CALEPIO

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 16 (1973)

CALEPIO

Gigliola Soldi Rondinini

La famiglia dei conti di Calepio compare nei documenti con tale denominazione soltanto verso la fine del sec. XII (1195-1198). Le sue origini sono state finora oggetto d'indagini per lo più parziali, dalle quali, peraltro, sembra possibile stabilire che essa costituisce un ramo della famiglia dei Martinengo staccatosi dal tronco originario proprio intorno all'epoca suaccennata.

Il Ronchetti (Genealogia di famiglie bergamasche) regesta alcuni documenti che vanno dal sec. X al XII. Nei primi compaiono soltanto membri della famiglia Martinengo: in un documento del 1168 sarebbe invece citato un "Goizo comes de Martinengo et de Calepio", il quale, divisosi dal fratello Guglielmo, padre del conte Uberto, avrebbe dato così origine alla famiglia dei Calepio. Sarebbe questa la prima menzione, che non trova però alcuna altra conferma. Gli studiosi di storia locale bergamasca fanno generalmente discendere i Martinengo dai conti del "comitatus Bergomensis" detti Gisalbertini, dal loro capostipite Gilberto o Gisalberto. Ie diverse genealogie sin qui prospettate hanno infatti tentato spesso di collegare i Gisalbertini, nella loro discendenza, alle più tarde famiglie signorili, che prendono generalmente il nome dalla località di provenienza, nell'evidente tentativo di accrescere i titoli di nobiltà di queste ultime, o di fondarne la legittimità. Tuttavia, per quanto concerne i Martinengo, non sembra che tale derivazione sia verificabile su documenti, anche se il titolo di "comites de Martinengo" o "de loco qui dicitur Martinengo", con il quale i vari membri sono designati nei documenti a partire dal 1127, parrebbe indicare una delega di poteri pubblici da parte di un'autorità civile, probabilmente avvenuta tramite infeudazione, di cui però non rimane traccia. Sono invece documentabili i legami dei Martinengo con la Chiesa bergamasca: dal suddiaconato di Ambrogio (1065, in Lupi, Codex diplomaticus…, II, coll. 669-70), alla qualifica di miles, signifer e advocatus ecclesie di Goizo, o Goizone (1079: ibid., coll. 19-20, 735-38), dotato di ampi possessi in molte località, spesso ceduti o donati ad enti ecclesiastici bergamaschi (ibid., coll. 746, 683-688, 777-778).Siamo quindi in presenza di vassalli del vescovo di Bergamo, originariamente signore di tutte le valli del territorio e titolare dei diritti relativi, assimilabili dal punto di vista feudale e sociale ai capitanei di Milano e del suo contado. Si hanno però anche notizie relative ad acquisti di terreni con annesse giurisdizioni feudali (alcuni dei quali venduti dai conti stessi di Bergamo: ibid., coll. 899-900), fatti dai Martinengo. È chiaro che si è comunque in presenza di una fitta rete di vassalli maggiori e minori, uniti spesso tra loro per matrimonio, di cui i diversi ceppi e relative ramificazioni, legati ai castelli, dei quali possiedono i diritti, s'intrecciano in modo pressoché inestricabile. I signori di Martinengo, come si è detto, erano titolari di feudi e diritti in molte località del Bergamasco, e quasi certamente anche nella Val Calepio, dal momento che nel 1097 Alberto e Lanfranco, figli del defunto Goizo "de loco Martinengo", concedono in feudo, nella loro qualità di signori della castellanza di Calepio, la corte di Telgate, posta nelle vicinanze appunto del castrum di Calepio (ibid., coll. 801-02; Ronchetti, Memorie istoriche, II, pp. 230-31). Tuttavia non è noto in quale momento i Martinengo siano giunti in possesso della suddetta castellanza: è probabile che essa facesse parte delle concessioni fatte a Goizo dal vescovo di Bergamo, quale contropartita del suo gonfalonierato o della sua avvocazia. Che i Martinengo fossero signori anche di Calepio appare più chiaramente da un documento del 1127 (Liber potheris, coll. 10-12, n. III), dal quale risulta che "in castro de Calepio, in domo comitis eiusdem castri… per lignum quod in sua tenebat manu, Goizo comes f. q. Alberti comitis qui dicitur de Martinengo" investiva i consoli di Brescia ed il vescovo Alberto di tutti i diritti che "causa et iure pignoris" aveva nella località di Quinzano d'Oglio.

La controversia sorta tra Bergamo e Brescia per i castelli di Calepio, Sarnico e Merlo, ceduti a Brescia dai signori di Calepio, è forse all'origine della loro definitiva affermazione come famiglia autonoma. Le ragioni per le quali vennero dati alla città rivale e nemica i castelli sulla destra del fiume Oglio, di grande importanza perché in zona di confine tra i territori di Bergamo, Brescia e Cremona, non sono facilmente individuabili. è probabile tuttavia che esse si debbano inquadrare nelle aspre contese che sconvolsero la vita di quasi tutti i Comuni lombardi sullo scorcio del sec. XII, quando la continua ascesa di Milano quale città egemone conduceva ovunque alla formazione di blocchi di forze contrapposti, legati a loro volta alle fazioni milanesi e poggianti naturalmente sui più potenti signori locali. Bergamo, alleata principalmente con Cremona, si schierò sempre contro Milano e Brescia. Due documenti del 1195, conservati nell'Archivio comunale di Bovegno in Val Trompia e pubblicati dal Guerrini (Per la storia), citano, sembra per la prima volta, due membri della famiglia C. con quel titolo comitale che d'ora in poi ne accompagnerà il nome: sono Lanfranco e Pagano, che vivono a Brescia, sono sposati a donne bresciane, e in città possiedono beni, forse di provenienza dotale. Gli stessi sono poi citati in documenti del Liber potheris (1198, coll. 57-61) come figli di Maifredo (o Maginfredo) ed eredi di Uberto, loro fratello.

L'interesse dimostrato dalle città lombarde nei confronti della Val Calepio si spiega con la posizione geografica, e quindi con la importanza strategica. Col nome di Val Calepio viene designato un territorio che corrisponde all'ultimo tratto, verso il fiume Oglio, della zona collinare compresa tra quest'ultimo e il fiume Cherio: l'appellativo di "valle" non è determinato quindi da ragioni geografiche, ma riflette piuttosto un'organizzazione territoriale comunitaria richiamantesi probabilmente ad antichissime situazioni locali. La Val Calepio fu infatti quasi certamente un pagus romano e costituì nell'antichità una zona di importanza strategica e commerciale. Avanzi d'età imperiale a Mezzate, Bagnatica, Chiuduno, Calepio, Credaro sembrano testimoniare l'esistenza d'una strada che portava da Brescia a Bergamo, traversando il fiume Serio presso Seriate e l'Oglio a monte di Palazzolo, nelle vicinanze quindi di Calepio. È probabile che quest'ultima località fosse collegata allora anche con la Val Camonica, attraverso una strada, risalente la Val Cavallina fino a Lovere, che si staccava da quella per Brescia in località "Carrobbio" (oggi le case più meridionali del borgo di Trescore). Tale importanza si mantenne anche nell'alto Medioevo (di una fortificazione di Calepio si ha notizia fin dall'anno 912: Mazzi, Corografia, p. 124) e si accrebbe nell'età comunale, quando l'incastellamento del contado tipico di quest'epoca seminò di castelli ogni punto vitale del territorio.

Dopo il 1198, il primo documento che si conosca nel quale siano nominati ancora i conti di Calepio è un atto del 1241 (Mozzi, ff. 107r e 265V) che ricorda un "comes Guillelmus de Calepio… canonicus Ecclesie Bergomensis". Un secondo dell'anno 1249 (ibid.) ricorda anche un "comes Goyzo archipresbiter de Calepio". Il conte Guglielmo, canonico, appare anche in altri documenti relativi a investiture o affitti di terre in varie località del Bergamasco, come Albegno, Calcinate, Colognola, Borgo Sant'Andrea, Torre, Sterzano, spesso di pertinenza della Chiesa di Bergamo (Bergamo, Bibl. civ., Perg. dell'Arch. capit., a. 1249: segn. B. XVI. 521; a. 1251: segn. M. II. 4212; a. 1258: segn. I. 7. 2675; a. 1270: segn. M. III. 1232; a. 1271: segn. E. VII. 1334). Lo stesso Guglielmo viene poi sciolto nel 1281 dalla scomunica e dall'interdetto coniminatogli probabilmente per questioni di prestito ad interesse (ibid., segn. B. VI. 328). Il legame della famiglia con la Chiesa di Calepio e con quella di Bergamo è ancora provato dall'appartenenza di altri suoi membri ai collegi canonicali della Chiesa Maggiore e della pieve: nel 1280 si ricorda un Bonifacio, figlio del conte Landolfo, canonico di S. Lorenzo di Calepio (la chiesa plebana locale), di S. Giovanni di Cunisio e di S. Pietro di Mezzate (Arch. Calepio, cart. 17 C 2; Mozzi, ff. 251r, 266r); Landolfino, figlio di Lanfranco, è ordinato chierico nel 1304 e Palamide, "natus da Filomenisio, lo è nel 1307 (Mozzi, 253r). Nel 1370 un Marchisio risulta arciprete di S. Lorenzo di Calepio e prende parte all'elezione a canonico di Bettino, figlio di Guarnerio (Perg. dell'Archivio capitol., segn. L. 11. 3699). Nel 1387 Contessina diventa badessa del monastero di S. Grata in Columnellis (Mozzi, f. 287v).Per quanto concerne la partecipazione al governo della cosa pubblica nella città di Bergamo sembrano esserci solo due menzioni relative ai C. prima del sec. XIV: nel 1209 si ha notizia di un "Goyzo, consul maior civitatis" (ibid., f. 107v). Tuttavia, mancando il consueto titolo comitale, non si può essere certi che il Goyzo del documento citato appartenga alla famiglia, benché il nome sia tipico del C. e per quanto ci sia nota l'esistenza di un "comes Goizo" attivo intorno a quella stessa epoca. Ancora più incerta è l'identificazione di Persevallo di Calepio che fu console di giustizia e giudice a Bergamo nel 1277 (Perg. dell'Arch. capit., segn. L. XX. 4862).

I C., sebbene il centro del loro potere fosse nel castrum omonimo, avevano, come gran parte delle famiglie feudali dell'età comunale, un'abitazione in città. Essa ci è documentata solo a partire dal sec. XV, ma è da supporre che datasse da più lungo tempo. I C. abitavano nella "vicinia" (così erano chiamati i quartieri cittadini) di S. Michele al Pozzo Bianco (Mozzi, f. 86), nell'ancor oggi esistente via di Porta Dipinta. Più tardi essi si estesero anche in altre "vicinie" cittadine (ibid.). Per quanto concerne l'abitato di Calepio e il suo territorio, questi facevano parte invece della faggia di porta S. Andrea (Mazzi, I confini del contado), dove pure vi erano possessi della famiglia.

Per tutto il sec. XIV vi sono numerosi documenti che ricordano membri della famiglia e che sono serviti per chiarire i vari rapporti di parentela. Nel testamento di Alberto, detto "Degozzius", figlio di Iacopo, datato 29 ag. 1326, la famiglia è indicata (per la prima ed unica volta) come appartenente al ceto "de vavassoriis de Calepio", ossia della feudalità minore che può essere, come si è già detto, anche di origine vescovile (Arch. della Misericordia, perg. 573, olim V. I. 1 [9 a]. Nel periodo sin qui considerato, i C. strinsero numerose alleanze matrimoniali con famiglie di elevato livello sociale, appartenenti anch'esse al territorio bergamasco, il che consentì loro di estendere la propria influenza anche al di fuori della zona di origine: Nicolino, figlio di Federico Rubeus, risulta sposato ad una Soardi (a. 1364: Mozzi, f. 253r); Giovanna, figlia di Nicolino, viene maritata ad un de Rosate, e Allegranza, sua sorella, ad un Longhi di Adrara (ibid., f. 253r); Federico, figlio di Nicolino, sposa una Alessandri pure di Adrara (a. 1367: ibid., f. 112v); mentre Corradino, nipote di Federico Rubeus, del ramo di Trubecco, una Osio (a. 1388: Mozzi, f. 251v), ecc.

è probabile inoltre che vi fossero già legami di parentela anche con i Colleoni, nella cui famiglia i nomi di Federico e Trussardo, propri appunto del C., appaiono con una certa frequenza; tale legame comunque è rafforzato, un secolo più tardi, dal matrimonio tra Marco e Maddalena Colleoni, e risulta evidentemente anche dallo stemma, del quale si dirà più avanti. Gli ultimi decenni del sec. XV furono fimestati a Bergamo da violente lotte tra le fazioni cittadine, divise in due gruppi, che le fonti del tempo designano come "guelfi" e "ghibellini", capeggiati l'uno dai Rivola (con i Borghi, i Tarussi, i Bensulini, gli Olmo), al quale appartengono anche i Calepio, propensi ad una sottomissione a Venezia; l'altro dai Soardi (Lanzi, Colleoni, della Sala), legato invece a Gian Galeazzo Visconti (Angelini, St. di Bergamo).

Dal diario di Castellino Castelli (Rer. Ital. Script., p. 10), che annota diligentemente i fatti di sangue avvenuti nel 1380, appare come l'11 aprile (Angelini, Storia di Bergamo) Pederzolo avesse ucciso, assieme a due amici, un Tarussi e un de Oneta, Gerardo de la Sale della potente famiglia nemica (si veda anche Belotti, Storia di Bergamo, II, p. 271) Guidotto compare invece tra coloro che il duca di Milano aveva chiamato a Pavia nel 1395 per giurare la concordia tra le fazioni bergamasche, in una delle numerose "paci" solenni da lui volute. Nei primi anni del sec. XV Pandolfo Malatesta, divenuto signore di Brescia, concesse dei privilegi al conte Bartolomeo che gli aveva ceduto il passo del ponte sull'Oglio, all'imbocco della Val Calepio, aprendogli così la strada verso Bergamo e arrecando in tale modo un grave danno al ducato di Milano proprio quando quest'ultimo si stava risollevando dopo la crisi seguita alla morte di Gian Galeazzo (ibid., p. 339). Secondo un manoscritto forse della seconda metà del Cinquecento, che narra le vicende della famiglia dei C. all'inizio del sec. XV basandosi su fonti storiografiche diverse (il manoscritto faceva parte della documentazione di uno dei tanti processi intentati o sostenuti dai vari rami dei C. per mantenere o riacquistare i loro privilegi sulla valle), Bartolomeo avrebbe ricevuto in dono dal Malatesta anche dei beni fondiari, con annessi canali e fortificazioni militari, per un valore di circa 30.000 ducati, somma questa veramente enorme (Arch. Calepio, cart. 17 d). Nel 1419 Bergamo ritornò al duca di Milano, Filippo Maria Visconti, per merito di Francesco Carmagnola, mentre Brescia venne riconquistata nel 1421. I C., tuttavia, seguitarono a stare dalla parte di Venezia, e già nel 1423 i sindaci e procuratori della valle supplicavano la Serenissima perché li accogliesse nel suo dominio. Più tardi Stefano, Onofrio e Bartolomeo concessero alle truppe veneziane il libero passaggio attraverso il ponte sull'Oglio controllato dal loro castello, in modo che fosse aperta agli eserciti della Serenissima la via verso Bergamo. Il "tradimento" dei C. - del resto sempre contrari a Milano - nei confronti di Filippo Maria fu causa di una dura rappresaglia da parte del duca, che riuscì a catturare Stefano, il quale fu poi strangolato nella rocca stessa di Bergamo. La riconquista della valle fu opera delle truppe comandate da Angelo della Pergola e dal Piccinino, che avevano posto il campo a Palazzolo ed erano aiutati dai Soardi. Un fascicolo (Arch. Calepio, cart. 87/5, 70), contenente un elenco dei documenti che concernono i C., comincia appunto con un atto che reca la data del 28 febbr. 1426: da questo documento risulta che due dei conti superstiti supplicarono di essere accolti e mantenuti a Prescia perché avevano perso ogni loro bene nella difesa della valle. Venne accordato un sussidio di 10 fiorini al mese a ciascuno: uno dei due beneficiari è Trussardo, il futuro feudatario della valle. Quest'ultimo (ibid., cart. 17 C 2, a. 1430) fu poi parte in una causa con il Comune di Brescia, dalla quale risulta che il ponte sul fiume Oglio, protagonista delle fortune della famiglia, era stato da lui costruito solo per benevola concessione di Brescia stessa, cui il fiume apparteneva territorialmente. A seguito della nuova vittoria viscontea (1426), furono fatti prigionieri anche Onofrio e Bartolomeo. Portati a Milano, vennero legati alla coda di due cavalli, squartati e quindi impiccati, mentre il cugino Trussardo riusciva a fuggire e riparava probabilmente a Brescia. Gli anni che seguirono videro l'alternarsi a Bergamo della signoria di Milano e di Venezia. Dopo la pace di Ferrara (1433), la Serenissima concedette privilegi a parecchi castelli del distretto, tra cui Calepio, in premio della fedeltà dimostrata. Nel corso però della terza guerra tra Milano e Venezia, le truppe viscontee guidate dal Piccinino riuscirono a respingere i veneziani oltre il confine dell'Oglio, riconquistando così il territorio bergamasco. Le milizie milanesi tentarono di inseguire le truppe veneziane attraverso la Val Calepio: il 10 settembre Venturino Marenzi consegnò ai viscontei il castello di Tagliuno. Trussardo, invece, si rifiutò di cedere e per venti giorni tenne testa al Piccinino, che riuscì a conquistare il castello solo il 25 sett. 1437, distruggendolo in parte. Tale strenua difesa e i danni subiti fruttarono a Trussardo (che aveva ricevuto già nel 1433 1 beni di Chiuduno: vedi Mozzi, f. 85v) l'infeudazione della valle concessagli dal doge Francesco Foscari, con ducale del 16 ott. 1437.

Il documento relativo, di cui nell'archivio della famiglia si trovano numerose copie manoscritte e a stampa, contempla la concessione in feudo "nobile e gentile" - in seguito ad una supplica presentata dallo stesso Trussardo - della Val Calepio, quale ricompensa dell'aiuto prestato alla Serenissima e dei danni subiti in quell'occasione. Dal suddetto documento risulta che Trussardo avrebbe dichiarato di riscuotere, attraverso i dazi della valle, una somma non superiore ai 200 ducati annui; tale dichiarazione fu più tardi causa di gravi accuse di falso nei confronti del conte stesso, mosse da funzionari della Repubblica di Venezia, dalle quali però sia Trussardo, sia i discendenti, vennero sempre assolti. La concessione in feudo comprendeva, oltre al territorio, tutte le giurisdizioni, i dazi, gli introiti di qualunque specie, che sarebbero spettati alla Serenissima - ormai signora della valle per diritto di conquista - più i beni che erano appartenuti a Marcato di Adrara, dichiarato ribelle a Venezia perché rimasto legato a Milano.

Inoltre, poiché a causa della guerra non si erano potuti coltivare i campi, veniva riconosciuta al conte la facoltà di seminare e raccogliere, per due anni, nei possessi dei ribelli del territorio di Samico (Arch. Calepio, cart. 9012, in copia). Come censo. Trassardo doveva offrire ogni anno due ceri del peso di dieci libbre ciascuno a S. Marco di Venezia. La giurisdizione criminale rimaneva però, come sempre, ai rettori della Serenissima, la quale si riservava anche il monopolio del sale e il diritto d'imporre prestazioni reali e personali agli uomini della valle. Tale documento è assai significativo perché mostra su quali basi poggiasse il sistema di rifeudalizzazione praticato dalla Repubblica nei confronti della nobiltà di Terraferma, dopo il successo della nuova linea politica promossa da Francesco Foscari.

Trussardo morì tra il 1453 ed il 1455, data, la prima, in cui compare come vivente in un atto (Mozzi, f. 7v), e la seconda di un documento (Arch. Calepio, cart. 1 d: vi si fa cenno ad una delle tante accuse di falso mosse contro di lui) dove Nicolino, suo figlio, è indicato come "filius qd. Trussardi".

La concessione in feudo dette subito origine a molte controversie tra i vari componenti la famiglia: nel maggio del 1438 era stato fatto un accordo tra il conte Trussardo e il nipote Marco (figlio di Onofrio, uno dei giustiziati del 1427), in base al quale Trussardo tacitava Marco e i suoi fratelli - con la somma di 2.000 fiorini d'oro, da versare entro due anni - nei confronti di qualunque altra richiesta potesse essere da loro avanzata sul feudo della Val Calepio (ibid., cart 17 C1). Tale accordo appare sollecitato benevolmente dallo stesso doge Francesco Foscari, la cui lettera sull'argomento, del 16 dic. 1437. Si trova in copia nell'Archivio (Corrispondenza, cart. 99). Nel 1448, però, fu discussa un'altra causa intentata contro Trussardo dai pronipoti Cristoforo e Federichino, figli di Giovanni. Dalla divisione dei beni della famiglia, fatta in quell'occasione, risulta che i conti di Calepio possedevano terre e case nel centro urbano, che vennero ripartite tra i contendenti, mentre il "castrum de Calepio" e le altre terre che si trovavano nella località suddetta rimanevano a Trussardo. Erano peraltro esclusi dalla partizione i feudi che il conte aveva avuto dalla Serenissima e quelli da lui comperati (Arch. Calepio, cart. 17a), sui quali i pronipoti non avevano alcun diritto. Anche in seguito si ebbero numerose liti determinate in genere da pretese avanzate sul feudo di Calepio, del cui castello veniva contestata la data della distruzione.

Dal suo testamento (1452: Arch. della Misericordia, segn. nº 1045, olim XV, II [10]) risulta che Trussardo ebbe tre figli: uno legittimo, Nicolino, e due naturali legittimati con il consenso dello stesso Nicolino, Marco e Giacomo. Di essi, il primo ereditò il feudo e tutte le giurisdizioni; Marco ebbe forse i beni di Chiuduno, il che causò più tardi una lunga lite fra i discendenti dei due rami (1535: Arch. Calepio, cart. 17e). Tuttavia secondo qualche storico antico egli sarebbe stato un umile frate agostiniano (Salvioni, p. 7), e dovrebbe ritenersi falsa la genealogia costruita per i beni di Chiuduno. Giacomo entrò invece negli eremiti agostiniani con il nome di Ambrogio. Nel giugno del 1496 i conti Bartolomeo, Antonio e Bettino, discendenti di quel Bartolomeo giustiziato a Milano, fecero lite a Trussardo (II) rivendicando i loro diritti sul feudo e portando le testimonianze di cinque persone anziane di alto lignaggio (un Colleoni, due Boselli, un Longhi, un Rosa), ma senza alcun risultato; come non ne ebbe del resto la causa discussa nel 1506 fra lo stesso Trussardo e Bartolomeo (Archivio Calepio, cart. 17c 2).Tra la fine del sec. XV e l'inizio del XVI si ebbe una sempre maggiore affermazione del ramo principale della famiglia ed una sua più intensa partecipazione alla vita pubblica. Dal momento in cui la signoria sulla valle era stata legittimata dalla concessione in feudo, si può infatti constatare una continua ascesa politica dei conti di Calepio. Nel 1450 e negli anni seguenti Nicolino, erede di Trussardo (I), fu più volte ambasciatore presso la Serenissima: si ricorda qui, tra le altre, l'ambasceria volta ad ottenere il rimborso dei debiti fatti da Bergamo tra il 1437 ed il 1439 per mutui concessi alla Repubblica di Venezia.

Di Nicolino esiste, in copia tarda, il testamento, steso il 4 luglio 1484 (ibid., 1d). Da esso risulta che il figlio Trussardo (II), cavaliere, e avviato agli studi giuridici, era l'erede del feudo, mentre all'altro figlio Gerolamo, canonico della chiesa cattedrale di Bergamo e arciprete della pieve di Curno in Val Camonica, spettavano i beni che il padre aveva in quella stessa zona, nonché la casa posta nella vicinia di porta S. Andrea, nella quale era stato steso l'atto testamentario. Agli altri due figli, Andrea e Ludovico, doveva provvedere Trussardo con un appannaggio annuo di 100 ducati d'oro ciascuno e con la concessione. ad anni altemi, del vicariato della valle. Tuttavia, nonostante le disposizioni testamentarie su ricordate, nel 1458 era vicario della Val Calepio e delle sue pertinenze il conte Cristoforo, discendente di Bartolomeo (Mozzi, f. 8r). Trussardo, inoltre, aveva l'obbligo di difendere i beni dei fratelli dalle eventuali pretese avanzate da Federichino e dai suoi eredi, o da quelli di Cristoforo. Sempre dal testamento, risulta che i C. avevano una cappella nella chiesa di S. Agostino di Bergamo, nella quale il testatore desiderava fosse eretto un sepolcro per sé e per i suoi discendenti.

Trussardo e Bartolomeo facevano parte anche del Collegio dei giudici cittadini, come appare da un documento del 1495 (ibid., f.266v). Tra il 1499 ed il 1508 Trussardo (II) venne impiegato in ambascerie, probabilmente anche a causa della sua preparazione giuridica, concernenti la sicurezza della città di Bergamo e del suo territorio (Sanuto, Diarii, II, col. 1077); nel 1509 figura tra i cittadini bergamaschi inviati a Luigi XII per la dedizione della città, come pure tra quelli tassati dal re di Francia per la somma di 3.000 ducati a testa, a titolo di prestito al sovrano (ibid., VIII, col. 448). Secondo il Sanuto (ibid., coll.478-79) fu uno dei fuggiaschi veneziani da Bergamo a riferire alla Signoria che la perdita della città era stata determinata dal conte Trussardo, da Luca Brembati e dagli abitanti del Borgo San Leonardo che, a detta del fuggiasco, "è ghibellino". Comunque, in quegli anni Trussardo (II) sembra aver parteggiato per i Francesi: il 17 maggio 1509, infatti, con alcuni nobili bergamaschi, tra cui un Soardi, si recò a Caravaggio per consegnare a Luigi XII la città, dietro mantenimento dei privilegi e concessione della tanto desiderata sottomissione delle valli del territorio a Bergamo, nonostante la forte opposizione delle valli stesse (ibid., coll. 291). Il 22 maggio dello stesso anno pronunciò un'orazione in onore di Antonio Maria Pallavicino, governatore di Bergamo in nome di Luigi XII. Il 7 luglio il feudo della Val Calepio gli venne confermato dal sovrano francese, (Arch.Calepio, cart. 17 d, in copia) che si trovava in quel momento a Milano. è da ricordare che in quello stesso sanno Pompeo e Fabrizio di Adrara e i loro consorti chiedono a Luigi XII di essere riconosciuti signori della valle, di cui un loro antenato aveva ricevuto il vicariato da Filippo Maria Visconti, in riconoscimento della fedeltà dimostrata a Milano. Sono proprio questi i beni di Marcato di Adrara nominati nella ducale d'investitura del 1437 (ibid., cart. 87/5, in copia del sec. XIX). Trussardo tramò però ancora per il ritorno dei Veneziani; non era infatti convinto che i Francesi riuscissero a mantenere le loro conquiste. Già da qualche tempo sembra avesse acquistato una casa a Milano per rifugiarvisi. Nel 1510 Andrea, fratello di Trussardo, fu costretto a prendere la via di Milano, esiliato assieme a parecchi altri bergamaschi per aver tramato contro la Francia onde ricondurre Bergamo sotto il dominio veneziano. Anche in questa occasione si ripropose nell'ambito cittadino l'antico conflitto tra le consorterie rivali e i rispettivi aderenti, Suardi, Vertova, della Sala e Comenduno, Rivola, C., ecc. Andrea ritornò in patria nella primavera del 1511. Nel gennaio del 1512 Trussardo era al comando di trecento soldati per la difesa di Bergamo contro la Serenissima; poco più tardi guidava una ambasceria a Milano presso Luigi XII per discolpare la città dall'accusa di aver favorito il ritorno della signoria di Venezia (una rivolta di valligiani aveva infatti cacciato i Francesi per brevissimo tempo). La città ottenne il perdono, ma Trussardo venne inviato prigioniero prima a Trezzo e poi in Francia, come responsabile, assieme al giureconsulto Galeazzo Colombo, di quanto era accaduto.

Il Sanuto (Diarii, VIII, coll. 25-29, 544) nomina un altro C., Ottaviano, che era stato al servizio di Zaccaria Contarini quando questi era capitano a Cremona, ed aveva compiuto importanti missioni all'estero per sollecitare l'imperatore ad accordarsi con Venezia, ricevendo benefici dalla Signoria. Ottaviano era un altro discendente di Bartolomeo: sembra che in questo momento le discordie tra il ramo principale della famiglia e quello cadetto fossero sopite. Da un documento del 1595 (Mozzi, ff. 82r, 171r) risulta che ebbe due figli, Giovanni e Antonio, tra i quali vennero divisi i beni che il padre aveva nella località di Palosco. Giovanni, nel 1576, morto il padre, lasciò ai figli Ottaviano e Lelio, la cui madre era una Zanchi, la casa che possedevano a Bergamo (Mozzi, f. 172r). Un altro della famiglia, Bartolomeo, fu tra i dieci componenti la Giunta provvisoria di Bergamo, quando nel giugno 1512 i Francesi lasciarono la città, mentre Marco, suo figlio, appare dapprima come comandante di trecento provvisionati alla difesa del territorio, e poi, nel giugno 1513, come membro della Giunta cittadina incaricata di far fronte alle truppe spagnole che si stavano avvicinando all'Oglio. Tra il 1517 ed il 1523 il conte Trussardo fu sempre tra i cittadini deputati al governo della cosa pubblica. Le condizioni interne della città erano allora assai precarie a causa delle continue guerre, mentre alcuni cittadini, tra cui lo stesso Trussardo, lamentavano presso la Serenissima le eccessive ingerenze all'interno del Consiglio di elementi del contado che vi erano entrati durante il loro esilio (Sanuto, Diarii, XXIV, col. 138), danneggiando coloro che avevano sempre portato il peso del governo. Un altro C., Bartolomeo figlio di Nicolino (I), era nel 1510 ed arciprete di S. Vincenzo di Bergamo (Mozzi, f. 287r). Che la vita a Bergamo fosse allora spesso sconvolta da fatti di sangue si rileva da documenti nei quali appare come alcuni dei C. fossero tra coloro che maggiormente fomentavano le discordie: ricordiamo Orazio e Guido che, bandito per tre anni perché coinvolto nell'assassinio di Gerardo Terzi di Capriolo, esponente della parte avversa (Arch. Calepio, cart. 17 C2, a. 1535), uccise, poco dopo, anche un altro dei Terzi, Battistino, ma venne assolto (ibid.).

L'Archivio Calepio contiene inoltre, per questi anni, numerose scritture relative a liti concernenti i dazi della Val Calepio, intentate dai vari Comuni ai conti (ad esempio, da Credaro, Villongo, Foresto, Adrara, Tagliuno, Viadanica, ecc.), segno questo che i signori gravavano in modo pesante le terre sottoposte. Le cause finivano quasi generalmente con la vittoria dei conti, anche se qualche volta i loro dazieri venivano uccisi (ibid., cart. 17 C2, a. 1584). Continuano anche le controversie tra i diversi rami della famiglia determinate, come sempre, dalla originaria concessione in feudo della valle fatta a Trussardo (I). Nel 1565 i conti C., orgogliosi del loro titolo, si scontrarono con i Grumelli e i Brembati circa la precedenza in Consiglio e negli uffici pubblici tra cavalieri e conti; la decisione del Consiglio dei dieci fu salomonica e diede ragione all'una e all'altra parte (Belotti, Conti o cavalieri?, p. 202).

Tra i C. compare anche un cavaliere dell'Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme: Galeazzo, figlio di Ruggero, mentre suo fratello Pietro risulta, alla stessa data, preposto degli umiliati (1568: Mozzi, f. 171v). Legati alle loro tradizioni militari, Galeazzo e Carlo, suo zio, partirono per difendere Cipro; il primo morì nella battaglia di Lepanto; il secondo fu ucciso dai Turchi ancor prima del combattimento. Nel frattempo alcuni della famiglia sembrano essersi trasferiti a Brescia: nel 1579 GiovanniAndrea, figlio di Gerolamo e discendente di Andrea, fratello di Trussardo (II), risulta essere "civis Brixie et habitator" (ibid., f. 173r). Nel 1545 Zaccaria (del ramo di Trubecco) e Giovanni fanno parte del Collegio dei giudici della città (ibid., f. 266v).

Il ramo principale della famiglia continuava con Nicolino e con Trussardo suo figlio, il quale compare in alcuni documenti fino al 1597; mentre in un atto del 1587 appaiono con la qualifica di feudatari anche Pompilio e Francesco fu Andrea, e Giovanpaolo e Orazio fu Ruggero. Andrea era secondo cugino di Nicolino; Ruggero, suo fratello. Nei secoli XV e XVI i C. s'imparentano con altre potenti famiglie della zona: Federico sposò Caterina dei Capitani di Scalve; Bettino, una Maffei; Stefanino, una Alessandri; Trussardo (II), Maddalena della Sala; Andrea figlio di Nicolino, Angela Solza. Un documento di "investitura ad fictum" del 1457 riporta una serie di affitti di proprietà dei conti nel territorio del Comune di Calepio, concernenti diverse centinaia di pertiche (Mozzi, ff. 155rv, 156rv, 231r), a Credaro, a Trubecco (dove si era installato un ramo che ha una sua autonomia), alle quali si aggiungono i beni in città, estesisi in questo periodo dalla "vicinia" di S. Michele al Pozzo Bianco a quella di S. Giovanni e di porta S. Andrea, e ai molti altri che facevano del feudo della valle una vastissima proprietà privata. Per i beni di Chiuduno, appartenenti al conte Orazio, vi è un altro documento che li elenca in dettaglio (ibid., f. 85rv).

Il castello di Calepio, oggetto di tante controversie, esiste ancora oggi e reca sul frontone lo stemma della famiglia e la scritta: "Hoc opus fecit fieri comes Trusardus Calepinus et incepit die XIII mensis aprilis anno MCCCCXXX". Gli stemmi relativi alla famiglia dei conti Calepio sono differenti, a seconda dei rami in cui essa si divise. Tali stemmi testimoniano anche le diverse parentele contratte nel corso dei secoli: quello originario, leone rampante lampassato in campo rosso, venne integrato anche dallo stemma dei Colleoni-Martinengo (Stemmi delle famiglie bergamasche, n. 520). Un estratto del Libro d'oro de' veri titolati della Serenissima Repubblica Veneta (Cod. Zineroni, n. 30) riporta, alla data del 10 marzo 1662, i discendenti maschi legittimi e naturali del conte Trussardo, primo feudatario della valle. Essi sono: Galeazzo, ovvero Ambrogio Marco; Orazio, Giulio, Pompilio, figli del fu Trussardo; Giovanpaolo, Trussardo e Nicolò del fu Giovanpaolo, che vengono detti "fedeli conti feudatari giurisdicenti".

Fonti e Bibl.: L'Archivio Calepio, conservato nella Bibl. civica di Bergamo (segn. A 1 sopra, 1-17), contiene documenti cartacci a partire dal 1426, collocati in faldoni contrassegnati con numero e lettera alfabetica, non ordinati e spesso in copia tarda. Dell'Archivio esiste un inventario parziale steso dal direttore della Biblioteca Luigi Chiodi. I documenti più antichi (pergamene) del fondo Calepio si trovano parte nell'Archivio capitolare e parte in quello della Misericordia Maggiore, entrambi presso la Biblioteca civica: di essi si è dato volta per volta la segnatura.

Si vedano ancora mss. presso la Bibl. civica di Bergamo la Cronaca di Bergamo dal 1402 al 1484 (segn. Gab. Λ, 217), f. 7v; G. B. Angelini, Sommario delle ducali (segn. Φ, III, 3), ff. 23, 39; Documenti veneti. Senato Secreti 1427-1630 (segn. Ψ, VIII[10] ad annum 1437; E. Mozzi, Antichità bergamasche (segn. Φ 1, 9-16), II, lettera C, ff. 8r, 82r, 85rv, 86r, 107r, 112v, 155rv, 156rv, 171rv, 172r, 173r, 231r, 251 rv, 253r, 265v, 266r, 287rv; G. B. Angelini, St. di Bergamo (segn. ad annum 1385); G. Ronchetti, Genealogie di varie famiglie bergamasche (segn. Λ, 4.6 [13]), 960 ca-1291; le Famiglie bergamasche: privilegi e stemmi (Codice Zineroni) (segn. Φ, IV, 6/1 [13]), ff. 59, n. 30; Cronaca bergomense (segn. Salone cass. I, J, 2, 37), ad annum 1437. Inoltre vedi M. Lupi, Codex dipl. Civitatis et Eccl. Bergomatis, Bergomi 1784-1799, II, coll. 19 s., 669 s., 683-88, 735-38, 777 s., 801 s., 899 s.; Chron. Bergom. gueipho-ghibellinum [Diario di Castellino Castelli], in Rer. Ital. Script., 2 ediz., XVI, 2, a cura di C. Capassò, p. 10; Liber potheris Comm. civit. Brixie, in Hist. patriae mon., XIX, Augustae Taurinorum 1899, a cura di F. Bettoni Cazzago-L. F. Fé d'Ostiani, pp. 10 ss, 57-61; M. Sanuto, Diarii, II, Venezia 1879, ad Indicem; VIII, ibid. 1882, ad Indicem; G. Ronchetti, Mem. istor. della città e della Chiesa di Bergamo, Bergamo 1805-31, II, pp. 230 s.; A. Mazzi, Corografia bergomense, Bergamo 1880, p. 124; Id., Note suburbane, Bergamo 1892, passim; G. Zambetti, La Val Calepio illustrata, Bergamo 1905, pp. 75-80; A. Mazzi, L'atto divisionale della sostanza di Detesalvo Lupi, condottiero della fanteria veneziana, in Bergomum, IV(1910), pp.1-38, Id., Gli"Annales Italiae" di G. M. Albergo Carcara, ibid., X(1916), pp. 1-32, 41-102; Id., Il diario di Castellus de Castello, Bergamo 1925, p. 215; Id., I confini dei comuni del contado, in Bergomun, XXII (1929), pp. 1 ss.; E. Odazio, I conti del comitato bergomense e loro diramazioni nei secoli X-XII, in Bergomum, n.s., VIII (1934), pp. 271-93; IX (1935), pp. 15-57, 148-78, 233-63; Id., La discendenza di Lanfranco "de Martinengo", in Arch. stor. lomb., LXII (1935), pp. 500-12; LXVII (1940), pp. 3-84; P. Guerrini, Per la storia dei conti di Caleppio, in Bergomum, XXXVII (1943), pp. 159-62; B. Belotti, Conti o cavalieri?, in Bergomum, XXV(1931), p. 202; Id., Storia di Bergamo e de' Bergamaschi, I-V, Bergamo 1959, ad Indicem, con la bibliografia ivi citata.

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