CATTANEO, Carlo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 22 (1979)

CATTANEO, Carlo

Ernesto Sestan

Nacque a Milano il 15 giugno 1801, da Melchiorre e da Maria Antonia Sangiorgi già vedova Cighera (Epistolario, IV, p. 260).

La famiglia era scesa nel Milanese nel secolo XVIII dalla Val Brembana bergamasca. Era una famiglia di fittavoli, passata a Milano città dove il padre del C. teneva bottega di orefice. Era così entrato nei ranghi della media borghesia cittadina, ma per il grave carico di famiglia si poteva considerare appena mediocremente agiato. Non erano stati rotti i contatti con la campagna: "Vissuto da fanciullo nelle risaie dei miei vecchi",ricorderà il C. da vecchio egli stesso (Epist., IV, 91), "ionon so di pratica agraria se non quanto ne udii per una lunga tradizione di famiglia da molti anni troncata" (Epist., IV, 227). Qualche po' di terra era rimasta, quand'egli era fanciullo, nella pianura di Casorate e di Pizzabrosa (Epist.,IV, 483).

Iniziò gli studi nel seminario di Lecco, passando poi in quello di Monza; ma dell'istruzione ecclesiastica non gli rimase quasi nulla, se non una buona conoscenza del latino e, forse, qualche duratura amicizia con sacerdoti (Epist., IV, 169). Proseguì gli studi a Milano nel liceo municipale, laico, di S. Alessandro (progenitore dell'attuale liceo Beccaria).

Non si ha notizia né indizi che questo passaggio dal seminario a una scuola laica fosse dovuto o accompagnato da una crisi nella fede tradizionale della famiglia (la quale, per giunta, contava un prete fra i suoi). Ma è probabile che il distacco da quella fede avvenisse proprio in questi anni, senza drammatiche rotture, ma piuttosto per naturale scarsa sensibilità religiosa sul piano psicologico e per una forte presa della razionalità su quello intellettuale. Nel liceo milanese, nel quale gli fu compagno il quasi coetaneo C. Cantù, subì l'influenza dell'insegnante di storia, Giovanbattista De Cristoforis, del quale ricordava "d'avervi per la prima volta aperta la mente all'idea del medioevo e del vasto mondo asiatico e ad altre fonti escluse dal circolo degli antichi studi" (Scr. stor. e geogr.,III,51). Ancora studente liceale, a 18anni, entrava in amicizia col trentenne G. Montani che, reduce dal gruppo dell'allora soppresso Conciliatore, si preparava a passare a Firenze all'Antologia del Vieusseux (Epist.,IV, 101), e che procurava al giovanetto, evidentemente di belle speranze, la conoscenza di altri intellettuali del gruppo, comprendente del resto anche il De Cristoforis.

Compiuti gli studi liceali, fece istanza, nell'estate del 1820, per ottenere uno dei posti gratuiti nel collegio Ghislieri di Pavia, allegando, e forse un po' esagerando, le strettezze economiche della famiglia. Non ebbe la borsa,ma la pensione di studente del legato Cazzaniga (Epist.,IV, 103). che non poté accettare perché implicava la presenza a Pavia, mentre egli aveva necessità di restare a Milano, per aiutare la famiglia o per rendersi economicamente indipendente da essa, il che fa supporre che, effettivamente, le condizioni non fossero floride. Ottenne invece, il 13 nov. 1820, un posto dapprima provvisorio, poi subito stabile,di insegnante nel corso inferiore (di grammatica) e poi superiore (di umanità) nel ginnasio municipale di S. Marta a Milano, e contemporaneamente, su suggerimento dell'amico conte Giacomo Barbò (Epist., IV, 102: "quella tua parola decise della mia vita"), ai corsi universitari di diritto, che G. D. Romagnosi era stato autorizzato ad aprire a Milano, con valore legale, purché lo studente fosse immatricolato all'università di Pavia e vi sostenesse gli esami semestrali. Così, giovane diciannovenne, il C. si trovò ad essere insieme docente e discente.

L'insegnamento nel ginnasio municipale durò 15 anni, fino al 1835,in locali malsani, causa alla tempra gagliarda del C. di disturbi di natura artritica che lo molestarono per il resto della vita. Questa quindecennale esperienza didattica milanese non incise sensibilmente nella sua formazione intellettuale, ma trovò un discepolo che gli rimase fedelissimo per tutta la vita, M. Macchi, e qualche collega, come il poeta Samuele Biava, in difesa del quale sostenne, fra 1832-33,una fiera polemica che fece molto chiasso a Milano; mentre con altri colleghi insegnanti entrò in discordia, mostrando il suo caratterino piuttosto difficile nei rapporti umani. Tutt'altra cosa il discepolato presso il Romagnosi, un discepolato, diremo così, istituzionale di breve durata: dal novembre 1820all'11 giugno 1821,alla quale data il Romagnosi fu arrestato sotto l'accusa di non avere denunziato S. Pellico, che avrebbe voluto aggregarlo alla carboneria. Il discepolato non riprese dopo la scarcerazione del Romagnosi (6 dic. 1821), perché il Romagnosi, per protesta, si rifiutò di riprendere l'insegnamento, né poi, perché il 24 ott. 1822 l'autorità di polizia fece divieto al Romagnosi di tenere corsi privati. Ma non poté impedire che il giovane C. visitasse e frequentasse, da privato, il vecchio maestro, anche se il nome del C. non figura fra le persone indicate dalla polizia quali frequentanti abituali del Romagnosi. Scriveva il C. nel 1843,contro i troppi che vantavano il loro discepolato romagnosiano: "Il fatto si è che tra tutti quelli che scrivono in Italia, io, per singolare caso, sono il solo ed unico che sia veramente stato suo regolare allievo nelle scienze legali. Gli altri erano tutti giovani eleganti che, come è il costume del grosso e pigro paese, finito il corso degli studi, più non pensarono a dottrina alcuna e più non si curarono di lui" (Epist.,I, 425).

Non si sa se il C., dopo questo incidente romagnosiano, frequentasse altri insegnanti privati di Milano o seguisse i corsi pavesi, ciò che sembra poco compatibile con le sue funzioni d'insegnante nel ginnasio con l'obbligo di quattro ore giornaliere. Certo, dette a Pavia regolarmente gli esami semestrali, senza dei quali non avrebbe potuto conseguire la laurea dottorale, che gli fu conferita in giurisprudenza il 19 ag. 1824. Non se ne valse professionalmente; gli servì solo a premettere, come soleva, il titolo accademico al suo nome e cognome, e continuò a fare l'insegnante e, nei suoi beati vent'anni, anche a godersi un poco, moderatamente, la vita, come è adombrato nello scritto Se fossi ricco (Scr. lett.,I, 393-399).

Giovane, prestante, bello, intelligente, ebbe molte ammiratrici ed amiche nella cerchia della sua società borghese: le sorelle Bisi pittrici, la "giardiniera" del Risorgimento Bianca Milesi, ecc.; e a sua volta ammirò e corteggiò, anche con composizioni poetiche, fra il '22 e il '24,la beltà non inespugnabile di Costanza Perticari, la figlia di V. Monti. Strinse amicizia con giovani letterati e non, e anche con giovani aristocratici, come i fratelli Belgioioso, con Ferdinando Grilenzoni, nipote del Romagnosi. L'amicizia col Montani gli procurò la collaborazione, non continuata, nella Antologia del Vieusseux, con una recensione, nel 1822, di un'opera del Romagnosi; quella col ticinese Stefano Franscini, allora maestro di scuola a Milano, ma che negli anni seguenti, nel 1839, sarà il corifeo della rivoluzione democratica nel Canton Ticino, lo inizierà nell'ammirazione delle istituzioni democratiche svizzere e lo faciliterà negli anni dell'esilio. Col Franscini, nel settembre-ottobre 1821, fece una rapida escursione fino a Zurigo. Non è escluso che abbia potuto conoscere lo Stendhal (Epist., I, 383).

L'ambiente suo in questi anni non pare fosse percorso da molti brividi politici. Nemmeno l'amicizia con alcuni giovani titolati lo portò ad avere qualche parte, anche solo di testimone, nella congiura dei cosiddetti Federati, nel 1821, che si era alimentata soprattutto di quei nobili, ma i più di generazione più avanzata, quella dei quarantenni, come il Confalonieri, loro capo. Così, insospettabile agli occhi della polizia, poté, in perfetta buona fede, chiamato a testimoniare, difendere dignitosamente e fermamente il suo Romagnosi. Operosissimo, come fu in tutta la sua vita, alternava in quegli anni giovanili i suoi obblighi didattici con larghissime letture.

Leggeva di tutto, storia, filosofia, economia, linguistica, fisica, chimica, tecnologia, facilitato in ciò dal fatto che un suo parente, Pietro Cighera, era prefetto della Biblioteca Ambrosiana, e un cugino, Gaetano Cattaneo, era conservatore del Gabinetto numismatico di Brera e dell'annessa biblioteca. Tradusse anche in questi anni, con qualche guadagno non disprezzabile per il tempo, adattandoli sotto veste di anonimo alle scuole milanesi, cinque testi scolastici di storia e geografia dal tedesco, che a tutt'oggi non si sono potuti identificare.

Nella scuola però non si sentiva pienamente a suo agio: cercò due volte di uscirne, anche per le condizioni igieniche disastrose nelle quali era costretto ad insegnare: fece, senza successo, domanda per un posto di bibliotecario a Brera (aprile 1826: Epist.,I,17) e un'altra volta, sempre senza successo, per un posto di segretario amministrativo nella Congregazione municipale di Milano (febbraio 1830: Epist., I,21). In questi anni di intensissima preparazione culturale scrisse qualche cosetta, rimasta fino a questi ultimi anni inedita; abbozzò un geniale schema, nel 1824, di un lavoro Della influenza delle invasioni dei barbari sulla favella italica, ma rimase uno schema (Scr. lett., I, 405-410).

Erano anche gli anni della sempre più stretta consuetudine col Romagnosi e dell'influenza su di lui del pensiero romagnosiano, non tanto del pesante, sistematico pensiero giuridico, ma piuttosto del pensiero, si direbbe spicciolo, che il Romagnosi nei suoi ultimi anni veniva profondendo specialmente negli Annali universali di statistica, ove trattava di tutto, di economia, di storia, di diritto, di scienze fisiche e naturali, di tecnica, di geografia. Sono gli stessi interessi enciclopedici che dominano, in questi anni, anche la sete intellettuale del giovane Cattaneo.

Cade anche in questi anni, tramite probabile la Milesi (Scr. lett.,II, 456), l'incontro con una giovine quasi coetanea anglo-irlandese, Anna Woodcock, di educazione e di vita un po' cosmopolitica, con parentado aristocratico internazionale in Inghilterra, in Irlanda, in Francia; venuta, non ricca, in Italia per dimenticare un romantico amore infranto (non quello non corrisposto, pare, che ebbe per lei Augustin Thierry). La giovane si innamora del bel milanese, ed è corrisposta. La parentela si oppone a lungo a una soluzione matrimoniale, considerata, socialmente, una mésaillance, ma alla fine cede e la coppia può contrarre regolare matrimonio a Trieste il 19 ott. 1835. "Mi tacqui per dieci anni; e solo per suo impulso [del Romagnosi] e quasi per suo comando ripresi a scrivere negli Annali di statistica" (Epist., I,425). Veramente, qualche coserella di minor conto il C. aveva pubblicato nella rivista L'Eco e in qualche strenna, e già dal 1828 era entrato in rapporti con l'editore Francesco Lampato di Milano, che pubblicava tutta una serie di periodici, di medicina, di chimica, di giurisprudenza, di economia e di statistica (Greenfield, p. 253), onorati dalla collaborazione del Romagnosi. L'attività pubblicistica continuata del C. comincia nel 1831.

Sono, sul modulo del suo maestro Romagnosi, brevi, talora brevissime notizie, spesso non firmate o firmate con l'iniziale del cognome, sugli argomenti più vari: su questioni urbanistiche milanesi, sul pauperismo (tema toccato anche dal Romagnosi), sui trasporti per mare, per terra, per ferrovia specialmente, sull'agricoltura nostrale e tropicale,sull'istruzione agraria, su scoperte geografiche, su problemi di finanza e di dogane, sulla politica coloniale, sull'India (altro tema romagnosiano), sul giornalismo, sulla Cina, sulle due Americhe, sull'educazione ecc. Sono, per lo più, semplici notizie informative tratte di solito da periodici stranieri, ma non senza che qua e là non trapeli qualche commento od osservazione personale. Ma alcuni di questi scritti hanno sviluppi più ampi, come il saggio sulla questione delle tariffe daziarie negli Stati Uniti (1833), nella quale il C. vede già un insanabile conflitto di interessi fra Nord e Sud, due anni prima che il Tocqueville pubblicasse la sua celebre opera; o quello sulla lega daziaria germanica (cioè lo "Zollverein").

Morto l'8 giugno 1835 il Romagnosi, da lui filialmente assistito fino al sepolcro, ne prosegue ancor più intensamente l'opera negli Annali universali di statistica, oltre che con le consuete notizie, con saggi di più complessa portata: sui prezzi delle sete, sulle finanze del Regno di Napoli, sul progetto della linea ferroviaria Milano-Venezia e Milano-Como; e del Romagnosi difende, con mordace polemica, la memoria contro il Rosmini, che aveva indiziato il Romagnosi di ateismo.

Il 1835 è un po' un anno di svolta nella vita del C., non solo per il matrimonio e per la perdita del Romagnosi, quasi assunzione di nuove responsabilità, ma anche perché il C. lascia l'insegnamento ginnasiale e inizia un'attività di libero giornalista, o piuttosto pubblicista, continuando tuttavia la collaborazione ai periodici dell'editore Lampato. Anzi, nel 1836, si proponeva, insieme con G. Ferrari, pure dell'ultima cova romagnosiana, allora venticinquenne, che doveva esserne il finanziatore e direttore, di pubblicare una rivista di scienze filosofiche e storiche, L'Ateneo;ma il governo negò la licenza (Epist., III, 176). Nella nuova situazione poteva muoversi con una relativa indipendenza economica, non certo per la tenue pensione dopo 15 anni d'insegnamento (non più di 933 lire austriache all'anno) ottenuta dopo lunghi contrasti con l'amministrazione, mentre il suo stipendio era stato di 2000 lire all'anno, abbastanza notevole per quei tempi. Mortogli il padre, aveva assunto la cura dei fratelli e di una sorella e il carico di debiti paterni: proprio nel 1835, poco avanti il matrimonio, si era accollata l'azienda paterna di orefice con un socio, immettendovi un capitale di 15.000 lire (Epist.,I,127). Il matrimonio con la Woodcock, non ricca ereditiera, ma nemmeno nullatenente, lo aiutò ad affrontare la situazione familiare, mettendo a frutto la dote della moglie (circa 90.000 lire: Epist.,I, 391, 394). Ma contro quello che asserirono poi i biografi, il connubio non trascorse sempre senza qualche nube. Già ad un anno dalle nozze, fra il settembre 1836 e il marzo 1838, proprio per la questione della libera disponibilità della dote, i coniugi vennero ai ferri corti: lui parlava addirittura di possibile separazione legale, lei di "infelice matrimonio" e scriveva "dal mio prigione di Spilberg [sic!]" (Epist., I, 395). Si turbarono anche, gravemente, in questo tempo, i rapporti col fratello maggiore Filippo, sempre per questioni di quattrini (Epist., I,127). E tuttavia erano anche gli anni di intensa attività pubblicistica.

Il peso degli Annali di statistica e dell'annesso Bollettino gravava quasi tutto sulle sue spalle: ogni fascicolo è pieno di note, articoletti, ecc. del C.; ed esce anche in altro periodico del Lampato, gli Annali di giurisprudenza pratica, il suolavoro fino a quel momento più complesso e impegnativo, le Ricerche economiche sulle interdizioni imposte dalla legge civile agli Israeliti, scritto in poco più che due mesi, fra la fine del '35e i primi del '36,ma potuto uscire, e amputato di un paragrafo, per le lungaggini della censura, solo nel 1837 (anche se con la data del 1836). Prende lo spunto da una controversia sorta in Isvizzera, nel cantone di Basilea-Campagna, per l'opposizione fatta all'acquisto di proprietà fondiarie da parte di israeliti francesi. È, fra tutti gli scritti del C., quello più filologicamente, si direbbe più scolasticamente, documentato e condotto con rigoroso procedimento logico di stampo ancora romagnosiano, inteso a dimostrare le ragioni non solo di equità ma di opportunità economica ad abolire i divieti e i limiti posti agli israeliti.

Libero dalle cure scolastiche il C., dopo il '35,moltiplica l'attività pubblicistica, con preferenza ai problemi economici, della finanza, dell'industria, delle intraprese ferroviarie e della politica sociale. Vedono la luce in questi anni, sempre ancora negli Annali di statistica, oltre a minori di indole geografica, gli articoli sulla produzione e sul commercio delle sete, con un progetto di istituzione di un Monte delle sete, su vari problemi ferroviari, sulla pubblica beneficenza e, solitario, uno splendido studio, nutrito delle sue letture giovanili, sul Nesso della nazione e della lingua valacca coll'italiana. Ma in fatto di economia e finanza l'attività del C. in questi anni non restava nel campo teorico del progettista, del "suggeritore",come egli amava dire, ma veniva arricchita e, in parte, collaudata dall'attività pratica. Egli si ingolfava, con l'impeto della sua personalità, nel mondo degli affari, acquistava azioni ferroviarie, anche fuori di Lombardia, per es. della Firenze-Livorno (Epist., I, 101) e di altre intraprese del nascente capitalismo milanese (Compagnia del gas di Milano e di Trieste, miniere di lignite nel Veneto), entravacome apprezzato ma non certo comodo segretario, dal settembre 1837 al 21 ag. 1838 (Epist., I, 87-90), nella Sezione lombarda della Società della strada ferrata Venezia-Milano, involgendosi in aspre polemiche circa il tracciato della ferrovia, che egli voleva escludesse Bergamo e contrastando duramente l'ingegnere-capo della costruzione,Giovanni Milani; ciò che gli costò il posto, dal quale dovette dimettersi.

Questa sua instancabile attività di pubblicista e di polemista, e anche di uomo di affari e consulente di affari gli procurò vasta notorietà in Milano e in tutto il Regno lombardo-veneto; e poiché queste sue battaglie furono, in sostanza, disinteressate e ispirate al progresso economico e civile della Lombardia, crearono già in questi anni attorno al suo nome la fama di uomo certo non facile nel commercio umano, intransigente, battagliero, ma anche di uomo quanto competente altrettanto retto. "On me dit que tu as acquis une immense influence commerciale",gli scriveva da Parigi, con la solita enfasi, G. Ferrari (Epist., I, 402).

Intanto anche i rapporti col Lampato si erano fatti difficili fino alla rottura: dalla fine del 1838 il C. non scrisse più negli Annali di statistica né in altri periodici di quell'editore. Si era procurato un periodico tutto suo: il Politecnico.

Veramente, l'idea non era stata tutta sua e nemmeno il titolo, che parve un po' strano. Altri si erano procurati la necessaria licenza governativa per la pubblicazione del nuovo periodico: il padre Ottavio Ferrario, farmacista-capo dell'ospedale dei Fatebenefratelli e chiaro studioso di chimica, e il prof. G. B. Menini, al quale risaliva la paternità del titolo (Epist., I, 94). IlC.sopravvenne come terzo comproprietario, in realtà come vero proprietario e direttore, in quanto esonerava gli altri due da ogni rischio di perdita e assicurava a ciascun di loro una somma annua fissa. Anche verso il tipografo Luigi Pirola era il C. che si assumeva ogni responsabilità (Epist.,I, 405-409).

Nei quarantuno fascicoli della prima serie del Politecnico (1839-1844) profuse il meglio della sua attività in questo quinquennio. I temi sono quelli già toccati negli Annali, ma altri nuovi se ne aggiungono. Di carattere letterario, come le recensioni, talora veri e propri studi, del Lorenzino de' Medici del Revere, della Vita di Dante del Balbo, del Romancero del Cid, del Don Carlos diSchiller nella versione del Maffei, la stroncatura di Fede ebellezza del Tommaseo; di storia, quali Della milizia antica e moderna aproposito di un lavoro di Andrea Zambelli; Della conquista dell'Inghilterra pei Normanni, a proposito della traduzione italiana della celebre opera di A. Thierry; Dell'evo antico traendo lo spunto da un corso di storia universale di Heinrich Leo; Della Sardegna antica e moderna; Di alcuni stati moderni, a proposito di un volume di Cristoforo Negri; e dopo la polemica col Rosmini, di filosofia: sulla Scienza nuova di Vico a proposito dell'opera di G. Ferrari Vico et l'Italie;sulla filosofia della storia sempre a proposito del Ferrari; di architettura e di urbanistica, di pittura, di geografia, di demografia, di chimica, di agricoltura, di zoologia; della allora vulgatissima frenologia; di problemi dell'istruzione, di ragioneria, di banca, di moneta, di pubblica beneficenza e di pauperismo, di emigrazioni interne, di riforma penale e carceraria; perfino di pubblici macelli, ecc. ecc.; riprendendo gli studi di linguistica, il saggio Sulprincipio istorico delle lingue europee e Sulla lingua e le leggi dei Celti;e nel campo dell'economia, lo studio penetrante Dell'economia nazionale di Federico List, oltre alle importanti, acute prefazioni ad ognuno dei sette volumi del Politecnico, e infinite altre brevi note sugli argomenti più vari, e tuttavia tutte condotte, sia pure con un intento di alta divulgazione, con precisa conoscenza.

I più dei quarantuno fascicoli del Politecnico sono usciti, per tre quarti e più, dalla sua penna veramente prodigiosa, e tanto più prodigiosa se si pensi che tutto questo lavoro non lo distoglieva dall'attività nel campo della finanza. La serietà dei suoi scritti, il non raro piglio polemico lo facevano rispettato e anche un poco temuto. Il Politecnico,anche se non tanto diffuso quanto il C. avrebbe sperato (se ne tiravano 500 copie; gli associati, nel 1843, erano 390; Epist., I, 149),era guardato con considerazione in tutt'Italia: il Vieusseux ebbe, nel 1840,l'idea, presto dimessa, di farne una imitazione in Toscana (Epist., I, 102).

La notorietà e la stima che circondavano il C. ebbero un pubblico riconoscimento, cui egli teneva molto: la nomina, per risoluzione imperiale del 21 genn. 1843, a membro dell'Istituto lombardo-veneto, la più alta e ufficiale istituzione accademica del Regno, ricostituita nel 1838 (Epist., I,126).

Non fu una cosa facile: "La mia nomina era stata proposta più volte nelle terne dell'Istituto, ma sempre scartata, finché nel 1843, essendo annunciato il Congresso degli scienziati per il '44, i membri proposero tre terne, in ognuna delle quali io ero compreso e così forzarono la mano al governo" (Epist., III, 465). "In principio del 1848, per volontà dei colleghi e per franchigia dell'Istituto, io fui ammesso ad una pensione vacante" (ibid.).

Dal 1845 è anche segretario-relatore della Società d'incoraggiamento delle arti e dei mestieri, promossa fino dal 1841 dal munifico tedesco-ambrosiano Enrico Mylius.

Intanto, i rapporti con lo stampatore si erano fatti tesi e il C. sentiva la fatica di tenere tutto sulle sue spalle il peso del Politecnico. Così il periodico finì col quarantunesimo fascicolo del 1844, non completando nemmeno l'annata VII (sarà completata solo nel 1860, col fascicolo quarantaduesimo). Il bilancio era stato, in definitiva, positivo, anche sul piano finanziario. Ma già dall'aprile 1843 il C. era preso da un'altra iniziativa, che, veramente, sarebbe stata conciliabile col lavoro del Politecnico:aveva aderito a un'idea lanciata primamente dai fratelli conti Alessandro e Carlo Porro di offrire a coloro che nell'estate del '44 sarebbero convenuti a Milano per il Congresso degli scienziati non una semplice guida, come si era fatto in analoga occasione, altrove, per i precedenti congressi, ma una illustrazione della città, che il C. volle subito estesa a tutta la Lombardia, una illustrazione che presentasse la regione sotto tutti gli aspetti naturali e civili. Il C. dovette lottare contro l'inerzia e la malavoglia dell'amministrazione comunale e specialmente del suo podestà G. Casati, che inizialmente parve disposto ad assumere l'iniziativa. Finì che se l'assunse tutta il C., che per l'apertura del Congresso riuscì a presentare il grosso volume di Notizie naturali e civili su la Lombardia, unico uscito fra quelli programmati, nel quale, in mezzo a contributi di altri, brilla lo scritto omonimo del C., uno degli scritti in cui il suo genio storico arriva ad attingere le vette più alte.

Ponendo fine al Politecnico, non era certo intenzione del C. di abbandonare l'attività pubblicistica: voleva solo liberarsi dall'onere della direzione e della quasi intera compilazione di una rivista. Strinse subito intese con C. Tenca per la collaborazione, già dal 1845, alla Rivista europea, che il Tenca dirigeva. E infatti, nel corso del 1845, pubblicava in quella rivista alcuni scritti di indole precipuamente geografica sul Messico, e principale quello Dell'India antica e moderna. Negli stessi anni 1846-47 raccoglieva poi in tre grossi volumi intitolati Alcuni scritti il meglio e il più importante della sua multiforme produzione, ripartendola fra "Letteratura" (I), "Frammenti di storia universale" (II) e "Filosofia civile" (III). Inoltre, nel Giornale ufficiale dell'Istituto lombardo, che aveva assorbito in sé la Biblioteca italiana, pubblicava, nel 1847, D'alcune istituzioni agrarie dell'Alta Italia applicabili a sollievo dell'Irlanda. Comunque, nel triennio 1845-48 il ritmo pubblicistico del C., anche se non subisce una sosta, è meno impetuoso, quasi meno travolgente che negli anni del Politecnico.

Nel 1846, a distogliernelo, erano intervenute gravi,sgradevolissime complicazioni col fratello ingegnere Giuseppe, che si era impelagato in infelici speculazioni finanziarie, nelle quali lasciò qualche penna anche il C. con capitali propri e della moglie; onde un nuovo momento, come già dieci anni prima, di crisi nella vita coniugale. Fu superata anche questa. Ma a parte queste nubi passeggere, il tono sociale del suo ménage doveva essere piuttosto elevato: ricordandolo, molti anni dopo, nel 1862, nell'esilio, e rifiutando un trasloco a Milano, sottolineava: "Ma in una gran città io non potrei lasciar trovare questa donna dai suoi parenti (ministri, Pari e ambasciatori) in un quartino da professore e in men gentile apparenza ch'ella avesse prima del 1848, quando il nostro focolare era il convegno degli amici e di quelli che, nemici fra loro dappertutto, si adattavano a parere amici in casa mia" (Epist.,IV, 92 e n. 1). Insomma, un salotto di intellettuali italiani e stranieri di buona borghesia, con cameriere e cuoco. Abitudinario e sedentario per natura, il C. si era lasciato andare, nell'autunno del 1842, perfino a un breve viaggio in Toscana (Scr. lett.,I, 11 ed Epist., II, 424) in occasione della morte a Livorno della suocera.

Lo occuparono anche in questi anni le annuali relazioni, lette alla presenza del viceré arciduca Ranieri, in occasione della distribuzione dei premi della Società di incoraggiamento d'arti e mestieri (15 maggio 1845, 18 giugno 1846, 27 maggio 1847), per la quale scrisse anche un progetto per la istituzione di un grande stabilimento di agricoltura. Le relazioni sono molto interessanti anche come documentazione dell'atteggiamento politico del C. in questi anni. Pur con i richiami agli augusti nomi del Beccaria, del Volta, del Romagnosi, glorie lombarde, l'omaggio all'arciduca protettore della Società, al governatore, al nuovo arcivescovo Romilli, non sono soltanto un non evitabile atto cerimoniale, ma una espressione di non ancora perduta fiducia nella collaborazione con i governanti (Scr. polit., III, 356 s. e Scr. econ., III, 3,12 s., 29).

Questi scritti dello scorcio del '47 non fanno ancora presentire ciò che bolle in pentola: sono pieni di ottimismo sull'avvenire operoso, progressivo della Lombardia. Solo in una lettera del 19 nov. 1847 si accenna alle "circonstances politiques devenant plus graves de semaine en semaine" (Epist., I,220). Ma nessun accenno alle infatuazioni neoguelfe del momento, da cui il C. rimase assolutamente immune, sempre. Una certa tensione, tuttavia, risulta dal fatto che, alla fine di maggio 1847, il C. si rifiuta di leggere un discorso che la censura avrebbe voluto esaminare preliminarmente (Scr. stor. e geogr., IV, 21-22 e 347) nell'occasione di un ricevimento in onore dell'illustre economista e uomo politico inglese Richard Cobden. Nello stesso tempo un alto burocrate austriaco confessava al C. che "il governo riconosceva la materiale impossibilità di continuare quel suo sistema; ma che era ben malagevole il dire per qual via si potesse uscirne fuori". E il C. commentava: "Perciò sono persuaso che stava a noi di trovargliela e di fargliene precetto, atteggiandoci ad un'esigenza ragionata, misurata, inesorabile" (Scr. stor., IV, 22).

Il 18 dic. 1847 perfino la di solito prona Congregazione centrale della Lombardia si faceva coraggio con la mozione del deputato G. G. Nazari. E nei primi giorni del seguente gennaio il C., relatore di una commissione dell'Istituto lombardo per redigere su invito del governo un rapporto sull'insegnamento e sulla stampa, nel quale il C. insisteva particolarmente sulla istituzione di corpi militari lombardi (Scr. stor.,IV,36), è proposto dalla polizia per il confino a Lubiana insieme con i patrioti conosciuti come più agitati. Solo l'intervento del Mylius presso l'arciduca Ranieri ottenne la sospensione del provvedimento (Epist., IV, 63). Eppure egli è contrario a una insurrezione, per la disparità delle forze: disarmata la popolazione, armatissimo l'esercito austriaco, il C. pensava che "chi amava la patria doveva arretrarsi a quel pensiero e rivolgere la mente a meno incerti e meno disastrosi disegni". Considerato lo stato fallimentare delle finanze austriache, l'esercito si sarebbe smembrato, il governo austriaco avrebbe dovuto fare ricorso alle finanze lombarde assai più floride: "Ci saremmo dunque avviati alla libertà per una serie di franchigie, come accadde in Inghilterra e altrove... Ciò posto, bastava tenere i nostri nemici nel duro e spinoso campo della legalità; poiché la violenza e la guerra ci avrebbe in quella vece consegnati alla prepotenza militare porgendo al nemico un altro modo di vivere a nostre spese" (Scr. stor., IV, 20-21).

I fatti si svolsero altrimenti. Giunta la notizia, il 17 marzo 1848, che il governo di Vienna, per imposizione popolare, aveva il 14 concesso la libertà di stampa, il C. decise sull'istante di iniziare l'indomani la pubblicazione di un giornale, col titolo significativo Il Cisalpino, e ne stese l'articolo inaugurale, che non sarà pubblicato perché gli avvenimenti presero altra via. Ma l'articolo è ugualmente molto sintomatico e si riassume, secondo lo stesso C., in questo: "Armi e libertà per tutte le nazioni dell'impero, ognuno entro i suoi confini, e i soldati italiani al servizio degli italiani" (Scr. stor., IV, 39).

Non è affatto un appello di guerra contro l'Austria rigenerata dalla recente rivoluzione, e tanto meno un appello alla dissoluzione della monarchia asburgica, né al distacco da essa, né al programma di una unità politica italiana. È un appello alla trasformazione dell'Austria in uno Stato federale con istituzioni liberali, anche meglio specificato in un abbozzo di articolo dello stesso tempo (Epist.,I, 444-466).Ma gli avvenimenti prendono la mano anche al C., il quale, per sua confessione, la mattina del 18 marzo "homme de paix... j'avais supplié mes jeunes amis de n'en rien faire, mais de commencer par tirer parti de la liberté de la presse et des autres concessions qu'on venait de nous octroyer" (Epist., I,242). Ma visto con sorpresa che l'insurrezione popolare si era scatenata, resisteva ed aveva probabilità di vittoria, ritornava sui suoi pensieri, vedeva che sul momento la necessità prima era di dare una guida unitaria alla insurrezione.

Confessava, nel 1850, riandando a quel momento: "Avevo sempre atteso a cose più alla mano e più pronte a friggere. Se mi avvolsi nel diavolezzo dei cinque giorni, fu per lo sdegno che mi fece la dappocaggine dei maggiorenti e dei loro barbieri e perché mi vi tirò per i panni quel buttafuori di Cernuschi e mi mise in punto di fare l'eroe per 48 ore" (Epist., II, 39).All'alba del 18 marzo, richiesto di consiglio da amici, non persuaso che ci fosse una preparazione armata né un comitato organizzatore, sconsigliava ancora ogni gesto inconsulto.

Rotti oramai gli indugi, il C. suggeriva che il quartier generale degli insorti passasse nel meglio difendibile palazzo Taverna. Alla proposta altrui di un governo provvisorio, contrapponeva quella, accettata, di un Consiglio di guerra, indicando i nomi dei componenti, del quale fu il vero animatore.

Si deve a lui se furono imposti ordine e disciplina; se fu risparmiata la vita al Bolza, sgherro della polizia; se furono trattati cavallerescamente gli ufficiali austriaci prigionieri. Emanò proclami per rincuorare i combattenti, rifiutò contro il parere della municipalità un armistizio di 15 giorni fatto chiedere dal Radetzky e poi un altro di 3 giorni invocato dai consoli stranieri (ma su questo punto dei due rifiuti, che presenta il C. come il vero capo anche politico e, in definitiva, colui che portò a fondo vittoriosa l'insurrezione popolare, ci furono in anni molto più tardi e nel clima non sereno di una lotta elettorale, delle contestazioni, intese, soprattutto da parte di L. Torelli, testimone e partecipe, a limitare la parte esclusiva del C.: Epist.,IV, 455 n. 1). Il C. si oppose nel Consiglio di guerra a una votazione dei cittadini per invocare l'intervento di Carlo Alberto, e alle insistenze del conte E. Martini, emissario del re sabaudo e mediatore, perché a lui fosse fatta la dedizione della città insorta, si oppose con la famosa lettera da lui dettata: "Se il Piemonte accorre generosamente, avrà la gratitudine dei generosi d'ogni opinione.

La parola gratitudine è la sola che possa fare tacere la parola repubblica" (Scr. stor., IV, 75).

All'alba del 22 marzo il Consiglio di guerra, assolto il suo compito, trapassò in un Comitato di guerra, inteso come una specie di ministero della Guerra alle dipendenze del governo provvisorio. Così "il Consiglio di guerra visse solo quarantott'ore" (Scr. stor.,IV, 80). Il C. entrò nel nuovo Comitato non come presidente, che fu il conte P. Litta, ma come membro e sia pure autorevole. E non ebbe a compiacersene, secondo ricordava molti anni dopo: "Dei miei tre compagni uno, Giulio Terzaghi, non si curava; l'altro, Giorgio Clerici, non era buono da nulla e allora era fatto comandante della Guardia nazionale; l'altro, Cernuschi, era inviso ai mazziniani Ceroni, Pezzotti e Correnti" (Epist.,IV, 10).

Tuttavia, anche nel Comitato di guerra la sua azione personale è rilevante: ancora nella giornata del 22 comanda una puntata verso porta Ticinese, tenuta ancora dal nemico; provvede alle operazioni intese a sbarazzare le zone fra Lodi, Cremona e Crema e a istituire a Cremona un Comitato di guerra; si oppone a una eccessiva burocratizzazione dei comandi militari e alle resistenze dei vecchi generali all'utilizzazione di volontari, anzi spinge i volontari di Manara e gli svizzeri di Arcioni a intercettare le vie dal Tirolo; provvede di carte geografiche lo Stato maggiore piemontese che ne era, inspiegabilmente, privo.

Vistosi continuamente intralciato dal governo provvisorio filo-piemontese, il 31 marzo 1848, insieme con gli altri tre membri del Comitato di guerra, dava le dimissioni. Dirigeva un appello agli Ungheresi e dopo dodici giorni di vita pubblica, gli unici della sua vita, tornava a vita privata. Riprendeva la sua attività di pubblicista. L'articolo pubblicato nell'Italiadel popolo del 3 luglio è notevolissimo, un'esaltazione della parte avuta nell'insurrezione dalle classi popolari milanesi, statistiche alla mano (Scr. polit., II, 426-429). Il 30 aprile ci fu un incontro con Mazzini, che si rassegnava, per amor di concordia, ad accettare la guerra regia. Fu chiesta al C. la sua collaborazione per abbattere il governo provvisorio, proclamare la Repubblica e invocare l'intervento armato francese. Non si intesero. Corsero, nell'agitazione degli animi, parole atroci e ingiuste. Il C. aveva avuto dal Governo provvisorio offerte di uffici: segretario generale alla Guerra, consigliere alla Pubblica Istruzione, redattore del giornale ufficiale, inviato straordinario a Londra. Rifiutò tutto (Epist., I, 246). A sua insaputa il suo nome fu fatto da quegli estremisti repubblicani che il 29 maggio tentarono di abbattere il Governo provvisorio, moderato e filosabaudo (Epist., I,252 s.). Pochi giorni dopo il C. già pensava di andare, da privato, all'estero e chiedeva il passaporto (Epist., I, 255). Quando già, nel luglio, le sorti della guerra regia volgevano al disastro, si incontrò (27 luglio) con Garibaldi e fu nominato commissario di guerra per Lecco, Bergamo e Brescia per tentare in quei luoghi e sulle Alpi l'estrema resistenza. Un suo piano, datato da Bergamo il 5 ag. 1848, prevede nelle valli bergamasche, a ridosso del confine svizzero, un'azione continuata, ad oltranza, di guerriglia (Epist., I,267-270). La sconfitta e il ritiro delle truppe piemontesi la resero ineffettuabile. Il C., con la moglie sofferente, riparava a Lugano, dove si era costituita, con la partecipazione di Mazzini, di Garibaldi, di altri, una Giunta d'insurrezione nazionale italiana, la quale il 9 agosto, inviava il C. a Parigi con la missione di invocare presso il ministro degli Esteri Jules Bastide l'intervento della Repubblica francese contro gli Austriaci. Il C. giungeva a Parigi "delirante di sdegno" il 16 agosto (Epist., II, 103). Salvo un attimo di speranza ai primi di settembre (Epist., I, 280), capì ben presto che non c'era da cavarci nulla: gli uomini politici e l'opinione pubblica francesi erano malissimo informati. Ebbe relazione con politici "d'ogni opinione: Cavaignac, Cintrat, Mignet, Thierry, Larochejacquelin, Drouin-de-Lhuys ecc. Chi mi palesò animo più propenso e ospitale si fu Lamartine; e meglio intendere le cose d'Italia mi parve Quinet" (Scr. stor., IV, 4). Si chiuse in casa e buttò giù affrettatamente, col cuore in tumulto e in non buone condizioni di salute, il pamphlet L'insurrection de Milan en 1848, che il 22 sett. era già in corso di stampa (Epist., I, 290), ridotto a un quarto della prima redazione sulle mille pagine (Epist., I,294 s.). Uscì il 25 ottobre. Il 1º novembre il C. era di nuovo a Lugano, subito impegnato nel redigere una versione italiana della Insurrection, che infatti uscì, notevolmente ampliata ("molto aggiunsi, nulla tolsi": Scr. stor., IV, 6) il 31 genn. 1849 (Epist., I, 312).

Tanto la redazione francese, di cui furono fatte riproduzioni abusive e che fu sequestrata in Piemonte dal governo democratico, quanto la redazione italiana, poterono circolare liberamente nella Lombardia tornata austriaca, fino alla rotta di Novara. Il governo austriaco ritenne più profittevole a lui le veementi pagine sulle viltà dei maggiorenti moderati sabaudisti milanesi e sulle perfidie carloalbertine ispirate, secondo il C., a interessi monarchici non nazionali, che non perniciose a lui quelle antiaustriache. "La predica è buona e non ne muterei nemmeno una virgola" ribadiva il C. tredici anni dopo (Epist.,IV, 113).

A fine febbraio 1849 pubblicava, anonimo, un mordace manifesto contro il Gioberti (Scr. polit., II, 429-441). Rifiuta qualunque ufficio offertogli: di deputato a Genova, a Torino, in Toscana, e di ministro delle Finanze della Repubblica romana. Per le precarie condizioni di salute della moglie dismette l'idea di stabilirsi in Francia o in Inghilterra: rimarrà a Castagnola presso Lugano, in una modesta casetta fra il verde. Nel settembre 1849 comincia ad attuare un'idea lanciata dal Dall'Ongaro, di un Archiviotriennale delle cose d'Italia, cioè una raccolta di documenti relativi al triennio 1847-1849, divisata in una trentina di volumi, rimasta incompiuta, a tre. La difficile raccolta del materiale, che poi avrebbe dovuto essere conservato in una sorta di archivio-museo, lo tenne occupato nei primi anni dell'esilio, ticinese, trascorso anche in strettezze finanziarie ("ridotto allo stretto necessario": Epist., II, 48), complicate dalla morte del fratello Giuseppe nell'agosto 1850 (Epist., II, 36). Dava il suo consiglio e la sua opera per la collocazione di un prestito nazionale italiano, di schietta impronta mazziniana, ma esprimendo scetticismo sulla possibilità di una ripresa, alla spicciolata, della lotta armata contro i governi e suggerendo invece una intensa opera di propaganda con gli scritti. Fu la ragione, nel settembre 1850, del suo distacco da Mazzini (Epist.,II, 44-48). Il primo volume dell'Archiviotriennale uscivanel settembre 1850, con una importante appendice di Considerazioni sulle cose d'Italia nel 1848, il secondo nell'agosto 1851 (Epist., II, 80), mentre il C. veniva occupandosi anche di altre cose: di un progetto di ferrovia a cavalli fra Sesto Calende e Tornavento (Lonate Pozzuolo); di un progetto di bonifica del piano di Magadino presso Locarno; della stampa delle Carte segrete della polizia austriaca; della collocazione dello scritto del Pisacane Guerra combattuta inItalia negli anni 1848-49. Egli fu in questi anni al centro della vasta attività della Tipografia Elvetica di Capolago, a poche miglia da Lugano, come consigliere e promotore, pur fra mille difficoltà, specie dopo l'arresto e l'uccisione di L. Dottesio, il diffusore clandestino delle edizioni in Lombardia e in Piemonte. Il colpo di Stato napoleonico del 2 dic. 1851 fu interpretato dal C. in senso positivo, nel senso cioè che le ambizioni napoleoniche in Italia avrebbero rotto la situazionestagnante dopo il fallimento del '48-49 (Epist., II,137-141).

Il C. godeva di grande autorità nel Cantone, non solo per le relazioni personali che teneva con le figure eminenti del partito liberale-democratico allora al potere (alcune, come quelle col Franscini, risalenti alla prima giovinezza), ma anche per la accreditata fama di uomo di studi, specialmente in materie economiche, ma non solo in queste. A ciò si deve, se egli, invitato, presentò nell'aprile 1852 un vasto piano per la riforma dell'insegnamento secondario nel Cantone, che fu fatto proprio dal governo e pubblicato nel giornale ufficiale cantonale. Proprio in relazione a ciò, egli veniva, il 20 ott. 1852, nominato professore di filosofia e direttore (ma a questa carica rinunziò subito) del neo istituito liceo di Lugano, nel quale e in altre scuole del Cantone egli riusciva a dare un pane anche ad altri proscritti italiani, anche non federalisti come lui, quali Giovanni Cantoni, il Bellerio fratello della Sidoli, ecc. (Epist., II, 187,192). Nel novembre 1852 teneva la prolusione al suo corso di filosofia (Scr. filos., I, 10-26) che provocava larghi commenti, non tutti favorevoli, per il suo dichiarato laicismo.

I rapporti fra i mazziniani "unitari" e i cattaneani "federalisti" si erano inaspriti: i fatti milanesi del 6 febbr. 1853, con il conseguente atteggiamento minaccioso dell'Austria, che pretendeva l'espulsione dal Cantone degli esuli italiani e che giungeva fino ad un blocco economico, durato fino all'aprile 1855, resero delicata la posizione del C., benché non ci fosse nessuna esplicita richiesta di bando contro di lui e contro gli altri insegnanti italiani; ma i non molto numerosi suoi seguaci furono assurdamente accusati dai mazziniani di essere stati essi i denunciatori dei compromessi nei fatti del 6 febbraio. Soffiavano poi nel fuoco i clericali-conservatori ticinesi contro i liberali-democratici che, ostensibilmente, proteggevano gli emigrati. Intanto il C. collaborava con personalità del governo ticinese per progetti di legge sulle miniere, sulle assicurazioni, ecc.; entrava anche in speranze di speculazioni, in intraprese di bonifiche e di ferrovie. Dietro le quinte, come consigliere (e non poteva di più in quanto forestiero e cittadino soltanto onorario del Cantone) il C. ebbe anche parte, nell'ottobre 1854, nelle lotte politiche cantonali e fu in prima linea nel sostenere il laicismo pedagogico nell'aspra polemica che si accese nel 1855 nelle aule stesse del suo liceo contro le mene della parte clericale-reazionaria.

Tutto ciò spiega come la sua attività letteraria abbia subito un po' una sosta negli anni 1852-53, benché tempo non poco spendesse in intraprese che non videro mai la luce, quali i primi volumi di una ristampa dei muratoriani Rerum Italicarum Scriptores. Egli, ovviamente, seguiva col massimo interesse anche dal Canton Ticino gli avvenimenti politici: la crisi di Oriente, la partecipazione piemontese alla guerra di Crimea, ma soprattutto seguiva la politica di Napoleone III, nella convinzione che le cose italiane potessero prendere un altro corso per qualche iniziativa politica del secondo Impero. Nel 1855 incomincia la collaborazione al Crepuscolo del Tenca ("il miglior giornale d'Italia": Epist.,II, 326) col saggio sul Thierry del Terzo Stato e sul Kalevala e finalmente, dopo una sosta prolungata, esce ai primi del 1855, ma in una tipografia di Chieri, il terzo e ultimo volume dell'Archiviotriennale.

Gli avvenimenti del 1859, di poco preceduti dal suo geniale studio sulla città italiana, lo mettono in molto imbarazzo: vede operata dal non amato Piemonte e senza partecipazione di popolo, quella liberazione della Lombardia che egli aveva visto e secondato undici anni prima, ma per opera del popolo lombardo. Già il 23 giugno, prima ancora della conclusione delle operazioni militari, il Cantù lo invita a tornare a Milano; ma per il momento non si muove. Pensa di riprendere il Politecnico, principalmente come organo di critica alla politica cavouriana. Il Cavour lo ripaga di pari moneta: con acredine si oppone alla nomina del C. a segretario dell'Istituto lombardo, gli nega perfino gli arretrati di pensione che gli spettavano per gli undici anni passati in esilio (Epist., III, 465). "In verità la rivoluzione e il trionfo di questa brava gente, mi sono costati 150.000 franchi" concludeva malinconicamente nel marzo 1861 (Epist.,III, 472). Il C. segue con trepida simpatia la spedizione dei Mille. Invitato a Napoli a collaborare con Garibaldi nelle ambagie della costituzione di un nuovo governo, vi risiede per un mese, dal 21 sett. al 18 ott. 1860; ma nauseato e impotente di fronte alla lotta serrata che si combattevano attorno al dittatore le fazioni filopiemontese e autonomista e di fronte alla disorganizzazione che, per colpa dei cavouriani, mandava i volontari alla battaglia con due cartucce a testa (Epist., III, 467), abbandona la città, più che mai risoluto a non avere parte nell'azione politica, e torna al suo romitaggio di Castagnola.

Il 21 genn. 1861 rifiuta la cattedra che gli veniva offerta all'Accademia scientifico-letteraria (università) di Milano, con uno stipendio annuo di 8.000 lire. Ètutto preso dalla nuova serie del Politecnico, alla quale molto fatica per ridare il tono e il valore della prima serie.

Voleva che il periodico pubblicasse "cose serie, ma non troppo pesanti a leggersi, perché il Politecnico non può essere una raccolta speciale e riservata a pochi lettori" (Epist.,IV, 69). Ilnuovo Politecnico era osteggiato dai cavouriani, che fecero togliere abbonamenti alla rivista "nelle pubbliche biblioteche e presso molti privati di Milano" (Epist., III, 467).Ma già nel febbraio 1861,si rabbuia perché, in fatto di progetti ferroviari, il Politecnico segue "un ordine di idee che non è mio e che in molti punti contrasta con molti impegni già presi da me e dai miei amici" (Epist., III, 468).D'altra parte, si difende dall'accusa rivolta al Politecnico di non essere tecnico, di essere troppo pieno di filosofia e di letteratura (Epist., III, 485). "Mispiace molto anche l'invettiva del signor Loy contro il dottor Castoldi. Altra volta i collaboratori del Politecnico non divertivano il pubblico col darsi fra loro delle legnate come i signori Vera e Loy" (Epist., IV, 97 s.).

In questo primo anno di ripresa del Politecnico la sua attività pubblicistica è frenetica. Scrive di tutto: di filosofia (sull'uomo nello spazio e sull'uomo nel tempo, sull'uomo nell'ordine, sulla formazione dei sistemi), di economia (sui disastri dell'Irlanda nel 1846-47,sul credito personale e il credito reale); di politica dei trasporti (sulla ferrovia di Como, sulla ferrovia per La Spezia, sulle ferrovie transalpine e in particolare su quella del Gottardo); di storia militare e di questioni militari; di linguistica; di storia e di geografia (sul Giappone, sull'Asia Minore e sulla Siria, sugli antichi Messicani); su questioni politiche del momento (su Nizza e Savoia, sulla Sardegna); sulla politica amministrativa del nuovo regno; sulla politica scolastica; sulla pena di morte; di storia letteraria (su Foscolo e l'Italia); e dà in Italia la prima notizia sull'opera del Darwin sull'origine della specie. E insieme trova il tempo per ripubblicare, introducendovi anche qualche modificazione, sotto il titolo di Memorie di economia pubblica, un primo volume, il solo pubblicato per le difficoltà poste dall'editore Sanvito (Epist., III, 470), raccogliente i suoi scritti più importanti sulla materia dal 1833 al 1860. Quanto a fecondità di scritti siamo ritornati al C. del 1839 e anni seguenti. Questa febbrile attività prosegue fino al 1865,via via attenuandosi tuttavia negli ultimi anni. Continua la stessa straordinaria versatilità sui temi più diversi.

Per limitarci ai più importanti, non si possono non rammentare i saggi sulla Cina antica e moderna, sul pensiero come principio di economia pubblica, sulle questioni del Trentino, di Trieste, dell'Istria, sulla poesia del Mickiewicz, sui nuovi ordinamenti militari italiani che vorrebbe sulla base della nazione armata, sulle origini italiche, sull'antico Egitto, sul riordinamento degli studi scientifici in Italia, sull'industria moderna, sull'Argentina, ancora sulla Sardegna, sul confine orientale d'Italia, sui Lusiadi di Camões, sul Lassalle, sul romanzo femminile, sull'opera storica di G. Ferrari, sui dazi suburbani, perfino sul tifo dei bovini.

Nel luglio 1862 il ministro dell'Istruzione Matteucci lo vorrebbe professore a Milano, anche a costo di "fare sole dodici lezioni in un anno" (Epist.,IV, 64). Rifiuta. Poco dopo, nell'agosto 1862, redige, per le insistenze del Bertani e contro voglia, protestando che "è il contrario delle mie idee" (Epist., IV, 67) un appello alla nazione francese (Scr. polit., IV, 216) in nome di 500 associazioni politiche di ogni parte d'Italia, al fine di indurre Napoleone III a non opporsi a una spedizione di Garibaldi su Roma, che è quella che porta ad Aspromonte.

All'indomani dello scontro scrive scoraggiato: "Son codesti piemontesi così accecati da non veder dove vanno? Io son vecchio abbastanza per potervi dire che in tre anni hanno fatto più viaggio che i tedeschi non ne fecero in trenta; poiché solo dal 1814 al 1847 io non ho mai visto le baionette al petto dei cittadini, mai, mai" (Epist., IV, 72 s.) e vede come epilogo della situazione caotica, in cui "Napoli spogliata di ogni lustro paventa il re vecchio, bestemmia il re nuovo, non crede alla repubblica e dispera della monarchia",la costituzione dell'Unità italiana attraverso il cesarismo napoleonico. Profezia, evidentemente, che non tiene conto della situazione generale europea, ma espressione di uno stato d'animo di disperazione e della tenace idea cattaneana di vedere, tendenzialmente, nel cesarismo di Napoleone III una reduplicazione del primo.

Non ci pensava a stabilirsi a Milano, un po' per la salute sempre cagionevole della moglie, alla quale il clima del lago di Lugano conferiva. E poi "qui l'affitto mi costa non più di duecento franchi all'anno e la bellezza e salubrità del luogo scusa tutto" (Epist.,IV, 92). Già alla fine del '61 sente una certa stanchezza morale: "È la vita senza piaceri e senza speranze. Solo il continuo lavoro mi allontana i pensieri tetri e mi conserva l'aspetto naturalmente gioviale; ma di dentro sono morto" (Epist., III, 585).E infatti il lavoro inesausto continua su ogni sorta di problemi sui quali, mentore alla nazione, egli crede necessario o utile di far sentire il suo parere.

Una novità, relativa novità, perché raccoglie pensieri che hanno una lunga incubazione e che risalgono al sodalizio romagnosiano e alla sua attività didattica del liceo milanese, è la pubblicazione di scritti di filosofia: a cominciare da quello Del pensiero come principio d'economia pubblica, che è del 1861, per continuare con le letture fatte all'Istituto lombardo Dell'antitesi come metodo di psicologia sociale, Della sensazione, Dell'analisi come operazione nelle menti associate, tutte pubblicate, tranne l'ultima, anche nel Politecnico, oltre che negli Atti dell'Istituto. Èanche di questi anni lo studio Del diritto e della morale, e degli anni del suo insegnamento le lezioni di cosmologia, psicologia, ideologia, logica, pubblicate postume.

Il C. continuò a scrivere sul suo Politecnico fino al '65, ma concedendosi qualche evasione in altri periodici e giornali, quali Il Diritto del suo amico A. Lemmi e la Rivista contemporanea diretta da L. Chiala.

Certo all'origine di questo suo disamorarsi alla sua creatura era la difficoltà dei suoi rapporti con l'editore Daelli. La rivista, economicamente, andava bene: aveva 1.200 abbonati nel 1862 (Epist.,IV, 100 n. 1) e 1.400 l'anno dopo (Epist.,IV, 162), secondo un'asserzione del C., di valore tuttavia discutibile, perché in altra lettera (Epist.,IV, 184) ammetteva: "non conosco il numero degli abbonati". Ma dal febbraio 1862 i rapporti col Daelli si fecero sempre più tesi, specialmente per la formulazione del contratto; nel dicembre del '62 la controversia fu rimessa nelle mani di arbitri, A. Bertani e M. Macchi, amicissimi del C.(Epist., IV, 106, 110). Egli temeva che la rivista cadesse in mani ministeriali (Epist.,IV, 120, 127 s.). "Oramai credo inevitabile che diventi del tutto bottega, come ogni altra cosa in Italia, dall'altare al trono" (Epist., IV, 122). Nel settembre 1863 si apre addirittura una causa civile (Epist., IV, 167). La vertenza si concludeva nel dicembre 1863, per cui al C. restava la proprietà del terzo degli utili, detratte le spese di redazione,stampa e amministrazione (Epist.,IV, 184), ma non la effettiva direzione della rivista (Epist.,IV, 187), benché continuasse a pubblicarvi le cose sue.

Rispetto agli avvenimenti interni ed esteri che si svolsero nel decennio 1859-1869non mancarono i commenti del C., ma in modo discontinuo e con strani silenzi su non pochi di essi: nessuno, ad esempio, sulla guerra di secessione degli Stati Uniti così ammirati da lui negli anni precedenti, e che avrebbe dovuto scuotere la sua fede federalistica. La sua partecipazione di fatto alla vita politica italiana fu scarsa e discontinua anch'essa: nelle elezioni del marzo 1860fu eletto deputato nel V collegio di Milano, nel I di Cremona e in quello di Sarnico, dopo una furiosa battaglia attorno al suo nome a Milano, per cui finì con l'accettare esplicitamente le tre candidature (Epist., III, 306,451)più che altro "per corrispondere debitamente a quanti mi avevano spontaneamente difeso dalle brutture della stampa servile" (Epist., III, 447). Ma una volta eletto non andò mai al Parlamento di Torino: "eletto io non potei far di più che serbare la promessa fin da principio offerta di scrivere sulle questioni parlamentari" (Epist., III, 447). Crede di essere più utile alla sua causa con l'azione pubblicistica che non con l'azione parlamentare (definita "la commedia del parlamento", Epist., III, 469). Si rifiutò, per quanto sollecitato, di porre la sua candidatura alle successive elezioni del 27 genn. 1861 (Epist., III, 438, 446n. 2, 447, 450);e così pure rifiutò per le elezioni dell'ottobre 1865 (Epist.,IV, 346, 451).Ma finì con l'accettare per le elezioni del marzo 1867 e fu eletto, ma non con larghissima maggioranza, nel primo collegio di Milano, che era stato di Cavour (Epist., IV, 455).Andò a Firenze, in tre riprese, nella primavera e nell'autunno del '67,ma non pose piede in Parlamento. Anche la sua vita nel romitorio di Castagnola e a Lugano era sensibilmente mutata: il 28 ott. 1865 siera dimesso dal posto di professore nel liceo di Lugano (Epist.,IV, 355).

La ragione era stata questa: per la questione della ferrovia del Gottardo aveva avuto in pubblico un violento diverbio con l'avvocato Luigi Maria Pioda, un'eminente personalità del Canton Ticino e in quel tempo titolare della più alta carica cantonale, quella di presidente del Consiglio di Stato. Vani furono i tentativi per convincere il C. a ritirare le dimissioni, a giungere a un compromesso, difficile del resto anche per l'autorità cantonale.

Il C. trascorse da privato a Castagnola gli ultimi tre anni o poco più della sua esistenza circondato dal rispetto e dalla stima dei Ticinesi; ma sempre più isolato, nonostante qualche frequente visita a Milano e anche, come si è detto, a Firenze. Già cagionevole di salute negli ultimi anni, affetto da vizio cardiaco, assistito dalla moglie e dal Bertani che era medico, non, come è stato detto, dal Mazzini che in quei giorni giaceva pure lui malato a Lugano, perse la conoscenza il 31 gennaio; trapassò nelle prime ore della mattina del 5 febbr. 1869(Epist.,IV, 644).Pochi mesi dopo, il 25 ott. 1869, lo seguiva nella tomba Anna Woodcock, la compagna della sua vita.

Considerate la vastità e la varietà della produzione cattaneana, non è facile ricondurla a un pensiero unitario centrale. Tuttavia, due pensieri sembrano dominare la mente del C.: il rifiuto di ogni metafisica; l'idea e la fede nel progresso. L'insegnamento filosofico d'impronta sensistica era tradizionale nelle scuole, anche ecclesiastiche, della seconda metà del '700 in Italia (Epist.,III, 75). Anche il C. ne fu preso. È probabile che muovesse di lì il suo fedele, spesso ripetuto apprezzamento del condillacchiano ginevrino Charles Bonnet (a un "negletto pensiero del quale" attribuisce addirittura lo spunto della Genesi del diritto penale di Romagnosi: Scr. polit., I, 412-22) e lo portasse ad esaltare, con manifesta esagerazione, "l'ultima metà del secolo XVIII" come il "secondo secolo d'oro per l'Italia". Ma la sua cultura filosofica è, sostanzialmente, di seconda mano e riecheggia motivi diffusi nella cultura del tempo: poche o punto letture dirette di testi filosofici, anche dei più ricordati, Bacone, Locke, Vico; avversione per ogni logomachia sui temi, a parer suo, vacui e inconcludenti, di ogni impostazione idealistica del pensiero filosofico, bollati da lui col termine spregiativo di "braminici",come relitti di pensiero non molto distante e diverso da quello magico, che i tempi moderni hanno superato o dovrebbero superare, per rivolgersi ai problemi della vita associata, non a quelli dell'uomo separato dalla società, come avevano fatto e facevano i metafisici. La sua filosofia, come ha detto N. Bobbio con felice espressione, è una "filosofia militante",uno strumento per operare sulla società e contribuire a migliorarla; nella quale opera "l'uomo nel soddisfacimento dei suoi vasti desideri non ha altra guida che l'esperienza e la ragione",come diceva nel suo primo scritto a stampa, nel 1822, recensendo un'opera del suo Romagnosi (Scr. filos.,I, 7). Egli ne aveva, in sostanza, assorbito il sensismo (per quanto rifiutasse il termine) che il Romagnosi si portava dietro dal secolo precedente; ma epurato da tutto il faticoso apparato deduttivo sistematico che aduggia molte delle opere del maestro e applicato ai problemi concreti che la vita presenta. I problemi metafisici, comunque proposti e risolti, non hanno valore agli occhi del C., anzi sono devianti e ritardanti nello studio (egli dice l'analisi) delle difficoltà che via via si oppongono nella vita degli uomini in quanto stretti in società. Il C. lascia intendere che le metafisicherie sono uno spasso e un perditempo individuale, apprezzabile, al più, come la poesia, anch'essa opera di fantasia. Perciò egli riprende e prosegue l'ultimo Romagnosi, quello delle note, informazioni, suggerimenti negli Annali di statistica, assai meno - se non nei presupposti generali sensistici - quello delle massicce opere teoriche. Solo negli anni posteriori al 1852, per la sua professione di docente liceale di filosofia e dopo il 1859, dopo il rientro nell'Istituto lombardo (ma qui veramente nessuno l'avrebbe tenuto a dissertare proprio in cose filosofiche) cercò di sistemare speculativamente le idee che, sparsamente e senza connessione organica, avevano presieduto alla sua attività di poligrafo, ed ora esponeva secondo la tradizionale quadripartizione scolastica.

Si può lasciare ingoluta la questione se il C. fosse o non fosse un positivista o addirittura il primo banditore del positivismo in Italia, su una linea che andrebbe da Romagnosi attraverso Cattaneo ad Ardigò. Pare certa, nonostante alcune evidenti affinità, la sua indipendenza da Comte e da Spencer, che non sono mai da lui citati. Rifiutava la storia della filosofia e in particolare l'eclettismo di Cousin, che era stato superato dalla fase attuale del pensiero scientifico e che poteva avere al più un interesse meramente erudito. Respinge Platone, respinge Spinoza, come responsabili del ripetuto risorgere di teorie trascendentali; e anche Aristotele non trova grazia ai suoi occhi perché gli imputa, come inventore del sillogismo, di avere contribuito al decadere della filosofia sperimentale nel Medioevo. Indipendentemente da Condorcet, ricordato solo fuggevolmente in anni tardi (Scr. polit.,IV, 398), aveva tratto dallo sviluppo della scienza, da Francesco Bacone in poi, l'idea del progresso indefinito del genere umano, non affatto rettilineo, ma deviato da ostacoli e da momentanei arretramenti,rifiutando il pessimismo di Machiavelli e di Vico (i "tristi sistemi di decadimento": Scr. polit.,IV, 398), che questo progresso negavano con l'idea di un movimento ciclico che ritorna sulle posizioni di partenza. Il pensiero filosofico del C. si presenta sostanzialmente già compiuto nelle polemiche del 1836-37 prima col Subalpino poi direttamente col Rosmini trascinatesi poi fino al 1842. Èribadito il rifiuto delle idee innate, del resto già negate dal sensismo; ribadita l'adesione a un "sistema progressivo" fondato su studi di economia e di statistica (Scr. filos.,I, 20 s.), al culto della realtà. Circa l'idea del progresso indefinito, è probabile che il C. l'avesse fatta propria sulla scia del Romagnosi di Che cosa è l'incivilimento, che è del 1832. Il C. la sviluppa largamente nel corso luganese di vent'anni dopo, nella parte Ideologia delle genti (Scr. filos.,III, 3-216, specialmente pp. 214 s.). Per il C. condizione del progresso è il contrasto di idee e di situazioni, il quale contrasto, per essere efficace e rompere un sistema retrogrado, ha bisogno della libertà ed essere guidato da principi razionali, laddove quelli irrazionali non fanno che rafforzare i sistemi retrogradi o riportare ad essi. Il C. amò chiamarsi soprattutto economista (oltre che ideologo, cioè filosofo). E infatti la sua genialità si manifesta largamente nel campo dell'economia, sia teorica che applicata. Nel primo campo emergono i due scritti Del pensiero come principio di economia pubblica e Dell'economia nazionale di Federico List. Entrambi rispondono bene al pensiero anche filosofico del C., in quanto che egli attribuisce al pensiero un ruolo determinante in ogni azione umana; il pensiero è un fattore della produzione alla pari col capitale, col lavoro, ecc. Nuove concezioni religiose, artistiche, morali, giuridiche, nonché le scoperte di nuove materie e fonti di energia, di macchine, di metodi organizzativi danno l'impronta decisiva all'attività economica. Altrettanto coerente col suo pensiero filosofico e politico è la recisa affermazione del liberismo economico, la condanna di ogni privilegio e di ogni nazionalismo economico, con il corollario dell'auspicio di vaste unioni doganali. Queste idee trovano applicazione negli scritti su problemi e situazioni reali, quali sulle istituzioni agrarie in Alta Italia, in Sardegna, in Irlanda, in Inghilterra, sulla politica doganale e commerciale, sul credito, soprattutto a sovvenzione del commercio delle sete e, non ultimi, sulle ferrovie e i trasporti in genere, fra i quali eccellono i numerosi scritti sulle linee ferroviarie nuove, in costruzione o in progetto, il problema del secolo, si direbbe, a cui erano fortemente interessati capitalisti, industriali, commercianti. In tali questioni il criterio direttivo del C. fu che i tracciati delle nuove linee dovevano ispirarsi a ragioni di ordine economico, allacciare centri di produzione e di scambio che garantissero la convenienza economica della linea. Di qui, attraverso una battaglia lunghissima e dura, la preferenza alla linea per il Gottardo, diretta ad unire la Lombardia principalmente con l'Europa nordoccidentale renana, rispetto a quella, da altri tenacemente sostenuta, per il passo del Lucomagno, diretta invece verso il lago di Costanza. Carattere economico, oltre che storico-giuridico, ha il celebre scritto sulle Interdizioni israelitiche, che sottolinea, sì, le ragioni di equità e di giustizia, in definitiva di libertà, in rapporto agli ebrei, ma non meno quelle di convenienza pratica, economica.

Dai problemi economici a quelli sociali era breve il passo. Il C., da buon borghese ambrosiano, ha un culto della proprietà: "Giova tenere viva nei popoli la certezza che la proprietà acquistata a lettera di legge è inviolabile; altrimenti incertezze, confusione e scemamento di cambi e di utili transazioni" (Scr. econ., I, 62); e coerentemente respinge con energia il socialismo proudhoniano "quell'odioso detto: La proprieté c'est le vol" (Scr. econ., III, 342s.) e il comunismo "tratto fuori da obliato sepolcro",il quale "demolirebbe la ricchezza senza riparare alla povertà, e sopprimendo fra gli uomini l'eredità e per conseguenza la famiglia, ricaccerebbe il lavorante nell'abiezione degli antichi schiavi, senza natali, senza onore" (Scr. filos.,I, 260 s.). Questo nel 1844 a quattr'anni dal Manifesto. Ma vedeva come "una grande speranza d'Italia" le società operaie (Scr. polit., III, 123).per le quali, nel 1864, preparò un progetto di regolamento (Scr. polit., IV, 412 ss.), pur facendo osservare che "i nomi che vi sono firmati sono quasi tutti di avvocati, dottori e professori" (Epist., IV, 195).Ma aveva meno fiducia nel senso politico delle masse contadine e deplorava che nel '48fossero state chiamate a votare per la fusione col Regno (Scr. stor.,IV, 152).

"Je suis économiste et idéologue de mon métier et je n'ai point de penchant et très peu de temps pour la politique" (Epist.,III, 66) scriveva nell'agosto 1858 al cognato A. Brénier, diplomatico di professione; ciò che non impedì che il C. di politica si occupasse, continuatamente, almeno negli ultimi vent'anni e più della sua vita. I suoi modelli politici furono la Svizzera e gli Stati Uniti d'America. Egli auspica "il giorno che l'Europa potesse, per consenso repentino, farsi tutta simile alla Svizzera, tutta simile all'America, quel giorno ch'ella si iscrivesse in fronte: Stati Uniti d'Europa" (Scr. stor., II, 178 s.), esalta "la poderosa semplicità di quella associazione del mondo americano, nella quale è sempre identico l'interesse delle parti e del tutto" (Scr. stor., I, 273 s.). Per lui il sistema federale non soltanto discende da tutta la storia d'Italia, ma è l'unico che possa garantire l'esercizio della libertà, contro le tendenze sopraffattrici centralistiche e burocratiche. "La formula degli Stati uniti o Regni uniti" (infatti non esclude nemmeno, luglio e settembre 1860, una federazione degli ex Stati italiani: cfr. lettera al Crispi, "la mia formula è Stati uniti, se volete Regni uniti": Epist., III, 373 e anche 268) "è in Italia l'unica possibile forma di unità e di durevole amicizia e di pratica e soda libertà; essa esprime la sola possibile armonia delle libere forze" (Scr. polit.,IV, 94), mentre condanna "il modello chinese, il principio dell'onnipotenza e onniscienza ministeriale, che per una scala infinita di incaricati discende a regolare le faccende dell'ultimo casale del regno e dell'ultima capanna delle colonie" (Scr. stor., I, 285). "Io guardo alle immani unità viventi, alla Francia, alla Spagna, alla Russia, alla China: vedo che la libertà o non può nascere o non può vivere, o risuscitata il mattino, ripiomba nella fossa la sera" (Epist., III, 441); e in altra lettera (Epist., IV, 52): "Vedete ch'io sono federale anche nei miei studi; perché questa è la sola forma di unità che sia possibile con la libertà, con la spontaneità, con la natura. D'una unità chinese o russa o francese nulla m'importa" (Una lucida esposizione del suo federalismo anche in lettera al Bertani del 1862: Epist.,IV, 56). Ai suoi occhi, un reggimento federale è anche quello che dà maggior garanzia di pace internazionale (Scr. stor., II, 419) e maggior nerbo militare alla nazione. "Il nostro ideale è una nazione tutta, fino dalla prima gioventù, ammaestrata e pronta sempre alle armi" (Scr. polit.,IV, 110), perché "l'armamento nazionale ha in sé un principio di moralità eminente; poiché, mentre è irresoluto e inefficace alle guerre ambiziose e invasive, è tanto più poderoso nelle guerre d'incolpabile difesa" (Scr. polit.,IV, 67) ed anche più economico (Scr. econ.,III, 368 e Scr. polit.,IV, 65). Perciò avrebbe voluto che un insegnamento militare fosse impartito già nelle scuole e nell'università (Scr. polit.,IV, 109 s.; e Epist., III, 536). Respingeva l'idea che uno Stato unitario fosse militarmente più forte che uno Stato federale: "L'Italia si è innamorata dell'unità, perché crede sia la forza. E se nell'unità si sente crocifissa, si rassegna, perché crede che il martirio la condurrà in paradiso" (Epist., III, 518). Alla vigilia della guerra del '59 vuole togliere ogni illusione a coloro che ritenevano, intanto, si dovesse lasciar fare alla monarchia, salvo poi a istituire una Repubblica, unitaria o federale, a guerra vinta (Epist., III, 132 ss.). Ma alla fine del '59 suggeriva, fantasiosamente, al Bertani: "Arrischiate, accettate, rifate a voto universale le quattro assemblee [subalpina, lombarda, emiliana, toscana]; poi fate un Congresso federale in Roma - Stati Uniti d'Italia; e avete un modello bello e grande e tutte le questioni già sciolte dall'esempio e dalla pratica di ottant'anni" con allusione al modello statunitense (Epist., III, 231). Lo Stato federale che egli sognava doveva essere articolato non in regioni, ma in Stati, risultanti dagli ex Stati italiani, più Sicilia e Sardegna: "Diciamo stati e non regioni" (Scr. polit.,IV, 111). Si tratta di "coordinare la vera e attuale vita legislativa degli stati italiani a un principio di progresso comune e nazionale. Tutto ciò che dev'essere comune deve essere assolutamente e altamente progressivo... Ma la vita legislativa dei vari regni non può rimanere interamente e violentemente soppressa" (Scr. polit., IV, 78). Anche nelle istituzioni comunali, la massima libertà: "assicurare la più libera diffusione del diritto municipale su tutta la superficie dell'Italia" (Scr. polit.,IV, 439). Un Parlamento centrale,che egli chiama congresso, doveva occuparsi solo dei problemi generali; ma per il resto "ogni fratello padrone in casa sua. Quando ogni fratello ha casa sua, le cognate non fanno liti" (Epist.,III, 373).

Gli interessi cattaneani per la linguistica non pare abbiano connessione con gli insegnamenti romagnosiani; pare più probabile che accompagnino gli interessi genericamente letterari del C. nella prima gioventù e anche qualche suo esperimento poetico in quegli anni, e risentano forse delle discussioni di allora fra puristi e non puristi, e rientrino anche in una sua curiosa riforma ortografica, fino ad un certo segno anche applicata nei suoi scritti, e che dà preferenza alle ragioni etimologiche su quelle di pronunzia. Ècerto, ad ogni modo, che questi interessi linguistici non andarono oltre il tempo del primo Politecnico. Pare che soprattutto si riconnettano con gli interessi storici del C. per i mondi quasi mitici delle origini, impregnati di sacralismo magico, e per il nascere, comporsi e scomporsi di popoli e nazioni. Già il ricordato schema di lavoro del 1824,lavoro che non compirà mai, ma che si ricollega con gli scritti suoi più geniali in questo campo: Nesso della nazione e della lingua valacca con l'italiana e Sul principio istorico delle lingue europee, precorre (Timpanaro) certe idee poi fatte proprie dai glottologi, quali la netta distinzione fra affinità linguistica e affinità razziale, l'opposizione alla teoria del poligenismo linguistico, la teoria del sostrato, idea che G. I. Ascoli, dapprima contrario e riservato, finirà con l'adottare.

Ma la mente del C. era, più propriamente, mente di storico; non c'è, si può dire, scritto suo di qualche ampiezza che non sia permeato di senso storico, del senso del nascere, dello svilupparsi, del trasfondersi in forme nuove. Poco deve il C. al suo Romagnosi nella concezione della storia: è romagnosiana, anche se non soltanto tale, l'idea di un'età delle potenti caste sacerdotali, tramite necessario dell'incivilimento. Ma il più gli viene dai suoi liberi studi di linguistica, dalla lettura degli storici romantici, dal senso del moto vitale che percorre tutte le sue pagine storiche e rende il suo stile così vibrante, spesso intimamente drammatico. C'è una certa predilezione per le storie o preistorie dei popoli nelle loro fasi più antiche, nei loro primi passi faticosi sul cammino della civiltà e per forme desuete di civiltà, morte o moribonde, lontane dalla civiltà europea. Il C. vede nella storia una funzione educativa e morale, in quanto mette sotto gli occhi la potenza dell'intelletto come forza civilizzatrice (allo stesso modo che nell'economia), intesa a comporre in unità e cospirante verso un fine arcano di progresso anche ciò che appare al primo sguardo incoerente e in perpetuo irragionevole antagonismo. Perciò è rivalutato anche il Medioevo, solitamente un ostacolo per i ricostruttori di uno sviluppo progressivo della società. L'ufficio utile, pratico della storia, da lui sottolineato, sarebbe dovuto al fatto che la storia è scienza, non, almeno principalmente, arte. Questo sforzo di scientificità è particolarmente visibile nei quadri storici dedicati a regioni italiane (Lombardia, Sardegna) e a paesi lontani (India, Cina, Giappone, Messico). Sono tutti costruiti secondo un modulo comune: una descrizione fisico-geografica, dalla quale si trapassa quasi insensibilmente alla storia degli uomini; ciò che gli dà modo di mostrare come l'intelligenza e la volontà umane sappiano reagire a quei dati naturali, costruendo su di essi una propria civiltà: quasi un'anticipazione della nota moderna teoria del Toynbee. Gli avvenimenti quarantotteschi dettero indubbiamente una scossa anche alla storiografia del C.: si fa più impregnata di politica e meno di etnografia e di antropologia, e questo non soltanto nella Insurrezione di Milano, pamphlet storico-politico fra i più appassionati e tuttavia più sostanzialmente veridici che annoverano le lettere italiane. Il suo federalismo si accentua e si travasa nelle concezioni storiche: il saggio La città considerata come principio ideale della istoria italiana è la giustificazione, in sede storica, del federalismo politico cattaneano, come le Notizie naturali e civili sulla Lombardia sono espressione del suo milanesismo, un inno alla funzione storica di Milano, che trova polemica applicazione nella sua ardente ribellione anche solo all'idea che Milano potesse sottostare alla Torino dei re sabaudi, dei gesuiti, dei generali ignoranti, dei codici arretrati.

La straordinaria versatilità, dalla speculazione filosofica alla tecnica, gli acquisì l'estimazione sorpresa dei più dei contemporanei, ma non sempre, anzi di rado, l'accoglimento nella pratica delle sue proposte, dei suoi suggerimenti. Si formò attorno a lui la fama di uomo di altissimo ingegno, di sterminata cultura, ma con scarsa presa sulla realtà: evidente paradosso per un uomo che tutta la vita non aveva fatto altro che insistere sul reale. La quasi generale condanna del suo federalismo politico, del suo proporre "un'Italia in pillole",si ripercosse, ingiustamente, come giudizio perentorio di inattuabilità di altre sue idee. Gli ideali repubblicani non morivano con lui, ma vivevano nella visione unitaria mazziniana, minimamente in quella federalistica cattaneana. Nella coscienza della sua superiorità intellettuale, non disgiunta talora da una punta di orgoglio, egli sentì questo isolamento, senza farne un dramma, anzi, non senza il compiacimento un po' amaro, ma imperterrito, dell'uomo che sa e crede di avere ragione contro tutti, anche contro chi gli era più vicino. "Le opinioni proclamate dagli amici miei ben rare volte sono le mie" affermava nel 1864 (Epist., IV, 234). I fedeli ammiratori del C., i Bertani, i Mario, i Rosa, più tardi i Ghisieri, i cattaneani di stretta osservanza si riducevano a una esigua pattuglia alla fine del secolo. Il fenomeno C. sembrava oramai concluso, senza un'eco attuale, ridotto a una chiesuola di pochi fedeli. Anche il C. prosatore potente non trovava collocazione nella storia letteraria. Il ritorno della sua fortuna, la riproposta dei suoi problemi accompagna le due crisi più gravi dell'Italia unita: quelle successive alle due guerre mondiali. Si è risentita allora l'attualità dei temi proposti dal C. e si è scoperto in lui uno dei pochi grandi italiani del secolo scorso che ebbero statura veramente europea e moderna.

Opere. Dopo la raccolta in 7 voll. di Opere edite e inedite, a cura di A. Bertani, Firenze 1881-1892 e in 3 voll. di Scritti politici eepistolario, a cura di G. Rosa-J. White Mario, Firenze 1892-1901, è uscita quella, qui utilizzata, a cura del Comitato italo-svizzero: Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, a cura di A. Levi, I-II, Firenze 1948 (non è una nuova ediz.: utilizza la vecchia edizione a cura di A. Bertani, cui sono aggiunte alcune Appendici); Scritti economici, a cura di A. Bertolino, I-III, Firenze 1956; Scritti storici e geografici, a cura di G. Salvemini-E. Sestan, Firenze 1957 (il IV volume utilizza) per la parte riproducente il testo ital. della Insurrezione di Milano, una edizione non sempre corretta, del 1949); Scritti filosofici, a cura di N. Bobbio, I-III, Firenze 1960; Scritti politici, a cura di M. Boneschi, I-IV, Firenze 1964. Per le lettere: Epistolario, a cura di R. Caddeo, I-IV, Firenze 1949-1956. Uno dei migliori conoscitori del C., L. Ambrosoli, ha intrapreso la pubblicazione di Tutte le opere di C. C. (è uscito finora il vol. IV: Scritti dal1848 al 1852, Milano 1967). Per i manoscritti si veda il Catal. delle carte di C. C., conservate nelle Raccolte stor. del Comune diMilano, Milano 1957. Esistono varie antologie degli scritti del C.: Scritti storici, letterari, linguistici, economici, a cura di C. Romussi, Milano 1898; Il pensiero di C. C., a cura di G. Salvemini, Milano 1922, con importante introduzione; Opere di G. D. Romagnosi, C. C., G. Ferrari, a cura di E. Sestan, Milano-Napoli 1957, con introduzione e note; Opere scelte, a cura di D. Castelnuovo Frigessi, I-IV, Torino 1972, con ampia introduzione e note; Scritti filosofici letterari e vari, a cura di F. Alessio, Firenze 1957. Si tenga conto che il problema della raccolta degli scritti del C. presenta notevoli difficoltà per l'abitudine sua, spesso, di non firmare o solo con le iniziali, specie nella collaborazione agli Annali universali di statistica e al Politecnico. Ètuttora preziosa la bibliografia in appendice ad A. Levi, Il positivismo polit. di C. C., Bari 1928, pp. 141-195. Utile l'articolo di S. La Salvia, Gli studi su C. negli ultimi venti anni, in Rassegna storica del Risorgimento, LVI (1969), pp. 557-75; indispensabile l'accurato volume di G. Armani, Gli scritti di C. C. Saggio di una bibliografia: 1836-1972, Pisa 1973. Di singoli scritti o di gruppi di scritti sul C., specialmente di scritti storici e politici, vi sono ristampe moderne (per es. a cura di C. Spellanzon, di G. A. Belloni, di M. Fubini, di G. Titta-Rosa, di P. Rossi, di G. Perticone, di E. Mazzali, di L. Ambrosoli, di G. Galasso, di C. G. Lacaita, di A. Saloni, di G. Gazzari, di G. Anceschi e G. Armani, ecc., tutte con introduzioni spesso importanti).

Fonti e Bibl.: Delle biografie si ricordano G. Rosa, Commemoraz. di C. C. letta nell'adunanza dell'11 nov. 1869, in Rend. del R. Ist. lomb. di sc. e lettere, s. 2, II (1869), 2 (riprod. in C. C., Scritti politici ed epistolario, cit., I, pp. 11-39); A. Mario, Cattaneo, in Teste e figure, Padova 1877, pp. 375-483; A. Mario-J. White Mario, C. C. Cenni e reminiscenze, Roma 1884; E. Zanoni, C. C. nella vita e nelle opere, Roma 1898; E. Rota, C. C.,in Nuova Riv. stor., III (1919), pp. 229-31; F. U. Saffiotti, C. C., Roma 1922; A. Monti, C. C.,Milano 1937; M. Borsa, C. C., Milano 1945; B. M. Frabotta, C. C.,Lugano 1969. Per fasi e momenti della sua vita: A. Monti, C. C. studente in seminario, in Humanitas. Miscell. stor. dei seminari milanesi, I (1929), pp. 112-116; E. Sestan, C. giovane, in Europa settecentesca ed altri saggi, Milano-Napoli 1951, pp. 209-242; L. Ambrosoli, La formaz. di C. C.,con appendice di scritti ined. o diment., Milano-Napoli 1960; A. 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