo padre in Pg VII 127-129, sia che, chiamandolo Ciotto di Ierusalemme (con allusione sarcastica quindi alla sua infermità fisica e al suo regno puramente nominale sulla città), faccia dire all'aquila della giustizia che, nel giorno del giudizio, egli vedrà segnate con i le sue opere buone e con emme (cioè mille) quelle cattive (Pd XIX 127-129). Né viene dimenticato, in Pd XX 63, il malgoverno di C. (con quello di Federico III) per cui il regno di Sicilia piange; né la folle politica per cui i gigli di Francia vengono contrapposti all'aquila imperiale sia da Carlo novello che dai Guelfi suoi (Pd VI 106-111).

Non fa meraviglia perciò che C. venga collocato (Pg XX 79-84) come l'espressione peggiore dell'avidità e, insieme, della bassezza morale, per aver consentito alle nozze della sua ultima figlia, Beatrice, con Azzo VIII, il quale " perché condiscendessi a dargliele, la comperò, oltre al comune uso ", come dice il Compagni (III 16) raccogliendo una voce, certo corrente ai suoi tempi, ma non confermata dai documenti. Questo episodio è per D. esemplarmente significativo di un individuo, di una stirpe e del genere umano addirittura, quando per la cupidigia di possedere si finisce col rinnegare la propria carne, passando sopra allo stesso istinto di protezione dei propri figli.

Si precisa, a questo punto, il senso più profondo dell'ostilità di D. a C. e agli Angioini: nasce certo da motivi politici e dall'atteggiamento generale della dinastia capetingia e dalla sua diramazione napoletana nei riguardi dell'Impero e nei suoi rapporti con la Chiesa, quale si veniva esprimendo in specie nella politica guelfa verso l'Italia e verso Firenze in particolare; ma vive e si alimenta dello sdegno morale perché mancavano in tutti quei principi - Carlo Martello è l'unica eccezione - un fine etico, un valore spirituale, un piano ragionevole di azione, abbandonandosi invece alla bestialità bruta dell'istinto, che culmina appunto nell'avidità di volere per volere.

Sembra fare eccezione, in questa rappresentazione così fosca, il ricordo da parte di Carlo Martello della natura larga di un antenato da cui discese quella parca di suo fratello Roberto. In proposito infatti molti commentatori indicano in questo antenato lo stesso padre, C.; e cercano di spiegare la contraddizione tra questo elogio e i feroci biasimi, come fa ad esempio il Torraca nel suo commento a Pd VIII 82-84, ponendo in luce che " la lode è data a Carlo dal figliolo " e che la larghezza' può anche esser priva di pregio morale quando viene praticata per far bella mostra di sé. Va però anche citata la decisa affermazione di André Pézard, ripresa con altrettanta decisione dal Sapegno nel suo commento a Pd vili 82, per cui l'antenato non può essere C., senza introdurre nel giudizio di D., di una perfetta e conchiusa coerenza dal De vulg. Eloq. al Paradiso, un'inutile incongruenza; il discese infatti non comporta di necessità che l'antenato debba essere il padre, ma forse il nonno Carlo I. E questo un punto di vista che ci sembra di potere accettare, contribuendo a ribadire la coerenza di D. in uno dei punti più delicati e, insieme, importanti, della sua concezione storica e umana.

Bibl. - Mancando una monografia su C. bisognerà rinviare alle pagine che a lui ha dedicato E.G. Léonard, Les Angevins de Naples, Parigi 1954, 161-207 e passim, che danno anche numerose indicazioni bibliografiche. Quanto all'atteggiamento di D. verso la dinastia angioina basterà rinviare a F. Torraca, Il Regno di Sicilia nelle opere di D., Napoli 1912, 272-273, e ai commenti e alle ‛ lecturae ' ove compare appunto citato Carlo.