Carisma

Enciclopedia delle scienze sociali (1991)

Carisma

Luciano Cavalli

La teoria del carisma

Il concetto

Il concetto di carisma è stato introdotto nelle scienze sociali da Max Weber, che lo ha ripreso dalla tradizione cristiana e dagli studi sul cristianesimo di Rudolf Sohm e di Karl Holl. 'Carisma' deriva dal greco χάϱιϚ (grazia), ed è stato usato dall'apostolo Paolo per indicare i doni della grazia divina concessi ai singoli fedeli per il bene della comunità protocristiana (Prima lettera ai Corinzi). Tra gli altri, Paolo annoverava il carisma del governo delle comunità cristiane locali. In un suo libro del 1892, Kirchenrecht, Sohm aveva ripreso il concetto in polemica con la Chiesa cattolica, rilevando che l'originaria comunità cristiana (ἐϰϰλησία) aveva un'organizzazione non giuridica, ma carismatica: ossia, l'autorità era considerata un dono della grazia, e come tale era esercitata dai capi e ubbidita volontariamente dal resto della comunità. Holl invece era l'autore di Enthusiasmus und Bussgewalt beim griechischen Mönchtum (1898), uno studio in cui da una parte veniva acutamente approfondito il concetto dell'autorità come carisma, studiando il cenobio, mentre dall'altra, nella riflessione sugli anacoreti, si sviluppava il concetto del portatore di carisma come uomo della crisi e guida degli uomini comuni.

Sohm e Holl hanno probabilmente influenzato Weber più di quanto questi ne fosse consapevole, come si vede anche da un confronto terminologico. Tuttavia Weber ha elaborato i loro suggerimenti in modo indipendente, tenendo anche conto di credenze analoghe a quella cristiana presso altre culture. Egli cita, per esempio, l'idea di mana, diffusa fra i Polinesiani, e quella di orenda, propria degli Irochesi. Tutte le "forze straordinarie" cui ci si riferisce con questi e altri termini presso diverse culture, Weber delibera di designarle con una sola parola, carisma, come egli stesso dichiara in Wirtschaft und Gesellschaft (1922).

Weber ritorna più volte su questo concetto nell'opera citata e anche in altri scritti, abbozzando varie definizioni più articolate, senza peraltro lasciarcene nessuna che possa essere considerata esauriente e aproblematica, quindi definitiva. Credo si possa dire, parafrasando la sua più celebre definizione, che carisma indica il (presunto) possesso, da parte di una personalità psicofisica, di poteri straordinari, cioè non concessi agli uomini comuni, o concessi solo in misura tanto inferiore da stabilire una differenza qualitativa. Al concetto di carisma si collega quello di dominazione carismatica, fondata cioè sull'attribuzione al leader di quei poteri straordinari. A giudicare dalle sue definizioni, Weber sembra ritenere che l'attribuzione di poteri straordinari a un uomo debba comportare ipso facto anche il riconoscimento di questi come leader da parte di coloro che quei poteri gli attribuiscono. Al contrario, tale riconoscimento richiede evidentemente dei presupposti psicologici e socioculturali, che cercheremo di precisare nei capitoli successivi. Fin d'ora si deve invece precisare che il carisma, e la leadership che ne deriva, possono manifestarsi in sfere diverse della vita umana e dentro gruppi sociali per molti rispetti differenti. Dotati di carisma non sono soltanto i grandi eroi, i profeti e i redentori. Possono esserlo anche il capo-stregone del villaggio, il fondatore di una setta, il capo di una banda di pirati, o anche l'intellettuale circondato di devoti discepoli. Il concetto di carisma è avalutativo, come Weber ci rammenta.

Il processo

Nelle pagine di Wirtschaft und Gesellschaft dedicate al carisma Weber offre, oltre ai tentativi di definizione di cui si è detto, anche molte indicazioni relative alle condizioni in cui sorge e alle modalità con cui si sviluppa la relazione sociale tra il portatore di carisma e coloro che, riconoscendolo come tale, vengono a costituire il suo seguito. Un esame attento del testo sembra giustificare la conclusione che queste indicazioni non facciano parte della definizione del carisma o della dominazione carismatica, ma prefigurino quello che potremmo chiamare un paradigma teorico del processo carismatico. Si tratta di uno strumento che può certamente riuscire molto utile per individuare un fenomeno carismatico e ricostruirne la struttura e gli effetti in una data realtà sociale, ma non ci si deve attendere che ogni momento del paradigma trovi un riscontro accertabile negli sviluppi di ogni fenomeno carismatico. Anche gli esempi addotti da Weber e i casi trattati nelle sue ricerche confermano nettamente questa tesi. Così, per esempio, la relazione tra i profeti e il popolo d'Israele, cui Weber ha dedicato buona parte di Das antike Judentum (1917-1919), non dà luogo ad alcuni degli sviluppi contemplati dal paradigma, o soltanto in modo assai debole. Inoltre il paradigma risulta piuttosto complesso, perché mentre la maggior parte dei suoi elementi si dispone in una successione logico-temporale univoca, alcuni di essi, invece, si sviluppano sincronicamente con altri della successione di cui si è detto; sicché la loro posizione nel paradigma qui presentato segna soltanto il momento della loro piena manifestazione. Infine il processo carismatico può avere conclusioni alternative.

Il paradigma del processo carismatico, che derivo liberamente da Weber, consta di questi elementi: 1) una "situazione straordinaria" di qualsiasi genere si sviluppa per una pluralità di individui (che hanno un codice culturale comune); 2) qualcuno che crede di avere la soluzione della situazione straordinaria e la "missione" di realizzarla, articola un messaggio chiedendo ubbidienza come se gli fosse dovuta; 3) una parte almeno degli altri gli concede una sorta di pre-riconoscimento come leader, ma si attende una "conferma" della sua "qualità straordinaria" (che comprovi la missione); 4) il leader offre la conferma del possesso della qualità straordinaria (secondo le attese culturali: dal miracolo alla prestazione eccezionale, purché il successo arrida); 5) gli altri lo "riconoscono" definitivamente come leader, identificandolo con la soluzione della situazione straordinaria o, se si vuole, con la "causa" che è il contenuto della sua missione, e pertanto si affidano a lui con totale dedizione, permeata di reverenza; 6) il leader impartisce principî e norme di vita al seguito, che su tale base costituisce una "comunità" chiusa in se stessa, o un "movimento" per cambiare il mondo (quale delle due cose dipende dalla natura della situazione straordinaria e dalla missione del leader); 7) i membri della nuova entità sociale si riconoscono fratelli nel capo e nella causa, e rompono ogni vincolo sociale (di famiglia, casta, classe, ecc.) che contrasti con i doveri della nuova appartenenza; 8) il leader "chiama" alcuni dei suoi più devoti seguaci a servirlo come "emissari" nel governo della comunità o movimento, costituendo così un'élite ("aristocrazia") carismatica che, ripudiando ogni attività ordinaria, si dedica a organizzare e controllare il rispetto di principî e norme e lo sforzo collettivo per realizzare la causa; 9) sotto l'influsso del leader e nell'impegno comunitario finalizzato i seguaci sperimentano un profondo mutamento interiore, che consta sia dell'interiorizzazione di principî e norme dati dal leader e praticati in un gruppo esclusivo, sia della gratificazione che deriva dalla certezza di vivere secondo verità, confortata dalla comune credenza di gruppo e, soprattutto, dall'approvazione del leader, criterio ultimo di verifica; 10) i seguaci, così rinnovati e fortificati nell'intimo, offrono di sé prove fuori del comune, dimostrando coraggio, tenacia e resistenza e quindi realizzando, singolarmente e collettivamente, imprese straordinarie al servizio del leader e della causa - che essi, d'altronde, identificano. Nel caso del movimento, il seguito del leader carismatico costituisce pertanto una forza di cambiamento del mondo tra le più incisive, almeno nell'ambito della missione del leader.

La successione

Weber insisteva sulla labilità del carisma e, quindi, del rapporto di dominazione che su di esso si costituisce. Il carisma ha bisogno di continue conferme, cioè di sempre nuovi successi. Ove il successo manchi, il capo perde il suo carisma e viene "ripudiato"; a volte viene anche sacrificato come capro espiatorio. A meno che egli, con l'aiuto dell'élite (apparato amministrativo) che l'affianca, non abbia tempestivamente potuto trasformare la dominazione carismatica in una delle due altre dominazioni previste da Weber in forma tipico-ideale, quella tradizionale e quella razionale-legale, o, ancora, in un'ibrida dominazione che ha tratti comuni con entrambi i tipi ora ricordati. Se il leader carismatico muore, d'altra parte, non è detto che il suo carisma, e la dominazione su di esso costruita, debbano necessariamente estinguersi. Il carisma può essere trasmesso ad altri individui o a un'entità sociale. Weber elenca sei modi di "successione" del carisma che ancor oggi paiono pressoché esaurienti: la ricerca di segni caratteristici di evidenza empirica che marchino il successore naturale; la rivelazione del successore da parte di un oracolo, o per mezzo di un sorteggio, di un giudizio di Dio e di analoghe procedure formali di scelta; la designazione del successore da parte del leader carismatico in persona, con successivo riconoscimento della comunità; l'indicazione da parte dell'élite carismatica convalidata poi dal riconoscimento comunitario; l'eredità della carica che fu del leader carismatico in base all'idea che il carisma sia una qualità del sangue. L'ultimo modo di successione è fondato sul concetto che il carisma sia una qualità che il portatore può trasmettere o produrre in altri con mezzi rituali. L'esempio più importante sembra essere rappresentato dalla Chiesa di Roma fondata sul carisma apostolico. Il carisma, in questo caso, inerisce all'istituzione e ne partecipa chi, dopo appropriata preparazione e con i dovuti riti, viene preposto a un ufficio ecclesiastico. Perciò si può parlare di "istituzionalizzazione del carisma" e, anche, di "carisma d'ufficio". Alcune burocrazie di partito, d'altronde, condividono con la Chiesa tali basilari caratteristiche, e anche per ciò questa parte dell'analisi di Weber resta attuale.

Speciale importanza per i moderni studi politici ha poi quella che Weber chiama la trasformazione in senso extrautoritario del carisma. Con la progressiva razionalizzazione delle relazioni sociali, dice Weber, il riconoscimento del leader da parte del seguito di massa viene considerato il fondamento invece che la conseguenza della sua legittimità; il riconoscimento stesso prende la forma di una elezione. Questo processo ha dato luogo alla democrazia rappresentativa, nella quale il rapporto originario tra capo e massa si rovescia nel suo contrario, almeno teoricamente, poiché i rappresentanti (parlamentari) sono considerati non i 'signori', ma i 'servitori' del popolo elettore. Qui non vi è più spazio per il carisma. Tuttavia vi è un altro tipo di democrazia, nella quale la dominazione carismatica sussiste sotto forma di una legittimità derivata dal popolo per mezzo di regolari elezioni; in realtà, il leader detiene il potere in forza della fiducia e, anzi, della dedizione personale del popolo, che ha conquistato con le sue straordinarie qualità demagogiche (termine quest'ultimo che è usato nell'originaria connotazione non negativa). A questo specifico tipo ("democrazia plebiscitaria") Weber si rifaceva per capire gli sviluppi delle democrazie di massa più avanzate.

Sembra lecito dire che l'articolata analisi di Weber abbia trascurato soltanto un'importante forma di persistenza e, eventualmente, di successione del carisma personale: il carisma di una grande figura storica sembra a volte condizionare in modo considerevole il corso successivo della storia di un popolo, e dar luogo a identificazioni che sono parte integrante del carisma di nuovi leaders, anche a distanza di molto tempo. Alcuni autori contemporanei hanno particolarmente approfondito questo punto, in base a suggerimenti di Sigmund Freud.

Il ruolo storico

Weber definiva il carisma come la potenza rivoluzionaria specificamente creatrice della storia. Ma in realtà l'efficacia del carisma era, anche per lui, subordinata al clima culturale dominante; per questo rispetto egli sembrava pensare a un'evoluzione storica in tre fasi: l'era della magia, l'era delle religioni di redenzione e, infine, l'era della "razionalizzazione", in cui viviamo. Il mago è stato la tipica figura carismatica della prima era, e la capacità attribuitagli di coazione sui demoni e sulle forze della natura non merita, naturalmente, il riconoscimento su riferito di Weber. Però il carisma è, per Weber, la forza che ha tratto l'umanità dall'anarchia originaria, regolata soltanto da abitudini aderenti alle condizioni di fatto. Situazioni straordinarie hanno reso possibili le manifestazioni del carisma, e dal carisma è sorta ogni autorità. Il prolungarsi di stati straordinari ha dato luogo a strutture permanenti di autorità, come la monarchia, ma anche le arti erano in origine associate al possesso di carisma.

L'era delle grandi religioni di redenzione è, secondo Weber, la più propizia alle manifestazioni del carisma in senso forte. In questa era incontriamo processi carismatici aderenti, anche puntualmente, al paradigma che abbiamo tracciato: essi si producono specialmente intorno ai fondatori delle grandi religioni, come Gesù e Maometto. Pensando soprattutto a questa era Weber definisce il carisma come la potenza rivoluzionaria specificamente creatrice della storia. Solo il portatore di carisma può, durante lo sviluppo del processo carismatico, produrre un radicale mutamento interiore nell'uomo (μετάνοιؠα). Le leggi possono condizionare il comportamento soltanto nelle sue manifestazioni esteriori e, come le condizioni socioculturali, nel loro mutare possono modificare la psicologia umana soltanto in modo lento e incerto. Il carisma, invece, opera incisivamente nell'interiorità dell'uomo.

Ma la civiltà occidentale, prima di tutto per cause che, per un apparente paradosso, sono inerenti alla sua tradizione religiosa ebraico-cristiana, ha dato concretezza alla terza era evolutiva, quella della razionalizzazione, che comporta l'"illuminazione carismatica della ragione": ossia la presunzione che il carisma sia soltanto ragione (intesa come capacità di dominare conoscitivamente e praticamente il mondo) e costituisca lo straordinario privilegio comune a tutti gli uomini. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, in particolare, ricostruisce il mondo come meccanismo causale, privo quindi di un senso etico, e con ciò mina le basi delle religioni di redenzione. Inoltre la vita economico-sociale si organizza razionalmente, con la disciplina di massa nel lavoro e la correlativa crescente burocratizzazione, in funzione di benefici che appartengono alla dimensione del quotidiano e dell'ordinario. Secondo Weber le condizioni storiche si fanno con ciò sempre meno favorevoli al manifestarsi del carisma come potenza rivoluzionaria, e perfino come libera creatività individuale.

Problemi analitici

Le riflessioni relativamente sistematiche di Weber costituiscono la struttura portante di una "teoria di medio raggio", secondo la definizione di Robert K. Merton, che viene considerata ancor oggi valida da molti scienziati sociali per lo studio del rapporto leader-seguito, in tutta la sua dinamica, in sfere diverse come quella politica e quella religiosa. Le meditazioni teoriche e le ricerche empiriche hanno tuttavia messo in evidenza alcune difficoltà analitiche; per meglio definire certi punti della teoria del carisma si è allora fatto ricorso sia a un esame sistematico dell'intera opera di Weber, sia a nuovi suggerimenti ed elaborazioni delle scienze sociali.

La situazione straordinaria

Una di queste difficoltà è certamente rappresentata dalla definizione della "situazione straordinaria" come punto di partenza del processo carismatico. Weber dice piuttosto genericamente che può trattarsi di situazioni esterne inusitate, soprattutto politiche ed economiche, o di situazioni interiori, in particolare religiose, o, infine, di situazioni che presentino entrambi questi aspetti. Quelle situazioni, aggiunge, costituiscono per chi le vive uno stato di "necessità" che può dare l'impulso dinamico a un processo carismatico.

Gli studiosi che hanno voluto proseguire il discorso di Weber e applicare le sue categorie alla realtà empirica, si sono trovati costretti a esplicitare, precisare ed, eventualmente, articolare le sue indicazioni. Prima di tutto, come si è anticipato nell'esame del paradigma, la situazione straordinaria deve essere di carattere sociale, cioè deve coinvolgere una pluralità di individui (con un codice culturale comune), senza di che gli ulteriori sviluppi del processo carismatico sarebbero impossibili. Inoltre lo stesso Weber, a ben guardare, suggerisce che una situazione straordinaria possa insorgere soltanto in seguito a un mutamento, con l'intervento di un elemento di novità. In termini generali la situazione straordinaria di Weber pone evidentemente un problema, se si vuole una 'sfida', che non si può affrontare con successo usando i mezzi elaborati o accettati nell'ambito socioculturale comune agli individui coinvolti: e, d'altra parte, nessuno di essi è in grado di inventarne di nuovi e di farli accettare agli altri.

Da chiarire appare poi la netta distinzione di Weber tra situazioni "esterne" e "interiori", ricordando l'interdipendenza tra ordine socioculturale e personalità (posta in evidenza da una linea di pensiero sociologico che va da Émile Durkheim a Karl Mannheim e a Talcott Parsons), che è assicurata dai processi di socializzazione, ma risponde a vitali esigenze umane. Bastino al riguardo due cenni: una situazione straordinaria di tipo economico, come la 'grande depressione' del 1929, ha avuto ovvi effetti disgregativi anche sulla personalità degli individui coinvolti e, d'altra parte, una situazione straordinaria di natura interiore, anzi religiosa, come quella creatasi in Europa con la Riforma, coinvolgendo migliaia e migliaia di individui, ha investito in modo rivoluzionario le relazioni sociali e le istituzioni, anche, o prima di tutto, a opera di coloro che intendevano viverla nei termini più intimi e individuali - come lo stesso Weber ha dimostrato discutendo di Calvino e dei puritani che a lui si erano ispirati in Gran Bretagna. In realtà le situazioni straordinarie cui si riferisce Weber sono tali da incidere a un tempo sull'integrazione sia dell'ordine socioculturale sia della personalità individuale, anzi rimettono in discussione il senso della società e della vita stessa, e proprio per ciò fanno nascere il bisogno impellente (la "necessità") di una risposta efficace alla sfida rappresentata dalla situazione straordinaria. Questo bisogno è però frustrato dal sentimento comune della propria individuale impotenza a elaborare e far prevalere principî, norme e forme concrete di un nuovo ordine socioculturale. Siffatta congiuntura fa sì che un uomo che si presenti con una proposta d'ordine (che è, prima di tutto, una proposta di senso), e con la certezza intima di poterla, anzi doverla, realizzare, possa essere creduto, dagli individui coinvolti nella sfida, predestinato o inviato per quel compito, e quindi venga da loro accolto come capo.Finalmente è da ricordare che il leader carismatico è spesso un fattore, anche importante, della situazione straordinaria, della sfida stessa cui egli propone la sua risposta. Leaders come Hitler o Gandhi, per esempio, in modi ben diversi e con diverso spirito, hanno fortemente contribuito a creare o esasperare le crisi politiche dalle quali sono sorte, altrettanto diverse, la Germania nazista e l'India libera e indipendente.

La "missione" del leader

Quanto al leader, tuttavia, il problema principale è di spiegare come sorga la sua certezza di avere una missione. Weber, anche per l'influenza di Willy Hellpach, sembra ritenere che il leader carismatico politico-religioso sia stato generalmente - almeno nella storia di ere precedenti - un uomo segnato dalla natura, ipersensibile e capace di esperienze abnormi, spesso considerate patologiche, come l'estasi. Il suo studio della psicologia dei profeti in Das antike Judentum è per questo aspetto particolarmente illuminante.

Una situazione straordinaria può veramente avere effetti potenti su nature siffatte, esaltandone le tendenze estreme. Può così accadere che visioni estatiche e sogni diano loro la convinzione di avere una missione da compiere. Vari casi storici anche contemporanei sembrano convalidare questa versione suggerita da Weber. La psicologia e la psicanalisi hanno peraltro mostrato come certe esperienze dell'infanzia e dell'adolescenza possano avere una parte notevole nello sviluppo di una siffatta psicologia: la sopravvivenza "miracolosa" ai fratelli, il "romanzo familiare" (Freud) e, più in generale, gli ideali dell'età formativa, anche in connessione con la situazione sociale, si ritrovano spesso tra i fattori di un senso di missione.

Contesto storico-sociale e fenomeni carismatici

Le ricerche finora compiute suggeriscono ulteriori distinzioni utili per lo studio dei fenomeni carismatici a partire dalla situazione straordinaria. Alcune riguardano la natura del contesto storico e sociale, o le modalità della risposta alla sfida posta dalla situazione. La situazione straordinaria può concernere un gruppo formalmente organizzato - cioè, per dirla con Weber, con un capo, un apparato amministrativo e un ordinamento definito - sviluppandosi all'interno del gruppo stesso, o tra questo e un altro gruppo sociale. In entrambi i casi parleremo di crisi. Degne di particolare attenzione sono le crisi che colpiscono quei gruppi sociali che Weber chiama "istituzioni", come lo Stato e la Chiesa, per la loro capacità di imporre i propri ordinamenti a certi tipi di comportamenti in un dato ambito. Per uno Stato la depressione economica può essere un esempio di situazione straordinaria interna, la guerra di una situazione straordinaria nei rapporti con altri Stati. La risposta alla sfida della crisi può essere, in entrambi i casi, incentrata su un capo che ottenga il potere per le vie istituzionali previste, come Franklin D. Roosevelt negli Stati Uniti colpiti dalla 'grande depressione', o Winston Churchill nella Gran Bretagna sotto la minaccia dell'invasione nazista. Analogamente, grandi papi hanno raggiunto il soglio pontificio nel mezzo di gravi crisi della Chiesa. È qui da rilevare che capi giunti così al potere non hanno né il bisogno né l'opportunità (anche a prescindere da eventuali limitazioni istituzionali e culturali) di dar luogo allo sviluppo di un movimento e di un processo carismatico, anche se di quest'ultimo possiamo trovare qualche traccia, per esempio nella devozione assoluta al leader del suo piccolo 'stato maggiore', o nella ferma fiducia in lui di grandi masse di popolo.

Ma la crisi dell'istituzione può anche portare alla nascita di un movimento che cresce secondo il paradigma del processo carismatico. Può trattarsi di un movimento che opera all'interno dello Stato o della Chiesa per contribuire al superamento della crisi: valga l'esempio di san Francesco e del suo ordine, levatisi nel XIII secolo a sostegno della Chiesa di Roma investita da una crisi profonda. Qualche volta il leader di un tale movimento diventa poi anche il capo dell'istituzione, come per esempio Hitler, capo del movimento nazista, nella Germania del nostro secolo. Altre volte il movimento può uscire dal contesto originario, cioè dal gruppo formalmente organizzato, ed eventualmente promuoverne un altro in alternativa. Così, non di rado, da una Chiesa è nata un'altra Chiesa.

In altri casi, infine, la situazione straordinaria può esistere per una pluralità di individui in una dimensione rispetto alla quale la loro eventuale appartenenza a gruppi formalmente organizzati risulta irrilevante, come la dimensione religiosa oggi in molti paesi: al limite costoro hanno in comune soltanto un bisogno di senso (della società, della vita) e la propensione culturalmente condizionata e poco consapevole a un certo tipo di risposta, che si rivela, prende forma e, infine, struttura un gruppo vero e proprio soltanto grazie all'intervento d'un leader con qualità carismatiche. È così che sono nati, per esempio, certi movimenti e certe sette nell'Occidente contemporaneo, specialmente negli Stati Uniti.

È evidente che quei casi in cui si ha la nascita di una nuova entità sociale - movimento o comunità che sia - corrispondono meglio all'intenzione originaria di Weber, che al carisma ricollegava appunto l'esperienza del nuovo e, quasi come misura, il paradigma ormai noto del processo carismatico. Si noti che, qui, la situazione straordinaria di base è caratterizzata dalla potenzialità di forme e processi sociali nuovi, con tratti carismatici, ed è sul loro statu nascenti e sulle condizioni in cui vengono effettivamente alla luce che deve concentrarsi l'attenzione. I leaders di queste nuove formazioni, inoltre, sono da distinguere, per la loro qualità di fondatori e, eventualmente, di rivoluzionari, da quei leaders che, ottenendo e gestendo il potere secondo modelli istituzionalizzati, possono essere solo leaders della crisi o, al più, riformatori.

Psicosociologia del processo carismatico

Tracciando le grandi linee dello sviluppo del processo carismatico, a partire dallo stato iniziale di necessità, Weber usa i concetti di "eccitazione", "speranza" ed "entusiasmo". Solo del primo egli precisa con sufficiente chiarezza la posizione logico-temporale. L'eccitazione, egli dice, sorge tra i soggetti che si trovano a vivere una situazione straordinaria. Si tratta evidentemente di uno stato d'animo collettivo (analogo alla "effervescenza" di Durkheim) che sorge dalla consapevolezza di una crisi che è dentro e fuori l'individuo e dalla tensione continua verso la ricerca di una soluzione. Dal confronto di più passi si può forse giungere alla conclusione che la speranza, invece, si accenda alla comparsa del leader. Quanto all'entusiasmo, sembra doversi manifestare in un momento ancora successivo, rappresentando la sublimazione dell'eccitazione e della speranza che deriva dalla conferma del leader. La fede nel leader e l'entusiasmo che ne discende consentono di spiegare in larga parte sia il mutamento interiore dei seguaci sia le loro prestazioni individuali e collettive che, quando si è costituito un movimento, cambiano profondamente lo stesso ambiente storico.

Weber non approfondisce ulteriormente l'analisi psicologico-sociale del processo carismatico nelle sue varie fasi ma, in pagine poco studiate di Wirtschaft und Gesellschaft, ci fornisce la chiave necessaria per meglio comprendere la sua convinzione che il leader carismatico produca la metanoia e, più in generale, il mutamento delle direttrici di pensiero e di azione - per usare parole sue - in un'intera collettività. A questa convinzione, ispirata dallo studio della storia, Weber credeva di aver trovato un fondamento scientifico nelle teorie di Hellpach. Egli riteneva che certi individui capaci di esperienze abnormi potessero esercitare sulle masse una suggestione così potente (in una delle forme teorizzate da Hellpach) da determinare l'assunzione di nuovi modi di comportamento accompagnati dal sentimento del dovere. Come supporto al nuovo comportamento determinato dal leader agisce, secondo Weber, il gruppo, con le sue aspettative e le relative sanzioni per i trasgressori.

Ovviamente dell'ascendente esercitato da un leader sulle masse possono essere offerte altre spiegazioni, complementari e forse alternative. Il riferimento alternativo principale è stato forse quello offerto da Freud in Massenpsychologie und Ich-Analyse (1921), opera in cui lo psicanalista viennese, mettendo da parte il concetto di suggestione, spiega il comportamento delle masse di fronte al capo con la teoria di una regressione collettiva allo stato psichico dell'orda primordiale soggiogata dal padre autoritario. A questa e ad altre opere di Freud si sono collegati anche recenti e importanti tentativi di approfondire la psicologia del processo carismatico, e in particolare i suoi sviluppi cruciali.

Il contesto culturale

È infine da ricordare il problema del rapporto tra il leader carismatico, il suo messaggio e il contesto culturale. La tradizione e il momento culturale possono ostacolare o facilitare la comparsa di un capo carismatico in una situazione straordinaria, ed eventualmente condizionare il suo ruolo? E il suo messaggio può prescindere dal contesto culturale? Lo stesso Weber formula spesso le sue proposizioni relative al processo carismatico in modo tale da far pensare che il capo carismatico goda della più ampia libertà rispetto al contesto culturale. Tuttavia le sue ricerche sembrano dimostrare il contrario. I profeti di sventura di cui Weber tratta in Das antike Judentum si innestano in una lunga tradizione carismatica e profetica che risale a Mosè, e il loro messaggio presuppone la precedente elaborazione teologica e in particolare il concetto del 'patto' tra il Dio e il popolo d'Israele. Tutta la cultura biblica è presupposta dal Gesù dei Vangeli, e Weber stesso dedica molte pagine alle idee dei Farisei e degli Esseni nonché alle influenze di civiltà vicine e alle credenze popolari che prepararono l'immagine e il messaggio del salvatore evangelico.

Vari studi hanno poi messo in luce come la storia religiosa condizioni potentemente il leader e il messaggio, anche nei nostri tempi. La tradizione religiosa ebraico-cristiana ha preparato l'attesa e l'accettazione di un leader come carismatico, un essere superiore inviato da Dio o, comunque, dai poteri ultimi, anche quando questo leader era intimamente nemico della religione tradizionale, come Hitler; e, paradossalmente, il messaggio del Führer era costruito intorno a schemi chiliastici e messianici di chiara ascendenza ebraico-cristiana. Analoghi risultati dà lo studio di Gandhi in relazione alle credenze e ai miti indù, e quello di personaggi minori, ma tuttavia con alcuni tratti carismatici, come Castro e Sukarno.

Ma anche la tradizione politica sembra avere una parte importante agli stessi effetti. Così, per esempio, molti segni fanno pensare che il ruolo preponderante avuto da grandi figure come Federico II e Bismarck nella storia della Germania moderna abbia determinato atteggiamenti di attesa, e quindi anche di accettazione, nei confronti di Hitler. Dati precisi dimostrano come gli anni venti, per esempio, siano contrassegnati da un crescente interesse per il 'grande' Federico, che si manifesta in un numero sempre più alto di ricerche, romanzi e opere teatrali.Il disinteresse maggiore per il contesto culturale lo troviamo in interpretazioni storiche dubbie e, comunque, difficilmente verificabili. Esemplare, per questo rispetto, è Der Mann Moses und die monotheistische Religion di Freud (1939), dove Mosè è rappresentato come un principe egizio che fa accettare il monoteismo, rifiutato dai suoi compatrioti, al popolo d'Israele, schiavo e pagano, soltanto grazie al suo personale influsso e all'adeguatezza del suo messaggio alla condizione materiale e psicologica degli Ebrei. Comunque alcuni autori contemporanei sembrano ritenere davvero che, almeno in teoria, il leader carismatico e il suo messaggio possano imporsi al contesto culturale, senza esserne condizionati se non marginalmente.

È da notare che più d'uno dei casi storici evocati ci ricorda che i leaders carismatici o, se vogliamo, i grandi capi trasfigurati dal mito, dopo la morte vanno a costituire i nodi strategici della tradizione, e quindi del contesto culturale proprio dei loro popoli. Una perenne, suggestiva presenza che si rivela e incombe soprattutto nelle situazioni straordinarie.

La ricerca contemporanea

Dopo la scomparsa di Weber, gli studiosi persuasi dalla sua proposta hanno impostato varie ricerche sulla teoria del carisma, spesso con risultati fruttuosi ai fini non solo della comprensione della realtà storica presa in esame, ma anche dell'articolazione e della correzione della teoria stessa. Le ricerche compiute hanno qualche volta trattato fenomeni religiosi marginali, come talune sette dominate da leaders con tratti carismatici. Altre volte hanno avuto per oggetto gruppi e movimenti sorti, quasi sempre in ambiente giovanile, durante gli anni della cosiddetta contestazione. Queste ultime sono per lo più fondate sul concetto di carisma, non individuale, ma collettivo: un 'dono della grazia' che vivifica tutti i membri del gruppo o movimento. Weber rilevava che fenomeni collettivi siffatti sono di natura diversa e, anzi, quasi si contrappongono ai fenomeni da lui studiati in base al concetto di carisma; e certamente essi non hanno nulla in comune con la definizione che ne abbiamo dato.

L'attenzione dello scienziato sociale si è però rivolta prevalentemente alla sfera della politica e la teoria del carisma è stata utilizzata per studiare tre fenomeni: le dittature totalitarie, fiorite particolarmente nell'Europa tra le due guerre, le nuove nazioni sorte dal crollo degli imperi e dalla decolonizzazione, e gli sviluppi della democrazia rapportabili, come nella Francia di de Gaulle, a un modello di "democrazia con un leader" o, come Weber avrebbe preferito dire, di "democrazia plebiscitaria".

Lo sviluppo dei regimi totalitari in alcuni paesi europei tra le due guerre contraddice le previsioni di Weber, convinto, a quanto sembra, che il carisma non possa più manifestarsi in forma forte nell'era della razionalizzazione. Questi regimi, infatti, furono per l'appunto caratterizzati dalla centralità assoluta di figure carismatiche, come Hitler e Stalin, e da nuove 'religioni secolari' che riprendevano, in una prospettiva mondana, le promesse tipiche delle tradizionali religioni di redenzione, con accentuazioni chiliastiche e messianiche.Il sorgere di nuove nazioni poi - o, più esattamente, di nuovi Stati nazionali nel nostro secolo - sembra essere di norma collegato a un uomo di grande ascendente, che spesso può essere ragionevolmente definito un leader carismatico. In questo contesto merita di essere ricordato il Mahatma Gandhi, il fondatore dell'India libera, perché egli è tra i leaders moderni che si avvicinano di più all'immagine del capo carismatico disegnata da Weber e anche perché la concezione pacifica e umana dell'impegno politico che egli incarnava e faceva valere con tanta efficacia ci dimostra l'avalutatività del concetto di carisma - nel contrasto vivissimo tra il leader indiano e i dittatori totalitari, ai quali l'abbiamo ugualmente applicato.Alcuni studiosi, infine, hanno rivolto il loro interesse al carisma istituzionale o d'ufficio, applicando i suggerimenti di Weber e le elaborazioni da essi stessi effettuate alle varie burocrazie pubbliche, religiose, partitiche e aziendali. A volte anche questi tentativi hanno comportato singolari stravolgimenti del concetto originario di carisma qui accolto.

Il dittatore e il leader della democrazia plebiscitaria

In questo capitolo finale l'attenzione si concentrerà su due leaders politici del nostro secolo, Hitler e de Gaulle, giunti al potere in momenti di crisi gravissima per i rispettivi paesi: Hitler, al culmine della crisi economica e di disgregazione sociale in Germania, nel 1933; de Gaulle, che già aveva 'salvato' la Francia nel 1940, quando, nel 1958, sulla sua patria incombeva la minaccia della guerra civile. La scelta corrisponde non soltanto all'intento di dimostrare l'utilità del concetto di capo carismatico e del paradigma del processo carismatico per la ricerca storico-politica contemporanea, e la loro avalutatività, ma anche allo scopo ulteriore di mettere in evidenza due tipi di leaders - il dittatore (tiranno) carismatico e il capo carismatico della democrazia plebiscitaria - che devono essere rigorosamente distinti sia nell'ambito della teoria politica, sia in quello etico-politico. Si deve ancora rilevare, preliminarmente, che questi strumenti concettuali consentono di 'vedere' e comprendere, in tutta la loro importanza e nelle loro interconnessioni, aspetti essenziali di vicende storiche a noi vicine e il ruolo centrale avuto in esse dai leaders. In questa sede, per stabilire il carattere carismatico dei due leaders e del loro potere, ci limiteremo a una verifica su cinque punti fondamentali: il sentimento di missione, il messaggio (cioè il contenuto della missione com'è esposto alla massa), l'élite carismatica, il movimento, la massa (o, meglio, il rapporto sociologico con il movimento e con la massa).

Il caso Hitler

Il convincimento di avere una missione da compiere al servizio della Germania si sarebbe manifestato per la prima volta in Hitler, giovanissimo, durante una rappresentazione del Rienzi di Wagner. Ma è durante il ricovero nell'ospedale di Pasewalk, per una temporanea cecità di guerra, che Hitler, alla notizia della resa del 1918, avrebbe avuto visioni estatiche che gli rappresentavano la sua elezione per il compito di procurare alla 'Grande Madre Germania' la rivincita e la grandezza. Da quel momento Hitler fu effettivamente un uomo diverso, con tutte le facoltà tese verso il fine della sua elezione provvidenziale, e con l'abbandono delle attività artistiche che lo avevano in precedenza assorbito e delle ambizioni da lui nutrite in proposito. Hitler affermò più volte, sia in pubblico che in privato, di sentirsi investito di quella storica missione, e in funzione di essa leggeva e voleva che fosse letta la sua vita, come governata, fin dall'inizio, da quella potenza provvidenziale che l'aveva eletto. Questa convinzione profonda, anzi certezza, era d'altronde impressa sul volto di Hitler e nei suoi atteggiamenti, e dava una straordinaria suggestione alla sua voce, costituendo in tal modo la base stessa del dominio da lui esercitato su innumerevoli tedeschi.Il pensiero di Hitler, lentamente delineatosi fin dall'adolescenza, prese forma compiuta nel periodo di detenzione trascorso nella fortezza di Landsberg e subito dopo (1924-1925), con la stesura di Mein Kampf. Nessuno sviluppo veramente degno di menzione ebbe poi luogo. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale si è a lungo negato che Hitler possedesse una Weltanschauung e, tanto più, un sistema filosofico-politico degno di questo nome. Nolte, Jäckel e altri, più di recente, hanno però dimostrato che quei dinieghi erano frutto di pregiudizi e animosità, perché Hitler si era in realtà costruito, con idee tratte dalla cultura del tempo, un "edificio ideologico" che - come scrisse Nolte - "toglie addirittura il fiato" per la sua consequenzialità e la sua solidità. Al centro del sistema filosofico-politico di Hitler erano queste idee: la storia è lotta delle razze, secondo la legge della dea Natura; l'alternativa alla vittoria e al dominio della razza migliore è il caos; la dea Natura aveva affidato alla razza ariana, la migliore, il compito di stabilire il suo dominio e, con ciò, un ordine nel mondo in crisi e aveva eletto lui, Hitler, a guidare la razza superiore in quella lotta dall'esito, peraltro, del tutto aperto. Come si vede, questo sistema di pensiero aveva spiccati tratti chiliastici e messianici, che gli conferivano il carattere di una religione secolare e, dunque, lo rendevano confacente allo sviluppo di un processo carismatico pieno nella nostra epoca di razionalizzazione. Inoltre, il sistema filosofico-politico di Hitler era, come appare dalla nostra sintesi, facilmente riducibile a poche proposizioni consequenzialmente collegate, un messaggio che Hitler medesimo, il grande 'semplificatore' (come egli stesso si considerava), sapeva comunicare con impareggiabile efficacia, data la sua profonda fede in sé e nella sua missione, e grazie ai grandi mezzi demagogici di cui era dotato.

L'élite, o, se si preferisce, l'aristocrazia carismatica, del nazismo e del Terzo Reich, aveva con Hitler un rapporto del tutto corrispondente al paradigma. Si trattava in gran parte di uomini che a Hitler erano stati vicini fin dalle prime battaglie politiche, e i successori da lui designati, Göring e Hess, erano addirittura stati suoi compagni nel Putsch del 1923 conclusosi con la tragica marcia sulla Feldherrnhalle, tanto importante per il mito nazista. Le loro testimonianze, scritte e orali, ci narrano di una immediata sottomissione a Hitler, avvenuta generalmente al primo incontro sotto l'effetto del suo fascino e della sua magica parola: così, per esempio, Hess, Göring, Frank, von Schirach e von Ribbentropp. Da allora questi uomini furono semplici strumenti di Hitler, in una relazione di ubbidienza e dipendenza emotiva. La gerarchia nazista, d'altronde, corrispondeva perfettamente al modello proposto da Weber. Come tanti studiosi hanno concordemente osservato, i dirigenti del Reich e del Partito nazista erano soltanto degli "emissari" (Jäckel) da Hitler nominati ed, eventualmente, rimossi ad libitum. In lui era concentrata tutta l'autorità.Il movimento è, in questo caso, il Partito nazionalsocialista. Sebbene Hitler non fosse tra i fondatori del Partito nella sua dizione originaria (DAP, poi NSDAP), egli ne divenne ben presto il presidente con pieni poteri (1921). Il suo ruolo di capo assoluto (Führer), riferimento di fede e devozione, apparve ben presto evidente agli osservatori. Tra le prove più persuasive del potere di Hitler, al di là della carica, si può ricordare il controllo da lui prontamente ristabilito sui litigiosi quadri nazisti riuniti a Bamberga, all'indomani del suo ritorno dalla fortezza di Landsberg, tra scene di rinnovata fraternità, commozione e dedizione al capo, suscitate dalla sua presenza e dalla sua parola. Già prima del 1933 nel Partito era in corso un processo di 'divinizzazione' del Führer, che giunse a compimento dopo l'ascesa al potere, manifestandosi specialmente nei grandi congressi di Norimberga. Ma Hitler sapeva anche tener vivo tra i nazisti convenuti, con i suoi discorsi (tipicamente nel congresso del 1936), quel senso di una comunità di fede e di lotta in cammino verso le sue mete, al seguito del capo, che esalta il carisma e introduce a uno stato di 'estasi collettiva'.

Per quel che riguarda i rapporti con la massa, infine, Hitler aveva avuto dalla natura, come si è detto, grandi doti demagogiche, coltivate poi con lo studio dei caporioni delle masse, con lo sviluppo di una teoria del rapporto capo-massa, largamente influenzata da Le Bon, con l'apprendimento delle regole della recitazione teatrale e con una grande pratica del comizio. Queste doti, al servizio della certezza di avere una grande missione che, per giunta, era conforme ai valori nazionali in cui tutta la popolazione germanica (ma soprattutto le classi medie e superiori) era stata educata, gli davano una forza di persuasione quasi irresistibile. Una delle prime clamorose prove si ebbe con la 'conversione' di una folla borghese, inizialmente ostile alle tesi insurrezionali che Hitler andava esponendo nella Bürgerbräukeller, nel 1923: un capovolgimento dello stato d'animo collettivo prodotto in pochissimi minuti, quasi 'per magia', come testimonia lo storico K.A. von Müller che era presente. Negli anni successivi si ebbero altre prove di quel fascino personale e di quel "carisma della parola" che conquistava i Tedeschi rifacendosi ai valori più sentiti della cultura nazionale e alla tradizione di grandi leaders nazionali di cui si è detto. Da quando divenne Cancelliere nel 1933, Hitler si trovò poi a parlare in un regime di monopolio, perché nessuna voce dissenziente poteva più levarsi e, d'altronde, egli controllava ogni mezzo di comunicazione con le masse: il comizio, la stampa, il documentario cinematografico e infine la radio, che portava la sua voce profondamente suggestiva in milioni di circoli e di case. La radio si dimostrò il più potente strumento del capo assoluto, aprendo nuove prospettive di influenza sulle masse. Qui, però, riuscirono forse determinanti i privilegi della dittatura totalitaria ormai realizzata, e la componente carismatica sfugge a una precisa valutazione.

Per la considerazione sopra fatta, non ci soffermeremo particolarmente su altri punti di corrispondenza tra la vicenda di Hitler dopo il 1933 e il paradigma del processo carismatico. È certamente vero che tutti i poteri dello Stato si erano ben presto riuniti in lui. Egli era perfino l'unica "fonte del diritto", come vuole Weber; creava e distruggeva la norma, senza nemmeno l'argine della retroattività. Ma è anche vero che queste sono le prerogative di quella che Carl Schmitt ha chiamato la "dittatura sovrana", e perciò il contributo del carisma di Hitler a questi sviluppi resta alquanto incerto. Analogamente appare incerto, ai nostri fini, il valore del voto plebiscitario (92% del totale) accordato dai Tedeschi alla lista unica nazista nel novembre 1933. La dittatura era ormai stabilita, tutti gli altri partiti erano stati dissolti, spente le voci dissenzienti, manipolati i procedimenti elettorali. Più significativo, ma pur sempre viziato dal regime consolidato di dittatura totalitaria, fu se mai il plebiscito che nell'agosto 1934 sancì, con il 90% dei voti, l'unificazione dei poteri dello Stato (dopo la morte del presidente Hindenburg) nelle mani di Hitler, facendo di costui il padrone legittimato della Germania. Può essere vero che ormai la grandissima maggioranza dei Tedeschi avesse veramente fede nella persona del Führer, come qualche serio osservatore ha scritto; ma nemmeno quel plebiscito ne costituisce una prova sicura e tanto meno una misura affidabile. In ogni caso non è possibile parlare di quel regime come di una democrazia plebiscitaria, secondo il suggerimento di Schmitt, a meno di voler dare al concetto un significato del tutto diverso da quello attribuitogli dal Weber più maturo e da noi accolto: perché i plebisciti che lo battezzarono non furono tenuti in condizioni di libertà e perché, poi, il popolo tedesco non fu più chiamato alle urne.

Il caso de Gaulle

In de Gaulle il sentimento di essere destinato a compiere grandi cose per la Francia, intesa come entità metafisica al di sopra del popolo francese, si manifestò fin dall'adolescenza, con il supporto del clima familiare, di una tradizione culturale, della fede cattolica, degli studi e delle letture. Quel sentimento gli ispirò la decisione di entrare nell'esercito francese come ufficiale di carriera e gli dettò quella concezione carismatica della leadership che trovò compiuta espressione in Le fil de l'épée (1932). Quel sentimento di de Gaulle diventò certezza di avere una missione storica da compiere nell'ora della fuga avventurosa in Gran Bretagna, nel 1940, e nella successiva impresa, all'inizio quasi disperata, di dare alla sua Francia una realtà riconosciuta come Stato, governo, forze armate. Come scritti e testimonianze dimostrano, de Gaulle non ha mai più perduto la certezza d'esser l'uomo cui la provvidenza aveva affidato i destini della Francia in un passaggio drammatico della storia, e tutto il suo comportamento ne è stato improntato.

Dopo la Liberazione, per lui trionfale, il generale si gettò nella lotta politica per assicurare al paese istituzioni che gli garantissero nel mondo un ruolo adeguato alla sua "idea della Francia", e quando l'impresa apparve definitivamente fallita si ritirò a vita privata, per mantenere intatta la sua immagine e la sua autorità morale come riserva della nazione per l'ora della crisi, che, a suo giudizio, la democrazia dei partiti preparava ineluttabilmente. Quell'ora giunse, infatti, nel 1958: il regime aveva perduto ogni capacità di governo effettivo e il sostegno, nonché il rispetto, di gran parte del popolo francese, mentre dall'Algeria l'esercito minacciava ormai la guerra civile. Il Parlamento si vide costretto a chiamare de Gaulle al potere, affidandogli, come egli voleva, anche il compito di preparare una nuova Costituzione da sottoporre a referendum popolare. La nuova Costituzione sostituì alla fallita repubblica parlamentare una repubblica semipresidenziale che, almeno nell'interpretazione di de Gaulle, primo presidente, assunse forti caratteri plebiscitari. Sia qui sufficiente rammentare che de Gaulle fu, in quegli anni, la guida effettiva e indiscussa del paese che egli andava ricostruendo secondo una certa idea della Francia, con il consenso della maggioranza dei Francesi, espresso in libere elezioni e referendum. Come risulta da molte testimonianze, de Gaulle era certo di adempiere ulteriormente, con ciò, la sacra missione affidatagli nel 1940.

Ma qual era il contenuto di questa missione? In quale messaggio trovava espressione? È stato scritto che il pensiero gollista era poco sviluppato e abbastanza vago. Si potrebbe dire, a nostro avviso, che constava di tre idee interconnesse. Una certa idea della Francia 'eterna', come portatrice per eccellenza di civiltà nella storia, concepita come storia delle nazioni. Una certa idea dello Stato, come portatore dell'interesse pubblico e del sentimento collettivo nazionale: uno Stato retto da un leader e da un'aristocrazia politica devoti alla Francia, con il sostegno di un grande movimento popolare. Una certa idea della società nazionale, riunita e ricompattata superando lo scisma classista grazie al principio della partecipazione. Evidentemente quella certa idea della Francia aveva un ruolo centrale e dominante nel pensiero gollista, determinando l'articolazione delle altre due idee di cui si è detto. Essa possedeva il pregio di ricollegarsi a un'educazione e a una tradizione nazionaliste che avevano segnato profondamente gran parte della popolazione francese, e delle classi medie specialmente. Anche la sua relativa vaghezza dava qualche vantaggio: era più atta a unire che a dividere. Esistevano dunque le condizioni culturali per il successo di questo messaggio di unione e di speranza in nome della Francia, specialmente negli anni di crisi multilaterale all'inizio del potere gollista: a patto che esso fosse portato, appunto, da un leader di così grande autorità naturale e circondato da un'aura 'straordinaria', quel de Gaulle già una volta salvatore della patria, nella cui missione provvidenziale, a poco a poco, molti altri francesi avevano finito con il credere. Si deve d'altronde notare che la Francia repubblicana, da Napoleone in poi, ha una storia segnata dal collettivo abbandonarsi all'uomo 'straordinario', in momenti di grave crisi, e anche per questo aspetto de Gaulle e il suo messaggio avevano la via spianata.

L'esistenza di un'élite carismatica, poi, è in questo caso specialmente evidente. Quest'élite, comprendente personalità come Malraux, Chaban-Delmas, Debré, si era formata intorno a de Gaulle negli anni duri e incerti della lotta per dare realtà alla Francia in esilio e per liberare la madrepatria. Poche decine di uomini che, per lo più, si ritrovavano a fianco del generale in tutte le sue grandi avventure politiche dopo la Liberazione. La loro fede in de Gaulle e nella sua missione è testimoniata non solo dalla loro condotta in quegli anni, ma dalle esplicite dichiarazioni d'essere stati pronti a eseguire gli ordini del generale senza esitazione e a qualsiasi rischio, come ripeteva recentemente C. Pasqua. Senza il ruolo dirigente di questi uomini nei movimenti gollisti e nello Stato gollista, i successi legati al nome del generale sarebbero stati probabilmente impossibili.

Come movimenti gollisti s'intendono qui il Rassemblement du Peuple Français (RPF) e l'Union pour la Nouvelle République (UNR): il primo fondato dal generale nel 1947 e da lui dissolto nel 1955, il secondo costituitosi nel 1958 e ancor oggi, cambiato il nome, forza politica tra le maggiori in Francia. Tutte e due le formazioni hanno avuto carattere di massa. Entrambe erano sorte dalla fiducia personale in de Gaulle, e da questa erano tenute insieme: pertanto rispondevano al requisito fondamentale del movimento carismatico. Questo carattere era confermato e ribadito dall'essere entrambe rette dalla già discussa élite carismatica - tale nel doppio senso dell'elezione da parte del capo carismatico e dell'aver partecipato alla Liberazione nazionale, crisma comune di legittimazione. Tuttavia c'era tra i due movimenti gollisti una differenza importante nella prospettiva da noi assunta. Dell'RPF de Gaulle era il fondatore e il capo. Egli stava al vertice della struttura piramidale del movimento, ne nominava i dirigenti e ne formulava personalmente le direttive programmatiche, politiche, strategiche. Dalla UNR de Gaulle, in qualità di presidente di tutti i Francesi, dunque al di sopra delle parti, teneva formalmente le distanze; egli ne era l'ispiratore e la guida, ma da un'altra dimensione dell'essere. Perciò è solo dell'RPF che si può, più propriamente, parlare come di un movimento carismatico secondo il modello di Weber.Infine, il rapporto con le masse è specialmente interessante perché, con de Gaulle, esso ha assunto forme nuove e grande peso in una democrazia europea, grazie agli sviluppi tecnologici nel campo delle comunicazioni di massa, da un lato, e, dall'altro, grazie all'uso del referendum, di cui Weber stranamente aveva sottovalutato le potenzialità. Si può addirittura dire che, con de Gaulle, si è sviluppata appieno una dimensione nuova della democrazia plebiscitaria che restava in ombra nell'analisi di Weber, cioè l'appoggiarsi del leader direttamente sul popolo non solo ai fini dell'elezione plebiscitaria, ma anche, anzi soprattutto, durante il suo mandato, per far prevalere le proprie politiche e garantire a queste un effettivo sostegno di massa anche contro l'eventuale opposizione delle assemblee nazionali e delle grandi organizzazioni, come i partiti e i sindacati. A questo fine de Gaulle utilizzava tre mezzi: i referendum popolari, ai quali sottoponeva le proposte cruciali della sua politica di governo; i grandi mezzi di comunicazione di massa, prima la radio e poi la televisione, che egli sapeva usare magistralmente allo scopo di mantenere e aumentare la sua autorità morale e di 'persuadere' i Francesi; infine, allo stesso scopo, i bagni di folla delle frequenti visite alla provincia. Una citazione a parte meritano però le grandi conferenze stampa che de Gaulle, superando l'esempio di F. D. Roosevelt, sapeva trasformare in rappresentazioni 'magiche', affascinando così i giornalisti presenti come gli innumerevoli francesi che vi partecipavano attraverso il piccolo schermo. Nei rapporti diretti con le masse, inoltre, de Gaulle impiegava con eccezionale bravura le trovate e le tecniche più atte a rinfocolare i valori patriottici e a coinvolgere il popolo nella sua 'missione'. Basti qui ricordare i dialoghi con la gente riunita in piazza ad ascoltarlo, l'invito alla folla provinciale a cantare con lui la Marsigliese, al termine dei suoi discorsi, e l'esortazione rivolta al popolo tutto quando la crisi algerina giunse al culmine con il Putsch dei generali: "Françaises, Français! Aidez-moi!".

Il caso de Gaulle è interessante anche per la sua conclusione. Già le elezioni presidenziali del 1965 a suffragio universale, obbligando il generale al ballottaggio, dimostrarono che il suo carisma si andava indebolendo. La 'rivoluzione di maggio' (1968) diede una prova anche più drastica di questo processo, nonostante la straordinaria risposta di massa all'appello lanciato dal generale il 30 maggio, forse un milione di manifestanti per gli Champs-Élysées, e nonostante il susseguente pieno successo dei gollisti nelle elezioni politiche. La sconfitta nel referendum del 1969, infine, siglò l'eclissi di quel potere straordinario; e infatti determinò il ritiro del generale dalla scena politica. A ben considerare, gli ultimi anni del generale, dal 1965, possono essere presi come un esempio tipico della transizione dal potere carismatico al potere legale in base alle istituzioni, ormai sufficientemente consolidate, che sono state formate dal leader: in questo caso, le istituzioni della V Repubblica. Non a tale tema, tuttavia, ma a un confronto essenziale tra il caso Hitler e il caso de Gaulle dedicheremo le considerazioni conclusive.Il confronto illumina i due volti che il potere carismatico può assumere nella politica del XX secolo: quello del dittatore (tiranno) carismatico e quello del leader carismatico della democrazia plebiscitaria. Dittatore carismatico fu Hitler, che giunse al potere attraverso un processo costituzionale fondamentalmente corretto, ma, una volta giuntovi, distrusse gli istituti e le regole della democrazia, e a quel punto usò lo strumento del plebiscito, in condizioni di non libertà, per sancire una volta per tutte il suo dominio. In seguito Hitler, 'divinizzato', non sottomise mai né il suo operato né i suoi progetti radicali all'approvazione popolare. Vi sono molte prove del suo carisma, e sembra vero che, come disse il generale Jodl, suo complice e vittima, quel carisma operasse su molti tedeschi fino alla catastrofica fine del Terzo Reich. Ma, dal 1933, l'appoggio del popolo era da lui ottenuto con l'ausilio della manipolazione di massa, dell'indottrinamento e, ove necessario, della coercizione più spietata: sulla base, appunto, di una dittatura totalitaria. De Gaulle può essere considerato il più tipico leader della democrazia plebiscitaria che il nostro secolo abbia conosciuto. Egli fu presidente prima per una democratica elezione di secondo grado, poi per elezione diretta da parte del popolo. Fondamento del suo potere era una Costituzione approvata direttamente dal popolo, in piena libertà; una Costituzione da lui fondamentalmente rispettata, anche se si deve ammettere che ne diede un'accentuata interpretazione plebiscitaria. La sua sollecitazione dell'appoggio popolare diretto si fondava sul carisma personale, ma senza divenire mai appello meramente demagogico, irrazionale ed emotivo. Le principali proposte politiche del generale erano sottoposte al giudizio del popolo nei referendum. Le elezioni politiche avevano regolarmente luogo e, come i referendum, si svolgevano in condizioni di effettiva libertà. E quando un referendum bocciò una sua importante proposta, relativa alla sua idea dello Stato e alla sua idea della società, de Gaulle abbandonò spontaneamente il seggio presidenziale. (V. anche Autorità; Leadership; Legittimità; Potere).

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