CALVINISMO

Enciclopedia Italiana (1930)

CALVINISMO

Federico CHABOD
Alberto PINCHERLE

. La propagazione. - Nell'esortare Calvino (v.) a tornare a Ginevra, il 1541, i pastori di Zurigo insistevano sui vantaggi che la predicazione di lui avrebbe portato alla causa della Riforma, proprio per la favorevole posizione di quella città, posta sui confini della Francia, dell'Italia, della Germania, e quindi adatta a servire da centro di diffusione della dottrina nuova (Opera, XI, 187, cfr. 184 e 222). Per vero, l'azione di Calvino ebbe subito larga risonanza. Un po' la fama dell, uomo, un po' il fatto di trovare in Ginevra un asilo sicuro contro le persecuzioni, fecero sì che pai.- ticolarmente dalla Francia affluissero a getto continuo nella citta del Lago Lemano i riformati: dei quali parte vi rimase bensì, ottenendo a poco a poco il diritto di bourgeoisie e costituendovi la folta schiera degl'immigrati, ma parte tornò fuori, a propagandare la dottrina che Calvino aveva raffermata con la sua potente parola. La quale dottrina, non rivestita di quel carattere tipicamente nazionale ch'era nella parola di Lutero, poteva assai più facilmente essere condivisa da uomini di altri paesi e di altre stirpi; con un accento intimo assai più energico e forte, dava all'animo degli assetati, nonostante l'apparenza sconcertante della doppia predestinazione, una fede più robusta, più netta, più guerriera, praticamente meglio inquadrata e organizzata che non fossero le dottrine degli altri riformatori. Gran cosa, questa, in un momento in cui quelli che si staccavano dalla chiesa cattolica, ed erano in minoranza nei varî stati, dovevano lottare contro la persecuzione, di cui le monarchie cattoliche li facevano bersaglio. Infine il fatto stesso di essere formulata molto più organicamente e chiaramente delle altre dottrine riformate, era un non indifferente coefficiente di fortuna per l'idea di Calvino. I progressi del calvinismo furono così rapidissimi; nei paesi stessi ove già il movimento riformatore s'era iniziato assai prima che Calvino predicasse, in breve il suo spirito, la sua dottrina, la sua organizzazione della chiesa s'impongono

La Francia. - E tale fu precisamente (a prescindere dalla Svizzera dove il Consensus Tigurinus del 1549 aveva posto fine ai dissidî con gli zwingliani, e dove la Confessio helvetica posterior, redatta dal Bullinger nel 1566, sanzionava definitivamente il trionfo della dottrina calvinista) il caso della Francia. Qui, la propagazione delle idee della Riforma non era certo un fatto nuovo (v. francia: Storia). Ma senza dubbio l'azione di Calvino e il suo pensiero furono decisivi per lo sviluppo della Riforma francese. Finì allora il periodo delle incertezze degli umanisti, dei tentativi di frammentarie, parziali modificazioni della credenza ortodossa; e cominciò invece il periodo dell'atteggiamento rigido, intransigente dei nuovi eletti, in guerra aperta contro il cattolicesimo, e, ad un tempo, il periodo della rapidissima propagazione.

Come data d'inizio ufficiale del calvinismo francese, si può risalire alla costituzione della chiesa di Meaux (1546), organizzata sul modello della chiesa francese che Calvino aveva creato a Strasburgo. Da allora, il movimento s'intensifica rapidamente, specialmente verso il 1555-1560. Oltre a Ginevra, agiscono come centri di propaganda Neuchâtel, dove predica Farel, e Losanna, dove insegna Teodoro di Beza. Ostacoli alla diffusione della dottrina nuova non mancarono certo. Non che il clero cattolico avesse, nella sua quasi totalità, forza e capacità di resistenza: uno dei più gravi motivi di malcontento, che spingeva centinaia e migliaia di persone, specie dei piccoli centri, verso la Riforma, era proprio costituito dall'incuria del clero secolare verso il proprio gregge. Ma c'era la politica regia, ostinatamente avversa ai riformati, sia che sedesse sul trono Francesco I, sia che vi succedessero Enrico III e, più tardi, Francesco II. A periodi di relativa calma, succedevano nuove, violente repressioni, come nel 1534-35; e cominciavano gli editti contro gli eretici: il 1° luglio 1542, editto regio con cui si proibisce la lettura dell'Institutio Christianae religionis di Calvino; nel 1544 Francesco I dà il suo assenso ad una sentenza del parlamento di Aix, che condanna allo sterminio gli eretici. Sotto Enrico II la persecuzione diviene ancor più sistematica: l'8 ottobre 1547 viene istituita la Chambre ardente; il 19 novembre 1549 un editto reale rimette i processi per eresia ai giudici ecclesiastici, togliendoli al parlamento; il 27 giugno 1551 l'editto di Chateaubriand commina ai colpevoli di eresia nuove terribili pene, ribadite dall'editto di Compiègne del 1557; infine il 2 giugno 1559 l'editto di Écouen ingiunge a tutti i funzionarî regi di procedere inesorabilmente all'espulsione, punizione e correzione degli eretici, dovunque.

Sennonché la repressione violenta falliva al suo scopo. Come in tutti i movimenti consimili, il martirio degli uni non poteva se non accrescere la volontà di persistere in quelli che già s'erano convertiti; e non poteva non impressionare sinistramente parte della popolazione ancora indecisa, spingendola verso i torturati, anziché verso i torturatori. Ma, a parte anche questo, la propaganda calvinistica era ormai troppo continua, troppo ben servita da infaticabili propagandisti, per non dare i suoi frutti. Intervengono del resto, a lato dei fattori di ordine propriamente religioso, fattori di altra natura: la difficile situazione economica in alcune regioni spingerà i contadini ad avvicinarsi alla religion con quello stesso sentimento messianico e apocalittico che già s'è palesato in Germania, al tempo della guerra dei contadini; la dura egemonia dei padroni ecciterà masse di operai nelle città a prender partito per le idee nuove, che significano per loro anche una forma di reazione sociale; l'irritazione contro il peso enorme dei tributi e contro le troppe ricchezze del clero cattolico prepareranno in provincie come la Normandia il terreno alla propaganda dei pastori; infine, a partire specialmente dal 1557-58, il malcontento contro la politica dei Guisa, interna ed esterna, farà sentire il suo peso nella conversione di molti dei nobili.

Così avvenne che, verso il 1560, in Francia, lungi dall'essere soffocato, il movimento riformatore aveva raggiunto un'estensione e una profondità certo non prevedute. E se è esagerata l'affermazione che metà della Francia fosse convertita alla nuova dottrina, certo i ranghi dei riformati si erano infittiti al segno da farne ormai un esercito. Non in tutte le regioni tuttavia i progressi erano stati uguali. Le regioni dell'est e del nord-est, cioè la Borgogna, la Sciampagna, la Piccardia, e la stessa Île-de-France, erano rimaste in massima ostili alla Riforma. C'era a Parigi, sì, una fiorente chiesa, fondata nel '55; c'erano chiese a Meaux, Melun, Nemours: ma Parigi rimaneva pur sempre la sede della corte e della Sorbona, il centro della reazione. Grandi invece i progressi dei riformati, nelle regioni del nord: nella Normandia, v'erano centri come Dieppe, nel 1560 quasi interamente calvinista; come Rouen, dove nel '61 la chiesa riformata annovera 4 pastori, 27 anziani, 10.000 aderenti; come Caen, focolaio di eresia fin dal 1546; come Saint-Lô, la cui chiesa reclutava fra 8 e 9000 persone. Favorevole anche la Bretagna, specie per opera della nobiltà, povera, e unita ai Condé e ai Châtillon. Nel centro della Francia, l'Orleanese costituiva una delle massime roccheforti del Calvinismo; il Berry pure, con Bourges, era guadagnato alla causa; nella Touraine e nell'Angiò, Saumur, Tours, Angers formavano potenti raggruppamenti. Tra la Loira e i Pirenei, altri grossi focolai della riforma: Poitiers, La Rochelle, Saintes, Limoges, Angoulême, Cahors, Agen, Montauban, influenzati un po' tutti dal vento di fronda che parte da Bordeaux, dopo la crudele repressione delle gabelle, operata dal connestabile di Montmorency nel 1548. Nella Saintonge, nel 1561, 38 pastori sono del tutto insufficienti alle necessità del culto. E spira, in queste regioni, una certa tendenza repubblicana, un desiderio di autonomia cittadina, che darà poi i suoi frutti massimi a La Rochelle. Atmosfera più turbolenta ancora nelle regioni del sud e del sud-est: Linguadoca, Provenza, Delfinato, le regioni cioè in cui la guerra di religione sarà più terribile. Grossi centri di calvinismo, Tolosa, Montpellier (la cui facoltà di medicina è passata all'eresia), Nîmes, Vienne, Grenoble, Valenza, Lione stessa, la cui comunità, assai ricca, esercita un influsso grandissimo. Nei ranghi dei riformati, sono fianco a fianco intellettuali e artigiani; nelle regioni del mezzodì più che nelle altre, contadini; e ora, verso il 1560, molti nobili. Caratteristico anzi di questo periodo del calvinismo francese è l'afflusso di membri della grande e della piccola nobiltà, iniziato dalle donne, continuato rapidamente e su vasta scala.

Molto importava l'atteggiamento delle autorità locali, civili: talora animate da ferrea volontà di repressione, talora indifferenti, talora favorevoli alle comunità evangeliche: talché alla severità degli editti non corrispondendo sempre l'attuazione pratica, da ogni parte continua insistente il lavorio di propaganda e di organizzazione delle chiese. C'è ora una tendenza generale ad esercitare il culto apertamente. Non dappertutto avviene che ci si insedii addirittura in un tempio cattolico (ciò che si verificò in più luoghi a partire dal 1560): ma i pastori chiedono alle autorità il permesso di celebrare il culto in edifizî appositi, e riunioni affollatissime si tengono all'aperto (così la manifestazione del Pré-aux-Clercs, a Parigi, nel 1558). Intanto, nel 1559 il sinodo nazionale di Parigi adotta la Confession de foy des Églises de France, redatta sostanzialmente da Calvino, e organizza il calvinismo francese sulla base delle chiese locali, rette dai pastori, dagli anziani e dai diaconi (che uniti formano il concistorio), sottoposte ai sinodi provinciali, e con al vertice il sinodo nazionale.

I calvinisti si pronunziano: dopo l'affaire du Pré-aux-Clercs, D 'Andelot, colonnello-generale della fanteria francese, afferma ad Enrico II di non essere andato da tempo alla messa, e invoca per sé libertà di coscienza; il 10 giugno 1559 Anne du Bourg, in pieno parlamento di Parigi, davanti al re, afferma che les doctrines des luthériens étaient conformes aux ecritures...". E mentre un giorno non lontano si accettava rassegnatamente la persecuzione, ora cominciano ad alzarsi voci che propugnano la resistenza; bande di calvinisti distruggono immagini sacre, invadono le chiese; e se la dottrina della non resistenza è ancora quella ufficiale, pure già si avvertono altre tendenze. Gli è che ora agli huguenots de conscience si sono aggiunti gli huguenots d'estat: coloro cioè per i quali il movimento religioso deve servire soprattutto a scopi politici, a rovesciare la potenza dei Guisa. Di tale stoffa sono Antonio di Borbone e lo stesso Luigi di Condé. Dietro a loro, molti piccoli nobili, poveri, avversi al clero che detiene tante ricchezze, avidi di avventura; mentre nel Mezzogiorno, sono masse di piccoli borghesi e di contadini, in cui la preoccupazione per la fede fa tutt'uno con un oscuro bisogno di vendetta, contro il fisco, contro la miseria economica. Tra gli stessi pastori non mancano quelli insofferenti agli ordini di Ginevra e decisi a provocare grandi turbamenti nel regno. La congiura di Amboise (marzo 1560) è il primo, aperto sintomo di quest'affiorare di tendenze politiche nei ranghi dei calvinisti.

Tale la situazione generale del calvinismo francese verso il 1560: tanto forte che Coligny poteva tentare di stabilire colonie calviniste nel Brasile e nella Florida. Francesco II aveva regnato troppo poco per poter effettuare i suoi progetti di sterminio degli eretici; e cominciava invece il regno di Carlo IX, di un fanciullo, e il governo effettivo di Caterina de' Medici. I Guisa perdevano di colpo la loro egemonia; e Caterina reggente iniziava il suo esperimento di politica di tolleranza e di conciliazione. Il 1561 era l'anno fausto per la Riforma francese: l'editio del luglio, se vietava ancora le riunioni pubbliche, praticamente lasciava respiro alla comunità; a Poissy, i teologi calvinisti potevano liberamente esporre, in contraddittorio con i teologi cattolici, la loro dottrina. Ancora, il 17 gennaio 1562, Caterina promulgava l'editto che concedeva ai riformati di radunarsi, fuori della città, per esercitare il loro culto, sotto la protezione dei magistrati. Era il riconoscimento ufficiale: poteva essere il punto di partenza per il trionfo del calvinismo in Francia. Invece, si ebbe il massacro di Vassy, lo scoppio della guerra civile, e, in ultima analisi, la sconfitta del calvinismo.

Come e perché ciò sia avvenuto, attraverso quali vicende il movimento riformatore che verso il 1562 pareva dovesse sommergere la Francia intera venisse arrestato, non è qui il caso di esaminare (v. francia: Storia; e religione, guerre di). Basti l'asserire che a un certo punto, la questione divenne una questione di forza. Tra i due partiti avversi, il cattolico capeggiato dai Guisa, e il calvinista, Caterina de' Medici - cioè la monarchia - avrebbe seguito quello che fosse stato in grado di assicurarla maggiormente del successo. Al riguardo, è sintomatico che Caterina de' Medici chiedesse a Coligny e poi ai pastori quale aiuto le chiese calviniste avrebbero potuto fornirle, in caso di lotta aperta. Ma, nel momento decisivo il triumvirato Guisa, Montmorency, Saint André, spalleggiato dal transfuga Antonio di Borbone, seppe imporsi: Caterina de' Medici dovette cedere ai capi cattolici, ed i calvinisti, quando la lotta aperta cominciò, trovarono la monarchia dalla parte dei nemici. La partita era da allora perduta per i riformati. Vanamente, in un momento di tregua della lotta, Coligny, riavvicinatosi alla corte, cercava di attrarre ai suoi grandiosi progetti di politica estera antispagnola il giovane Carlo IX: il massacro della notte di S. Bartolomeo (24 agosto 1572) spezzava la possibilità d'un'intesa fra la monarchia dei Valois e i calvinisti. E se fino al 1572, anche durante il conflitto aperto, il calvinismo francese aveva sempre cercato di non apparire come antimonarchico; se fino a quel momento il principio dell'obbedienza all'autorità costituita non era stato - teoricamente almeno - oppugnato; dopo la S. Bartolomeo fu un seguirsi di pamphlets, di trattati violentissimi contro il potere assoluto dei re e a favore invece della sovranità popolare. Contratto originario fra re e sudditi, diritto di resistenza di questi ultimi, sono le idee del giorno; c'è chi prospetta già la legittimità del regicidio. Questo in teoria; nella pratica, ci fu il risorgere delle vecchie tendenze comunali-repubblicane nel mezzodì e nell'ovest della Francia. La Rochelle è già, ora come poi nel terzo decennio del sec. XVII, alla testa di un simile movimento.

Ma, nonostante i nuovi parziali successi, nonostante la pace di Monsieur (15 maggio 1576) che accordava finalmente libertà di culto ai riformati, dovunque salvo che a Parigi, nonostante l'atteggiamento favorevole ai dissidenti assunto dal partito dei politiques, la marcia ascensionale del calvinismo in terra di Francia era definitivamente fermata. Il bagno di sangue della S. Bartolomeo era costato caro: circa 10.500 vittime a Parigi (secondo il Martyrologe di Créspin), alcune decine di migliaia in tutta la Francia: e tra i morti, alcuni dei capi più energici e più autorevoli, come il Coligny. Molti altri erano emigrati all'estero. E soprattutto la reazione cattolica era più ferma, più vigorosa che non fosse nei primi anni. Né si allude con questo alle violenze e ai massacri, ma all'opera di gran lunga più efficace che la chiesa cattolica dispiegò in un secondo tempo nel mantenere attorno a sé i suoi fedeli, nel controbattere la propaganda dei pastori con altra propaganda, continua e attiva. A parecchi dei mali lamentati nella chiesa di Francia, si è posto o si va ponendo rimedio: Roma veglia assai più attentamente sulla qualità dei suoi militi; contro i polemisti della Riforma sorgono i polemisti della Chiesa romana; è un movimento generale di riscossa del cattolicesimo alimentato, assai più che non dal clero secolare, dagli ordini religiosi, in primo luogo dai gesuiti che compiono un'azione di ampia portata, riguadagnando dov'è possibile le posizioni perdute. La propaganda calvinista non dava quindi più i frutti di un tempo; diffusasi rapidamente nel vento della prima ora, la nuova dottrina non avanzava ora più, quando pure non perdesse terreno.

Parve giungere, ancora una volta, l'ora del trionfo, quando Enrico di Navarra divenne erede al trono poi re alla morte di Enrico III. Ma l'abiura di Enrico IV troncò ogni speranza di vedere, in Francia, una monarchia calvinista; e da allora il calvinismo francese rimase minoranza, anche se forte, anche se ormai tollerata e riconosciuta. Il numero dei proseliti s'era assai ridotto: dai 3.000.000 (forse) di calvinisti e dalle 2150 chiese del 1561-62, s'era discesi nel 1598 a non più di 1.250.000 (tra essi 2468 famiglie nobili), con 800 pastori, 694 chiese pubbliche e 257 chiese di signori.

Pure era una minoranza forte ancora, moralmente e materialmente, che rimaneva, dal giorno dell'editto di Nantes, un partito politicamente e militarmente organizzato, con città che gli appartenevano totalmente (le città di sicurezza), con armi e, più, con l'organizzazione dei tempi delle guerre civili intatta. Era, anzi, un piccolo stato nello stato: permeato, nel Mezzogiorno e nell'Ovest, da certo spirito di fronda, da una vaga tendenzialità repubblicana, da coacrete aspirazioni autonomistiche, da diffidenza e sospetto verso la monarchia. Fu precisamente siffatto carattere politico mantenuto dalle comunità calvinistiche del mezzodì e dell'ovest, a determinare il riaccendersi, breve ma aspro, della lotta, nel terzo decemio del sec. XVII che ebbe a protagonisti, da una parte il Richelieu, dall'altra il duca di Rohan con le comunità del mezzogiorno e La Rochelle. La sottomissione del Rohan, la caduta di La Rochelle distrussero il "partito" calvinista. Ma il calvinismo rimaneva ben vivo. C'era anzi, dal principio del sec. XVII, un rinsanguamento delle sue file, non certo rapido come nel periodo i550-1560, ma tuttavia notevole: verso il 1624-25, i membri delle comunità salivano a più di 1.600.000; nel 1679 veniva calcolato in 1.700 000 il numero di coloro che potevano partecipare alla cena (esclusi quindi i bambini). E, finite le lotte, potevano essi svolgere intensa e proficua attività nella vita francese.

Ma ecco, a partire dal 1662, la politica regia farsi nuovamente ostile ai ri formati. La revoca dell'editto di Nantes fu comminata nel 1685; ma già il ventennio precedente era stato contrassegnato da un successivo inasprirsi della situazione, e già dal 1670-80 era cominciato l'esodo dei calvinisti di Francia verso la Germania, verso l'Inghilterra, verso l'Olanda soprattutto. La tempesta, così preannunziata, scoppiò finalmente nel 1684-85: e furono le dragonnades nelle Cevenne, e la conversione forzata, e l'esilio per quelli che non cedevano. I risultati furono chiari: dal 1680 alla fine del secolo, da 250 a 400 mila calvinisti sarebbero emigrati.

Fu una crisi grave, non solo per la dispersione materiale delle forze, ma anche per i dissidî d'ordine morale che tra gli stessi calvinisti sorsero. Ché v'erano da una parte uomini come Jurieu, Brousson, Vivent, decisi alla lotta senza quartiere, i quali tramutarono l'ostilità religiosa al re di Francia in ostilità politica, unendosi con i nemici di lui - Guglielmo III d'Orange, l'elettore di Brandeburgo specialmente - predicando l'insurrezione nelle Cevenne (Brousson e Vivent), preparando così la rivolta dei Camisardi, cruenta ripresa delle guerre di religione (1702-1705). Altri invece, come i Basnage, rifiutarono ai correligionari il diritto di rivolta: donde polemiche vivacissime e un innegabile indebolimento morale del calvinismo francese, che attraversò allora l'ultima aspra prova, prima d'iniziare la via, più tranquilla, che l'età moderna gli ha riservato.

Nei Paesi Bassi. - Pressoché parallela alla propagazione in Francia, era stata la diffusione del calvinismo nei Paesi Bassi. Anche qui, anzi qui più ancora che in Francia, il terreno era stato preparato dalle correnti umanistiche, specialmente da quelle aceentrate attorno ad Erasmo, dalla propaganda luterana, perfino dall'anabattismo che dalle regioni vestfaliane aveva intaccato specialmente i bassi ceti dell'Olanda e della Frisia. In città come Anversa, porto internazionale in cui pullulavano uomini di tutte le parti d'Europa, la propaganda dei riformati doveva ottenere facile, rapido successo; e fu precisamente attraverso Anversa e città come Lilla e Tournai, ove sino dal 1543 sorsero comunità in rapporto diretto con Ginevra e Strasburgo, che il calvinismo penetrò nei Paesi Bassi.

Motivi di ordine non religioso dovevano contribuire anche qui alla rapida fortuna della dottrina: malcontento di ceti operai in un momento di rapido sviluppo commerciale ed industriale; più tardi, malcontento della nobiltà e della borghesia contro il governo spagnolo; fattore quest'ultimo, che doveva infondere nelle lotte religiose dei Paesi Bassi un sentimento e un'ideologia nazionalistica caratteristica. E agiva, anche qui, la parola di Calvino dalla lontana Ginevra; e agivano i fuorusciti di Francia che già allora prendevano volentieri la via della Fiandra.

Guy de Brès, che aveva udito Calvino, scrive la sua Confessione di fede (1561), divenuta poi (1566) confessione ufficiale, sul modello di quella calviniana; Pietro Dathen redige il catechismo e i Salmi e sistema la liturgia, su stampo calviniano; e sopra tutti Filippo Marnix è il grande apostolo del calvinismo nei Paesi Bassi. Diffondono l'Institutio Christianae religionis: e giovani borghesi nobili la leggono, si convertono; molti specialmente del Brabante prendono anch'essi il cammino di Ginevra e vanno a compiervi i loro studî, come una volta andavano a compierli alla Sorbona. Così verso il 1559, il calvinismo, la cui espansione s'era iniziata verso il 1543, aveva piantato salde radici, specialmente nelle provincie vallone. Non che la maggioranza numerica della popolazione avesse abbandonato l'ortodossia: ma accanto alle comunità calvinistiche vere e proprie, c'era un'atmosfera di opposizione, se non dottrinale almeno morale, alla chiesa di Roma, che contribuiva ad agevolare la propaganda dei veri e propri eterodossi.

Assai più che in Francia tuttavia la diversità fra le varie riforme doveva qui palesarsi. Già s'è detto degli anabattisti, diffusi nelle provincie settentrionali, e considerati da Calvino e dai suoi come nemici acerrimi; ma gli stessì luterani delle provincie oggi olandesi guardavano con poca simpatia ai progressi del dogma di Ginevra. Erano d'altronde, i calvinisti, i più decisi nella difesa dei loro diritti: poiché mentre l'opposizione di Guglielmo d'Orange al Granvelle e a Filippo II muoveva certo più - almeno in un primo témpo - da motivi politici che non religiosi, un atto di netto carattere confessionale era quello dei gentiluomini calvinisti che si stringevano in lega per rifiutare l'Inquisizione, gli editti regi in fatto di religione e i decreti del concilio tridentino. Fu il cosiddetto "compromesso" (1565) a cui aderirono in breve migliaia di persone. Vero è che la caccia alle immagini sacre, compiuta dai calvinisti, toglieva loro molte simpatie nella popolazione, anche fra i luterani: ma la reggente Margherita di Parma non sapeva approfittare dell'occasione favorevole, e invece l'avvento del regime del terrore col duca d'Alba dava loro nuovamente la forza dei perseguitati. Per primi, essi cominciavano nel 1567 la guerriglia. Come la lotta si svolgesse, non è qui il luogo di esporre (v. belgio: Storia, olanda: Storia, paesi bassi: Storia). Solo importa notare come sotto l'apparente unità d'azione dei gueux contro gli Spagnoli, i dissensi religiosi non fossero placati. Un momento uniti per la salvezza della "patria comune" (pacificazione di Gand del 1576), i patrioti tornarono a dividersi , e nelle provincie vallone sorse il partito dei "malcontenti", reclutato specialmente fra i nobili, con netto carattere di protesta anticalvinista. Conseguenze di tale dissidio furono l'unione di Arras e quella antitetica di Utrecht, la separazione dei Paesi Bassi settentrionali da quelli meridionali: e in questi ultimi, ritornati al dominio spagnolo, la reazione cattolica riduceva d'assai, se non annullava proprio, l'opera di Ginevra. Nei Paesi Bassi settentrionali invece il calvinismo poté, attraverso le lunghe traversie della guerra con la Spagna, non solo conservare ma accrescere le sue forze; e il nuovo stato divenne da allora rifugio dei correligionarî di altre nazioni, specialmente della Francia, cacciati dalla loro terra dalla politica dei monarchi cattolici. Divenne anche il centro di aspre contese dottrinali, e il centro di sistemazione e di elaborazione dottrinale massimo, soppiantando in questo, dopo la morte di Beza, la stessa Ginevra (per tali questioni, v. più oltre).

Nel resto dell'Europa continentrale. - In Francia dunque il calvinismo, se non era riuscito a conquistare la monarchia e a diventare la religione della maggioranza, rimaneva tuttora con forti radici; nei Paesi Bassi settentrionali finiva per trionfare. Nel resto dell'Europa continentale invece, se vi fu una fase promettente di penetrazione, il risultato finale fu nel complesso meno felice.

La Germania, culla del luteranesimo, non facilmente poteva essere conquistata dal calvinismo, nonostante che i dissensi dogmatici sempre accesi fra i luterani facilitassero alquanto il compito. Tuttavia la dottrina di Ginevra - così affine del resto a quella di Strasburgo e da quest'affinità indubbiamente favorita - poté reclutare aderenti numerosi nella Germania di sud-ovest; poté insediarsi fortemente nel Palatinato; e, più tardi, nella seconda metà del sec. XVII, giungere anche nel Brandeburgo grazie ai rifugiati francesi. Di tale successo era indubbia espressione il catechismo di Heidelberg (1563). Ciò nonostante nel quadro generale della vita germanica, nell'intonazione del mondo morale e spirituale tedesco, l'influsso del calvinismo fu, tutto sommato, non decisivo nei confronti di quello esercitato da Lutero.

In Polonia gli esordì erano stati brillanti. Sin dal 1549 Calvino s'era posto in relazione diretta con Sigismondo Augusto II a cui dedicava il suo commentario all'Epistola agli Ebrei; dal 1551, parecchi nobili avevano aderito alla dottrina; infine verso il 1553, in Lituania la più potente famiglia feudale, quella dei principi Radziwill, aveva accettato la confessione di Ginevra, svolgendo da allora attivissima opera di propaganda. Il re piegava verso la Riforma; la nobiltà era in gran parte convertita (e in questo suo rapido successo, presso i nobili maggiori e minori, è la caratteristica del calvinismo in Polonia); v'erano nella Grande Polonia circa 80 chiese calviniste, nella Piccola Polonia 250, nella Lituania 190. Ma intervennero qui le discordie interne fra calvinisti, luterani, fratelli boemi; sociniani: discordie che si cercarono di sanare con varî sinodi - (per es. di Koźminek (agosto-settembre 1555), di Sandomierz (1570) - con la redazione di una confessione di fede comune, ma che non furono mai spente. E intervennero poi i gesuiti: sin dal 1558 era in Polonia pietro Canisio. Riguadagnata la monarchia all'ortodossia, la Controriforma poté procedere con relativa facilità; e il calvinismo decadde quasi completamente. In Ungheria, un notevole successo si era ottenuto, specialmente lungo le rive del Tibisco e nella Transilmnia; Debrecen diveniva (e rimane) centro della propaganda esercitata soprattutto dal Juház (Melius), favorita anche dai Turchi, e trionfante specialmente nella Transilvania. Ma anche qui le discordie fra le varie chiese riformate spianarono la via alla reazione cattolica: per quanto nella Transilvania rimanessero (e rimangano tuttora) forti nuclei di calvinisti, che ebbero notevole importanza nel quadro della vita ungherese.

Fallì invece più completamente la propaganda in Italia. S'imbatteva, anche qui, in correnti riformistiche, che, seppur limitate a circoli ristretti, tuttavia per la fama e il valore dei loro rappresentanti avevano da tempo richiamata su di sé l'attenzione. La propaganda calvinista ottenne nondimeno risultati di ampia portata (a prescindere quindi dal ristretto cerchio che attorniava Renata di Francia a Ferrara, e dalle conversioni isolate in questa o in quella parte) quasi solo in Piemonte, tra il 1540 e il 1560. La leggenda stessa che si riferisce al passaggio di Calvino in Val d'Aosta ha come fondo vero il tentativo fatto dal riformatore di attrarre la valle sotto il suo influsso religioso e politico. Respinta e combattuta dagli stati valdostani, la dottrina di Ginevra allignò nel Piemonte occupato dai Francesi, dal 1536: Chieri e Torino erano, p. es., centri attivi del calvinismo, ed Emanuele Filiberto, al ritorno in patria, trovava la nuova dottrina dilagata dappertutto nei suoi stati (a parte ancora il nucleo dei Valdesi, da tempo annidato nelle valli del Pellice). Il Memoriale attribuito a Nicolò Balbo (e invece probabiimente di Casciano del Pozzo) dipinge la situazione a foschi colori. Ma la partenza dei Francesi, le misure prese dal duca, soprattutto la formazione di un episcopato di prim'ordine (fra gli altri, Michele Ghisleri, il futuro Pio V, vescovo a Mondovì) e l'opera di gesuiti come il Possevino, rovesciarono rapidamente lo stato delle cose. Sospetta al papato e agli Spagnoli rimase l'azione della duchessa Margherita, notoriamente favorevole ai riformati; e d'altra parte lo stesso duca procedette di fronte ai riformati con molto minore asprezza che non i luogotenenti spagnoli nelle Fiandre. Ma il calvinismo fu da allora colpito a fondo negli stati sabaudi; e nonché attaccare, dovette pensare a difendersi dai progetti di Emanuele Filiberto prima, di Carlo Emanuele I poi, che non dimenticavano di aver avuta Ginevra tra i loro dominî.

Nella Gran Bretagna. - La responsabilità di aver fatto penetrare in Inghilterra e in Scozia i principî di Calvino si può far risalire, senza paradosso, a Maria la Cattolica e a Filippo di Spagna. Ché Enrico VIII, fiero del suo titolo di Fidei defensor e non dimentico di aver confutato Lutero, in genere si limitò a sostituire la propria all'autorità del pontefice e si sforzò di dimostrare che, nella dottrina e nel culto, la chiesa d'Inghilterra dopo il distacco da Roma non era meno ortodossa di prima. Chi rinnegasse la transubstanziazione era punito con la morte; punito col carcere chi volesse la comunione dei laici sotto le due specie o combattesse celibato ecclesiastico, messe private, confessione auricolare. Anne Askew (v.) fu bruciata nel 1546 con altri protestanti, taluni eretici furono, cosa caratteristica, messi a morte insieme coi cattolici che negavano la supremazia regia. Ma le idee della Riforma erano allora sostenute da seguaci di Lutero o degli Svizzeri. E i consiglieri di Edoardo VI, che spinsero innanzi la Riforma anglicana in modo tale che contribuì a provocare la reazione del regno successivo, subirono principalmente l'influsso di Lutero, Zwingli, Butzer. Quest'ultimo ebbe parte nella revisione del primo Book of Common Prayer, che, per ciò che riguarda la Cena, si avvicinò allora alla concezione zwingliana. Tuttavia Ginevra cominciava a far sentire la sua influenza: Calvino si rivolgeva al protettore Somerset, dedicava al giovine re, verso il quale s'appuntavano le speranze dei novatori, i Commenti a Isaia e alle Lettere cattoliche, era in corrispondenza con il Cranmer (v.), il principale autore della riforma del rituale, che ora, cresciuto in potenza, si avviava verso concezioni sempre più radicali.

Ma sotto Maria i protestanti inglesi si rifugiano sul continente. Tramano con Enrico II contro la patria legata alla Spagna, hanno le loro chiese: a Francoforte il Cox rimette in uso il Book of Common Prayer del 1552, scacciando John Knox, il quale si rifugia a Ginevra. Questi, imbevuto ormai di calvinismo, ritorna definitivamente in patria nel 1559, a compiervi quella rivoluzione religiosa che segna anche l'inizio d'un nuovo orientamento politico, sostituendo all'influenza francese l'inglese. Da questo momento in poi, anzi, la storia religiosa dell'Inghilterra e della Scozia è più che mai legata alle vicende politiche, interne ed esterne, dei due paesi e al complicato giuoco delle alleanze nazionali e dinastiche (v. inghilterra: Storia, e scozia: Storia). I seguaci della Riforma religiosa intravedono e affrettano coi voti, fin da questo momento, l'unione intima dei due stati: mentre il Knox prega che nessuna guerra più li divida, il Maitland scrive a William Cecil (lord Burghley) che la religione è destinata a congiungerli. E la religione di cui si parla è appunto, nelle sue grandi linee, quella predicata da Calvino: un mese dopo il trattato di Edimburgo (6 luglio 1560), il parlamento scozzese approva la Confessione di fede proposta dal Knox, e respinge la messa e l'autorità del papa. Calvino vigilava; il conte di Arran, possibile erede del trono di Scozia e possibile marito di Elisabetta contro Maria Stuarda, regina di Scozia, possibile erede del trono inglese e moglie del Delfino (Francesco II) di Francia, aveva trovato, nel giugno del 1559, rifugio appunto a Ginevra.

Ma quando si parla d'influenza del calvinismo conviene distinguere fra teologia, rituale, organizzazione pratica. Elisabetta aveva buone ragioni politiche per non mettersi contro né i principi luterani della Germania, né gli Ugonotti, né gli Scozzesi: i suoi "trentanove articoli" (1563) rappresentano un capolavoro di equilibrio, se non proprio di ambiguità. Elisabetta, poi, teneva troppo alla sua supremazia per poter accogliere senz'altro le idee di Calvino intorno all'autorità della Chiesa, che avrebbero potuto riaprire il conflitto fra i due poteri, o un'organizzazione ecclesiastica la quale anche soltanto diminuisse le prerogative della corona. Per contro, la Confessione di fede scozzese del 1860 è permeata di concetti calvinisti, mentre d'altra parte il Knox forse capì che l'organizzazione ginevrina non si poteva trasferire tal quale in un vasto regno, e certo non la trasportò senza modificazioni: i "soprintendenti" che il primo Book of Discipline mette a capo delle dodici circoscrizioni, corrispondenti all'ingrosso alle antiche diocesi, per meglio regolare e distribuire i non troppo numerosi ministri, non erano vescovi, ma potevano diventare tali. E, nonostante la fiera e tenace opposizione di Andrew Melville (v.), tornato anch'egli in patria da Ginevra nel 1574 a predicarvi dottrine presbiteriane che durante la guerra civile gli Scozzesi tenteranno d'imporre all'Inghilterra, non mancarono, da Maria Stuarda a Carlo I, a Carlo II e Giacomo VII (II d'Inghilterra) i tentativi, più o meno riusciti, più o meno violenti, sempre gravidi di conseguenze politiche, d'imporre ai presbiteriani scozzesi un regime anglicano (v. presbiteriani e scozia: Chiesa).

In Inghilterra, gli articoli del 1563 avevano lasciato degli scontenti. Non ogni traccia di "papismo" era stata cancellata dal rituale della chiesa anglicana e molti aspiravano a una forma di culto più "pura" (puritani; v.). Dal rituale e dal vestiario (vestiarian controversy) si passò in breve a discutere di organizzazione. Nel 1565 il movimento presbiteriano è già ritenuto pericoloso; circa il 1570 incomincia a Cambridge l'azione di Thomas Cartwright (2ª metà sec. XVI) che conobbe più volte l'esilio e la prigione; i puritani sono numerosi nella Camera dei comuni, Robert Browne stabilisce a Norwich una chiesa indipendente. Elisabetta resistette; il Parker, arcivescovo di Canterbury, represse energicamente i puritani; il Grindal, suo successore, che già come vescovo di Londra e di York s'era mostrato loro benigno, venne sospeso dalle funzioni amministrativa dal giugno 1577 alla fine del 1582; morto poco dopo la sua reintegrazione, ebbe a successore il Whitgift, che prese misure rigorose contro i puritani e fece imprigionare due "brownisti", Henry Barrow e John Greenwood. Con tutto ciò, il puritanismo guadagnava terreno; John Penry rivolgeva nel 1586 al parlamento una petizione, deplorando il basso livello spirituale del Galles e dandone la colpa ai vescovi. Imprigionato, dovette essere rilasciato; egli e i suoi seguaci si vendicarono con una serie di libelli, stampati sfuggendo alla censura, sotto lo pseudonimo di "Martin Mar-prelate" (v.); e l'opinione pubblica imponeva indulgenza. Nel 1593 tuttavia, il Whitgift mandava a morte il Barrow, il Greenwood e il Penry. Una legge punisce con la morte i negatori dell'autorità regia in fatto di religione; ma i puritani non cedono. S'impiantano le chiese dei rifugiati inglesi in Olanda e, con la diffusa coscienza dell'incompatibilità fra anglicanismo e puritanismo, s'incomincia a preparare la guerra civile. Eppure - e si manifesta il valore della distinzione su accennata - gli avversarî non differiscono gran che in fatto di teologia. Se la regina, nella sua mentalità pratica, nonostante l'aiuto dato ai ribelli fiamminghi e ai calvinisti tedeschi e nonostante qualche segno del suo favore, non ebbe mai vera simpatia per Calvino, il primate persecutore dei puritani era invece un convinto calvinista per ciò che riguarda il dogma. Alla sua iniziativa si deve quell'assemblea che elaborò, nel 1595, i calvinistici nove "articoli di Lambeth", che Elisabetta tuttavia si guardò bene dall'accogliere. Quanto la teologia di Calvino avesse guadagnato durevolmente le menti e i cuori, lo dimostrano la famosa Confessione di fede (1647) e i catechismi (1648) di Westminster: l'alleanza fra presbiteriani e parlamento può rappresentare un equivoco in fatto di religione e un compromesso di natura politica; ma il fatto è che il Credo, accolto dai presbiteriani scozzesi anche sotto Guglielmo III, fu elaborato da un'assemblea prevalentemente inglese.

America. - La storia della teologia e delle organizzazioni religiose nelle colonie inglesi d'America non può essere qui neppure accennata: essa rientra in quella delle singole denominazioni (v. congregazionalismo; presbiteriani; puritani). Ma non si può non accennare al valore e all'importanza che la teologia calvinistica - sia nella chiesa episcopale (anglicana), sia nella presbiteriana largamente diffusasi già nel corso del sec. XVIII - ha avuto sulla cultura e sulla formazione del carattere americano durante tutto il periodo coloniale e anche in seguito. Basterà ricordare i nomi di Cotton Mather e di Jonathan Edwards, e l'osservazione fatta di frequente che la forma del governo ecclesiastico suggerì quella del governo civile; si aggiunga l'altra pur comune osservazione che la cultura e le forme religiose prevalse fra la Rivoluzione e la prima metà del sec. XIX sentirono tutte il bisogno di contrapporsi al vecchio calvinismo. Il quale ha così lasciato la sua impronta profonda sul carattere americano, specialmente della Nuova Inghilterra, alla quale queste brevi considerazioni si riferiscono in modo più particolare.

Lo sviluppo dottrinale. - La storia della teologia calvinistica nei secoli fra il XVI e il XVIII consiste principalmente, per ciò ch'essa ha di più vivo, in un armeggio polemico intorno alla dottrina della predestinazione. Calvino stesso aveva dovuto difenderla, nelle polemiche con il cattolico olandese Alberto Pigghe (Pighius) e con l'ex-carmelitano francese e già suo seguace Girolamo Bolsec. Ma le difficoltà sorgevano ora dall'interno del sistema. Si trattava sempre di mantenere una predestinazione precedente la previsione dei meriti umani da parte di Dio e nello stesso tempo di non attribuire a lui l'origine del male. Ma poiché Dio, per manifestare la sua gloria, vuole che una parte del genere umano si salvi e un'altra perisca, si poteva asserire che il peccato di Adamo è anch'esso un mezzo per l'attuazione di questo piano divino; con ciò non si attribuisce, a parlar propriamente, a Dio il male se non nella misura in cui si può dire che chi vuole il fine deve volere il mezzo; ma, poiché il fine precede idealmente il mezzo, si afferma che il decreto divino considera l'uomo semplicemente come creatura, indipendentemente da ogni considerazione del peccato (homo creabilis et labilis), e cioè precede (supralapsarianismo) il peccato di Adamo. Questa dottrina si poteva considerare come la conseguenza logica del principio dell'assoluta sovranità di Dio e della dottrina della predestinazione: essa fu sostenuta da Beza e da Gomarus. Ad essa si contrapponeva tuttavia quella, secondo la quale Dio avrebbe soltanto permesso il fallo di Adamo e nel decreto divino sarebbe preso in considerazione l'uomo già corrotto dal peccato originale (homo creatus et lapsus): il genere umano è una "massa dannata" nella quale Dio sceglie, per sua grazia, gli eletti, mentre punisce, in stretta giustizia, tutti gli altri (infia- o sublapsarianismo).

Nelle polemiche che si svolsero a questo proposito s'inquadra e s'intende storicamente l'arminianismo (v.), sconfitto, non senza che agissero motivi politici, nel sinodo di Dordrecht (o Dort; 1618-19). Questo fu un tentativo di rivendicare la libertà e la responsabilità umana. Il decreto divino è soltanto condizionale; la predestinazione dipende cioè dalla previsione che Dio fa, se non dei meriti, almeno della fede o dell'incredulità di ciascuno. L'espiazione operata dal Cristo ha valore universale, benché divenga attuale soltanto per i credenti, cioè per coloro che, mediante la grazia, ma non senza cooperazione da parte umana, si determinano per la fede. Non si può parlare di condanna universale in seguito all'imputazione del peccato di Adamo; all'ereditata tendenza al male, che non ha totalmente soppresso il libero arbitrio, si contrappone la "grazia preveniente", concessa a tutti, ma realmente efficace soltanto in alcuni. L'uomo può dunque resistere alla grazia, la quale opera sul suo intelletto. A poco a poco, la scuola teologica iniziata da Arminio finì anzi con l'ammettere che la grazia si potesse anche perdere e col fare sempre maggiori concessioni a quello che, grosso modo, si può chiamare il punto di vista cattolico. Perciò gli arminiani furono perseguitati, come, nel cattolicismo, i giansenisti.

All'arminianismo si collega anche il tentativo compiuto dalla "scuola di Saumur" della quale fu cospicuo rappresentante l'Amyraut. Questi si era proposto anche uno scopo pratico, quello cioè di unire le forze di tutti i riformati, durante la guerra dei Trent'anni. Il sinodo di Dort aveva spaventato i luterani e d'altra parte condannato Arminio; non v'era altra via, per rendere la conciliazione possibile, se non o distinguere fra la teologia luterana e l'arminianismo, sostenendo che la condanna di Dordrecht riguardava questo e non quella, come fecero il Claude e il Jurieu; o cercare di far rivivere, in forma larvata, l'arminianismo stesso, senza tuttavia contravvenire troppo palesemente alle dottrine del celebre e veneratissimo sinodo. L'Amyraut cercò appunto di conciliare la dottrina del valore universale dell'espiazione compiuta dal Cristo con quella strettamente calvinistica della sua efficacia per i soli eletti. Dio, che è buono e giusto nello stesso tempo, manifesta la sua bontà nella creazione e continua, con la sua provvidenza, l'opera della creazione; in presenza del peccato, questa bontà vuole la redenzione del genere umano, ma, in quanto è giustizia, esige anche l'espiazione. A questo modo, l'Amyraut pensava di superare la controversia tra supralapsariani e sublapsariani: Dio con la redenzione non fa che continuare l'opera iniziata con la creazione, ma questa redenzione è voluta da Dio in considerazione del peccato originale. Dal primo punto di vista, l'espiazione operata dal Cristo ha un valore universale; ma se prendiamo in considerazione il peccato e teniamo presente il fatto che alcuni muoiono impenitenti e quindi non si salvano, dobbiamo ammettere che l'efficacia universale dell'espiazione compiuta dal Cristo è puramente teorica, ipotetica; e diventa reale soltanto per gli eletti. In ciò consiste l'"universalismo ipotetico" dell'Amyraut, che dichiarò Christum mortuum esse sufficienter pro omnibus, sed efficaciter pro electis, o anche, com'egli stesso chiarì per mettere in evidenza il suo concetto della bontà e giustizia divina, sufficienter, sed non actualiter pro omnibus. Dio agisce così non arbitrariamente, ma secondo giustizia; l'Amyraut poteva ammettere una vocazione universale ipotetica estesa anche ai pagani, reale soltanto per coloro il cui intelletto, illuminato dalla grazia, producesse la conversione, agendo sulla volontà. L'arminianismo era così sfiorato, e insieme erano rispettate le decìsioni di Dort, restando in dubbio quale fosse l'opera prevalente, la divina o l'umana, nel processo della conversione stessa, che rende effettiva e individuale la vocazione universale e ipotetica. Perciò il sistema dell'Amyraut sembrò accettabile ai calvinisti francesi, e fu condannato nella Formula consensus Helvetica del 1676.

Da queste due correnti si distingue una terza scuola, ch'ebbe dalla fine del sec. XVI in poi numerosi seguaci e che rappresenta un nuovo tentativo di rompere la rigida dottrina della predestinazione o, per lo meno, di razionalizzarla, spiegando l'azione di Dio secondo una giustizia accessibile all'intelletto umano: la scuola "federale" o "del patto" (foedus). Secondo questa corrente, Dio al momento della creazione strinse con Adamo, in cui era conglobato l'intero genere umano, un patto, a norma del quale all'uomo sarebbe stata concessa la vita eterna, purché avesse prestato a Dio la debita ubbidienza. Trasgredendo, Adamo attirò invece sopra di sé e dei suoi successori la giusta rappresaglia divina. Ma Dio strinse un nuovo patto con Cristo, il secondo Adamo, promettendogli, in considerazione della soddisfazione che questi gli dava con la sua ubbidienza e il suo sacrificio espiatorio, la salvezza di tutti gli eletti, uniti col Cristo mediante la fede, e resi capaci di salvarsi mediante la grazia. Si manteneva così il concetto che la salvezza è ottenuta dall'uomo, non in virtù dei suoi meriti, ma per pura benignità di Dio: la cui azione, tuttavia, non è arbitraria né incomprensibile. L'uomo, anche se da sé non può far nulla, sa precisamente qual è il suo destino. Nel patto "di grazia" Dio svela il meccanismo della redenzione: esso comprende pertanto anche i sacramenti, che devono essere conferiti solo a coloro che ne sono degni. In origine, nella teologia dell'Oleviano (autore, con l'Ursino, del Catechismo di Heidelberg del 1563, il più diffuso tra i catechismi calvinistici) si trova solo il concetto di un patto fra Dio e gli eletti; più tardi, per opera specialmente di Raffaele Eglino (1599-1622) e di Mattia Martinio (1572-1630), si distinsero i due patti: quello con Adamo, o delle opere, e quello della grazia. Più tardi, venne in discussione il carattere condizionale del secondo patto: per alcuni, più rigidi sostenitori della predestinazione, come l'Ussher, il patto era in realtà un atto unilaterale di Dio o, al più, bilaterale, ma concluso esclusivamente tra Dio Padre e il Figlio. Altri, come John Owen e Richard Baxter, distinsero due negozî: uno fra le due persone divine e l'altro fra Dio Padre e gli eletti in Cristo. La logica del sistema imponeva, pur riconoscendo che gli eletti eseguiscono il patto solo in virtù della grazia loro conferita, che si facesse qui una certa parte anche all'azione umana. Un'altra controversia sorse in Inghilterra e in America dove si ammetteva generalmente (eccetto che dai battisti) che il patto di grazia includesse anche i figli dei credenti: onde il battesimo dei bambini. Ma perché allora si sarebbe ristretta la Cena ai soli rigenerati, accettando che per l'ammissione ad essa bastasse una fede "dogmatica", cioè un semplice assenso intellettuale? Tale fu la posizione assunta da Thomas Blake contro il Baxter. Ma principale rappresentante di questa scuola si può considerare Giovanni Koch (Cocceius); procedendo per la via tracciata dai suoi maestri W. Ames e Martinio egli non solo distinse i due patti, ma considerò il secondo promulgato varie volte nell'Antico Testamento, prima dell'ultima e più solenne proclamazione fatta da Gesù. La scuola continuò nel sec. XVIII ed ebbe rappresentanti nel XIX; in alcuni seguaci il carattere forense dell'imputazione è così spinto, che lo stesso patto fra Dio e Adamo è esposto in una strana terminologia mercantile.

Oltre all'Amyraut e ai suoi seguaci, la Formula consensus Helvetica condannava poi un'altra dottrina, ritenuta pericolosissima per il calvinismo. Esso professava di attenersi interamente ed esclusivamente alla Bibbia e i suoi teologi più rigidi avevano accettato la teoria dell'ispirazione letterale assoluta della Sacra Scrittura. Pertanto i calvinisti svizzeri condannarono il Cappel, il quale aveva dimostrato che i puntì-vocali e gli accentì del testo ebraico dell'Antico Testamento erano posteriori di parecchi secoli al testo stesso e rappresentavano varie volte una lettura fallace come dimostrava il confronto con le antiche versioni e specialmente quella dei Settanta (v. bibbia, VI, p. 887 seg.). Essi affermarono che il testo ebraico dev'essere considerato tum quoad consonas, tum quoad vocalia sive puncta ipsa sive punctorum saltem potestatem et tum quoad res, tum quoad verba, ϑεόπνευστος ("ispirato"), ut fidei et vitae nostrae una cum codice Novi Testamenti. sit canon unicus et illibatus.

Così l'ortodossia rigida si metteva contro la scienza, mentre ai moderni il gran battagliare intorno alla predestinazione può sembrare cosa vana, e tutto questo teologizzare privo di vero e vivo contenuto spirituale. Ma non bisogna dimenticare che questa teologia trattava, dal suo punto di vista particolare, la questione sempre viva dei rapporti fra Dio e l'uomo; che dalle considerazioni intorno alla corruzione del genere umano si svolsero quelle relative al diritto di natura (lo stesso Grozio partecipò alle dispute arminianistiche); che, infine, appunto fra le polemiche teologiche - tutt'altro che ristrette al campo ideale o prive di ripercussioni su quello politico e giuridico - si svolse, lentamente e faticosamente, la concezione moderna della libertà di coscienza e di culto.

Per l'influenza esercitata dal calvinismo sullo sviluppo, della vita europea, v. riforma.

Bibl.: Manca purtroppo un'opera d'insieme sulla diffusione del calvinismo in Europa (per quanto parecchie notizie sul primo periodo si trovino in Doumergue, Jean Calvin, VII, Losanna e Parigi 1927) e manca una storia particolare della teologia calvinista. Qui citiamo alcune opere per un primo orientamento.

Per la Francia: per il sec. XVI, Th. de Beza, Histoire ecclésiastique des églises réformées au royaume de France, ed. Baum e Cunitz, voll. 3, Parigi 1883-1889; Th. Agrippa d'Aubigné, Histoire universelle, ed. De Ruble, Parigi 1886-7; W. G. Soldan, Geschichte des Protestantismus in Frankreich bis zum Tode Karls IX, Lipsia 1855; G. von Polenz, Geschichte des französischen Calvinismus, Gotha 1857; J. Viénot, Histoire de la Réforme française, Parigi 1926. Per il sec. XVII-XVIII, E. Benoit, Histoire de l'édit de Nantes, voll. 5, Delft 1693-5; J. Dedieu, Le rôle politique des protestants français (1685-1715), Parigi 1920; id., Histoire politique des protestantas français (1715-1789), voll. 2, Parigi 1925.

In particolare si vedano gl'importanti studî di H. Hauser, Études sur la Réforme française, Parigi 1909; e, per la situazione verso il 1559-1560, la trattazione fondamentale di L. Romier, Le royaume de Catherine de Medici, II, Parigi 1922, pp. 151-300 (dello stesso anche La conjuration d'Amboise, Parigi 1923 e Catholiques et huguenots à la cour de Charles IX, Parigi 1924). Inoltre anche E. Marcks, Gaspard von Coligny, Berlino 1899.

Per i Paesi Bassi: H. Pirenne, Histoire de Belgique, III e IV, 3ª ed., Bruxelles 1920 e 1927; P. Blok, Geschiedenis van het Nederlandsche volk, 3ª ed., 1924-6 (trad. tedesca, Gotha 1902-1918) e la bibl. ivi. Per la Germania: H. Leube, Calvinismus u. Luthertum, I: Der Kampf um die Herrschaft im protsetantischen Deutschland, 1928. Per la Polonia: Wotschke, Geschichte der Reformation ir Polen, Lipsia 1911; P. Fox, The reformation in Poland, Baltimora 1924. Per l'Ungheria: Balogh, A Magyar protestans egyhaz voertenebar, Debreczin 1872 e G. Loesche, Luther, Melanchton, Calvin, in Österreich-Ungarn, Tubinga 1909.

Per l'Italia: G. Buschbell, Reformation u. Inquisition in Italien um die Mitte des XVI. Jahrh., Paderborn 1910; Jalla, Storia della Riforma in Piemonte al tempo di Emanuele Filiberto, Firenze 1914; E. Rodocanachi, La Réforme en Italie, voll. 2, Parigi 1920; U. Santini, L'ascendente di C. in Val d'Aosta, in Rivista d'Italia, maggio 1920. Per la Gran Bretagna e l'America: G. Burnet, History of the Reformation, ed. Pocock, Oxford 1865; A. F. Pollard, England under Protector Somerset, Londra 1900; F. G. Lee, The Church under Elisabeth, Londra 1892; A. F. Mitchell, The Scottish Reformation, Edimburgo 1900; A. F. Scott Pearson, Thomas Cartwright and Elizabethan puritanism, Cambridge 1925 (cfr. E. Hirsch, in Theol. Literaturzeit., 1925, col. 561 segg.).

Per lo sviluppo teologico: A. Schweitzer, Die reform. Centraldogmen in ihrer Entwicklung, Zurigo 1856; W. Gass, Geschichte der protest. Dogmatik, voll. 4, Berlino 1854-67; Schaff, Creeds of Christendom, New York 1877; Heppe, Dogmatik der deutschen Protestantismus in 16. Jahrhundert, Gotha 1857; R. Seeberg, Lehrbuch der Dogmengeschichte, IV, ii, 3ª ed., Erlangen e Lipsia 1920. V. anche: A. Erichson, Bibliographia Calviniana, Berlino 1910.

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