CARLO EMANUELE II, duca di Savoia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 20 (1977)

CARLO EMANUELE II, duca di Savoia

Valerio Castronovo

Nacque a Torino il 20 giugno 1634, secondogenito di Vittorio Amedeo I e di Cristina di Borbone, sorella di Luigi XIII. Successo al padre (dopo la morte del fratello Francesco Giacinto) il 14 ott. 1638, visse durante gli anni della guerra civile fra "madamisti" e "principisti" sotto la tutela della madre, che badò dopo la conclusione del conflitto (giugno 1642) ad allevarlo secondo i dettami della più stretta dedizione alla causa francese, lontano dai segreti di corte, senza alcuna istruzione nel campo della storia, delle lettere o delle scienze.

Né gli fu lasciata molta più libertà negli svaghi e negli affari di cuore: la passione del giovane principe per la cugina Giovanna Battista di Nemours fu apertamente scoraggiata e non mancarono i più sottili accorgimenti per far cadere di volta in volta altri suoi progetti matrimoniali che avevano il torto di non tenere in debito conto l'interesse a un consolidamento dell'alleanza con la monarchia francese o di urtare, per la personalità o le particolari ambizioni delle candidate, la focosa suscettibilità della madre, avvezza a disporre intorno a sé di gente compiacente e sottomessa. Sicché, per non rompere con il Mazzarino e accontentare Madama Reale, C. E. finì col prendere in moglie (marzo 1663) Francesca d'Orléans, un partito che, per la madre, univa al vantaggio di rafforzare i legami con la corte di Parigi quello di una nuora molto giovane, ingenua e senza pretese. D'altra parte, alla data delle nozze, per quanto avesse raggiunto da ormai otto anni la maggiore età, C. E. continuava a lasciare a Madama Reale ogni cura nell'amministrazione dello Stato e ad accettarne anche le imperiose ingerenze nella sua vita privata (al punto da far scrivere all'ambasciatore veneto Sagredo, in un dispaccio del 28 ottobre 1662 al Senato: "se V.V.E.E. mi comandassero che io parlassi a parte col Duca, non mi assicurerei di poterle obbedire, stante la ristrettezza in che è posto, mai partendosi dalla persona di lui i dipendenti di Madama" (cit. in Claretta).

A questa consegna (al di là di qualche scarto d'umore o di qualche propensione filospagnola in certi suoi atteggiamenti) C. E. si attenne rigorosamente sino alla morte della madre, avvenuta il 27 dic. 1663. Ereditava il governo di un paese che solo dalla pace dei Pirenei del 1659, dopo ventiquattro anni di guerre e di lotte intestine, aveva cominciato a risanare tante profonde ferite, ma ancora scosso (nonostante il recupero di Vercelli) dalla definitiva amputazione di Pinerolo rimasta sotto dominio francese, e un apparato politico-burocratico pur sempre lacerato - sotto l'apparente ricomposizione delle passate divergenze fra francofili e ispanofili - dal retaggio di molte antiche discordie familiari e da ambizioni e dissapori personali che la stessa politica clientelare e discriminatoria di Cristina aveva contribuito a rinfocolare.

Nel Consiglio ducale tenevano ancora i primi posti certi vecchi servitori del periodo della guerra civile e della reggenza, dal marchese di San Tommaso al conte Filippo d'Aglié, al marchese di Pianezza, con il loro seguito di amicizie fra i principali esponenti dell'aristocrazia di corte e provinciale, forti degli allori (in nuovi feudi e cariche pubbliche) accumulati nel lungo periodo di devozione a Madama Reale, ma sordi alle concrete esigenze del paese e tagliati fuori da tempo dal gioco serrato della diplomazia internazionale.

Dopo tanti anni di passiva soggezione alle direttive della madre e con una corte che a fatica teneva il passo con la routine amministrativa quotidiana, non bastò a C. E. far sfoggio, all'inizio del suo regno, di nuovi volonterosi propositi di iniziativa politica per scuotere il torpore della classe dirigente piemontese e per riguadagnare un certo credito nei rapporti internazionali.

Il Senato di Venezia, nonostante la ripresa nel 1661 delle relazioni diplomatiche e l'invio l'anno successivo da Torino di alcuni soccorsi militari per la difesa di Candia, si mostrò irremovibile sulla questione del titolo regio di Cipro, e analoghi dissensi in materia di diritti di precedenza continuarono ad avvelenare i rapporti con il granducato di Toscana. Né fu possibile comporre le divergenze con Mantova, che persisteva nel suo rifiuto di riconoscere i trattati di Cheram e di Münster, grazie ai quali i Savoia avevano potuto legittimare l'occupazione di Alba e di altri centri vicini avvenuta durante la seconda guerra del Monferrato.

Non si trattava di questioni di poco conto. Per C. E., il quale intendeva sondare la possibilità di riprendere certi disegni tradizionali di ingrandimento dello Stato sabaudo (la conquista di Ginevra, il recupero di alcune terre del Vaud, o l'annessione di Genova), era essenziale garantirsi le spalle nei rapporti con i principati italiani e non dare comunque esca, lasciando aperte vecchie contese, a ingerenze diplomatiche e a interventi dall'alto della Francia o della Spagna. Ma ancor prima di porre mano a precisi piani operativi di espansione territoriale, egli dovette fare i conti con le sommosse dei Valdesi, appoggiate (su intercessione di Giovanni Leger, rifugiatosi in Olanda) dai principi protestanti e dai Cantoni svizzeri di fede calvinista.

Fallita l'azione repressiva delle forze ducali nelle valli del Pellice e del Chisone, C. E. aveva dovuto ricorrere alla mediazione della Francia (che non aveva mancato peraltro negli anni precedenti, attraverso il governatore del Delfinato, di soffiare sul fuoco). Ma né un editto del febbraio 1664, con cui si concedeva perdono agli insorti (escluse una quarantina di persone già condannate dal Senato), né la riconferma delle precedenti concessioni in materia di libertà di culto servirono a porre termine alla controversia, destinata a protrarsi (sia pur senza altri duri scontri a fuoco ma con un continuo stillicidio di soprusi e scorrerie da una parte e dall'altra) sino al gennaio 1667, quando la questione sarebbe stata rimessa direttamente nelle mani di Luigi XIV per un giudizio definitivo sugli indennizzi dovuti dai Valdesi a compenso dei danni provocati dalla rivolta.

Se già nel corso di questa vicenda, e nel modo con cui si sarebbe conclusa, l'arbitrato della Francia si rivelò ancora una volta decisivo, l'influenza politica del governo di Parigi alla corte di Torino ebbe a manifestarsi in maniera schiacciante non appena C. E. mostrò di voler mettere a punto i propri progetti su Ginevra. D'altra parte, se aveva mostrato per qualche tempo soverchie illusioni su un appoggio diretto della Spagna (restia a muoversi senza precise garanzie di un rovesciamento delle alleanze da parte dei Savoia), egli non era poi riuscito, nonostante l'invio, sul posto di parecchi suoi emissari e l'opera di subornazione di alcuni curati, a promuovere nei Cantoni cattolici un movimento d'opinione favorevole a un intervento armato contro Ginevra, né a convincere i maggiorenti del Vaud, per quanto scontenti dei Bernesi, a pronunciarsi per un ritorno di quella regione sotto il governo sabaudo in cambio del riconoscimento dei loro privilegi e la concessione di nuovie franchigie.

Un banale incidente (il viatico portato nel marzo 1666 a una donna cattolica del luogo di Corsinge nel baliato di Guillard soggetto al duca, ma residente in una dimora dipendente da Jussy in territorio rivendicato dai Ginevrini) parve offrire a C. E. l'occasione propizia per rompere gli indugi e replicare con la forza alle proteste di quanti in Svizzera avevano voluto vedere nell'episodio una deliberata provocazione nei confronti della sovranità di Ginevra. Ma, come già era avvenuto in altre occasioni negli ultimi cinquant'anni, alla notizia dei primi movimenti militari alla frontiera savoiarda, Ginevra era corsa ai ripari ottenendo prontamente l'aiuto di Berna e di Zurigo mentre la Francia s'era interposta ancora una volta per sopire il dissidio e ammonire il governo piemontese che non sarebbero stati tollerati eventuali colpi di mano.

Nel maggio 1667, dopo due anni di segrete macchinazioni e di faticosi preparativi per la mobilitazione delle sue forze, C. E. dovette scendere a patti, prima attraverso i buoni uffici della Confederazione elvetica, quindi acconsentendo a trattare direttamente con i rappresentanti di Ginevra, per rimettersi infine alle decisioni dell'ambasciatore francese alla sua corte. Col risultato di aver dissipato nelle spese per gli armamenti, in cambio di un lodo che nel luglio 1668 stabiliva formalmente la sua sovranità sulla casa di Corsinge che aveva dato origine alla contesa, qualcosa come 10.500.000 lire, senza conseguire gli scopi che s'era prefisso, ma contribuendo anzi a rafforzare, suo malgrado, la causa di Ginevra e a far cadere definitivamente la prospettiva di una riannessione del Vaud, posto con decisione ufficiale dalla Dieta di Baden (settembre 1668) sotto la protezione di tutti i Cantoni elvetici.

A nessuna conclusione pratica avrebbero portato infatti sia la disdetta da parte sabauda (giugno 1669) del trattato di Saint-Julien del 1603 con Ginevra (disdetta che, assecondata dalla Curia romana, aveva fatto sperare in un ravvedimento dei Cantoni svizzeri di fede cattolica), sia i successivi negoziati con i Cantoni protestanti per un riconoscimento almeno formale dei diritti del governo piemontese su Ginevra e sul Vaud. Si erano così dileguate le speranze del duca di Savoia di trarre qualche vantaggio dalle conseguenze della guerra di devoluzione, inserendo le sue pretese sul versante svizzero al seguito della più generale politica aggressiva di Luigi XIV, mentre pochi passi avanti aveva fatto l'azione diplomatica svolta pressovarie capitali, per ottenere l'ammissione al trattamento regio. Nell'aprile 1669 soltanto gli otto elettori tedeschi s'erano allineati ai duchi di Modena e di Parma e alla casa di Braganza, legati ai Savoia da alleanze matrimoniali, nell'accordare tale riconoscimento.

Positivo fu, in compenso, il bilancio dei primi cinque anni di regno di C. E. nel campo della politica interna. Il matrimonio nel maggio 1665 (dopo la morte di Francesca d'Orléans) con Maria Giovanna Battista di Nemours, la cugina a lungo vagheggiata contro gli intendimenti della madre, lo aiutò ad affrettare i tempi nell'opera di progressivo smantellamento di consuetudini e posizioni di privilegio radicatesi a corte ai tempi di Madama Reale. Messi in disparte alcuni vecchi confidenti di Cristina e accentrati nelle sue mani tutti i fili anche più minuti dell'amministrazione, diede disposizioni perché si rivedessero le ragioni, i titoli e i termini finanziari delle concessioni di terre, cariche ed esenzioni dai tributi accordate a larghe mani durante la reggenza, cominciando da parte sua a instaurare un regime meno prodigo e più severo a corte col tagliar netto su certi cumuli di uffici, pensioni e regalie. Su istanza di molti comuni revocò inoltre le ordinanze del 1650 sull'alienazione dei feudi, provvide a restituire al catasto le porzioni delle imposte fondiarie a carico delle comunità vendute a suo tempo ai privati, e cercò di metter fine alla prassi corrente, nell'alienazione delle terre, di vendite simulate al clero o ad altre persone titolari di particolari immunità fiscali. Anche l'ordinamento amministrativo dei comuni venne riformato, sulla base di una più rigorosa ripartizione dei compiti fra autorità centrali (che si riservarono ogni competenza in materia finanziaria) e municipali, e dell'obbligo per i comuni di redigere dei bilanci preventivi annuali. Non per questo vennero meno tutti gli abusi e gli arbitri che gravavano sulle comunità. C. E. ratificò, anzi, nel 1666 il sistema della vendita al miglior offerente dei principali uffici di giustizia, anche per trasmissione ereditaria, onde soccorrere in qualche modo le casse ducali, e per lo stesso scopo giunse a introdurre nuove imposte ci a trasformare certi gravosi carichi straordinari, come il "sussidio militare", in contributi ordinari.

Tuttavia l'imposizione di nuove gabelle e la vendita di cariche e impieghi, come sul versante opposto la revisione di regalie e investiture alienate a suo tempo a un tasso estremamente basso o a condizioni comunque svantaggiose per il fisco, si inserirono in un indirizzo politico più generale, tendente a rafforzare l'assolutismo principesco e ad avviare un programma di intervento spiccatamente mercantilista.

In questa prospettiva C. E. badò, da un lato, a liquidare le ultime tracce di talune istituzioni rappresentative e immunità corporative (specialmente nel Saluzzese, l'ultimo acquisto territoriale con forti tradizioni parlamentari) già in via di sfaldamento per l'urto congiunto della politica assolutistica dei suoi predecessori e dell'espansione dei privilegi dell'aristocrazia terriera o della più recente nobiltà di corte, e dall'altro a rafforzare il proprio potere assoluto appoggiandosi di preferenza a nuovi ceti arricchitisi con gli appalti di riscossione delle tasse e l'investitura di particolari monopoli, o desiderosi di reperire altre fonti d'entrata al di là dei redditi feudali danneggiati dalla riduzione dei prezzi agricoli. L'incremento dei traffici e dei porti franchi, il miglioramento delle vie di comunicazione, la stipulazione di nuovi trattati commerciali, la promozione di alcune attività manifatturiere, la stessa pressione fiscale con esazioni sempre più in moneta furono alcuni dei mezzi di cui si avvalse C. E. per allargare le competenze della burocrazia statale e creare, insieme, condizioni più propizie ai gruppi economico-sociali interessati a nuovi tipi di investimenti nel commercio, nelle speculazioni finanziarie e nell'industria. Molteplici sforzi vennero fatti per riassettare le vie di comunicazione interne e aprire nuovi itinerari stradali attraverso i passi alpini al fine di incrementare il commercio di transito fra Lione, Genova e Milano, anche se il progetto di perforare il colle di Tenda dimostratosi superiore alle forze disponibili dovette col tempo essere abbandonato. Furono concesse inoltre solide garanzie alla comunità ebraica residente a Nizza per richiamarvi altri correligionari dalle Fiandre, dal Portogallo e dall'Africa settentrionale e ravvivare in tal modo i traffici dell'unico accesso dello Stato sabaudo al Mediterraneo, il cui sviluppo fu anche assicurato dalla riduzione dei dazi di transito, dall'istituzione di una compagnia di assicurazioni marittime e dalla concessione di vari privilegi per liberalizzare gli scambi e lo spaccio delle merci. Ai negoziati intrapresi nel 1667 con il Portogallo per ottenere l'autorizzazione a stabilire propri traffici con il Brasile con gli stessi privilegi della Gran Bretagna, seguì due anni dopo un trattato commerciale con l'Inghilterra, firmato a Firenze nel settembre 1669, per una più proficua valorizzazione dello scalo di Villafranca e di Nizza. Nuove fiere annue vennero istituite in alcuni grossi centri agricoli. Ma C. E. si adoperò, soprattutto, a rafforzare il sistema industriale. Avvantaggiato dall'assenza di grossi centri d'interesse tradizionali o di agguerrite corporazioni artigiane, data l'arretratezza dell'economia piemontese, egli poté far valere in questo campo tutto l'armamentario classico dei principi mercantilistici. Vennero così promosse, per iniziativa del governo e talora con lo stanziamento di fondi pubblici, nuove imprese per la lavorazione della canapa e del lino, del cotone e degli organzini di seta, del ferro, per la fabbricazione di armi e l'estrazione di minerali; furono esentate dai dazi doganali le merci prodotte nel ducato da questi e altri esercizi di nuovo impianto, di contro ai divieti d'esportazione delle materie gregge; vennero offerti vari privilegi a tecnici stranieri che intendessero collaborare alla fondazione di manifatture, e concessioni gratuite d'acqua e di altri beni demaniali a quanti si impegnassero a investire capitali in nuove attività di trasformazione fondiaria e di lavorazione manifatturiera. Una sorta di "Colbert piemontese", il saviglianese Giambattista Truchi (che C. E., elevandolo dai bassi ranghi dell'amministrazione, aveva già impiegato utilmente per "toccare il polso a molti che smoderatamente serano impinguati" grazie all'alienazione di rendite e terre demaniali durante la reggenza) sovrintese direttamente in qualità di "controllore generale delle finanze" a queste e altre iniziative; e continuò ad attendervi anche dopo il maggio 1672 quando riunì nelle sue mani il doppio ufficio di primo presidente e di capo del Consiglio di finanza, col mandato di presiedere l'anno dopo una Camera di commercio che avrebbe dovuto "esaminare e dare esecuzione a tutto ciò che si renderà utile al progresso del commercio e delle manifatture e alla buona regola delle arti e dei mestieri".

A questa politica più audace nel settore economico non corrispose altrettanta apertura in campo culturale e nei rapporti fra Stato e Chiesa. A uno zelo religioso alquanto bigotto e ostentato (risale a quegli anni, fra l'altro, la decisione di dar nuovo lustro alla capitale con la costruzione della cappella della S. Sindone) si accompagnò una occhiuta sorveglianza su ogni manifestazione di pensiero, al punto di limitare anche la diffusione delle opere più ortodosse (come l'Histoire généalogique de la Royale Maison de Savoye del Guielienon) e di tollerare a malapena l'attività di qualche vacua accademia letteraria. D'altra parte, i risultati dei trattati commerciali si rivelarono all'atto pratico meno lusinghieri di quanto ci si aspettava originariamente, e la promozione di attività, mercantili e industriali non riuscì a liquidare tutti gli impedimenti al commercio interno e all'assestamento di nuovi interessi finanziari frapposti dalla sopravvivenza delle vecchie strutture feudali. Tuttavia la politica mercantilistica di C. E. irrobustì l'apparato amministrativo (in grado ormai di reggere il confronto, per di aspetti, con le più celebrate istituzioni burocratiche d'Oltralpe), diede un certo slancio ad un'economia altrimenti statica e ridotta a contare sulle sole risorse agricole a lungo impoverite dalla guerra, e valse in ultima analisi a legittimare le stesse ambizioni espansive dello Stato sabaudo.

Di pari passo con l'incoraggiamento a iniziative industriali nel campo dell'equipaggiamento, nelle miniere, nella lavorazione dei metalli, fu infatti varata una prima radicale riforma dell'ordinamento militare. E, in coincidenza con gli sforzi intrapresi per migliorare uno sbocco eccentrico sul mare come Nizza, separata dalle Alpi (e quindi in posizione disagevole rispetto ai programmi coltivati da C. E. di estensione dei traffici da e per la valle padana), apparve sempre più impellente e giustificata la necessità di assicurarsi un varco sulla Riviera ligure, giacché Oneglia non comunicava con il Piemonte se non attraverso il territorio di Genova. Con un esercito ricostituito sulla base di nuovi reggimenti stabili (alcuni dei quali avevano dato buona prova nelle Fiandre, al seguito delle forze di Luigi XIV), di un buon arsenale con relativo parco di artiglieria e di un'amministrazione militare più efficiente, inquadrata in maniera permanente da commissioni governative incaricate di sovraintendere alle promozioni, al mantenimento della truppa d'ordinanza e ai vari servizi d'approvvigionamento, e con alle spalle una milizia paesana disciplinata dal 1669 secondo regole più rigide e operativamente più valide, sembrò a C. E. che la prospettiva di impadronirsi di Genova o di Savona fosse ormai a portata di mano o comunque di assai più agevole compimento rispetto ai ripetuti e vani tentativi dei primi tre decenni del Seicento.

Dopo che erano falliti i tentativi con la Francia di richiamare in vita alcune clausole del trattato di Cherasco che prevedevano un'eventuale spartizione del territorio di Genova a compenso della cessione di Pinerolo, C. E. cominciò a trattare segretamente nel 1671 con un patrizio genovese, Raffaele Della Torre (rifugiatosi in Francia e poi in Piemonte, perché colpito da una condanna alla pena capitale in seguito ad alcuni misfatti da lui compiuti in Liguria), per sondare la possibilità di una sollevazione interna che rovesciasse il governo della Repubblica e aprisse le porte della città a un intervento delle forze piemontesi. Nello stesso tempo si accinse a mobilitare un forte contingente di uomini che da Ceva scendesse verso il mare per impadronirsi di Savona che si sapeva sguarnita di difese sufficienti a reggere un'offensiva a sorpresa. Ma, come era avvenuto quarantacinque anni prima, al tempo della congiura ordita dal Vachero per conto di Carlo Emanuele I, anche questa volta la trama del Della Torre (sconsigliata a Torino dal vecchio marchese di Pianezza) venne scoperta per tempo dalle autorità della Repubblica e prontamente sventata (24 giugno 1672), quando ancora l'esercito piemontese era in pieno movimento sui difficili passi alle spalle di Savona.

C. E., che s'era votato all'impresa nella speranza di un consenso tacito della Francia per via di parecchi motivi di ostilità accumulati da Luigi XIV contro gli "olandesi d'Italia", e confidando nelle ormai scarse capacità di reazione della Spagna, venne a trovarsi al momento decisivo nel più completo isolamento diplomatico e per di più con un corpo di spedizione che non si dimostrava in grado, per le difficoltà del terreno e la resistenza opposta dalle comunità locali, di concludere in breve tempo il compito che gli era stato affidato. La Francia, impegnata nella mobilitazione contro i Paesi Bassi, era preoccupata di eventuali perturbazioni in Italia; altri principati della penisola non vedevano certo di buon occhio i tentativi d'espansione del ducato sabaudo mentre l'andamento delle operazioni militari (nonostante l'invio, a soccorso del contingente guidato dal vecchio conte Catalano Alfieri, di truppe fresche al comando di Gabriele di Savoia) non prometteva nulla di buono.

Bloccati nella discesa su Savona da un ordine del duca dopo la notizia del fallimento della congiura del Della Torre, ma costretti a peregrinare tre settimane nelle vallate dell'entroterra ligure per coprire (sotto pretesto di unazione di rappresaglia in seguito ad alcune scorrerie della gente del luogo nei vicini villaggi piemontesi) i veri obiettivi della spedizione, i ducali dovettero infine ripiegare su Castelvecchio, e qui, durante un tentativo di sortita per raggiungere Garessio, subire una dura sconfitta (5 ag. 1672) da parte delle truppe genovesi rinforzate da un buon nugolo di corsi. Dieci giorni dopo, stretta d'assedio per mare, e per terra, capitolava anche Oneglia. Sicché fu necessario chiamare a raccolta tutte le forze superstiti per replicare all'offensiva dei Genovesi con un'azione fulminea su Ovada e con la riconquista, quindi, di Oneglia (27 ottobre). Soltanto a questo punto, grazie all'intervento della Francia, fu possibile chiudere dignitosamente un'avventura cominciata male e peggio condotta sul piano militare; unitamente alla reciproca restituzione delle terre occupate, un lodo di Luigi XIV (18 genn. 1673) impose alle parti di rimettere le dispute di confine al giudizio di arbitri scelti di comune accordo.

A nulla valse cercare un capro espiatorio, nella persona del comandante della spedizione Catalano Alfieri (accusato nel dicembre 1673 di tradimento e morto in carcere il 14 sett. 1674 prima della sentenza), e intentare altri processi per fellonia, per giustificare lo smacco subito nell'impresa contro Genova e riparare in qualche modo alla grave menomazione di prestigio in cui era incorso il duca di Savoia. Le polemiche scatenatesi a corte intorno alle singole responsabilità nell'esito sfortunato della guerra contribuirono anzi a dividere ferocemente gli animi e a incrinare la compattezza della classe dominante, anche se paradossalmente proprio l'iniqua persecuzione di alcuni titolati capi militari diede l'impressione che la giustizia non arretrasse neppure di fronte ad esponenti altolocati della grande feudalità e valse a rafforzare il consenso popolare intorno a C. E., già benemerito per le precedenti iniziative con cui aveva eliminato gli abusi più gravi e invisi del periodo della reggenza e revocato feudi e pensioni alla nobiltà e al clero. In realtà, il finanziamento dell'impresa contro Genova e già prima le opere di fortificazione militare e di abbellimento della capitale (in cui si distinsero il Guarini e il Castellamonte) avevano imposto nuovi contributi straordinari (e altri sarebbero seguiti), mentre era stato ripristinato dal settembre 1674 il sistema delle infeudazioni, esteso a tutte le comunità del Piemonte (escluso il territorio di Torino).

La sua fama di sovrano intento ad abbassare il potere delle grandi famiglie aristocratiche e aperto (anche per una certa natura esuberante, l'assiduità negli affari di governo e la sensibilità a certe più schiette tradizioni locali) alle aspettative più elementari dei sudditi, era tuttavia ancora intatta quando venne a morte il 12 giugno 1675 a Torino.

Alla moglie Giovanna Battista di Nemours, reggente per conto del figlio Vittorio Amedeo, C. E. lasciò uno Stato che, se non era riuscito a ingrandire (nonostante il connubio fra il regime di caserma e l'indirizzo mercantilista da lui inaugurato), né ad affrancare in qualche modo dal vassallaggio alla Francia (ma ci sarebbero voluti ben altra tempra e ben altri mezzi, in un periodo dominato oltretutto dalla prepotente personalità di Luigi XIV), egli aveva contribuito in compenso a risanare dal lato finanziario e a rendere in certa misura più moderno con qualche riforma amministrativa e nuove iniziative economiche.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Sezione I, Storia della Casa di Savoia, cat. II, Storiegenerali, mazzo 2 d'addiz.; cat. III, Storie particolari, mazzi 16, 18, 19; Lettere Duchi e Sovrani, C. E. II, mazzo 64; Lettere Ministri Francia, Mazzi 77-79, 81, 83, 85-87, 90, 91, 93-100, 103; Lettere Ministri Spagna, mazzo 26; Negoziazioni Ginevra, catal. I, mazzi 20, 21; cat. VI, mazzo 1; Torino, Bibl. Reale, Misc. Storia patria, V, n. 136; E. Ricotti, Storia della monarchia piemontese, Firenze 1869, VI, passim;G. Claretta, Storia del regno di C. E. II, Genova 1177; D. Carutti, Storia della diplomazia della corte di Savoia, Torino 1879, II, pp. 497 ss.; III, passim;G.Demaria, C. E. II e la congiura di Raffaele della Torre, Novara 1892; C. Salvi, C. E. IIe la guerra contro Genova, Roma 1933; L. Bulferetti, Consideraz. generali sull'assolutismo mercantilistico di C. E. II, Cagliari 1952; Id., Assolutismo e mercantilismo di C. E. II, Torino 1953; Id., La feudalità e il patriziato nel Piemonte di C. E. II, Cagliari 1953; S. J. Woolf, Sviluppo econom. e struttura sociale in Piemonte da Emanuele Filiberto a Carlo Emanuele III, in Nuova Rivista storica, XLVI (1962), pp. 1-57 passim;V.Castronovo, Samuel Guichenon e la storiogr. del Seicento, Torino 1965, pp. 164, 169.

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