GIARDINA, Camillo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 54 (2000)

GIARDINA, Camillo

Marco Mantello

Nacque a Pavia il 29 marzo 1907 da Andrea e da Emma De Corradi, entrambi siciliani.

All'epoca il padre, personalità di spicco del movimento cattolico e fra i primi iscritti al Partito popolare italiano, insegnava anatomia e fisiologia comparate nell'università di quella città.

Rientrata la famiglia in Sicilia, il G. si laureò in giurisprudenza nel 1929 all'Università di Palermo. Allievo di F. Ercole, nel 1931 conseguì la libera docenza in storia del diritto italiano. Incaricato a Urbino fino al 1933, insegnò poi a Messina fino al 1937. Divenuto ordinario nel medesimo anno, fu chiamato a Palermo nel 1940, presso la cattedra di storia del diritto italiano che era stata di L. Genuardi. Vi rimase fino al collocamento fuori ruolo, ricoprendo la carica di direttore dell'istituto di storia del diritto italiano; fu presidente dell'Accademia di scienze, lettere ed arti di Palermo e, dal 1965, anche della Società italiana per la storia patria.

Il G. divise la sua esistenza fra l'attività scientifica, intensissima negli anni Trenta e nei primi anni Quaranta, e l'impegno politico attivo, iniziato già durante la guerra. Nel 1942, infatti, aveva aderito al movimento clandestino della Democrazia cristiana (DC) e in seguito rivestì un ruolo significativo nella vita politica dell'Italia repubblicana prima come parlamentare ed esponente della DC siciliana, poi partecipando ai governi centristi che si succedettero tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta: dal 1946 al 1948 fu segretario provinciale della DC di Palermo; divenuto senatore nello stesso anno, fu rieletto nel 1953, nel 1958 e nel 1963, sempre nel collegio di Termini Imerese. Ricoprì quindi le funzioni di sottosegretario al Commercio estero nel governo Zoli (1957-58), ministro per la Riforma burocratica nel governo Fanfani (luglio 1958 - febbraio 1959) e, infine, ministro della Sanità successivamente nei governi Segni, Tambroni e Fanfani (febbraio 1959 - febbraio 1962). Fu anche membro dell'Assemblea consultiva del Consiglio d'Europa e dell'Assemblea dell'Unione economica europea.

Gli anni dell'impegno politico del G. furono quelli della rottura e dello scontro frontale fra la DC e il Partito comunista italiano, e il G. pronunciò al Senato alcuni discorsi che si collegano alla temperie politica dell'epoca e, anche alla luce della sua attività di governo, ne chiariscono le prospettive politiche: essi riguardarono le posizioni di A. De Gasperi e Stalin di fronte al riarmo (8 maggio 1951), l'"incoerenza social-comunista" in ordine al piano Schuman (13 maggio 1952), la politica sovietica (11 apr. 1956). Intervenne anche nel dibattito parlamentare sulla legge elettorale maggioritaria, al quale partecipò nella seduta del 14 maggio 1953. Gli interessi politici del G., comunque, non trascurarono i problemi della Sicilia, come testimoniano i discorsi sull'energia elettrica (31 ott. 1951) e sull'Università di Palermo (6 maggio 1952).

Come storico del diritto italiano egli è piuttosto distante, per argomenti e metodo, dal suo maestro F. Ercole. Si dedicò infatti alle "aree" del diritto longobardo, del diritto pubblico siciliano e all'età della glossa avvicinandosi, quantomeno per i temi affrontati, all'esperienza scientifica di E. Besta e G.P. Bognetti, dal quale, tuttavia, "era lontanissimo per mentalità e visione storica" (Paradisi).

Il suo metodo rigoroso, basato su una ricostruzione attenta delle fonti e su una capillare esposizione critica della storiografia, riguardò, innanzi tutto, la fase del dominio longobardo apertasi con l'editto di Rotari. Si segnalano in tal senso due saggi, Il capitolo 367 dell'editto di Rotari e Osservazioni sull'Expositio al cap. 367 di Rotari e al cap. 27 di Pipino, rispettivamente del 1934 e del 1935; ora ambedue in C. Giardina, Storia del diritto, Palermo 1963, I, pp. 69-106, 107-132.

Nel primo il G. evidenzia il carattere facoltativo della disposizione contenuta nel cap. 367, che di per sé non imponeva agli stranieri di sottomettersi allo "scudo regio". Desume quindi la permanenza nel civis della qualità di wargangus dal "diritto", concesso ai figli legittimi, di ereditare i beni paterni e dalle limitazioni in ordine alla possibilità per gli stranieri "sub scuto potestatis" e senza figli legittimi di "thingare" ad altri o alienare a qualsiasi titolo le proprie cose. Affronta diffusamente i problemi dell'acquisto della cittadinanza longobarda da parte dei cives wargangi e della condizione giuridica degli stranieri non messi sotto lo scudo della potestà regia. Nel secondo articolo tenta di stabilire, sempre attraverso un'indagine sulle fonti, se dopo l'anno 793 vi fosse stata in Italia una concreta abrogazione del cap. 367 dell'editto di Rotari.

Alla prima codificazione delle consuetudini longobarde sono dedicati anche i saggi su L'editto di Rotari e la codificazione di Giustiniano (Milano 1937) e Una errata interpretazione del capitolo 184 di Rotari, del 1956 (ambedue in Storia del diritto, I, pp. 7-61, 63-68). Si segnalano infine gli studi su Advocatus e mundoaldus nel Lazio e nell'Italia meridionale (Bologna 1936, poi ibid., pp. 187-207) e La Guariganga (Palermo 1934, poi ibid., pp. 133-166), dove il G. dimostra come tale espressione indicasse genericamente qualsiasi "terra".

Risalgono sempre agli anni Trenta le principali opere dedicate alle "istituzioni centrali del Regno di Sicilia nell'età viceregia", in particolare L'istituto del viceré di Sicilia (1415-1798), Palermo 1930.

Qui il G. evidenzia l'importazione prettamente spagnola di questo istituto, la somiglianza di funzioni rispetto all'ufficio del governatore di Catalogna, la sostanziale apparenza del carattere illimitato dell'autorità del viceré, quale risultava dall'atto di nomina, rispetto alle "istruzioni segrete" del re e ai "controlli" del consultore, del Sacro Regio Consiglio e del Supremo Consiglio d'Italia. A quest'ultima istituzione, che operò come alta magistratura alla corte di Spagna dalla metà del XVI secolo agli inizi del XVIII, è dedicata la monografia Il Consiglio supremo d'Italia (ibid. 1934).

Lo studio dell'area siciliana travalicò anche l'ambito della storia del diritto, per esempio in La vita e l'opera politica di Scipione di Castro (ibid. 1931), riguardante il politico siciliano del XVI secolo che il G. aveva conosciuto come autore degli Avvertimenti a Marco Antonio Colonna quando andò viceré di Sicilia. Particolarmente significative sono poi, sempre nell'area del diritto pubblico siciliano, le indagini sulle fonti.

Fu pubblicato a Palermo nel 1935 il saggio su Le fonti della legislazione siciliana nel periodo dell'autonomia (ora in Storia del diritto, I, pp. 331-363), in cui il G. prende in esame le principali raccolte e la natura giuridica delle norme contenute nelle fonti legislative dell'isola (Capitula Regni Siciliae, Atti parlamentari, Pragmaticae Regni Siciliae, Siculae Sanctiones e Constitutiones di Federico II), le quali rimasero invariate per tutto il periodo dell'indipendenza politica della Sicilia, dall'inizio dell'età aragonese (1282) sino alla fusione nel Regno delle Due Sicilie del Regno di Sicilia (1816). Sempre negli anni Trenta il G. pubblicò le Osservazioni sui capitoli e privilegi di Messina (ora in Storia del diritto, I, pp. 241-294): si tratta dell'introduzione a una raccolta di 153 documenti, in parte inediti e parzialmente editi (Capitoli e privilegi di Messina, ibid. 1937), costituita con il materiale offerto dai codici privati e ufficiali che sfuggirono al sequestro spagnolo del 1679. Il problema delle falsificazioni fu poi sviluppato in uno scritto del 1939 (Messina), Sull'autenticità dei privilegi messinesi di Enrico VI (in Storia del diritto, I, pp. 295-329). Gli studi di area siciliana sono, infine, completati da numerose indagini settoriali, sviluppate nell'arco di quarant'anni (fra le altre: Osservazioni sulle leggi spagnuole in Italia, del 1932, e Una tradizione italiana del Consolato del mare del 1479, del 1936; ambedue in Storia del diritto, I, pp. 367-377, 381-386)

Per quanto riguarda l'area cosiddetta della glossa, il G. le dedicò la sua opera più impegnativa, quegli Studi sulla novazione nella dottrina del diritto intermedio (Milano 1937), che testimoniano la costante dialettica fra indirizzo "storico" e indirizzo "dogmatico" nel pensiero dell'autore.

Nelle sue intenzioni, essi dovevano costituire il primo di una serie di saggi sulla dottrina degli interpreti medievali e della Scuola dei culti intorno alla novazione. La scelta di dedicarsi alla "ricostruzione dommatica del diritto comune" si collega all'esigenza metodologica di interpretare le fonti giustinianee "nel loro spirito, secondo i canoni critici che la scienza romanistica era venuta elaborando […] dalla fine del XIX secolo fino ad oggi". Compito specifico dello storico del diritto italiano è infatti, secondo il G., quello di conoscere e sistemare i risultati più autorevoli della scienza romanistica, specie in ordine alla genuinità delle fonti, ai fini dell'indagine "privatistica" sul diritto intermedio.

Più in generale, è possibile concludere che, sul piano metodologico, l'attività scientifica del G. oscilla fra uno studio storico del diritto italiano, legato soprattutto alla sfera pubblicistica delle istituzioni siciliane e all'esame diretto delle fonti - il che lo avvicina a studiosi molto diversi tra loro, come G.M. Monti, G. Ermini, S. Mochi Onory e A. Marongiu, nei quali era presente un forte interesse "per i problemi storico-giuridici immediatamente connessi con la storia politica" e un notevole senso dell'erudizione (Paradisi) - e uno studio dogmatico, attraverso gli istituti, dei rapporti intersoggettivi. Il G., pur non abbandonando la strada dell'esegesi, avverte l'esigenza di una preventiva sistemazione della dottrina romanistica sul Corpus iuris in termini di continuità scientifica e di propedeuticità rispetto all'indagine testuale su glossatori, commentatori e umanisti. Nella citata monografia del 1937 (cui più tardi fece seguito una voce sulla Novazione(diritto intermedio), in Enciclopedia del diritto, Varese 1978, pp. 774-779) il G. analizza dapprima il "concetto" di novazione in diritto romano, poi i singoli elementi caratterizzanti l'istituto (obbligazione precedente, obbligazione nuova, idem debitum, aliquid novi, forma e animus novandi) e infine la "capacità a novare". Egli evidenzia, in termini generali, come il carattere formale, richiesto in età classica, della obbligazione sottesa alla stipulatio agli effetti dell'estinzione ipso iure di una precedente obbligazione causale ovvero formale fosse poi venuto meno in età postclassica e giustinianea, in favore della prevalenza accordata all'animus novandi. La seconda parte della monografia ha un impianto speculare alla prima e riguarda il periodo intermedio. Il G. attua in tal senso, e su un piano prevalentemente tecnico, una comparazione fra modello romano e sue interpretazioni o deviazioni da parte di glossatori, commentatori e umanisti, rilevando innanzitutto l'inesistenza di dispute circa la legittimità del concetto di novazione così come elaborato da Ulpiano (avrebbe avuto invece carattere innovativo il fatto che la glossa ammettesse in alcuni casi una novazione ope exceptionis).

Allo studio dogmatico delle fonti sono poi connessi due scritti dei primi anni Quaranta (Il ius sepulchri come elemento extrapatrimoniale dell'hereditas nella glossa ordinaria, in Studi di storia e diritto in onore di A. Solmi, I, Milano 1941, pp. 361-370; Sul diritto ereditario secondo la glossa ordinaria al Corpus iuris, in Studi di storia e diritto in onore di G. Bonolis, ibid. 1942, pp. 72-78) e la voce sulle Successioni (diritto intermedio), in Novissimo Digesto ital., XVIII, Torino 1971, pp. 727-748).

Risale invece alla seconda metà degli anni Trenta una serie di lavori di carattere eterogeneo, fra i quali si ricordano L'origine italiana dell'intervento litisconsortile, Padova 1936, e I boni homines in Italia, Bologna 1932 (in Storia del diritto, I, pp. 389-401; II, pp. 13-137). Nel 1941 pubblicò La cosiddetta proprietà degli alberi separata da quella del suolo in Italia (ibid., II, pp. 139-344).

In questa monografia la ricostruzione dell'istituto, dalle origini (VIII secolo) fino all'epoca contemporanea al G., è espressamente collegata a una funzione non solo scientifica, ma anche pratica, della storia del diritto, avuto riguardo, in particolare, alla ratio dell'art. 956 del nuovo codice civile che stava per entrare in vigore. In quest'opera il G. ebbe modo di dedicarsi nuovamente al diritto longobardo. Così, il cap. 354 dell'editto di Rotari non sancirebbe a suo parere alcun principio di diritto germanico di riconoscimento del lavoro come modo di acquisto della proprietà ma, in uno con la prassi e la dottrina medievale (che peraltro conoscevano la proprietà separata degli alberi in regioni non soggette al dominio longobardo), confermerebbe la persistenza del principio romano dell'accessione. Più in generale, con ciò il G. confuta l'idea di un modello germanico di "proprietà divisa", come tale contrapposto a quello della "proprietà quiritaria", argomentando dalla dottrina romanistica nel senso che il principio classico dell'accessione già conviveva, per esempio, con quello giustinianeo della possibilità di una divisione in senso orizzontale di un edificio e del dominio separato delle sue parti.

Il G. morì a Roma il 25 febbr. 1985.

Fonti e Bibl.: Necr. in Il Tempo, 27 febbr. 1985; Rivista stor. del diritto ital., LIX (1986), pp. 351-355; B. Paradisi, Apologia della storia giuridica, Bologna 1973, pp. 202, 213 s., 233; I deputati e i senatori del secondo Parlamento repubblicano, 1954, pp. 460 s.; I deputati e i senatori del terzo Parlamento repubblicano1958, pp. 460 s.; I deputati e i senatori del quarto Parlamento repubblicano 1963, pp. 556 s.; Novissimo Digesto italiano, VII, p. 836.

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