Capaneo

Enciclopedia Dantesca (1970)

Capaneo

Umberto Bosco

. Uno dei " Sette contro Tebe ", cioè uno dei sei re greci che con Polinice assaltarono Tebe per scacciarne Eteocle, fratello di Polinice. Protagonista di un episodio dell'Inferno (XIV 43-72).

Nel disegnare la strutturazione generale dell'Inferno, D. aveva, per bocca di Virgilio, distinto due categorie di violenti contro Dio (If XI 46-48) : Puossi far forza ne la deitade, / col cor negando e bestemmiando quella, / e spregiando natura e sua bontade: cioè, coloro che usano violenza direttamente contro Dio, e quelli che gli fanno violenza disprezzando, come i sodomiti, la natura sua figlia o, come gli usurai, l'arte figlia della natura e perciò quasi nipote di Dio. Usa violenza diretta contro Dio, ribadisce D. al v. 51, chi, spregiando Dio col cor, favella. Per configurare questo peccato occorrono dunque tre elementi integrantisi a vicenda: il negare Dio; il bestemmiarlo, cioè l'imprecare contro di lui; il disprezzarlo. Evidentemente, il primo elemento non può consistere nell'ateismo né nella generica miscredenza, peccati di altro genere, tanto più che chi ingiuria Dio ne ammette implicitamente l'esistenza; la negazione consisterà dunque nella negazione della supremazia divina. Essenziale, poi, perché si abbia la bestemmia, è che l'ingiuria sia formulata verbalmente ( favella), e che nasca dall'intimo del cuore (spregiando Dio col cor): non basta pertanto un blasfemo flatus vocis.

Impossibile evidentemente è dire se D., quando caratterizzava così questo peccato, già pensasse a colui che avrebbe dovuto impersonarlo, a suo luogo, nel seguito del poema: si sarebbe tentati di rispondere affermativamente, tanto la definizione si attaglia alla figura di C., quale a D. risultava dalla lettura di Stazio (Theb. X 845-882). Qui C., salito sulle mura della città, nell'ebbrezza della vittoria, sicuro della sua invincibilità, aveva sfidato Giove a difenderla, sì che il dio lo aveva fulminato. Stazio aveva descritto questo dispregiatore degli dei, " superum contemptor ", in atteggiamento di suprema sfida : già colpito dal fulmine, resta ancora in piedi, e spira mentre ancora indomabilmente erge il capo verso le stelle, vinto ma non disposto ad accettare la sconfitta : " stat tamen, extremumque, in sidera versus, anhelat " (X 935). Il C. di Stazio dunque non nega l'esistenza di Dio, e anzi osa contrapporglisi fronte a fronte, ma non la riconosce a sé superiore; lo disprezza nel cuore, e lo interpella ingiuriosamente a viva voce. Si badi però che tutto ciò ha in Stazio una coloritura eroica. Morto, l'aspetto di C. continua a essere minaccioso : " ille iacet lacerae complexus fragmina turris, / torvus adhuc visu, memorandaque facta relinquens / gentibus, atque ipsi non inlaudata Tonanti " (XI 9-11) : lascia dunque agli uomini memorabili esempi, ammirati dallo stesso Giove.

Il C. dantesco ha molti tratti in comune con la figura staziana. D. lo colloca nel sabbione ardente dei violenti contro Dio, supino sotto la pioggia di fuoco come i suoi compagni di pena; ma mentre questi agitano disperatamente le misere mani, per allontanare da sé le falde di fuoco che continuamente cadono su di loro, egli se ne sta fermo, sì che la pioggia non par che 'l marturi : tale è la lezione Petrocchi : dunque " lo martirii ": sembra che la pioggia di fuoco non lo faccia soffrire; la lezione tradizionale, da alcuni ancora preferita, dà maturi : la pioggia non sembra che ammollisca la sua dura protervia. Comunque, non par che curi / lo 'ncendio: non vuol dare a Giove la soddisfazione di assistere alla sua sofferenza. Subito appare a D. dispettoso, in atteggiamento sprezzante, e torto : cioè, guarda intorno, o verso l'alto, con sguardo obliquo, irato. Poco dopo D. insiste sullo spregio che C. nutre nel cuore verso Dio : ebbe e par ch'elli abbia Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi (vv. 69-70). Connessa con l'imperturbabilità, la fedeltà verso sé stesso appena si accorge che D. lo ha notato, C. si presenta : non già profferendo il suo nome, o una delle solite perifrasi onomastiche, ma mettendo. innanzi questa fedeltà : nessuno, neppure Giove, ha potuto e può farlo cambiare, piegarlo : Qual io fui vivo, tal son morto. E subito, anche l'ingiuria verbale : C. rievoca il suo ultimo giorno, rinnova la sua sfida di allora; se anche ora che son morto - egli dice in un'invettiva nella quale rievocazioni e sfide s'incalzano impetuosamente in un unitario blocco di nove versi - Giove mi scagliasse di nuovo il suo fulmine; anzi, anche se mi scagliasse tutti i fulmini che potrebbero fornirgli Vulcano, da lui pressantemente invocato in aiuto, e i suoi Ciclopi fabbri, lavoranti senza tregua, a turni, non potrebbe neppure ora piegarmi, non potrebbe avere, neppure ora, vendetta che riuscisse a soddisfarlo : non ne potrebbe aver vendetta allegra. C. crede che Giove-Dio si vendichi per averlo lui disprezzato (del " dispettarlo che io feci ", chiarisce il Boccaccio); una vendetta può rallegrare solo se raggiunge il suo scopo, e quella di Dio non lo raggiunge, perché C. anche nell'Inferno continua a disprezzarlo. La risposta di Virgilio non è uno sferzante rimprovero generico alla superbia di C., ma una precisa replica all'invettiva e alla sfida di lui. La punizione di Dio - dice Virgilio - non consiste nell'obbligare C. a sottomettersi, e neppure, propriamente, nelle pene fisiche, ma risiede proprio nella rabbia impotente che lo divora in eterno, cioè, in ultima analisi, nello stesso perdurante e vano e pazzo disprezzo della divinità : in ciò che non s'ammorza / la tua superbia, se' tu più punito; / nullo martino, fuor che la tua rabbia, / sarebbe al tuo furor dolor compito.

In tanto l'ammirazione di Stazio per il titanismo di C. passa in D., almeno fino a un certo limite (e vedremo presto quale questo limite sia), in quanto essa s'incontrava col concetto che questi aveva della nobiltà dell'uomo. L'imperturbabilità, il non lasciar prevalere la debolezza del corpo sulla forza dell'animo, l'isolarsi concentrandosi nel proprio pensiero e sentire, la compostezza dei movimenti sino alla statuarietà, il controllo di sé, l'inflessibilità nelle opinioni: sono caratteri costanti di molti personaggi danteschi : per citarne solo alcuni, Giasone, Sordello, Farinata, e lui stesso, D., ben tetragono ai colpi di ventura (Pd XVII 24), il cui animo vince ogne battaglia, / se col suo grave corpo non s'accascia (If XXIV 53-54). Verso quei personaggi, anche se peccatori, va la simpatia umana del poeta; ma questi conserva un'ammirazione per così dire estetica per lo spregio dei dolori fisici, per il coraggio titanico, che può coesistere con la condanna morale, senza attenuarla. Così è per Amano, che pur aveva macchinato la rovina del giusto Mardoceo e del popolo ebraico: anche lui dispettoso e fero / ne la sua vista, e cotal si moria (Pg XVII 26-27); così per Bruto, il traditore di Cesare, che resiste eroicamente alla giusta pena : vedi come si storce, e non fa motto! (If XXXIV 66). All'un capo della serie, Farinata e lo stesso D.: via via, altri peccatori più o meno condannabili : all'estremo, in ogni modo spregevole, Vanni Fucci, ladro e anch'egli violento contro Dio, da lui ingiuriato con gesti e parole volgari, e al quale C. è riaccostato esplicitamente dallo stesso poeta : Per tutt' i cerchi de lo 'nferno scuri / non vidi spirto in Dio tanto superbo, / non quel che cadde a Tebe giù da' muri (If XXV 13-15).

Il fatto è che l'imperturbabilità e l'inflessibilità sono caratteri necessari del magnanimo, secondo che a D., come ha chiarito il Forti, insegnavano l'Etica nicomachea e la filosofia medievale. Anche nel Tresor del suo Brunetto, D. poteva leggere che " il magnanimo non si rallegra troppo per cose prospere che gli avvengono, né si conturba mai per cose adverse... tiene bene a mente le ingiurie, ma disprezzale e non cura " (Tesoro, secondo il volgarizzamento attribuito a Bono Giamboni, Bologna 1878-1893, VI III b 75-76). Ma quei caratteri, se sono necessari, non sono sufficienti. Per integrare il concetto di magnanimo, secondo s. Tommaso nel suo commento all'Etica nicomachea, occorre che l'uomo si senta autore o capace di grandi imprese, e per logica conseguenza meritevole di grandi onori. Non è peraltro sufficiente in proposito l'opinione sua personale: bisogna che sia oggettivamente degno di quelle imprese e di quegli onori. Magnanimo era dunque Farinata, e D. lo chiama infatti così (If X 73), non C., sebbene " magnanimus " fosse definito da Stazio. Farinata aveva saputo prendere con decisione il suo posto di combattimento a Montaperti, anche se in un campo avverso a quello dei maggiori di D., aveva poi a Empoli difeso Firenze, solo contro tutti; grandi cose avevano compiuto Giasone e Sordello; non Amano, non Bruto, e non Capaneo. La sua non era " magnanimitas " ma " praesumptio ", come a D. insegnava la Summa theologica di s. Tommaso; e il suo Brunetto gli aveva detto (Tesoro volgarizzato, cit., VI XXXIV 343) che la parola ‛ magnanimità ' " vale altrettanto a dire come grande coraggio, ardimento e prodezza, ch'ella ne fa per nostro grado ragionevolmente pigliare le grandi cose ". Ragionevolmente : questo è essenziale : C. che sfida pazzamente la divinità viola la " proportio suae potentiae ", è agli occhi di D. simile a colui che edificò la torre di Babele per pazzo desiderio di ascendere al cielo, per superbam stultitiam praesumendo (VE I VII 3-4). In una celebre pagina del saggio su Farinata, il De Sanctis notò la somiglianza e la diversità delle due figure, di C. e di Farinata; e sostenne che il primo è pura forza fisica, in contrasto con la forza anche spirituale del secondo. È tesi che è, sì, alle origini di ogni moderna indagine su C.; ma che ora va innovata, alla luce del concetto di magnanimità proprio di D. e dei suoi tempi.

L'episodio di C. s'innesta dunque in una delle idee-forza della Commedia: il dovere per l'uomo di attuare il suo ‛ intelletto possibile ', cioè di realizzare il massimo di sé stesso, a qualunque costo; ma questo dovere ha il suo limite nell'altro dovere di riconoscere la suprema autorità divina su di lui. Idea-forza che ha il suo massimo esponente poetico in Ulisse: le Colonne d'Ercole sono il mitico confine tra magnanimità e presunzione, al di qua del quale c'è l'indefettibile necessità di conoscenza propria dell'uomo degno di questo nome, e al di là la superbia, il naufragio spirituale.

Bibl. - F. Forti, Il Limbo dantesco e i megalopsichoi dell'Etica Nicomachea (1961), rist. in Fra le carte dei poeti, Milano-Napoli 1965, 9-40; L. Filomusi Guelfi, Filippo Argenti, Farinata e C., in " Giorn. d. " III (1895-96) 475-486; G. Finzi, L'episodio di C., (1905), rist. in Saggi e conferenze, Firenze 1907; E. Ciafardini, Due saggi danteschi, Napoli 1925, 36 ss.; F. Matarrese, Interpretazioni dantesche, Bari 1957, 281-297; U. Bosco, La " follia " di D. (1958), rist. in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 55 ss. Cfr. inoltre le ‛ lecturae ' di M. Scherillo, Firenze 1900; I. Del Lungo, ibid. 1906; L. Pietrobono, in " Giorn. d. " XXX (1917) 133-141; C. Varese (1956), rist. in Pascoli politico, Tasso e altri saggi, Milano 1961, 7-22; E. Paratore (1959), rist. in Tradizione e struttura in D., Firenze 1968, 221-249; M. Apollonio, ibid. 1961; E. Bigi, Un caso concreto del rapporto di struttura e poesia, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 455-470; U. Bosco, in Nuove lett. II 47-73.

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