CANDELABRO

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1993)

CANDELABRO

C. Barsanti

Il termine c. (lat. medievale candelabrum, cereostata, cerostatum) designa un sostegno di grandi dimensioni per candele o ceri, la cui tipologia veniva di norma adottata - sia in Occidente sia in Oriente - anche per la fabbricazione dei candelieri, sostegni di dimensioni ridotte, che conviene pertanto considerare in un solo insieme, distinguendone piuttosto materiali, forma, decorazione, disposizione e funzione.Nell'Occidente medievale, nonostante la vasta fioritura di forme di c. per le più disparate destinazioni, come il c.-corona di luci, la saettìa, la ersia (Vasco Rocca, 1988, pp. 55, 58), tre furono le tipologie più diffuse e significative sotto il profilo artistico: il c. da disporre nei pressi dell'altare o sulla mensa stessa (in questo secondo caso si parla generalmente di candeliere), il c. a sette bracci, il c. per il cero pasquale.Per l'età paleocristiana e altomedievale si conservano solo testimonianze iconografiche e documentarie, sufficienti tuttavia a ipotizzare l'uso di c. in relazione sia al culto funerario, in particolare dei martiri, sia a quello liturgico, in funzione piuttosto simbolica che pratica, essendo quest'ultima assolta di massima da lampade (v.) e lampadari (v.).Il c. d'altare non risulta inizialmente connesso in maniera diretta con il culto eucaristico. Prescrizioni contrarie alla disposizione sulla mensa dei c. (Leone IV, Homilia; PL, CXV, coll. 677-678; Leclercq, 1913a, col. 213) indicavano viceversa di collocarli in terra, dietro o davanti all'altare, come vengono infatti illustrati in coppia nella coperta eburnea del sec. 9°-10° conservata a Francoforte sul Meno (Liebieghaus), mentre il De gestis episcoporum antissiodorensium (PL, CXXXVIII, coll. 219-394: 249) informa - al tempo del vescovo Angelelmo (807-824) - anche della possibilità di un corredo assai più ricco, tutt'intorno all'altare (Schlosser, 18962, p. 190, doc. 594). D'altronde la pratica di disporre in terra i c. è precisata da una rubrica dell'Ordo Romanus primus (sec. 8°), che per prima testimonia anche l'uso codificato di un vero e proprio servizio di cereostata in diretto rapporto con l'ufficio della messa (Andrieu, 1931-1957, II, pp. 82-84; Righetti, 1955-1966, I, pp. 450-451). Solo a partire dal sec. 11° è accertabile la presenza dei c. sulla mensa d'altare: la testimoniano esempi come una miniatura dell'Evangeliario dell'abate Ruperto di Prüm (1026-1068), oggi a Manchester (John Rylands Lib., 7, c.130v), o l'affresco con l'episodio del Miracolo del bambino nella basilica inferiore di S. Clemente a Roma (fine sec. 11°). Più tardi tale consuetudine risulta codificata ed espressamente prescritta da Innocenzo III (1198-1216), nel De sacro altaris mysterio libri sex (PL, CCXVII, col. 811), dove un intero capitolo tratta De candelabro et cruce, quae super medio collocantur altaris. Questo pontefice dispone l'uso di due c. agli angoli dell'altare a fiancheggiare la croce, "ad significandum itaque gaudium duorum populorum" (gli Ebrei e i Gentili) resi un popolo solo da Cristo "in Ecclesia mediator" (la croce); tale prescrizione era ormai diffusa nell'inoltrato sec. 13°, se Guglielmo Durando la trascrive quasi inalterata (Rationale divinorum officiorum, I, III, Venezia 1519, p. Vr).L'argento, anche dorato, il bronzo e altre leghe affini sono i materiali più comunemente indicati per la fabbricazione dei c. nelle donazioni agli edifici di culto, come risulta, per es., sia nel Lib. Pont. sia nelle fonti documentarie di età carolingia (Schlosser, 18962), ma è noto che, per destinazioni meno importanti, venivano impiegati anche materiali meno nobili, come il ferro e il legno (Braun, 1932, pp. 498-505).Non sono chiaramente accertabili le caratteristiche di questi primi esempi, in quanto la documentazione iconografica (Leclercq, 1910; 1913a; Cabrol, 1914), lacunosa e comunque sommaria, è in grado di restituire idealmente solo gli elementi essenziali della struttura, che si configura, già nelle pitture catacombali o nelle iscrizioni funerarie, come una semplificazione del tipo in uso nell'epoca classica, costituito da una base, semplice o a più piedi, da un fusto, in molti casi percorso da nodi, e da un piattello che nasconde in parte la terminazione a punta o cilindrica per il sostegno della candela.Dello stesso tipo sono i c. raffigurati su numerosi sarcofagi ravennati o di area adriatica e di altre sculture a essi rapportabili, comprese fra il sec. 5° e l'8° (Olivieri Farioli, 1966). Fra queste, la coppia di c. scolpiti a bassorilievo nella lastra di Sigualdo (762-776) a Cividale (Mus. Cristiano) si presenta caratterizzata da un piede geometricamente modellato e da un fusto allungato, suddiviso in numerosi settori di forma affusolata. La particolare disposizione di tali c. a fiancheggiare una croce su un piano d'appoggio, che non si è certi se riconoscere come semplice partizione compositiva o, viceversa, come allusione concreta alla mensa d'altare, ha inoltre posto la questione, che rimane tuttavia irrisolta, se in essi si debba vedere o meno una precoce testimonianza di un vero e proprio servizio d'altare (Springer, 1981, p. 34).I primi esempi superstiti di c. liturgico per qualsiasi genere di destinazione risalgono al sec. 10°, ma si trovano poi sempre più frequenti in età romanica e gotica, specie nel tipo destinato al servizio d'altare. Tali esempi sono stati classificati in base sia ai materiali e alla differenziazione strutturale delle singole parti (Braun, 1932) sia alla distribuzione per aree geografiche e culturali, in ragione dei caratteri stilistici dei pezzi (Falke, Meyer, 1935). Benché suscettibili di precisazioni talvolta non irrilevanti, questi studi offrono una panoramica completa, dalla quale risulta che la produzione più fertile venne offerta dalle officine dei bronzisti dell'area compresa fra la Mosa, a O, e la Bassa Sassonia, a E, attraverso la Renania e la Vestfalia; officine in grado di fornire suppellettili liturgiche (e anche d'uso profano) su larga scala, ma allo stesso tempo contrassegnate da una ricerca originale, cui si poteva dare forma adeguata grazie a un mestiere altamente specializzato.Fra i più antichi e significativi esempi di c. di un tipo da porsi ancora presso - e non sopra - l'altare è la coppia nella Magdalenenkirche a Hildesheim, dalle linee slanciate e dalla struttura essenziale (piede piramidale, alto fusto con tre nodi, bocciolo a calice) ispirata a modelli bizantini o della Tarda Antichità, sulla cui trama risalta la forza dei contrasti formali e tematici (combattimento tra uomini e bestie; scene di vendemmia) ricercati dall'ignoto esponente della scuola scultorea promossa dal vescovo Bernoardo (993-1022), in una fase iniziale della sua attività di committente. A tale tipologia, resa più snella dall'aggiunta di due nodi su un fusto ancora più allungato e dalla rinuncia alla caratterizzazione plastica di esso, si rifà anche il pezzo isolato, ma forse in origine affiancato da un altro ora perduto, nel tesoro della cattedrale di Bamberga (Diözesanmus.), proveniente dalla zona renano-mosana e attribuibile agli anni di decanato di Hermann d'Aurach (1164-1169; Rhein und Maas, 1972-1973, I, p. 265).Nell'area mosana e in Sassonia risulta assai diffuso, dalla metà del sec. 12° al 13°, il tipo denominato Rankenleuchter, c. integralmente percorso da un motivo a tralcio piatto, solcato longitudinalmente, sul cui piede è anche possibile l'innesto di figure (angeli o evangelisti) a tutto tondo (come nel bell'esemplare nella Jacobikirche a Stendal, seconda metà sec. 13°). La soluzione decorativa di tali statuette, talvolta isolate su di un piede a calotta liscia, caratterizza un altro interessante insieme di c. della regione mosana (per es. la coppia di c. nel Diözesanmus. mit Domschatzkammer di Hildesheim, attribuita al Maestro dell'altare portatile di Stavelot, metà sec. 12°). La varietà e qualità dei bronzi prodotti in quest'area e in quella, limitrofa, del Reno sono tali da influenzare gran parte dei c. realizzati nei maggiori centri tedeschi (tra questi si segnala, in particolare, Fritzlar), a loro volta responsabili della diffusione dei medesimi tipi di c. nelle regioni scandinave. Tali processi di imitazione furono in generale assai ramificati e spesso così profondi da favorire un'ampia circolazione dei modelli (per es. il notevole c. nel Württembergisches Landesmus. di Stoccarda, di ardua localizzazione, seconda metà sec. 12°) e da non rendere sempre facilmente riconoscibili i pezzi autenticamente mosani dagli altri.Nell'ambito dello stesso quadro geografico e culturale è pure da segnalare il tipo di c. con il fusto in forma umana (il c. di Wolfram, nel duomo di Erfurt, che sembra però sia stato in origine un leggio; Die Kunstdenkmale der Provinz Sachsen, 1929) o animale (in particolare, quello in forma di drago, attestato per uso liturgico, ma soprattutto profano) e, infine, il c.d. Simsonleuchter, il cui corpo è costituito dalla rappresentazione simbolica dell'episodio biblico della lotta fra Sansone e il leone.Per la Gran Bretagna i c. conservati sono pochi, ma di così alto valore da far supporre un quadro d'origine assai ricco. La coppia di c. di Tassilone, nel tesoro dell'abbazia di Kremsmünster, di provenienza probabilmente inglese e della metà del sec. 10° (Fillitz, Pippal, 1987, pp. 9-10, 65-66), spicca non solo per precocità cronologica rispetto persino a quelli consimili di Bernoardo di Hildesheim, un tempo ritenuti i capostipiti della serie, ma anche per caratterizzazione compositiva e ricchezza di lavorazione (bronzo dorato con inserti di lamine argentee trattate a niello). Non sorprende pertanto la presenza nello stesso territorio di un capolavoro come il c. di Gloucester, originariamente nella chiesa abbaziale dedicata a s. Pietro, ora cattedrale, databile al 1107-1113, e già attribuito a un'officina continentale (Londra, Vict. and Alb. Mus.; English Romanesque Art, 1984, p. 249). Questo c. sviluppa su tutta la superficie un fittissimo intreccio vegetale e animale, echeggiante le soluzioni decorative della miniatura insulare, sul quale emerge il nodo centrale con i simboli dei quattro evangelisti e si distende, in una banda spiraliforme, l'iscrizione con il nome dei committenti, mentre sul bordo esterno del piattello un'altra iscrizione ("+Lucis on(us) virtutis opus doctrina refulgens predicat ut vicio non tenebretur homo") chiarisce la simbologia della luce nella chiave del contrasto drammatico fra virtù (la dottrina evangelica) e vizi (le scene di combattimento).In Italia, dove non manca materiale d'importazione, sopravvivono però notevoli pezzi isolati riferibili a officine locali - come quello nella parrocchiale di San Benedetto Po (già abbaziale di Polirone), forse risalente al 1070-1080 (Quintavalle, 1991), dalle forme geometriche essenziali, in linea con l'incipiente classicismo del tempo - o raffinati lavori di oreficeria, come il gruppo di coppie di c. in argento dorato, cristallo di rocca e altri materiali, del quale Venezia sembra sia stata un centro di produzione e insieme di esportazione (Venezia, Tesoro di S. Marco, inv. nrr. 28-29, metà sec. 13°; Assisi, Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco, seconda metà sec. 13°; Bari, S. Nicola, fine sec. 13°; Coimbra, Mus. Nac. de Machado de Castro, sec. 13°-14°; Hahnloser, Brugger-Koch, 1985).In questo stesso campo, tra il sec. 12° e il 14°, Limoges svolse un ruolo primario, rispondendo all'accresciuta domanda di suppellettili liturgiche (e profane) da parte della stessa Francia e delle altre nazioni europee con una produzione di ampiezza quasi industriale, capace di contrastare la supremazia dei bronzisti settentrionali con oggetti dalle forme semplici e vivacemente colorate, facilmente adeguabili ai rapidi cambiamenti del gusto (Gauthier, François, 1987).Affatto distinta dalla tipologia del c. d'altare è quella del c. a sette bracci, presente già nell'Alto Medioevo e rispondente a funzioni analoghe, benché non direttamente connesse all'ufficio eucaristico. Essa si presenta estremamente più complessa nelle forme, nell'iconografia e nella simbologia, anche in virtù delle dimensioni monumentali e del carattere quasi architettonico che di conseguenza questi manufatti assumevano. Primo esempio documentato (forse nel 779) sembra essere quello, oggi perduto, già nella chiesa del Salvatore di Aniane, descritto nella Vita s. Benedicti Anianensis come "septem [...] candelabra fabrili arte mirabiliter producta, de quorum stipite procedunt hastilia, sphaerulaeque ac lilia [...] quod Beseleel miro composuit studio" e collocato in modo tale che il numero sette, ribadito dalla presenza, nello stesso luogo, di sette altari e di sette lampade, potesse richiamare alla mente la "septiformis gratia Spiritus Sancti" (Schlosser, 18962, pp. 183-185, doc. 574; Bloch, 1961, pp. 89, 182). I caratteri descrittivi fanno supporre fosse simile ai c. presenti nelle miniature del tempo, esemplati sul modello mosaico di Bezaleel (Es. 37, 17-24), a sua volta ripreso nel rilievo dell'arco di Tito: bracci simmetrici, che si originano da un grande fusto, interrotti da sferule, con terminazioni vegetali e sgocciolatoi.Dei c. a sette bracci medievali alcuni seguono quasi letteralmente il citato modello biblico, mentre altri modificano, in una più libera interpretazione simbolica, il motivo dei bracci in rami, trasformando di fatto il mĕnōrāh in albero di Iesse. Appartiene al primo tipo solo il più antico esemplare superstite, quello della cattedrale (già chiesa abbaziale) di Essen (1000 ca.), che si crede tuttavia preceduto dai c., oggi perduti, ma documentati, di Aniane, Fulda e forse - per l'area bizantina - Costantinopoli. A queste testimonianze di arte carolingia e ottoniana fa seguito, in età romanica e nella prima età gotica, una assai più nutrita serie di opere superstiti e non, appartenenti a una vasta area geografico-culturale che abbraccia - come luoghi di produzione e/o diffusione - così l'Inghilterra (esempi, tutti perduti, ma ricordati dalle fonti, sono segnalati ad Abingdon, Bury St Edmunds, Canterbury, Durham, Hereford, Lincoln, Londra, Norwich, Salisbury, Winchester; Lehmann-Brockhaus, 1955-1960), l'Italia settentrionale (c. dell'abbazia di Klosterneuburg, oggi allo Stiftsmus., forse realizzato a Verona, prima metà sec. 12°; c. Trivulzio, nel duomo di Milano), l'area mosana e la Francia settentrionale (c. perduto, già nella chiesa abbaziale di Cluny, 1049-1109; piede di c. nel duomo di Praga, 1130-1140 ca., di impronta mosana, benché forse di officina boema; frammento di c. nel Mus. Saint-Rémi di Reims, proveniente dalla chiesa omonima, 1160 ca.), come pure Colonia e la Bassa Sassonia (per Colonia si segnala il c. perduto già nella chiesa di St. Severin, fine sec. 11°; c. nel duomo di Brunswick, 1170-1180 ca.; c. perduto, già nell'abbazia di St. Michael a Lüneburg, inizi sec. 13°; Bloch, 1961, pp. 181-190).L'esempio di Essen fissa, per via di un'iscrizione che ne nomina come committente la badessa Matilde (971-1011), un indiscutibile punto di partenza per un esame comparativo dei c. a sette bracci superstiti: le dimensioni monumentali (altezza m. 3,30; ampiezza m. 1,88), la raffinata tecnica di fusione in bronzo, la generale impronta tipologica, la simbologia, allusiva ai sette doni dello Spirito Santo ma associata a una connotazione di carattere escatologico (l'unità messianica di tutti i popoli secondo Is. 11, 1-16, alla quale ci si riferisce mediante le raffigurazioni dei Quattro venti, intesi come gli estremi confini della Terra), sono caratteristiche che sarebbero state tutte riprese in una comune linea di ricerca espressiva. Ma dalla salda fissità dello schema - su una base quadrilatera, rialzata da robuste zampe di leone, si erge il fusto di chiara semplicità che, impreziosito da nodi dalle forme essenziali, funge da rigoroso asse di simmetria per i sei bracci laterali, di altezza tale da formare alla sommità una linea orizzontale di forte evidenza visiva - emerge una concezione artistica non più condivisa dagli esempi posteriori, probabile frutto della rielaborazione da un perduto modello bizantino (forse il c. già nel palazzo imperiale di Costantinopoli) nel fervido ambiente dei bronzisti della Bassa Sassonia (Bloch, 1961, pp. 106-112). A confronto, il c. di Klosterneuburg presenta forme estremamente più slanciate (altezza m. 4,08, ma il piede è mancante; ampiezza m. 2,45) e mosse, come risultato della lavorazione a giorno del fusto - a simulazione di un motivo vegetale che richiama alla mente quello analogo delle porte di S. Zeno a Verona - e del ritmo ondulato e variato in altezza dei bracci, nel chiaro intento di visualizzare l'immagine simbolica dell'albero di Iesse.Sembra segnare un parziale ritorno alle proporzioni misurate di Essen il c. del duomo di Brunswick (altezza m. 4,80; ampiezza m. 4), percorso tuttavia da un sottile linearismo che si combina felicemente con il lieve slittamento in altezza dei bracci, riprendendo la variante di Klosterneuburg: tali soluzioni sono ripetute, ma con diverso senso dinamico, nel capolavoro del duomo di Milano, che attende ancora una definitiva precisazione cronologica e d'ambito, da risolversi - sembra - entro l'ambiente milanese intorno al 1200 (Homburger, Deuchler, 1988, pp. 268-270). In esso, alla complessità iconografica, tesa a sottolineare il ruolo della Vergine nella storia dell'umanità, fa riscontro una varietà di soluzioni plastiche e decorative del tutto nuove, benché talora radicate in una tradizione che sembra avere nell'area renano-mosana almeno un punto di riferimento centrale.Anche la diffusione di questo tipo di c. è vasta nel sec. 14° e in età tardogotica, tuttavia la struttura viene adeguata all'espressione del tema, reso più essenziale, del c. come semplice sostegno di luci, benché pur sempre allusivo dei sette doni dello Spirito Santo. Ne fornisce un esempio il c. della Busdorfkirche di Paderborn (1300 ca.), che ritorna alle semplici forme del prototipo di Essen, con la riduzione a calotta del piede, la resa liscia del fusto e l'allineamento in orizzontale dei boccioli dei bracci, che seguono tuttavia un nuovo ritmo ondulato, quasi barocco. Di simile struttura anche il c. nel duomo di Kołobrzeg (Polonia), fuso nel 1327 da Johannes Apengheter, dove, pur restando immutate le forme semplificate del piede e del fusto, questo viene arricchito con il motivo iconografico, senza precedenti, dei dodici apostoli e i bracci riprendono l'impronta dei modelli ormai storici di Brunswick e di Milano. Se questo tipo sembra aver goduto di larga fortuna ben oltre l'età gotica, il c. nella Marienkirche di Francoforte sull'Oder (ultimo quarto sec. 14°) presenta forme radicalmente nuove e prive di seguito: un piede troncoconico su quattro aquile sorregge l'ampio fusto, dove una minuta decorazione figurata dà vita a un ciclo cristologico assai complesso - dall'Annunciazione fino alla Pentecoste - intercalato da un tralcio di vite che origina due soli bracci principali, dai quali si dipartono le terminazioni secondarie, anch'esse in forme vegetali.Una tipologia distinta di c. è infine rappresentata dal c. per il cero pasquale, inizialmente forse legata a quella del c. d'altare, ma tendente a un più marcato sviluppo in altezza, in dipendenza del diverso impiego liturgico. Se ne fa risalire l'origine ai primi secoli del cristianesimo, come indirettamente prova l'antichità del canto intonato nella cerimonia di benedizione del cero (Exultet), che nell'Italia settentrionale accompagnava, in una formula non ancora codificata, la liturgia del Sabato Santo fin dal sec. 4° (Girolamo, Ep., XVIII; PL, XXX, col. 182). Questo rituale si diffuse alquanto rapidamente in tutto il mondo cristiano, ma ricevette particolare risalto nell'Italia centromeridionale almeno dal sec. 10°, dove la tarda redazione romana dell'Exultet sembra essersi successivamente imposta attraverso la riforma di Stefano X (1057-1058). Qui, alla realizzazione di c. marmorei di forme monumentali echeggianti prototipi classici si affiancava un arredo presbiteriale di effetto spettacolare, che nella notte di Pasqua forniva la cornice più idonea all'esaltazione simbolica della luce sulle tenebre, come segno della vittoria della vita sulla morte. La struttura a colonna che tali manufatti assunsero, oltre a consentire una notevole elevazione del cero, rimandava simbolicamente alla columna ignis dell'esodo biblico, in segno di una liberazione del tutto spirituale, precisata in termini figurativi dalla decorazione vegetale, allusiva dei frutti di tale rigenerazione, mentre il coronamento a vaso, che in alcuni casi si riscontra, rinviava al tema battesimale dell'acqua, la cui benedizione avveniva nella stessa notte di Pasqua.Non mancano nel resto d'Italia e d'Europa esempi d'altra materia (di solito il bronzo) e struttura (conformata al tipo del c. da porre nei pressi dell'altare) a documentare un'ampia diffusione dei c. pasquali. Le fonti raccolte per la Gran Bretagna (Lehmann-Brockhaus, 1955-1960) provano infatti la perdita di un cospicuo materiale. Inoltre, dalla zona mosana, specializzata nelle c.d. dinanderies, provengono suppellettili di rilevante interesse - come il c. dell'abbazia di Postel, della metà o del terzo quarto del sec. 12°, o quello dell'abbazia di Parc, della fine del sec. 12° o già del 13° (entrambi a Bruxelles, Mus. Royaux d'Art et d'Histoire, inv. nrr. 2876, 1954; Rhein und Maas, 1972-1973, I, p. 254; Tesori dell'arte mosana, 1974, pp. 33-34; Etude technologique, 1987) - che nel sec. 14° trovano espressione in pezzi monumentali ancora completi del leggio come integrazione liturgica, oppure elaborati a combinare in un medesimo oggetto le due distinte funzioni: aquila-leggio e c., del 1372, della basilica di Notre-Dame a Tongres in Belgio, firmato da Jehan Joséz de Dinant (Paquay, 1903), leggio-c. della cattedrale di S. Lorenzo a Genova, da ritenersi dello stesso ambito cronologico-culturale (Squilbeck, 1941), leggio-c. di Saint-Ghislain in Belgio, datato 1442 e firmato da Guillaume Le Fèvre (Etude technologique, 1984).Nell'Italia centromeridionale il c. della chiesa di S. Maria della Pietà di Cori (prov. Latina) si propone come il più antico di quelli superstiti (1100 ca.), ma rimane in qualche modo isolato rispetto ai possibili principali raggruppamenti che sembra lecito delineare, distinguendo, almeno per le fasi cronologiche iniziali e comunque non rigidamente, un'area campano-cassinese, una romana e una abruzzese.Dell'ambiente cassinese prime testimonianze di c. pasquali sono offerte dalle miniature dei rotoli pergamenacei di Exultet: in particolare, nelle scene di accensione del cero dei più antichi di essi (per es. Roma, BAV, Vat. lat. 9820, databile al sec. 10°), il c. si presenta già in forma di alta colonna, talvolta poggiante su base semplice o in forma di vaso, con fusto monolitico o ripartito in più settori, arricchito da inserti vegetali e floreali presumibilmente veri. Del ruolo centrale che quest'area - e al suo interno Montecassino - giocò nella diffusione di tale tipo di arredo fornisce inoltre valido indizio, per la precocità della testimonianza, la descrizione del perduto c. desideriano (realizzato intorno al 1071) della stessa chiesa abbaziale cassinese (Chronica monasterii Casinensis; MGH.SS, XXXIV, 1980, p. 404), dove un frammento marmoreo e una base porfiretica gli sono stati recentemente e in via ipotetica riferiti (Roberts, 1984, pp. 163-164; Claussen, 1987, p. 30, n. 170).Di certo, però, dal punto di vista formale e dell'impiego dei materiali, esiste una consistente distanza, anche cronologica, fra questa 'colonna argentea' e il gruppo dei c. ancora esistenti in Campania e in Sicilia, come quelli di Cava de' Tirreni (abbazia della SS. Trinità, secondo quarto sec. 12°), Amalfi (cattedrale, 1170 ca.), Salerno (cattedrale, 1180 ca.), Capua (cattedrale, 1180-1210 ca.), Ravello (S. Giovanni in Toro, 1200 ca.), Palermo (cattedrale, sec. 13°; Cappella Palatina, fine sec. 12°-prima metà 13°), Sessa Aurunca (cattedrale, terzo quarto sec. 13°, firmato dallo scultore Pellegrino), per citare solo i più noti. In essi il ricorso al marmo bianco - anziché all'argento sbalzato in lamine -, plasticamente rilevato nei nodi architettonici più significativi o anche sul fusto e arricchito da frequenti inserti mosaicati, favorisce un risultato di maggiore unità rispetto a quanto si può presumere in voga nell'11° secolo. Inoltre, se il fasto decorativo - di stampo antichizzante e insieme bizantineggiante - può farsi risalire all'ascendente desideriano, la decorazione figurata, talvolta essenziale (come nel solenne esempio di Salerno), altre volte attuata con vivace gusto narrativo (come nel caso di Capua), risulta carattere distintivo del gruppo dei c. campani del 12°-13° secolo. Quello della Cappella Palatina di Palermo se ne distingue per la rinuncia ai motivi a mosaico policromo, compensata dall'estensione del rilievo a tutto il corpo, come risultato di una più integrale imitazione di prototipi classici e dell'attuazione di un programma iconografico forse inteso a esaltare la dignità imperiale di Enrico VI di Svevia (Roberts, 1984, pp. 84-104). Il gusto classicistico, che aveva profondamente alimentato intorno agli anni ottanta del sec. 12° gli scultori del bocciolo del c. salernitano e, di seguito, di quello di Capua, trova infine nel bocciolo palermitano, aggiunto in età federiciana, ancora maggiore risalto.Anche a Roma prevale l'impronta antichizzante nel primo e più importante esemplare conservato, quello della basilica di S. Paolo f.l.m., firmato dagli scultori Nicola d'Angelo e Pietro Vassalletto e realizzato, verosimilmente, all'inizio del pontificato di Innocenzo III (1198-1216). Il riferimento al passato sembra però evidenziare uno studio quasi sistematico dei sarcofagi paleocristiani, anziché il ricorso occasionale ai modelli del classicismo paganeggiante, nello sforzo - assai più esplicito che altrove - di proporre un equivalente cristiano delle colonne onorarie romane; tale finalità trova forma visibile sia nella struttura monumentale e integralmente marmorea dell'insieme sia nell'esteso ciclo cristologico che ne decora i settori centrali. Il contrasto tematico fra questi e le altre parti figurate si presta anche qui, come a Palermo, a una lettura attualizzante, ma in una chiave diversa, forse antiimperiale e anti-giudaica (Noehles, 1966; Bassan, 1988).Tale concentrazione di intenti cede il posto, nella successiva produzione dell'area romana, ad ambizioni ridotte sul piano rappresentativo, ma ugualmente funzionali su quello decorativo e simbolico, che danno luogo a un tipo comune di c., costituito da una serie invariata di elementi: alta colonna tortile mosaicata, base spesso figurata, coronamento in forma di capitello o di vaso. Il fervore manifestato nel sec. 13° nel rinnovamento degli arredi presbiteriali di molte chiese del Patrimonium Petri è testimoniato anche dalla nutrita serie di c. pasquali ancora in buona parte integri. Si segnalano, a Roma, quelli delle chiese di S. Cecilia in Trastevere, S. Clemente, S. Lorenzo f.l.m., Ss. Cosma e Damiano, S. Maria in Cosmedin (firmato da Paschalis, 1300 ca.); nel Lazio, quelli del duomo di Ferentino (attribuibile a Drudo de Trivio, 1240 ca.), del duomo di Terracina (1248), della chiesa di S. Maria Assunta a Lugnano in Teverina, della cattedrale di Anagni (firmato da un Vassalletto, 1260 ca.).Più esiguo è il numero dei c. pasquali abruzzesi ancora esistenti. Per la prima età romanica si ricorda il solo e quasi rudimentale esempio di S. Maria in Cellis a Carsoli (1130 ca.), per il sec. 13° quello di S. Maria di Bominaco e, nel 1300 ca., quelli di S. Maria Arabona e S. Clemente a Casauria, dove le forme tradizionali, ispirate in parte ai modelli campani filtrati attraverso la robusta e vivace sensibilità locale, subiscono una modifica compositiva nel settore di coronamento, che assume la fantasiosa struttura di un tempietto, allusivo al sepulchrum resurrectionis, già presente peraltro, ma in modi più timidi, nel citato c. di Cori (Torp, 1962, p. 102).Queste soluzioni, di carattere prevalentemente ornamentale, riflettono il venir meno dell'originaria stretta correlazione fra dramma liturgico e ricerca espressiva, come si può constatare anche nel programma iconografico del c. del duomo di Gaeta, forse realizzato da un maestro di cultura campano-abruzzese intorno al 1340, che affianca un esteso ciclo cristologico a un minuto resoconto della storia del patrono locale s. Erasmo, risolti, anche sul piano interpretativo, in una vivace ma poco impegnativa chiave descrittiva (Pippal, 1984).

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Area bizantina

Nelle fonti bizantine il termine che designa i c., distinguendoli dai più piccoli candelieri (kathístai kandélai), è manuália o keromanuália (Du Fresne Du Cange, 1688, coll. 570-571; 873); a esso si aggiungono altre denominazioni (dodekaphótia, obeliskolychníai e stataréai), che identificano però specificamente c. liturgici di grandi dimensioni, provvisti anche di un disco regolabile sul quale erano collocati da sei a dodici candelieri (Buras, 1982).Le testimonianze testuali sono ricche d'informazioni al riguardo: si ricorda in particolare l'ékphrasis composta in occasione della seconda consacrazione della Santa Sofia di Costantinopoli (562), nella quale Paolo Silenziario evoca, in uno dei più suggestivi brani dell'intero poema, la splendida illuminazione notturna dell'edificio, fornendo anche specifiche notizie sui diversi tipi di lampade, lampadari e c. (Friedländer, 1912, pp. 291-294; Mango, 1972, pp. 89-91). Decantando la fantasmagoria delle innumerevoli luci, egli si sofferma estesamente a descrivere, tra l'altro, i c., sia quelli collocati su due bassi piedistalli semicircolari in prossimità del santuario, sia quelli in forma di cantari sul ciborio dell'altare, sia quelli dell'ambone e della recinzione presbiteriale. Questi ultimi, posti sulla trabeazione e paragonati "a pini e cipressi dal tenero fogliame", avevano un sottile stelo con una serie di dischi orizzontali degradanti e, sulla sommità, "fiori di fuoco"; al centro di questa "vegetazione fiammeggiante" dominava una croce splendente di luce (Antoniades, 1909, figg. 243, 256).Altre notizie ancora più dettagliate sul corredo di luci della Santa Sofia giustinianea si ricavano dall'anonima Narratio de aedificatione templi S. Sophiae, della seconda metà del sec. 6°, relativa alla costruzione della chiesa (Dagron, 1984, pp. 206-207), nella quale vengono elencati tra gli arredi liturgici donati dall'imperatore trecento lampadari (lychníai) d'oro, ognuno del peso di 40 libbre, e ben seimila candelieri d'oro massiccio in forma di corone (polykándela) o di grappoli (botrúdia). Vengono inoltre menzionati numerosi c. (manuália): due d'oro massiccio con pietre preziose e perle del valore di cinque centenari d'oro e altri due di notevoli dimensioni, interamente di cristallo su una base di oro massiccio, che valevano un centenario d'oro, per i quali l'imperatore fece fare anche dei doppieri dorati e gemmati da fissare sulla sommità; a questi si aggiungono cinquanta grandi c. d'argento massiccio e altri duecento, ugualmente d'argento massiccio, alti quanto un uomo, destinati al santuario.Altrettanto ricca e multiforme era l'illuminazione del Grande Palazzo imperiale di Costantinopoli, dove secondo le fonti (Pátria Konstantinupóleos I, 59) doveva trovarsi anche un grande c. a sette bracci da cui derivò appunto la denominazione della cupola τῆϚ ῾Επταλύχνου (Strauss, 1959).Grande interesse rivestono gli inventari ecclesiastici e i typiká dei monasteri medio e tardobizantini che elencano i diversi oggetti destinati all'illuminazione, specificandone le denominazioni, il numero, la collocazione e la funzione nelle singole liturgie, e forniscono anche informazioni sui costi della cera, sul peso delle candele, sovente prodotte negli stessi monasteri. Nel typikón del 1136 del monastero del Pantocratore a Costantinopoli (Gautier, 1974), che contiene forse le notizie più particolareggiate al riguardo, tra i molti oggetti sono menzionati anche due c. a dodici luci (dodekaphótia) dinnanzi all'icona di Cristo e sei c. con candele di 8 libbre nel coro, dove era un altro grande c. in prossimità del sýnthronon. Non meno importante è l'inventario del 1084 del monastero greco di Gregorio Pakurianos, che enumera un rilevante numero di servizi per l'illuminazione comprendenti anche dodici c. grandi, due piccoli di bronzo, un c. del témplon e due c. arcuati denominati kamárai manuália (Buras, 1982, p. 481).Nelle fonti vengono altresì ricordate le lámnai e le kosmetarítzia, vale a dire supporti metallici orizzontali con c. e lampade che venivano sovrapposti all'epistilio del témplon (Buras, 1982, p. 480). Con una lámna potrebbe essere del resto identificata quella "trabem quoque nihilominus fusilem ex aere cum candelabris numero L, in quibus utique totidem cerei per festivitates praecipuas ponerentur, lampadibus subter in aereis uncis ex eadem trabe XXXVI dependentibus" (Chronica monasterii Casinensis, III, 32), che l'abate Desiderio fece fare, insieme a una serie di c. di bronzo e di argento dorato cesellato alti 3 cubiti, a Costantinopoli tra il 1068 e il 1071 per la basilica dell'abbazia di Montecassino (Bloch, 1986). Le kamárai tòn proskynemáton erano analoghi supporti per c., ma arcuati, destinati alle grandi icone collocate ai lati del bema (Buras, 1982, p. 480).Per la maggior parte i c. menzionati nelle fonti medio e tardobizantine erano di bronzo, pochi di ferro, mentre altri, come quelli elencati nell'inventario del 1396 della Santa Sofia di Costantinopoli (Acta et diplomata Graeca, 1862, pp. 566-570), erano invece di diaspro e di cristallo di rocca. L'illuminazione delle chiese viene sovente parafrasata in chiave simbolica. Secondo Simeone di Tessalonica, per es., le lampade in forma di albero luminoso evocherebbero la Trinità, i c. a sette bracci le sette virtù, mentre quelli con dodici luci alluderebbero agli apostoli (Galavaris, 1978).Alle testimonianze testuali si affianca un'interessante serie di documenti iconografici, tra i quali, per il sec. 6°, si segnalano in particolare due pannelli nell'abside della basilica eufrasiana di Parenzo (sesto decennio del secolo) sui quali sono intarsiati con madreperle c. dal sottile stelo scandito da nodi (Terry, 1986, figg. 23-24); nella stessa basilica si rammentano inoltre i mosaici sulla parete alta della facciata con sette grandi c. 'apocalittici' (Molajoli, 1940, fig. 33). In una miniatura del Vangelo di Rabbula, del 586 (Firenze, Laur., Plut. 1.56, c. 9v), è invece rappresentato, accanto a un evangelista intento a scrivere, un alto e sottile tripode reggilampada.Per l'epoca medio e tardobizantina si segnalano innanzi tutto alcune miniature delle Omelie di Gregorio Nazianzieno, dell'880-883 (Parigi, BN, gr. 510, cc. 43v, 67v), e del Menologio di Basilio II, del 985 ca. (Roma, BAV, Vat. gr. 1613, cc. 277, 284, 303, 332), nelle quali sono rappresentati grandi c. gemmati o istoriati con stelo a balaustro assai simili a quello affrescato nel parekklésion del katholikón di Hosios Lukas o a quello riprodotto a mosaico nel S. Marco a Venezia (Buras, 1973, tav. 6a-b). In una miniatura della Cronaca di Giovanni Skilitze sono raffigurati invece quattro grandi c. dietro il catafalco dell'imperatore Michele II (Madrid, Bibl. Nac., Vit. 26-2, c. 42a); la specifica funzione funeraria dei c. viene del resto documentata anche nelle scene con la Kóimesis della Vergine (Galavaris, 1969, tavv. IV, 11; VIII, 44; LXIII, 328; LXX, 363).Il ricco tesoro di arredi liturgici d'argento rinvenuto all'inizio di questo secolo in Siria, non lungi dalla città di Ḥamā, offre una tra le più importanti testimonianze sui c. liturgici del 6° secolo. Comprende infatti due c. portaceri o portalampade (alti cm. 52-53), che recano incisi i nomi di coloro che li donarono alla chiesa dei Ss. Sergio e Bacco del villaggio di Kaper Koraon (Baltimora, Mus. of Art; Mundell Mango, 1986, nrr. 11-12). Essi sono caratterizzati, come del resto un analogo esemplare di bronzo conservato a Parigi (Mus. de Cluny; Caillet, 1985, nr. 149), da uno stelo modellato a guisa di colonna con capitello corinzio su un piede in forma di calice esagonale rovesciato con tre zampe ferine. A questi esemplari si avvicina anche una coppia di c. reggilampade di bronzo (alti cm. 118-120) trovati a Ḥimṣ in Siria e oggi a Washington (Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.; Ross, 1962, nr. 39), dove è conservato un altro contemporaneo portalampada, ugualmente di bronzo, rinvenuto in Egitto (alto cm. 102 ca.; Ross, 1962, nr. 38), il cui stelo, scandito da una serie di nodi modanati concavi e convessi, appare assai vicino a quello dei c. raffigurati sui pannelli parentini. Numerosi altri esemplari del medesimo tipo o di più piccole dimensioni, per lo più datati ai secc. 5°-7° (per es. tre piccoli c. o reggilampade a Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.; Ross, 1962, nrr. 33, 34, 40), caratterizzati da un elegante disegno derivato da modelli classici, sono stati trovati in Asia Minore e soprattutto in Egitto e in Siria, dove vi erano opifici specializzati nella lavorazione del bronzo (Berlino, Mus. für spätantike und byzantinische Kunst; Wulff, 1909-1911, I, nrr. 991-996; Magonza, Römisch-Germanisches Zentralmus.; Volbach, 1921, nrr. 47-49). Di manifattura egiziana sono anche alcuni contemporanei c. liturgici di bronzo con il fusto in forma di croce (Berlino, Mus. für spätantike und byzantinische Kunst; Wulff, 1909-1911, I, nr. 994; Springer, 1981, p. 34).Per il sec. 6° si rammentano infine i frammenti di tre c. di lamina d'argento rinvenuti a Sadoveč in Bulgaria siglati da marchi di controllo, forse di Giustiniano, che avevano una coppa decorata a sbalzo con foglie di acanto (Gerasimov, 1967).Assai meno numerosi sono invece gli esempi di epoca medio e tardobizantina. Si tratta per lo più di c. liturgici bronzei di grandi dimensioni, come i due c. detti 'degli Amalfitani' nella Grande Lavra al monte Athos (del tipo dodekaphótia), con un disco regolabile a dodici candele posto sulla sommità del fusto, variamente sagomato, che raggiunge cm. 141 di altezza. Come suggeriscono le eleganti proporzioni della struttura puramente geometrica dei c. e lo stile della raffinata decorazione niellata con ornati vegetali stilizzati e iscrizioni cufiche, che riflettono peraltro la grande diffusione in area ellenistica del repertorio islamico, i c. possono essere datati alla seconda metà del sec. 11° (Buras, 1989-1990). Di notevole interesse è altresì il c. nella basilica del monastero di S. Caterina sul monte Sinai, di forma analoga, ma più elaborata nelle sagome dello stelo, scandito da nodi spiraliformi e con decori incisi a soggetto animale sulla base e busti di sottili guerrieri sul nodo superiore, che suggeriscono una datazione al sec. 12° (Buras, 1989-1990).Ancora più imponente è la coppia di c. di bronzo (alti cm. 163) che si trovano nel nartece del katholikón del monastero delle Metamorfosi alle Meteore. Ognuno dei due c. è fuso in cinque sezioni: la base circolare baccellata poggiante su tre leoni stilizzati, le tre parti del fusto, formato da una sorta di scatola traforata tra due sezioni con quattro fettucce annodate, e la coppa, alla quale si sovrappone un disco traforato per i candelieri (Buras, 1973). Da un punto di vista tipologico e stilistico i due c., che sono stati datati al sec. 12°-13°, si avvicinano a un esemplare bronzeo da Smirne (alto cm. 137) oggi a Berlino (Mus. für spätantike und byzantinische Kunst), con il fusto, su base circolare lobata, caratterizzato ugualmente da due sezioni, con quattro fettucce o colonnine annodate, intercalate da un nodo prismatico (Volbach, 1930, nrr. 62-63), e, soprattutto, alla notevole coppia di c. di bronzo nella chiesa di S. Giorgio Maggiore a Venezia, che mostrano un'analoga complessa struttura architettonica. Su una base mistilinea con tre mezze figure di leoni s'imposta l'alto fusto formato da due sezioni 'architettoniche' interrotte al centro da un quadruplice nodo: ognuna delle sezioni presenta quattro colonnine con capitelli corinzi, di cui la superiore, a guisa di edicola, è coronata da una cupoletta (Il tesoro di San Marco, 1971, pp. 149-151, tav. CXXXIII). Anche la datazione di questi c., che s'impongono per l'alta qualità della manifattura, apprezzabile sin nei minimi dettagli dell'ornamentazione, può essere circoscritta al 12° e al 13° secolo.Rientrano nella medesima tipologia anche due c. di legno conservati rispettivamente ad Atene (Byzantine Mus.) e a Parigi (Coll. Basilewski; Buras, 1973, p. 139, tav. 16). Un altro grande c. ligneo di Kastoria presenta invece una struttura assai più semplificata (Orlandos, 1938, p. 191, fig. 128).Si segnala inoltre un c. di bronzo a Berlino (Mus. für spätantike und byzantinische Kunst; Wulff, 1909-1911, II, nr. 1980), caratterizzato ugualmente da una struttura 'architettonica', con un fusto cilindrico decorato con pelte traforate che poggia su una base in forma di edicola cupolata in parte analoga a quella dei c. veneziani.L'ornamentazione di questa serie di c. trova ampio riscontro nel repertorio della scultura bizantina dei secc. 11°-13°: il motivo delle palmette e delle archeggiature dei c. del monastero delle Metamorfosi alle Meteore è assai diffuso sugli epistili, così come le colonnine annodate costituiscono un elemento architettonico ricorrente negli edifici religiosi mediobizantini. Parallelamente si notano stilemi di gusto islamico, ravvisabili specificamente nella decorazione niellata e a traforo, nonché negli schematizzati leoni dei c. del monastero delle Metamorfosi alle Meteore, che possono essere infatti avvicinati a bronzi dei secc. 11° e 13° di manifattura selgiuqide.

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Islam

Nell'arte islamica medievale la tipologia del c. occupa un posto di rilievo nell'ambito degli oggetti destinati all'illuminazione. Prevalentemente metallici, i c. islamici si dividono in due gruppi principali: il primo è costituito da esemplari ad alto fusto poggianti su un tripode o su una base circolare (manāra); il secondo corrisponde più propriamente alla tipologia occidentale del candeliere ed è costituito da esemplari con base troncoconica da cui si diparte il sostegno per la candela (sham῾dān).Tra i più antichi c. islamici sono da annoverarsi diversi esemplari in bronzo ad alto fusto, su tripode, strettamente legati a modelli tipologici classici, giunti in ambito islamico tramite l'arte copta. A questa serie di c. appartengono un esemplare protoislamico conservato a Siracusa (Mus. Naz. di Palazzo Bellomo; Allan, 1986, p. 21, fig. 10) e due esemplari analoghi oggi a Toledo (Mus. Arqueológico; Torres Balbás, 1973, fig. 605). Una novità stilistica nella tipologia dei c. ad alto fusto è costituita dall'apparizione in area mediterranea, tra il sec. 9° e il 10°, di esemplari 'architettonici' come quello conservato a Copenaghen (Davids Samling; Al-Andalus, 1992, nr. 11, p. 22). Questo c. omayyade di Spagna del sec. 10° è caratterizzato da un piede circolare che sorregge un globo decorato con un'iscrizione cufica e presenta un fusto a baldacchino con sei colonnine che sorreggono una cupola lavorata a traforo e sormontata da statuette ornitomorfe. L'aspetto 'architettonico' si ritrova in c. egiziani, come testimonia quello di un artigiano cristiano, del sec. 9°-10° (Berlino, già Kaiser-Friedrich-Mus.), caratterizzato da una base cupolata sostenuta da quattro colonnine che sorregge un fusto ad archetti (Allan, 1986, fig. 21, p. 30), o un portalampade nordafricano del sec. 11°-12° (Petralìa Sottana, prov. Palermo, chiesa Madre; Gabrieli, Scerrato, 1979, fig. 243), caratterizzato da un fusto a torre esagonale, che ha alla sua sommità delle figurine di uccelli molto simili a quelle presenti nei c. spagnoli del tipo di quello di Copenaghen.Più vicini ai modelli copti di ispirazione classica, che non legati a prototipi limosini come sostenuto da Melikian-Chirvani (in Arts de l'Islam, 1971, p. 109) e da Fehérvári (1976, p. 123), sono alcuni c. mamelucchi in bronzo che ebbero una particolare diffusione nel corso del 14° secolo. Si tratta di c. formati da un tripode piramidale, spesso decorato con incrostazioni, come è possibile osservare nella base conservata a New York (Madina Coll.; Atil, 1981, nr. 17), che poggia su piedini zoomorfi stilizzati. Il fusto cilindrico può essere molto semplice e decorato con motivi a nodi ovali, come nel c. di Londra (Keir Coll.; Fehérvári, 1976, nr. 161).Un notevole successo ebbe, alla fine del sec. 12°, la tipologia dello sham῾dān a base troncoconica. Tra le prime testimonianze di questo tipo di c. va segnalata la rappresentazione di un esemplare presente in una miniatura del Warqa wa Gulshāh (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., H. 841; Ateş, 1961, tav. 7, fig. 20), dipinto tra la fine del sec. 12° e gli inizi del successivo. Di questo tipo di c. sopravvive oggi un gruppo omogeneo che fa pensare a un unico centro di produzione nel Khorasan (Baer, 1983, pp. 26-27, 331 n. 2). Questi esemplari, ancora relativamente poco studiati, sono caratterizzati da un ampio repertorio decorativo e dall'uso della tecnica dell'incrostazione in rame e argento. Tra gli esempi noti deve essere considerato il c. conservato a Washington (Freer Gall. of Art; Atil, 1971, nr. 60), cui può essere accostato per stringente analogia il c. di Parigi (Louvre; Migeon, 19272, p. 43, fig. 233). La base di entrambi è decorata su tre registri orizzontali: quello centrale, di maggior superficie, è ornato con esagoni imbricati incisi e incrostati, i due minori sulla spalla e alla base sono decorati con figurine di leoni che ricordano quelle presenti sul collo di numerose brocche della fine del sec. 12°-inizi 13°, di cui fa parte anche l'esemplare datato 577 a.E./1181 e conservato a Tbilisi (Gosudarstvennyj mus. Gruzii; Baer, 1983, p. 102). Con questi esemplari, gli sham῾dān khorasanici della fine del sec. 12°-inizi 13° possono avere in comune anche un repertorio iconografico a sfingi alate, come nel c. conservato in una coll. privata (Melikian-Chirvani, 1975, figg. 14-15). In altri casi, come nell'esemplare del Cairo (Mus. of Islamic Art; Rosen-Ayalon, 1972, p. 177), il c. è arricchito da statuette ornitomorfe poste sul piatto superiore della base. Una caratteristica importante in questi esemplari è costituita dal bocciolo, disposto in cima alla canna che sorregge la candela, che imita in scala ridotta la forma della base dell'oggetto; questo aspetto si ritrova in tutti gli sham῾dān successivi, indipendentemente dalla forma dell'oggetto o dal luogo di produzione.Sin dagli inizi del sec. 13° la tipologia del c. troncoconico si diffuse in tutto il mondo islamico orientale. Uno degli aspetti più significativi di questo tipo di oggetti va ricercato nella varietà e sontuosità del repertorio ornamentale, che include, tra l'altro, soggetti come i Lavori dei mesi, pressoché ignoti nel resto della metallistica.Il più antico c. troncoconico firmato e datato appartiene a questa nuova serie di manufatti: si tratta di un esemplare con la base a tronco di cono opera di Abū Bakr ibn Ḥajjī Jaldak, ghulām ('apprendista') di Aḥmad ibn ῾Umar al-Dhakī al-Mawṣīlī, datato 622 a.E./1225-1226 e conservato a Boston (Mus. of Fine Arts). Secondo Rice (1949) l'oggetto potrebbe essere stato prodotto in una bottega di Amida, nella Mesopotamia settentrionale. Il c. è in ottone incrostato con argento e bitume e presenta scene di vita di corte secondo un repertorio iconografico frequente in numerosi esemplari successivi. Analogo per forma è un altro c., opera di Dā'ūd ibn Salāma, anch'egli artista mawṣīlī, datato 646 a.E./1248-1249 e conservato a Parigi (Mus. des Arts Décoratifs; Baer, 1989, pp. 17-18, tavv. 53-54), che presenta un impianto iconografico a soggetti cristiani tipico di numerosi oggetti in bronzo e ottone dell'arte ayyubide.In area azerbaigiana, tra la fine del sec. 13° e gli inizi del successivo, ebbero particolare successo gli sham῾dān troncoconici con i fianchi della base convessi, in molti dei quali compare l'iconografia dei Lavori dei mesi (Rice, 1954; Atil, 1972). È il caso di uno dei due c. provenienti da Santa Maria in Vulturella, oggi conservato a Roma (Mus. del Palazzo di Venezia; Rice, 1954, p. 18; Gabrieli, Scerrato, 1979, fig. 507).La stessa iconografia si ritrova in diversi altri esemplari di epoca ilkhanide, come in quelli di Istanbul (Türk ve Islam Eserleri Müz.; Rice, 1954, p. 18) o nello splendido c. di Bologna (Mus. Civ. Medievale; Rice, 1954, pp. 18-19), caratterizzato dall'unione di due repertori iconografici: i Lavori dei mesi, in medaglioni minori sulla spalla e nella parte inferiore della base, e scene di caccia reale, in medaglioni maggiori disposti al centro della base dell'oggetto. Quest'esemplare, firmato da Shīrīn (o Shērēn) ibn Aḥwāḍ, è tuttora discusso per quanto concerne la provenienza: Rice (1954, p. 19) lo considerò caucasico in base alla nisba dell'artefice, ma Melikian-Chirvani (1985, p. 227) ha proposto una sua provenienza da Konya, dove del resto fiorì un'imponente produzione di candelabri. Dall'Anatolia orientale provengono diversi esemplari di c. troncoconici con i fianchi della base convessi; molti di questi presentano un repertorio decorativo geometrico, come lo sham῾dān conservato nella Nuhad es-Said Coll. (temporaneamente a Oxford, Ashmolean Mus. of Art and Archaeology; Melikian-Chirvani, 1985, pp. 229-239, tav. IIIa) o un altro c. conservato a Istanbul (Türk ve Islam Eserleri Müz.; Rice, 1954, tav. 7).Tra i c. di questo periodo meritano di essere presi in considerazione diversi esemplari troncoconici a pianta poligonale, come quello a nove lati di base (Parigi, Mus. des Arts Décoratifs) o l'analogo della fine del sec. 13° (Parigi, Louvre), provenienti dal Fārs e dall'Iran occidentale (Melikian-Chirvani, 1973, pp. 62-65).Il sec. 14° vide una riproposizione della forma a tronco di cono rovesciato soprattutto in c. iranici ed egiziani. Di questo tipo di c. si trova già una testimonianza in una miniatura dello smembrato Shāhnāma Demotte conservato a Washington (Freer Gall. of Art), che rappresenta la Lamentazione funebre per Iskandar (Alessandro Magno), databile intorno al 1320 (Melikian-Chirvani, 1987, tav. VI). È interessante notare che, pur sopravvivendo in questi esemplari tardomedievali il repertorio iconografico figurativo, come nelle scene di caccia presenti nel c. conservato a Teheran (Iran Bastan Mus.; Melikian-Chirvani, 1987, fig. 2), particolare successo ebbe una decorazione in cui si privilegiava il repertorio calligraficoepigrafico, ispirato a maggiore sobrietà di scritture, come quella thulth, o a cartigli epigrafici, come nel c. di Boston (Mus. of Fine Arts), datato 708 a.E./1308, che proprio in uno degli esemplari della miniatura dello Shāhnāma Demotte sembra trovare puntuale riscontro (Melikian-Chirvani, 1987, fig. 7).

Bibl.: G. Migeon, Manuel d'art musulman. Arts plastiques et industriels, II, 1-2, Paris 1907 (19272); D.S. Rice, The Oldest Dated ῾Mosul᾽ Candlestick. A.D. 1225, BurlM 91, 1949, pp. 334-341; id., Studies in Islamic Metal Work, Bulletin of School of Oriental and African Studies 15, 1953, pp. 489-503; id., The Seasons and the Labors of the Months in Islamic Art, Ars orientalis 1, 1954, pp. 1-39; L. Torres Balbás, Candiles con soporte, in Crónica arquéológica de la España musulmana, Al-Andalus 22, 1957, pp. 198-202: 131-202; A. Ateş, Un vieux poème romanesque persan: Récit de Warqah et Gulshāh, Ars orientalis 4, 1961, pp. 143-152; Arts de l'Islam des origines à 1700 dans les collections publiques françaises, a cura di A.S. Melikian-Chirvani, cat., Paris 1971; Exhibition of 2500 Years of Persian Art, a cura di E. Atil, cat., Washington 1971; E. Atil, Two Īl-Hānīd Candlesticks at the University of Michigan, Kunst des Orients 8, 1972, pp. 1-33; M. Rosen-Ayalon, Four Iranian Bracelets Seen in the Light of Early Islamic Art, in Islamic Art in the Metropolitan Museum of Art, a cura di R. Ettinghausen, New York 1972, pp. 169-186; A.S. Melikian-Chirvani, Le bronze iranien, Paris 1973; L. Torres Balbás, Arte Califa, in España Musulmana, a cura di R.M. Pidal, Madrid 1973; C.K. Wilkinson, Nishapur: Pottery of the Early Islamic Period, New York 1973; A.S. Melikian-Chirvani, Les bronzes du Khorâssân, Studia Iranica 4, 1975, pp. 51-71; G. Fehérvári, Islamic Metalwork of the Eight to the Fifteenth Century in the Keir Collection, London 1976; F. Gabrieli, U. Scerrato, Gli Arabi in Italia (Antica Madre), Milano 1979 (19852); E. Atil, Renaissance of Islam, Art of the Mamluks, cat., Washington 1981; E. Baer, Metalwork in Medieval Islamic Art, Albany (NY) 1983; A.S. Melikian-Chirvani, Anatolian Candlesticks: The Eastern Element and the Konya School, in Studi in Onore di Ugo Monneret de Villard, a cura di B.M. Alfieri, U. Scerrato, Rivista degli studi orientali 59, 1985, pp. 225-266; J.W. Allan, Metalwork of the Islamic World. The Aron Collection, London 1986; A.S. Melikian-Chirvani, The Lights of Sufi Shrines, Islamic Art 2, 1987, pp. 117-147; E. Baer, Ayyubid Metalwork with Christian Images, Leiden e altrove 1989; Al-Andalus. Las artes islamicas en España, a cura di J.D. Dodds, cat. (Granada-New York 1992), Madrid 1992.M. Bernardini

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