CALCIO: UN FENOMENO NON SOLO SPORTIVO

Enciclopedia dello Sport (2002)

Il calcio: un fenomeno non solo sportivo

Alessandro Cavalli
Antonio Roversi

Un'antica festa crudele

Nella fisicità naturale del corpo umano i piedi, destinati all'equilibrio e al movimento, sono governati da una quantità di neuroni minore rispetto a quella degli apparati prensili e dell'articolazione. Ciò ha un'importante conseguenza: è difficile riuscire a padroneggiare un oggetto con un organo così sfavorito. Eppure è proprio la capacità di utilizzare i piedi per costruire la trama ripetuta delle azioni di gioco che viene esibita, con maggiore o minore destrezza, ogni volta che due squadre di calciatori si affrontano su un campo di calcio, sia esso un grande stadio che raccoglie migliaia di spettatori o un anonimo campetto di periferia. Nella pratica di questo sport, infatti, la quasi totalità dei gesti atletici compiuti dai giocatori consiste nel colpire una sfera di cuoio con gli arti inferiori, e solo talvolta con la testa, coordinando i movimenti con il busto per imprimere alla palla la traiettoria voluta. Quale che sia il grado di abilità dei giocatori, comunque, il dato di fondo rimane costante: il calcio non è un gioco naturale, ma, al contrario, un gioco tecnico difficile ed è proprio questa caratteristica che gli conferisce il fascino dell'imprevedibilità, spesso accompagnata dalla bellezza estetica con cui si manifesta. Del resto, la storia del calcio è lì a confermarlo, costellata com'è di episodi in cui giocatori di bassa statura impartiscono lezioni di arte pedatoria a giganti, o calciatori dal fisico allampanato e bizzarro, con i loro colpi a sorpresa, riescono a ammutolire un avversario che pare scolpito in Grecia.

Naturalmente le cose non sono state sempre in questi termini. Senza bisogno di risalire ai tempi dell'antichità, per cogliere le differenze basta soffermarsi per un attimo su quei giochi popolari che possiamo considerare gli antecedenti premoderni del calcio odierno, vale a dire quelle contese tra squadre avversarie in cui ci si disputava un pallone e che venivano praticate in varie forme in quasi tutta l'Europa in epoca medievale e durante il Rinascimento. Prendiamo a esempio la Francia. In questo paese troviamo la soule, un gioco che deve il suo nome a una palla di legno o, a seconda delle regioni, di cuoio, riempita di fieno o segatura e talvolta persino gonfiata d'aria (Jusserand 1901). Questa palla approssimativamente sferica veniva spinta con i piedi e i pugni, e qualche volta anche con l'aiuto di bastoni ricurvi, sebbene, in molti luoghi, le consuetudini tradizionali imponessero di usare soprattutto i piedi. Le due squadre avversarie avevano ciascuna una meta o un campo da difendere o da attaccare, e lo scopo del gioco consisteva nel far penetrare la soule nel campo avversario oppure nel farle raggiungere la meta opposta con qualunque mezzo a disposizione: calciandola, colpendola con le mani, con una corsa. I campi di gara e le mete potevano essere diverse e variare da luogo a luogo, anche se di norma erano abbastanza simili in ogni villaggio francese. La soule era un gioco antico e classico di cui bisognava conservare e trasmettere la tradizione: un muro, il limite di un campo, la porta di una chiesa, una riga tracciata per terra erano le mete da conquistare. Spesso uno stagno, in cui bisognava gettare o impedire che fosse gettata quella sorta di palla.

Una forma abbastanza simile di gioco del calcio si trova in epoca medievale anche in Inghilterra dove veniva praticata in due modi. Il primo, chiamato hurling at goal, consisteva nel gettare la palla in una porta ed era giocato entro uno spazio chiuso da due squadre composte ciascuna da un numero di giocatori variabile tra i trenta e i cinquanta. Il secondo, denominato hurling over country, veniva praticato in aperta campagna tra i giovani di due villaggi e aveva per obiettivo quello di far arrivare il pallone nel villaggio avversario. Così come in Francia, anche in Inghilterra ci troviamo in presenza di un modo di giocare la palla assai scarsamente regolamentato. Le poche regole di gioco, là dove ve ne erano, avevano specificità locali ed erano trasmesse oralmente di generazione in generazione, non vi era dunque nulla di scritto e non esistevano organi super partes che controllassero l'andamento del gioco.

Nonostante le variazioni locali e nazionali, comunque, questi antecedenti popolari del calcio moderno ‒ sia in Francia sia in Inghilterra ‒ avevano in comune almeno una caratteristica: erano tutte lotte fatte per gioco, ma con una tolleranza consuetudinaria per il livello di violenza fisica notevolmente superiore a quella consentita di norma nel calcio odierno. La vita e le possibilità di sopravvivenza dei gruppi contendenti non erano minacciate direttamente e lo scopo principale del gioco non era quello di provocare serie lesioni fisiche o di causare la morte degli avversari. È innegabile, però, che il livello relativamente alto di aperta violenza e l'opportunità di infliggere dolore che contrassegnavano il gioco erano tra le fonti principali del divertimento che esso sapeva procurare. Un fatto non sorprendente: anche in questo gioco si rifletteva quello che Huizinga (Huizinga 1970) ha chiamato "il tenore di vita violento" in Europa durante l'"autunno del medioevo".

Sono molte le testimonianze che confermano in cosa consistesse il divertimento e il fascino di questi folk games. Le cronache del tempo sono concordi nel tramandarci l'immagine di contese estremamente violente e pericolose. Prendiamo il caso dell'Inghilterra: in questo paese, le partite si svolgevano di solito nei periodi di festa, come Natale e Carnevale, oppure in occasione di fiere e sagre di paese. L'unico requisito che veniva richiesto ai giocatori che vi prendevano parte era di possedere forza bruta per i contrasti e una buona potenza di calcio, cosicché, non di rado, accadeva che l'accanimento prodigato dai contendenti sfociasse in mischie gigantesche che potevano talvolta prolungarsi per più giorni di seguito. Come racconta, per esempio, un cronista inglese, William Fitzstephen, in un opuscolo apparso durante il Carnevale del 1174 (citato in English historical documents 1953, p. 960), lo spirito con cui la gioventù di Londra si dedicava a questo svago era caratterizzato a tal punto dalla brutalità e dalla più totale mancanza di rispetto per la proprietà e l'incolumità delle persone, che gli abitanti delle case vicine al luogo dell'incontro si vedevano spesso costretti a chiudere porte e finestre dei piani terreni. Per la verità, ciò non li tratteneva poi dal seguire le alterne fasi dell'incontro prudentemente al riparo dei piani superiori, da dove potevano sfogare il loro entusiasmo per i giocatori prediletti in tutta tranquillità. Non c'è da stupirsi, dunque, se le autorità pubbliche inglesi tentarono a più riprese di vietare questo gioco, in cui vedevano tra l'altro un pericoloso concorrente al tiro con l'arco, ritenuto un'attività molto più idonea a plasmare spiriti guerrieri.

In parte diversamente andavano invece le cose nel nostro paese già qualche secolo più tardi. Come è risaputo, è a Firenze, sotto la signoria dei Medici, che il gioco del calcio raggiunge il suo momento di massimo fulgore. Gli incontri di calcio fiorentino si disputavano soprattutto in occasione di matrimoni principeschi e visite illustri avendo per teatro la piazza di Santa Croce o Santa Maria Novella, quando non venivano giocati in un grande prato, posto subito fuori le mura della città. Benedetto Varchi descrive in questo modo una partita di calcio fiorentino (citato in Gori 1902, pp. 6-7): "Il Calcio è un gioco pubblico di due schiere di giovani a piede e senz'armi, che gareggiano piacevolmente di far passar di posta, oltre all'opposto termine, un mediocre pallone a vento a fine di onore. Gli uomini eletti per il Calcio debbono essere 54 divisi in due schiere eguali di numero e di valore, e ciascuna di queste schiere deve essere suddivisa in 4 sorte di giuocatori, cioè: 1. gli Innanzi che corrono la palla con i Maestri, e gli Alfieri; 2. gli Sconciatori, i quali rattengono i detti innanzi quando le palle accompagnano e dallo sconcio che danno loro son così detti; 3. i Datori innanzi, i quali danno gagliardi e dritti colpi alla palla; 4. i Datori indietro, che dietro a quelli stanno quasi alle riscosse. Devono gli abiti d'ogni giuocatore essere quanto più brievi e spediti: perciò non conviene al nostro avere altro che calze, giubbone, berretta e scarpe sottili per potersi valere delle membra sue ed essere agile al corso. Soprattutto si ingegni ciascuno di avere gli abiti belli e leggiadri che gli stieno addosso assettati e graziosi. Siano ambedue le schiere del Calcio di colore diverso: o sia raso, o velluto, o tela d'oro, secondo che ai Maestri del Calcio piacerà".

In un primo tempo il calcio fiorentino era riservato esclusivamente ai nobili, ma in seguito la nascente borghesia dei mercanti e dei banchieri chiamò a prendervi parte i giovani di tutte le contrade cittadine. In ogni caso, non bisogna farsi trarre in inganno dall'eleganza policroma degli equipaggiamenti: si trattava di un gioco in cui contava soprattutto la feroce irruenza dei giocatori.

Se tuttavia il gioco del calcio praticato in Francia e Inghilterra nel Medioevo e quello praticato in Italia in età rinascimentale presentano delle forti analogie sotto il profilo della violenza socialmente tollerata nel corso della competizione, tra i due tipi di gioco vi è anche una sostanziale differenza. In epoca medievale, infatti, le partite di pallone erano spettacoli ad alto tasso di violenza che coinvolgevano sia i giocatori sia gli spettatori, come risulta dagli editti che tentavano di proibire le "selvagge risse generate da una eccitazione simile a quella che si manifesta sui campi di battaglia" (Dunning e Sheard 1979, p. 25). Valga come testimonianza, al riguardo, un editto emesso dal sindaco di Londra nel 1314 (citato in Elias e Dunning 1989, p. 223) in cui si afferma: "Essendo provato che si fa gran clamore per le strade cittadine a seguito di certi tumulti provocati dall'inseguire dei grossi palloni e che da ciò possono derivarne molti mali ‒ che Iddio non voglia ‒ noi comandiamo e proibiamo, in nome del Re e sotto pena del carcere, che tale gioco sia d'ora innanzi praticato in città".

Il fatto è che in questa fase di sviluppo storico del gioco del calcio non vi era alcuna distinzione tra giocatori e spettatori. Quando un villaggio ne affrontava un altro, calciando, lanciando o semplicemente portando la palla attraverso strade strette, ruscelli, campi coltivati e boschi incolti sino a raggiungere il sagrato della chiesa parrocchiale del villaggio avversario, tutti erano e si sentivano coinvolti. Uomini e donne, grandi e piccoli, ricchi e poveri, clero e laicato, tutti erano chiamati a partecipare. Nei termini della moderna sociologia, potremmo dire che questi incontri erano caratterizzati dalla totale assenza di una separazione chiaramente definita tra il ruolo dei giocatori e quello degli spettatori.

La comparsa di ruoli distinti tra spettatori e giocatori si riscontra invece nell'Italia rinascimentale. I primi commentatori, come Antonio Scaino nel suo Trattato del giuoco della palla e Giovanni de' Bardi nel suo Discorso sopra il giuoco del calcio, descrivono il calcio come 'scaramuccia' o 'caccia', ma la versione seicentesca che assume il calcio nel nostro paese rappresentava una contesa già abbastanza regolata e formalizzata. Lo si è visto in parte nella descrizione di Benedetto Varchi riguardo i vestiti dei giocatori. Essi dovevano fare una buona impressione sugli astanti che osservavano il gioco, come nota Giovanni de' Bardi: "Le più onorevoli signore della città e i più importanti gentiluomini sono qui convenuti per assistere all'incontro. E chi indossa brutte vesti non dà bello spettacolo e ne trae cattiva reputazione" (citato in Heywood 1969, pp. 166-67). Siamo dunque in presenza, in questo caso, di una netta separazione tra giocatori e spettatori, ben evidenziata anche visivamente in una stampa riprodotta nello stesso volume di Heywood, che mostra l'inizio di un incontro di calcio in piazza Santa Croce a Firenze, con delineati la chiesa e la piazza, gli edifici circostanti, il campo di gioco rettangolare e i palchi, divisi in padiglioni per gli ospiti di rispetto e 'gradinate' ‒ diremmo oggi ‒ per le persone dei ceti inferiori; infine, attorno al recinto che delimita il campo di gioco, una serie di 'maestri del calcio', una specie di giudici o autorità esterne che avevano il compito di intervenire in caso di dispute. A Firenze insomma "la civiltà delle buone maniere", per riprendere una famosa espressione di Norbert Elias, si affaccia per la prima volta timidamente anche sul turbolento palcoscenico dei campi di calcio e prende a separare chi si diverte giocando da chi si diverte a seguire con lo sguardo una palla calciata con i piedi.

Il calcio dentro le mura

Spostiamoci ora di nuovo in Inghilterra: una sosta in questo paese permetterà di capire come il passaggio del calcio da attività agonistica, caratterizzata da un alto tasso di violenza fisica, a competizione sportiva formalmente regolamentata e a tensione controllata, abbia dovuto attraversare alcune fasi cruciali prima di giungere a compimento nel 20° secolo. A questo fine, è necessario innanzitutto spostare l'attenzione su quanto avviene in un territorio sociale lontano dallo sport: il mondo della politica nel Settecento, un mondo in cui erano già presenti le due formazioni politiche che sono ancora oggi alla base della competizione parlamentare inglese, i conservatori e i liberali, altrimenti detti Tories e Whigs.

Nell'Inghilterra del primo Settecento i cambiamenti di governo, dai Whigs ai Tories e viceversa, facevano sempre temere che chi fosse arrivato al potere avrebbe potuto vendicarsi brutalmente degli oppositori. Nessuna delle due fazioni poteva essere sicura che l'altra, una volta in carica, non avrebbe perseguitato, gettato in prigione o mandato a morte i rivali con un qualsiasi pretesto. Nell'arco di meno di cento anni, tuttavia, la situazione muta. Entrambi gli schieramenti superano gradualmente la sfiducia nei confronti degli avversari e rinunciano alla violenza e alle abilità a essa collegate, apprendendo e sviluppando nello stesso tempo le nuove qualità e le nuove strategie richieste da un tipo di lotta politica non violenta. Le virtù militari lasciano il posto alle capacità verbali di discussione, retorica e persuasione, tutte doti che esigono un maggiore controllo complessivo delle proprie pulsioni aggressive.

Si tratta di una transizione che, sorta da un'accresciuta sensibilità nei confronti dell'uso della violenza in un ambito specifico della vita civile di quel paese, prende poi a diffondersi nell'habitus sociale di individui che si trovano all'esterno di questa cerchia, sino a lambire anche la sfera degli stessi folk games. Anche in questo ambito, infatti, le occasioni per l'insorgere di una forte eccitazione individuale, particolarmente di quella eccitazione condivisa con altri che può facilmente portare alla perdita dell'autocontrollo, tendono a divenire sempre più rare e socialmente sempre meno tollerate. In sostanza, al pari della società al cui interno erano praticate, anche le rudimentali forme di competizione agonistica che precedono il calcio assumono una veste emozionalmente sempre meno eccitante e coinvolgente. La tensione agonistica che le caratterizzava diviene lentamente essa stessa preda di quelle forme di autocontrollo psichico del comportamento umano che iniziavano a imporsi anche in altre società europee dell'epoca e che procedevano di pari passo con la formazione di uno stabile 'monopolio della violenza fisica' da parte dello Stato moderno.

Questo processo di mutamento pone le attività agonistiche dell'epoca, ancora in bilico tra il passato di folk games e il futuro di sport specializzati, di fronte a un dilemma drammatico: trovare una via di mezzo tra i due estremi dell'eccitazione incontrollata e della noia. Se da un lato, infatti, i processi di pacificazione, canalizzando le pulsioni individuali e di gruppo nella direzione di una loro sempre maggiore repressione e sublimazione, avevano l'effetto di far sviluppare un'avversione nei confronti del ricorso volontario a comportamenti violenti e potenzialmente pericolosi per sé e per gli altri, dall'altro dovevano comunque fare i conti con l'esigenza ancora avvertita di sperimentare la sensazione di piacevole tensione che quel genere di giochi poteva procurare. Come risolvere allora il dilemma? Un esempio paradigmatico ci viene fornito da una forma di passatempo molto in voga in quel periodo ‒ come lo è tuttora ‒ in Inghilterra, sebbene sia una forma di loisir che non ha nulla a che vedere con il calcio: la caccia alla volpe. I documenti storici disponibili (citati in Elias e Dunning 1989) mostrano come le regole introdotte nell'Inghilterra del Settecento abbiano avuto principalmente la funzione di relegare in una posizione di secondo piano il piacere di uccidere la preda, che nelle forme più arcaiche di caccia rappresentava la fonte principale di divertimento per il cacciatore. Ora invece questo piacere, anche se non scompare del tutto, si attenua sensibilmente e si trasforma in un piacere per procura, dal momento che il compito di uccidere la volpe viene affidato ai cani. Aspetti preminenti della caccia divengono l'inseguimento dell'animale e l'apparato scenico che gli fa da contorno. Con l'introduzione delle nuove regole, nella caccia alla volpe assume un peso determinante, come vera forma di divertimento, la tensione 'mimetica' di una battaglia simulata e il piacere che ciò procura ai partecipanti acquista un alto grado di autonomia rispetto al risultato conseguito, l'uccisione della preda.

L'esempio è emblematico giacché mette in luce una delle maggiori caratteristiche che i giochi e le attività sportive vanno assumendo nel corso dell'età moderna, vale a dire il loro divenire, all'interno di un tipo di società orientata sempre più a sanzionare negativamente ogni manifestazione pubblica o privata di emotività incontrollata, una sorta di enclave in cui è socialmente consentito, a certe condizioni, conservare un comportamento moderatamente eccitato: un "controllato decontrollo dei controlli", per dirla con una celebre espressione del sociologo Norbert Elias, che a questi aspetti dell'evoluzione sociale degli sport ha dedicato importanti studi. Ciò è reso comunque possibile dal fatto che l'intervento di questi meccanismi sociali è duplice, operando da un lato, come si è detto, nella direzione di un controllo più forte sull'eccitazione suscitata dal gioco sportivo, inibendone ogni manifestazione estrema, e dall'altro deviando il piacere della tensione suscitata dalla contesa, che dal conseguimento del risultato ‒ in questo caso l'uccisione alla volpe ‒ passa alle sue procedure e alle sue tecniche di realizzazione. Per parafrasare un detto famoso, ciò che importa e diverte ora non è tanto la vittoria in sé, quanto la partecipazione alle diverse fasi del gioco e le modalità con cui si consegue il risultato finale.

Questo scarto corrisponde a una tappa decisiva nella storia degli sport in generale e del calcio in particolare. Tutte le attività fisiche di tipo agonistico che venivano praticate come svaghi ludici per il proprio esclusivo divertimento ‒ e che oggi definiremmo come mere pratiche di loisir ‒ iniziano lentamente ad assumere una fisionomia diversa. Per le forme tradizionali di calcio ciò significa, in particolare, l'inizio di un periodo di forte declino, che durerà per lungo tempo, a tutto vantaggio di altri sport socialmente più apprezzati e praticati come il tennis e il cricket. Quando il calcio finalmente si riaffaccia sulla scena inglese lo fa quasi di soppiatto, al riparo da occhi indiscreti, tra le severe mura delle prime Public Schools (Dunning 1970). Si tratta comunque di una rinascita che, da quel momento in poi, proseguirà ininterrottamente sino ai nostri giorni e su cui vale la pena soffermarsi.

Le Public Schools che si rivelano decisive in questo processo di rinascita sono all'inizio sette: Charterhouse, Eton, Harrow, Rugby, Shrewsbury, Westminster e Winchester. Sotto molti profili, i giochi praticati dagli studenti di queste scuole nel Settecento e nei primi anni dell'Ottocento non differivano molto dalle forme più tradizionali: le regole erano ancora orali, continuavano a prevalere delle differenze locali e il calcio manteneva ancora il suo carattere violento e informale. Nondimeno, all'interno delle Public Schools questo gioco iniziò a svilupparsi secondo modalità che sarebbero state significative in futuro. Per la prima volta nella storia del calcio si iniziò a giocare regolarmente ogni settimana o due all'in terno di un 'campionato' o 'stagione' che durava dall'autunno alla primavera. Un altro dato importante da sottolineare è che, sempre per la prima volta, a praticarlo regolarmente erano i membri dei ceti medi e superiori, anche se ovviamente non erano i membri adulti. Ciò, con il tempo, si rivelò un fattore di notevole rilevanza. Gli alunni delle Public Schools, infatti, provenivano principalmente dall'aristocrazia, dall'alta borghesia di campagna e dagli strati professionali emergenti, e il loro ingresso nel mondo del calcio li portò a elaborare e rivedere i caratteri di un gioco che, nelle sue forme più popolari, come abbiamo visto, aveva tratti semplici e al limite della pura crudeltà.

I cambiamenti che prendono avvio in questo periodo, comunque, non sono riconducibili unicamente alla provenienza di classe sociale di quanti praticavano il calcio. Un ruolo altrettanto importante venne svolto dalla struttura di potere interna, tipica delle Public Schools, basata sul sistema 'prefetto-servitore', un sistema di relazioni di potere tra gli studenti che copriva l'intero arco di attività svolte al di fuori delle aule d'insegnamento. Di fatto, l'evoluzione del calcio inglese nella seconda metà del Settecento e nella prima metà dell'Ottocento può essere colta in larga misura facendo riferimento al suo sviluppo all'interno di queste scuole; difatti, quando cambia la struttura delle scuole, anche il volto del calcio si modifica.

Le prime Public Schools erano state fondate allo scopo di fornire una istruzione gratuita ai giovani delle classi povere. Nel corso del 18° secolo, come si è visto, esse iniziarono ad attirare un numero crescente di giovani che provenivano dagli strati sociali superiori della società inglese; già nel 1780, erano divenute istituzioni educative per i ceti medio-alti, dalle quali i giovani delle classi subalterne erano stati più o meno rapidamente esclusi. Il risultato di questo cambiamento fu tale che il sistema d'autorità che aveva in precedenza regolato la vita della Public School entrò in crisi, in gran parte perché gli studenti non accettavano di prendere ordini da insegnanti provenienti da classi sociali inferiori alla loro. Di fatto, il controllo di queste scuole, soprattutto fuori, ma spesso anche dentro le aule dove si insegnava, passò nelle mani degli studenti più anziani e potenti. Non a caso, in questo periodo non furono rari gli episodi di aperta ribellione da parte degli studenti nei confronti dei loro professori.

Il potere sempre più limitato che le autorità scolastiche erano in grado di esercitare sugli alunni delle Public Schools non fu privo di effetti sulle relazioni tra gli stessi studenti. Gli alunni più forti dominavano i più deboli e spesso esercitavano questo loro potere in forme molto crudeli. Episodi di bullismo e di sadismo erano molto frequenti in queste prestigiose istituzioni. Gli studenti più vecchi costringevano i più giovani a ogni tipo di compito servile. Il loro stile di gioco corrispondeva a queste relazioni di potere, dal momento che rappresentava uno dei tanti modi attraverso cui i prefetti affermavano il loro dominio sui ragazzi più giovani. In primo luogo, i prefetti resero il calcio obbligatorio per tutti. Inoltre, dopo avere convocato gli studenti più giovani in qualunque momento di loro gradimento per giocare una partita, li costringevano a schierarsi sulla linea difensiva mentre mantenevano per sé le prerogative dell'attacco.

Gli studenti, in sostanza, erano gli unici responsabili dei tempi e dei modi in cui veniva giocato il calcio in queste istituzioni scolastiche. I docenti, dal canto loro, si rivelarono nella grande maggioranza per lo più indifferenti, se non addirittura ostili a questa pratica sportiva. Il preside della scuola di Shrewsbury, per esempio, tentò più volte di vietare il gioco ma, dato il suo limitato potere, senza successo: gli alunni di Shrewsbury continuarono a giocare a calcio ignorando il suo divieto. Così, lasciato nelle mani dei soli studenti, questo gioco continuò per lungo tempo a essere praticato in maniera disordinata e poco regolamentata. A Charterhouse si praticava un calcio chiamato 'il calcio del chiostro', poiché veniva giocato in un chiostro della scuola. A Rugby si era soliti indossare scarponi rivestiti di ferro, chiamati navvies, per poter meglio colpire gli avversari negli stinchi. In genere il numero dei giocatori per squadra era indefinito, come non era prefissata la durata degli incontri. La palla poteva essere colpita con le mani e con i piedi. L'unica regola condivisa riguardava il divieto di correre per il campo di gara con la palla tra le mani. Questa sostanziale difformità nel modo di giocare a calcio nelle Public Schools può trovare una spiegazione nel fatto che non vi erano ancora tornei tra le varie scuole, forse anche a causa dello scarso sviluppo dei mezzi di trasporto e di comunicazione. Resta il fatto che il calcio era giocato in ogni scuola in una situazione di relativo isolamento e, dunque, vi era spazio solo per eventuali differenziazioni locali, nel quadro di un modello generale basato su quella combinazione di rigidità e fluidità che è tipica delle pratiche sociali basate su una tradizione orale. È probabile che nuove regole e nuove tecniche di gioco siano affiorate più volte nelle diverse Public Schools, ma siano state accettate solo quando riconosciute come legittime dai prefetti locali.

Anche la storica divisione tra rugby e soccer sembra essere avvenuta in questo modo, allorché, attorno agli anni Venti dell'Ottocento, l'abitudine di portare la palla con le mani entrò a far parte delle regole accettate nella Public School di Rugby. Le circostanze in cui avvenne questa piccola rivoluzione sono ancora abbastanza oscure, ma la leggenda vuole che tutto fosse dovuto all'iniziativa di un singolo studente, William Webb-Ellis, che in un incontro svoltosi nel 1823 avrebbe raccolto la palla con le mani e, tenendola tra le braccia, avrebbe attraversato di corsa tutto il campo sino alla porta avversaria. È però estremamente improbabile, se non impossibile, che una sola persona con un unico gesto sia stata in grado di modificare all'improvviso e così profondamente un modo tradizionalmente consolidato di giocare a calcio. È più probabile che questo modo di correre con la palla tra le mani sia divenuto la regola con cui si giocava nella Public School di Rugby e sia rimasto confinato entro le sue mura. Il suo significato, piuttosto, dovette assumere una notevole importanza nel momento in cui le abitudini locali furono sottoposte a un processo di codificazione e unificazione, poiché solo allora si pose il problema di quali tipi di gioco dovessero essere incorporati in un modello più generale, valido a livello nazionale. Ma sino a quel momento il rugby rimase soltanto una variante locale tra le tante.

Questa situazione, tuttavia, prese a cambiare nel corso dei decenni successivi, soprattutto a seguito di un mutato atteggiamento dei presidi delle Public Schools. Essi, infatti, iniziarono a intravedere nel calcio, soprattutto in un calcio più organizzato e praticato con la loro esplicita approvazione, un utile strumento per conseguire alcuni obiettivi educativi. Il primo era essenzialmente preventivo: riconoscere nel calcio una pratica agonistica lecita poteva significare distogliere gli alunni dall'abbandonarsi, durante i fine settimana, ad altre attività meno raccomandabili, come ubriacarsi o cacciare di frodo. In secondo luogo, le autorità scolastiche iniziarono a considerare il calcio come un mezzo per migliorare i rapporti tra i presidi e gli alunni e abbattere così le antiche barriere che ancora esistevano tra di loro. A questo scopo, presero essi stessi l'iniziativa di organizzare le partite di calcio, partecipandovi talvolta direttamente; ma, soprattutto, iniziarono a capire che un gioco di squadra poteva costituire un utile strumento per la formazione del carattere e rappresentare un mezzo per sviluppare qualità come la lealtà di gruppo, la cooperazione, la disponibilità a subordinare gli scopi individuali a quelli collettivi, l'abilità di competere secondo regole precise e la capacità di prendere rapide decisioni. Nella consapevolezza, poi, che le forme ancora in voga di calcio mal si adattavano al raggiungimento di questi obiettivi educativi, si convinsero che il calcio doveva essere 'addomesticato' e divenire più ordinato e regolamentato. Fu così che i presidi delle Public Schools presero a incoraggiare gli studenti a mettere per iscritto le regole di gioco e a elaborare procedure più regolari e uniformi per risolvere le dispute durante le partite. Il risultato di questi sforzi fu che, tra il 1845 e il 1862, ciascuna delle sette Public Schools rese espliciti per iscritto i propri regolamenti di gioco.

Grazie a questo processo sociale, che abbiamo riassunto molto sinteticamente, il calcio iniziò a configurarsi come una contesa di gruppo, che offriva le gratificazioni di un vero scontro fisico senza rischi o pericoli, trasformandosi in una battaglia 'simulata' e regolata, nella quale i contendenti avevano molto minori possibilità di procurare seri danni fisici o di usare la violenza nei confronti gli uni degli altri. Il piacere di giocare prese a dipendere sempre meno dal ricorso alla forza fisica bruta e sempre più dalla sua trasformazione in specifiche abilità di gioco.

Tuttavia, anche se in questa fase della sua storia il calcio vide l'affermazione di un controllo più vincolante, si trattava pur sempre di un controllo autoimposto, basato più su una introiezione delle regole che sulla capacità, da parte di vincoli esterni, di farle rispettare. I tempi non erano ancora maturi per questo risultato; si dovette attendere sino al 1871, quando ebbe inizio il primo Campionato inglese ‒ la Football Association Cup Competition ‒ e il calcio prese a essere un gioco intensamente competitivo e praticato da giocatori provenienti da differenti classi sociali e diverse località geografiche, per veder emergere la necessità di introdurre degli agenti esterni di controllo, come gli arbitri e i guardalinee. In attesa di quel momento altri processi si misero in moto.

Nella seconda metà dell'Ottocento, visto il suo carattere più 'civilizzato' e considerata l'impronta di 'rispettabilità' che la sua accettazione da parte delle Public Schools gli aveva dato, il calcio divenne per la prima volta un'attività socialmente permessa anche ai giovani gentlemen. Un certo numero di club calcistici vennero fondati in quegli anni da ex alunni delle Public Schools. A ciò si aggiunga che lo sviluppo del sistema ferroviario e il miglioramento dei mezzi di trasporto e comunicazione avevano notevolmente agevolato gli incontri anche tra squadre di regioni diverse. Inoltre, in quello stesso periodo, sulla stampa iniziarono a comparire i resoconti delle partite e nacque una nuova figura, quella del giornalista sportivo. L'abilità di giocare stava iniziando a essere considerata una dote socialmente apprezzabile in un giovane gentleman.

In sostanza, con uno sviluppo del calcio che stava uscendo dalle mura della Public School, era inevitabile che sorgesse una forte richiesta di unificare le regole di gioco: tale richiesta sfociò, nel 1863, nella fondazione della Football Association e nell'adozione di un regolamento che proibiva espressamente sia di colpire l'avversario nel busto sia di portare la palla con le mani. A questi provvedimenti si opposero una serie di club calcistici inglesi che vedevano nei divieti un modo di rendere il football meno 'virile', al punto di rifiutarsi di entrare nella nuova associazione. Nel 1871questi club diedero vita alla Rugby Football Union, perpetuando in tal modo a livello nazionale la separazione già esistente nelle rivalità tra le Public Schools degli anni Quaranta.

In ogni caso, già a partire dagli anni Settanta dell'Ottocento i nuovi modelli di calcio forgiati nelle Public Schools cessarono di essere monopolizzati dalle classi medie e superiori. Il motivo di questo cambiamento può essere ricondotto alla riduzione delle ore lavorative degli operai dell'industria inglese e all'attività di diffusione condotta tra la classe operaia dai membri del clero, che vedevano nel calcio, ma anche nel rugby, un mezzo per migliorare le condizioni fisiche dei lavoratori. Come si è detto, comunque, nel 1871 ebbe luogo il primo campionato nazionale, la FA Cup. Nei primi anni di questo torneo i club 'gentiluomini' formati da ex alunni delle Public Schools regnarono sovrani, ma già nel 1883 il Blackburn Olimpic, una squadra formata da mugnai del Lancashire, batté in finale gli Old Etonians per 2-0 aggiudicandosi la coppa. Questa vittoria segnò la fine delle Public Schools e delle squadre composte dai loro ex alunni come i soggetti più significativi dello sviluppo del calcio. Si stava aprendo una nuova era, caratterizzata da club professionistici, che giocavano per un folto pubblico di spettatori disposto a pagare per assistere agli incontri.

Ciò non avvenne subito. Sino a quando regnarono le squadre composte da ex alunni provenienti dalle Public Schools il calcio attirava ancora pochi spettatori. Durante i primi otto anni della FA Cup, per esempio, la folla che assisteva alla finale raramente superava le 5000 presenze, ma quando mutò l'origine sociale dei giocatori il numero di coloro che assistevano dalle tribune alle partite di calcio prese rapidamente a salire. Secondo Dunning (Dunning 1970, p. 148) nel 1885 alla finale tra l'Aston Villa e il Preston assistettero 27.000 spettatori e la finale del 1893 fu vista da 45.000 spettatori paganti. Le ragioni per cui un così alto numero di spettatori fosse attratto dalle partite non sono difficili da indovinare. Con l'approssimarsi del 20° secolo, la settimana lavorativa della classe operaia si stava accorciando e un numero crescente di operai aveva maggior tempo libero a disposizione. Alcuni, i più fortunati, potevano attingere collettivamente ai loro piccoli risparmi per affittare un campo di calcio e altri, coloro che non volevano o erano troppo vecchi per giocare a calcio, andavano ad assistere alle partite. Oltre a questo dato, occorre tenere presente un altro elemento: la classe operaia della fine dell'Ottocento era ancora in larga misura composta da persone che provenivano dalle campagne e vivevano in una situazione di alienazione e anomia la vita della città. Fare il tifo per una squadra composta dai propri compagni di lavoro al punto di identificarsi con essa poteva significare un modo per ritrovare il senso di appartenenza a una comunità di pari. Fu così che, incoraggiati dall'alto numero di spettatori, alcuni club di calcio iniziarono a far pagare l'ingresso alle partite. Quando l'Aston Villa adottò questa decisone, nel 1874, il prezzo del biglietto era di cinque scellini. Trent'anni più tardi, lo stesso club faceva pagare quattordici sterline per assistere a un incontro e anche altre squadre presero provvedimenti analoghi. Ciò comportò inevitabilmente una modifica della loro fisionomia: esse divennero imprese commerciali che puntavano al profitto come indice del loro successo, e ciò significava mantenere alti standard di gioco per attrarre le folle. Il passo successivo, quasi obbligato, fu di pagare i giocatori: anzitutto per attrarre i migliori, in secondo luogo per affrancarli dalla necessità di lavorare a tempo pieno in fabbrica, consentendo loro di dedicarsi invece agli allenamenti così da migliorare la loro abilità di gioco. Il risultato di questo cambiamento fu che nel 1988 dodici club inglesi si accordarono per giocare un regolare torneo secondo un programma prestabilito e schierando sempre la formazione migliore. Si chiamarono Football League. Il calcio moderno era ufficialmente nato.

Club, squadre e tifosi

Se è storicamente vero che le regole del calcio sono nate nelle Public Schools inglesi, la diffusione di questo gioco come fenomeno sociale su scala internazionale ha seguito percorsi differenti a seconda delle nazioni in cui, nel corso del primo Novecento, esso ha messo profonde radici. Si tratta di un processo di contaminazione che si è disperso ‒ quantomeno in Europa ‒ in una quantità di rivoli non ricostruibili in questa sede, ma che comunque ha portato il calcio a divenire in un arco di tempo abbastanza breve, secondo una felice espressione, the people's game, "il gioco di tutti". Un gioco di tutti sia perché praticato, a livello professionistico e amatoriale, da giocatori di ogni classe sociale, sia perché il pubblico che assisteva alle partite era in genere socialmente molto composito. In Italia, per esempio, dove la diffusione del calcio è stata inizialmente abbastanza lenta, le poche immagini fotografiche dei primi incontri ‒ le uniche testimonianze su cui è possibile basarsi in assenza di studi sul tema ‒ mostrano un pubblico apparentemente interclassista, nel quale un gruppo scelto ed elegante di habitués si mescola a tifosi di condizione sociale meno elevata, vestiti con l'abito della domenica. La situazione è analoga in altri paesi dell'Europa continentale (Lanfranchi 1992).

L'unica eccezione sembra essere costituita proprio dall'Inghilterra, dove il football rappresenta invece per lungo tempo, a partire dal momento in cui si sottrae all'egemonia delle Public Schools, uno sport principalmente radicato all'interno della sola working class. Vale la pena soffermarsi su questa 'eccezione' poiché, sebbene in forma non tipica, ha il pregio di mostrare come questo sport possa essere entrato a far parte della cultura materiale di ampi strati della popolazione di un certo paese e, all'interno di questa cultura materiale, abbia avuto un peso non secondario. In altri termini, il caso inglese può fornire utili elementi di riflessione per risalire alle ragioni profonde per le quali il calcio è stato e, per certi versi, continua a essere tutt'oggi l'oggetto di attenzione più diffuso, l'argomento di conversazione più capillare, il tema su cui la maggioranza della popolazione è più informata.

Gli studi condotti sia da storici sia da sociologi (cfr. per tutti Taylor 1995) sono concordi nel sostenere che nell'Inghilterra del primo Novecento il rapporto tra giocatori, squadra di calcio e tifosi era fortemente contraddistinto da una comune appartenenza alla classe operaia e che la percezione di questa condivisione di classe non era messa in pericolo nemmeno dalla piccola retribuzione che i primi professionisti a tempo parziale ricevevano in aggiunta al loro salario lavorativo. Del resto, anche con l'introduzione del professionismo a tempo pieno, che venne legalizzato nel 1885, il reddito dei giocatori di calcio professionisti non si allontanava troppo dal reddito di un lavoratore qualificato. Il tipico giocatore di calcio era visto piuttosto come un ragazzo del luogo che aveva avuto successo e veniva considerato da tutti alla stregua di un local hero; la sua vera ricompensa era la notorietà, mentre la ricchezza a cui poteva aspirare era poca cosa. All'incirca nello stesso modo si svolgevano le relazioni tra tifosi e società di calcio. Sebbene i dirigenti, i manager e talvolta gli allenatori fossero prevalentemente membri della piccola borghesia locale, ciò non impediva loro di godere di grande prestigio e di essere partecipi di quella che la maggioranza dei tifosi riteneva una gestione democratica della società di calcio e dei valori che quella società e i suoi giocatori erano chiamati a esprimere. Si trattava degli stessi valori che erano alla base delle comunità operaie locali e delle lotte sindacali nelle quali esse erano spesso impegnate: virilità, partecipazione attiva, fede nella vittoria, cui si accompagnava talvolta una certa dose di credenza nel fato e nella magia.

Non occorrono molte parole per chiarire il ruolo della virilità e della partecipazione attiva quali valori centrali delle comunità operaie e in particolare dei loro strati più sindacalizzati; vale la pena soffermarsi, invece, sul ruolo della vittoria. Non vi è dubbio, infatti, che nell'esperienza domenicale dei tifosi il principale interesse fosse vincere. Se è altrettanto vero che certi stili di gioco e certi modi di conseguire la vittoria potevano attirare più di altri e molto probabilmente richiamavano folle maggiori di spettatori, nel calcio inglese di quel periodo l'importanza della vittoria era senz'altro preminente. Al contrario, in altri sport tipici delle classi medie, come il rugby, persino nelle partite di campionato la vittoria raramente costituiva il principale centro d'interesse. Nel calcio inglese dell'epoca, invece, tale centralità era assoluta e può essere fatta risalire all'isolamento e all'atteggiamento antagonistico di queste comunità nei confronti delle maggiori istituzioni della società inglese. Essendo, normalmente, impossibile riuscire ad affermarsi negli scontri con queste istituzioni sociali ‒ eccetto forse nel caso degli scioperi ‒ il valore della vittoria poteva trovare espressione solo in campi alternativi della vita civile, quale appunto poteva essere il calcio.

Sebbene per migliaia di dilettanti potesse rappresentare uno svago o una fuga dall'alienazione del lavoro oppure, nelle scuole, un mezzo per la formazione del carattere, a livello professionistico il calcio veniva, così, chiaramente trasformato in un'occasione di lotta e di affermazione in ambito locale. Dapprincipio, prima che l'aristocrazia e i gentlemen optassero definitivamente per il rugby, gli incontri di calcio assunsero l'aspetto di vere e proprie battaglie di classe 'simulate', come testimoniano le partite tra il Blackburn e gli Old Etonians. In seguito, le partite di calcio finirono per rispecchiare le rivalità locali tra le diverse comunità operaie e ciò che contava davvero in queste competizioni era chi vinceva, mentre non contava molto come si giocava. I metodi che si ritenevano validi negli scontri con il datore di lavoro o con la polizia distrettuale erano considerati perfettamente validi anche per trovare la strada verso la porta avversaria. In questo quadro, è logico anche che ciascun giocatore della squadra fosse visto come un rappresentante della comunità di appartenenza e dei valori che essa esprimeva: quando era lontano da casa per una partita in trasferta, ci si aspettava che assumesse un comportamento all'altezza del suo compito, mentre durante la settimana ci si attendeva che frequentasse regolarmente il pub locale e comparisse, per esempio, alla premiazione della gara di freccette; era, insomma, soggetto a un costante controllo sociale. Del resto, il controllo era un orientamento collettivo tenuto in altissima considerazione all'interno di quelle comunità: un orientamento che si era sviluppato nei gruppi di lavoratori dell'industria, nei sindacati, nelle comunità di vicinato ed era stato rafforzato dalla presenza di due estranei alla comunità, il 'boss di quartiere' e il poliziotto. Essendo controllato dalla comunità dei tifosi, al giocatore, in quanto rappresentante pubblico riconosciuto, veniva costantemente ricordato l'obbligo di mostrarsi fedele al ruolo di membro della democrazia operaia a cui apparteneva.

Questa forma di controllo, comunque, non si esercitava solo sui giocatori, ma sull'intera società di calcio e su tutti i suoi membri, assumendo storicamente due forme cronologicamente successive. La prima, che è possibile definire come 'controllo partecipativo', si basava sull'idea, probabilmente già illusoria, che il potere riguardo alla gestione del club e alle sue possibilità di vittoria fosse distribuito equamente tra amministratori, dirigenti, giocatori e tifosi: in questa ottica, la caratteristica del controllo che si pretendeva di esercitare era la pretesa di partecipare alle scelte della squadra e alla valutazione delle sue prestazioni. La seconda forma di controllo, invece, che si potrebbe chiamare 'reattiva', si manifestò a partire dal momento in cui alcuni cambiamenti cominciarono a investire il mondo del calcio, mutandone profondamente il volto; tali processi portarono a una professionalità sempre più spinta dei giocatori: l'ammontare dei loro guadagni aumentò in modo considerevole e per la prima volta si presentò la possibilità di trasferirsi da una squadra all'altra in cambio di una retribuzione più elevata. A ciò si aggiunga il fatto che alcuni sviluppi tecnici del gioco, richiedendo l'applicazione in campo di moduli tattici prestabiliti, presero a differenziare in modo ormai molto netto il calcio professionistico da quello dilettantistico e finirono con l'esigere da parte del professionista una disponibilità all'allenamento a tempo pieno e un uso disciplinato del tempo libero, sino a poco prima sconosciuti. D'altro lato, questi processi sfociarono nella comparsa sulla scena del calcio inglese di un ceto dirigente di netta marca borghese, più attento a capitalizzare gli investimenti economici profusi nell'allestimento e nella gestione della squadra che a soddisfare le richieste partecipative dei propri tifosi.

Si trattava di cambiamenti traumatici per la cultura calcistica dei tifosi della classe operaia, che si videro sottrarre un elemento cruciale della propria identità sia di classe sia locale. Essi reagirono tentando di esercitare un 'controllo reattivo', che prese la forma di un atteggiamento di opposizione e di rifiuto nei confronti di quello che, a tutti gli effetti, appariva come il primo segnale di una trasformazione del calcio da attività agonistico-sportiva, culturalmente significativa e socialmente caratterizzata, in una sorta di spettacolo di intrattenimento per un pubblico indifferenziato di spettatori. Questo cambiamento era indubbiamente in linea con quanto stava avvenendo in molti altri campi della vita sociale inglese. I processi di sviluppo dell'Inghilterra di quel periodo, infatti, stavano incrementando le opportunità di svago a tutto vantaggio di una classe operaia sempre più differenziata e stratificata e nello stesso tempo aprivano, per il calcio, la possibilità di farsi largo tra un nuovo pubblico, non limitato alle singole comunità operaie. Da una parte, questa mutata situazione comportava la soluzione di alcuni problemi tecnici per rendere più confortevoli gli stadi, provvedendo alla loro copertura, aumentando il numero dei posti a sedere e installando gli impianti di illuminazione per consentire la disputa degli incontri serali; dall'altra, diveniva inevitabile una trasformazione della figura stessa del tifoso di calcio. Se, infatti, sino a poco tempo prima il tifoso tipico era un membro maschio della classe operaia, che viveva nell'attesa del sabato ed era soggettivamente coinvolto in modo inestricabile, nella sua stessa percezione, nella vita della sua squadra, ora era sempre più frequente vedere sugli spalti una figura di tifoso dalla posizione sociale indefinita, uno spettatore 'generico' che di tanto in tanto cercava un momento di svago in una partita di calcio e si aspettava che il suo bisogno di evasione fosse soddisfatto da una squadra di intrattenitori di professione. Il calcio, insomma, stava iniziando a spostare la sua attenzione dai valori della partecipazione, della virilità e della vittoria comunque conseguita, propri della cultura del tifoso della classe operaia, nella direzione di esibizioni spettacolari di singole abilità calcistiche e di capacità tattiche di squadra, più consone a uno spettatore meno emotivamente e culturalmente coinvolto, cioè a un tifoso del ceto medio.

I tifosi 'tradizionali' cercarono di mettere in atto numerose iniziative per contrastare questi cambiamenti: furono principalmente iniziative reattive, come si è detto, che presero la forma di atteggiamenti aggressivi, per lo più solo verbalmente, verso la nuova componente di tifosi che si affacciava nelle nuove tribune degli stadi e verso i dirigenti delle società colpevoli di sradicare il calcio dalle sue radici storiche. Ma presero anche la forma di un atteggiamento conservativo teso a preservare la memoria storica della squadra e a trasmetterla, per quanto possibile, alle nuove generazioni di tifosi. Si trattava, comunque, di una battaglia perduta in partenza, come gli sviluppi del calcio moderno si sono incaricati ampiamente di dimostrare.

Il calcio nel 21° secolo: una pratica sportiva diffusa

Quale forma ha assunto, dunque, all'inizio del 21° secolo, il calcio moderno? Certamente un volto molto diverso da quello delineato nelle pagine precedenti e per cogliere questa diversità sarà necessario abbandonare ora la prospettiva storica e affidarsi, invece, ad alcune considerazioni più strettamente sociologiche.

Partiamo da un dato: si calcola (Giovani anni 90 1993) che oggi, nella fascia di età compresa tra i 15 e i 25 anni, quasi un terzo della popolazione maschile pratica questo sport con una certa regolarità (il che vuole dire, in Italia, da un milione e mezzo a due milioni di giovani). Ma anche oltre i 25 anni, ancorché la quota di praticanti diminuisca al crescere dell'età, non sono pochi gli adulti che la domenica mattina si recano con amici o colleghi in qualche campetto per giocare una partita; inoltre, pur restando un'attività che rispetto ad altri sport coinvolge in misura schiacciante la popolazione maschile, anche il calcio femminile incomincia timidamente e lentamente a diffondersi e negli stadi il pubblico femminile è senz'altro più numeroso oggi di quanto non accadesse all'inizio del Novecento.

Il calcio, infatti, è oggi un' attività sportiva che può essere praticata a vari livelli di 'informalità/formalità'. A livello informale si può giocare dovunque, anche sul prato di un parco pubblico o all'uscita da scuola, con le cartelle e i giacconi disposti in modo da segnare la linea della porta e magari anche il punto da cui battere il calcio d'angolo. Del resto, il calcio non ha mai richiesto un'attrezzatura particolare. Di veramente indispensabile c'è soltanto il pallone, che può essere acquistato a poco prezzo dal cartolaio più vicino. Anche se è sempre più raro vedere dei giocatori privi di magliette, pantaloncini e scarpette regolamentari, si tratta di capi d'abbigliamento che possono essere comprati senza grandi sacrifici, mentre l'affitto del campo (il più delle volte ripartito tra i giocatori delle due squadre) non comporta un esborso maggiore del biglietto di ingresso in una sala cinematografica ed è normalmente meno caro del biglietto di ingresso allo stadio.

Se la prima 'socializzazione' al gioco del calcio avviene di solito in modo del tutto informale in uno spazio qualsiasi vicino a casa, nel cortile della scuola o nell'oratorio della parrocchia, in una fase successiva assume spesso una forma più organizzata: è oggi infatti assai elevato il numero di società sportive dove il calcio è praticato come attività regolamentata, con dirigenti, allenatori, preparatori atletici, orari e giorni prestabiliti per gli allenamenti. In ogni città di grandi e medie dimensioni si tengono regolarmente tornei di squadre dilettanti e la cosa si ripete a livello locale anche nei centri minori; se a ciò si aggiunge che negli ultimi anni si è molto diffuso il 'fratello minore', vale a dire il cosiddetto calcetto, praticato da squadre di cinque giocatori su un campo e con una porta di proporzioni ridotte, si vede come il fenomeno del dilettantismo calcistico abbia assunto di fatto proporzioni veramente notevoli.

Tuttavia, professionismo e dilettantismo non sono due fenomeni separati e indipendenti, ma il loro rapporto si manifesta a livello sia di costume sia organizzativo. In primo luogo, è senz'altro la grande 'fama' delle squadre professionistiche e dei loro giocatori che spinge schiere di ragazzini a impegnare buona parte del loro tempo libero sui campi di calcio: un fenomeno che mostra come potenti meccanismi imitativi incomincino a operare fin dall'infanzia. Se si osservano dei ragazzini giocare in un luogo qualsiasi, ci si rende subito conto che, al di là del nome del campione stampato sulla maglietta della squadra del cuore, la loro gestualità, le loro mosse e persino le loro imprecazioni quando subiscono un fallo sono la riproduzione, in scala minore, dei modelli di comportamento esibiti dai giocatori nei grandi stadi domenicali. Gli stessi genitori dei 'giocatori in erba', quando assistono a una partita in cui sono impegnati i loro figli, si comportano come tifosi scatenati: se la prendono a seconda delle occasioni con l'allenatore, l'arbitro o gli avversari, colpevole il primo di non valorizzare a sufficienza le doti del loro 'campione', il secondo di non punire con adeguata severità il gioco immancabilmente falloso degli avversari. In altre parole, è lo sport professionistico che fornisce oggi allo sport dilettantistico i modelli di comportamento esemplari.

In secondo luogo, sono spesso proprio le squadre maggiori a sostenere sul piano finanziario e organizzativo una rete capillare di squadre minori, differenziate per età, al fine di disporre di un ampio bacino di selezione e reclutamento di nuovi talenti. Non è un caso che venga usato il termine 'vivaio' per indicare dove vengono coltivati i talenti che forse un giorno potranno giocare in prima squadra e magari aprire alla loro famiglia nuovi orizzonti di popolarità e ricchezza. Ciò, tuttavia, ha una conseguenza spesso poco considerata: se è vero che in questo modo la prospettiva del professionismo offre a molti ragazzi l'opportunità di praticare un'attività sportiva organizzata, è altrettanto vero che quando il talento si dimostra insufficiente e quindi svanisce la prospettiva di una carriera di successo, l'attività sportiva viene spesso precocemente abbandonata senza trasformarsi, cioè, in una pratica dilettantistica duratura negli anni, che trova in sé stessa, nel piacere intrinseco che procura, la propria ragione d'essere.

In questa ottica, comunque, è importante non trascurare la più generale dimensione educativa (e talvolta anche diseducativa) che la pratica sportiva riveste in età evolutiva. Il calcio condivide con altri sport la caratteristica di essere un gioco di squadra, un gioco cioè che comporta, accanto all'elemento competitivo (il fine intrinseco è sempre quello di vincere contro la squadra avversaria), anche un decisivo elemento di cooperazione. Come sappiamo, gran parte delle azioni sociali umane sono il risultato di una combinazione tra competizione e cooperazione e in questo intreccio la cooperazione appare come mezzo per raggiungere il fine. È evidente che la pratica di un gioco di squadra risulta essere uno degli strumenti più potenti per addestrare gli esseri umani a operare in situazioni competitive attraverso forme di cooperazione.

Al di là della componente propriamente ludica (si gioca per divertirsi), il calcio svolge anche un'importante funzione sociale nella misura in cui contribuisce alla trasmissione di valori e norme; nel calcio moderno, infatti, a differenza ‒ come abbiamo visto ‒ di quello delle origini, cooperazione e competizione sono regolate da norme precise e codificate che sono costitutive del gioco stesso. Le regole impongono immancabilmente una restrizione dei mezzi mediante i quali è lecito competere e l'arbitro è la figura che garantisce il rispetto delle regole, le interpreta e le applica al caso concreto nell'immediatezza dell'azione. È evidente che per molti ragazzi il campo di calcio è uno dei primi luoghi dove incontrano un insieme di norme e un apparato per la loro applicazione. Nelle situazioni 'informali', nelle partitelle senza porta, arbitro e guardalinee, l'applicazione delle regole diventa ovviamente oggetto di negoziazione all'interno e tra i gruppi e possono affermarsi dinamiche consensuali o conflittuali. Ci si potrebbe attendere che, senza un'autorità riconosciuta alla quale demandare l'applicazione delle regole, le partite finiscano immancabilmente in risse tra i giocatori; ciò evidentemente può accadere, ma assai meno di frequente di quanto si pensi: giocando, i ragazzi si rendono conto infatti non solo che le regole sono necessarie, ma anche che, se si vuole portare a termine la partita, bisogna accordarsi con una certa flessibilità sui modi della loro applicazione.

Se giocando si possono imparare le regole del gioco, si può però anche imparare a non rispettarle; se, per esempio, i compagni o addirittura l'allenatore premiano la furbizia del giocatore che ha colpito l'avversario senza farsi vedere dall'arbitro oppure ha simulato efficacemente il fallo commesso dall'avversario, il messaggio è chiaro: nella competizione tutti i mezzi sono leciti purché si riesca a sfuggire alle sanzioni. Il calcio professionistico non sempre fornisce il buon esempio: lo 'spirito di squadra' che dovrebbe cementare la cooperazione è spesso travolto da aspre rivalità personali e la lealtà nei confronti dell'avversario viene frequentemente offuscata dalla volontà di vincere a tutti i costi.

Il gioco sportivo mima insomma il gioco più vasto della vita sociale. È un microcosmo nel quale si riflettono i tratti, positivi e negativi, del macrocosmo delle nostre società.

Il calcio spettacolo e le sue contraddizioni

Il calcio, inteso come attività sportiva di tipo agonistico praticata da un gran numero di giovani e meno giovani, è tuttavia un aspetto tutto sommato secondario del calcio moderno, che è essenzialmente 'calcio spettacolo', una forma composita di attività agonistica e intrattenimento ludico nella quale il pubblico non è formato esclusivamente da semplici spettatori che assistono a una competizione/rappresentazione. Oggi il pubblico è divenuto esso stesso parte integrante di un evento sportivo i cui protagonisti non sono più soltanto coloro che per novanta minuti si contendono la palla sul rettangolo di gioco (i ventidue giocatori più l'arbitro e i guardalinee), ma anche la folla di spettatori che manifesta la propria presenza partecipata con esibizioni scenografiche di vario tipo, che possono iniziare anche molto prima che l'arbitro dia il fischio di avvio della partita.

Questo pubblico calcistico, a ben guardare, non è una massa omogenea, non rappresenta una folla indifferenziata di spettatori, in termini strettamente sociologici potremmo dire che non costituisce un aggregato sociale di tipo casuale. A parte la massa dei telespettatori, di cui parleremo tra poco, anche tra coloro che frequentano lo stadio con un minimo di continuità si possono distinguere alcune precise tipologie di astanti molto eterogenee, dal momento che sugli spalti troviamo una folla di spettatori che si distribuisce lungo un continuum teso tra un estremo dove il tifo è tutto sommato vissuto in forma debole e non organizzata, e l'estremo opposto dove il tifo è invece strutturato secondo precisi criteri organizzativi e comporta un forte investimento emotivo nelle vicende calcistiche della squadra. Da una parte, infatti, troviamo il tifoso generico che va alla partita, da solo o con qualche famigliare o amico, perché il gioco lo diverte e lo appassiona: andare di tanto in tanto allo stadio è per questo tifoso un modo come un altro per passare il pomeriggio della domenica che gli consente, al tempo stesso, di rinnovare la propria adesione alla squadra che fin dall'infanzia ha adottato come squadra del cuore. Questo genere di tifoso lo si trova di solito in tribuna, oppure tra i 'distinti', ma anche nel cosiddetto parterre da dove si assiste alla partita in piedi e si possono vedere i giocatori da vicino; il fatto di 'tenere' per una squadra non costituisce comunque per lui un forte segnale di appartenenza, dal momento che nell'economia della sua identità composita il frammento occupato dalla squadra del cuore resta relativamente marginale anche se stabile nel tempo. Più che di tifoso è corretto parlare in questo caso di spettatore che assiste a uno spettacolo e che si lascia coinvolgere più passivamente che attivamente dall'atmosfera dello stadio.

Rispetto a questo genere di frequentatore da stadio più o meno occasionale, l'abbonato si segnala per una maggiore continuità di presenza sugli spalti. Il fatto di avere in tasca una tessera che testimonia la sua appartenenza vicaria alla società e alla squadra è molto importante sul piano simbolico per questo genere di aficionado (per riprendere l'espressione del leggendario allenatore dell'Inter Helenio Herrera). Grazie al semplice abbonamento il legame affettivo con la propria squadra si materializza, l'identità collettiva si conferma. L'abbonato, in questo modo, non soltanto 'si sente', ma viene automaticamente riconosciuto come membro di una collettività che trova la propria ragion d'essere nel sostegno alla squadra.

Vi sono poi i tifosi territorialmente lontani e non sempre presenti agli incontri domenicali, che si distribuiscono su scala provinciale, regionale, nazionale e talvolta addirittura internazionale. Questi tifosi fanno in genere riferimento ai club maggiori, che infatti di solito contano su una rete di forme associative distribuite in tutte le parti del paese e spesso anche all'estero e sovente sostenute e finanziate (almeno in parte) dalle stesse società; hanno propri luoghi di ritrovo in locali pubblici o in vere e proprie sedi, nelle quali svolgono anche altre attività ricreative (carte, biliardo, giochi elettronici ecc.).

I tifosi organizzati e gli abbonati costituiscono, come è evidente, lo 'zoccolo duro' della tifoseria di una squadra ‒ assieme ad un'altra componente di cui parleremo tra poco ‒ e sono coloro che più facilmente la seguono nelle trasferte, anche all'estero se ha la fortuna di partecipare a un torneo internazionale, ed è proprio nella trasferta che il legame con i colori della società si fa ancora più intenso. Questi tifosi affrontano infatti viaggi anche lunghi, in autobus o in aereo, dando vita a una forma particolare di turismo di massa, appunto il 'turismo sportivo', organizzato da agenzie di viaggio specializzate che offrono pacchetti comprendenti il trasporto, l'ingresso allo stadio e, se richiesto, anche pernottamenti e ristorazione. Le trasferte rappresentano anche un altro aspetto importante per la vita del tifoso, dal momento che sono di frequente appuntamenti che permettono di stringere legami non puramente occasionali, a conferma ancora una volta di come il tifo sportivo possa diventare un polo importante delle attività di tempo libero e della vita di relazione degli individui.

Nell''ecologia sociale' dello stadio questo genere di tifosi tende a concentrarsi sulle gradinate dei 'popolari' e in prossimità delle curve. La curva, o almeno il suo nucleo centrale, è invece un territorio in cui si ritrova un gruppo particolare di tifosi, gli ultras, mentre, in genere, parte della curva sul lato opposto dello stadio è riservata ai tifosi e agli ultras della squadra ospite. Dal momento che costituiscono un fenomeno che presenta caratteristiche del tutto particolari, vale la pena soffermarvisi un istante per analizzare più in dettaglio questa particolare categoria di tifosi.

Il fenomeno degli ultras è relativamente recente nella storia del calcio, poiché la sua comparsa risale al periodo compreso tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta del Novecento. Si tratta di un fenomeno che ha origine negli stadi inglesi, dove compaiono i temuti hooligans, e si diffonde rapidamente, sia pure in forme diverse, in quasi tutti i paesi dove il calcio spettacolo assume una dimensione di massa.

L'attenzione dei media e dell'opinione pubblica si è concentrata soprattutto sui fatti di violenza che, con una certa frequenza, accompagnano le manifestazioni del tifo degli ultras. Sarebbe tuttavia affrettato stabilire una connessione automatica tra violenza negli stadi e presenza di gruppi di tifosi ultras, se non altro per il fatto che gli episodi di tifo violento hanno preceduto di molto la comparsa di questi gruppi (Calcio e violenza in Europa 1990). Ciò non toglie che essi abbiano costituito e continuino a rappresentare un grave problema di ordine pubblico e ancor prima di ordine sociale, a cui nei vari paesi, soprattutto europei, si è cercato di fare fronte adottando misure sia repressive sia preventive che hanno dato frutti non sempre soddisfacenti. Quel che interessa qui, però, è soltanto l'aspetto sociologico del problema: delineare il contorno di massima di una categoria di giovani che sono stati etichettati in vari modi, ma che qui potremmo limitarci a definire come 'barbari tardivi'.

Una prima notazione riguarda il fatto che i gruppi ultras nascono quando esistono frazioni consistenti della popolazione giovanile che avvertono il forte bisogno di sentirsi parte di una collettività, di un 'noi' che accoglie i singoli membri, ne valorizza e riconosce le capacità e ne disciplina i comportamenti. Quando queste frazioni di popolazione giovanile non vengono attratte da altre offerte di coinvolgimento (per esempio, sul piano dell'impegno religioso, politico o sociale), perché non presenti o non credibili, i gruppi ultras forniscono una risposta adeguata al loro bisogno di identificazione con un gruppo. La seconda notazione riguarda il fatto che il fenomeno è stato molto studiato se non altro perché ha posto, e pone, seri problemi di ordine pubblico. Non è un caso che gli studi sul football hooliganism si siano affermati soprattutto nel Regno Unito. Infatti, gli hooligans britannici, per quanto riguarda sia le squadre di club sia la nazionale, hanno fornito il modello di riferimento dei tifosi ultras di molti altri paesi europei. Tuttavia, mentre nel Regno Unito questi gruppi, almeno agli inizi, erano composti prevalentemente da giovani provenienti dai ceti operai o dai gruppi marginali prodotti dai processi di deindustrializzazione, altrove il fenomeno ultras ha riguardato invece una popolazione molto più eterogenea per provenienza sociale.

Una terza notazione riguarda la loro visibilità. Spesso questi gruppi presentano forti parentele e si confondono con le bande giovanili cosiddette 'spettacolari' (skinheads, punks, mods, rockabillies ecc.) che hanno calcato la scena giovanile a partire dagli anni Settanta (Cavalli, Leccardi 1997). A parte alcuni capi di abbigliamento con i colori della squadra che sono comuni a tutti i tifosi (magliette, sciarpe, cappellini ecc.), gli ultras portano in genere qualche altro segno distintivo che identifica il gruppo specifico di appartenenza e, soprattutto, hanno un nome con il quale si riconoscono come 'noi' e vengono riconosciuti dagli 'altri' (per esempio, le 'brigate rossonere', la 'fossa dei leoni', i 'commandos tigre' del Milan, i 'boys', gli 'skins' e i 'vikings' dell'Inter, i 'fighters' della Juventus, gli 'irriducibili' della Lazio ecc.).

Una stessa squadra può avere, anzi generalmente ha, una pluralità di gruppi ultras che la sostengono. Non vi è un'organizzazione vera e propria che li coordini, anche se un gruppo può assumere una posizione di fatto egemonica che pone gli altri in una posizione di almeno parziale subordinazione. Del resto la complessa scenografia dello spettacolo della curva richiede un minimo di coordinamento: gli striscioni di identificazione dei gruppi devono essere disposti lungo le balaustre in modo da non ostacolarsi a vicenda, i petardi e i fumogeni devono essere sparati al momento giusto, i cori devono essere il più possibile collettivi se vogliono sovrastare il coro avversario, i grandi stendardi con i colori della squadra richiedono la collaborazione di molte mani per essere dispiegati in tutta la loro estensione, l'ormai tradizionale ola deve avere inizio con la curva che scatta in piedi a un cenno preciso dei 'registi' dello spettacolo, il rullo dei tamburi interviene immancabilmente per segnare i tempi dello spettacolo, oltre a commentare rumorosamente le vicende della partita.

Ancorché non formalizzata, una struttura gerarchica di gruppi ultras è facilmente riconoscibile nel senso che ognuno sa che posizione occupa nel gruppo. La leadership è senz'altro in parte legata all'anzianità; per affermarsi come leader è necessario del tempo, aver fatto la propria 'gavetta', aver dimostrato assiduità e soprattutto aver superato con successo prove di coraggio e di fedeltà ai colori della squadra e del gruppo. La leadership è comunque di tipo carismatico e nessuno diventa leader senza essere riconosciuto come tale, né può restare leader senza continue riconferme della sua posizione. L'appartenenza ai gruppi ultras, come peraltro a tutti i gruppi giovanili, è comunque fondamentalmente temporanea; il bisogno di legare in modo stretto la propria identità a un gruppo è da un lato tipicamente adolescenziale e giovanile e, dall'altro lato, risulta particolarmente intenso laddove sono deboli altri legami sociali (con la famiglia, la scuola, il lavoro, le istituzioni in genere), ma per tutti gli ultras prima o poi arriva il momento in cui si incomincia a diradare la frequenza della partecipazione fino al punto da non essere più riconosciuti come membri del gruppo. L'ex-ultrà resterà probabilmente tifoso della sua squadra, ma nel tempo muterà le forme di manifestazione del suo tifo.

Da quanto abbiamo detto dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che lo stadio, oltre a essere il contenitore di un terreno di gioco, è anche un palcoscenico in cui si rappresenta uno spettacolo nello spettacolo, in cui la partita di calcio diviene l'occasione per mettere in scena un'altra rappresentazione. Per dirla con il sociologo Dal Lago (1990), lo stadio è il luogo della rappresentazione rituale di una battaglia nella quale si esprime un tratto primordiale delle forme di associazione/dissociazione della specie umana: la contrapposizione tra amico e nemico, tra 'noi' e 'loro'; in effetti ciò è quanto veramente costituisce la natura dello spettacolo degli spalti: una contrapposizione rituale dietro la quale si celano motivazioni diverse, di tipo politico, campanilistico, etnico o meramente contingente.

Spesso questa ostilità è solo esibita e, presentandosi in forma ritualizzata, finisce per costituire uno dei modi attraverso i quali le società umane riescono a incanalare e a controllare l'aggressività. La ritualizzazione di una guerra simulata si trasferisce dal campo agli spalti; le due tifoserie si affrontano, si scambiano invettive, insulti, minacce, il tutto ritmato, come sul campo di battaglia delle guerre antiche, dal rullo dei tamburi.

Tuttavia il confine tra violenza ritualizzata e violenza reale risulta molto spesso assai labile. Non è infrequente infatti che dalla rappresentazione della violenza si passi all'atto, all'azione violenta. Se il contatto fisico tra i gruppi contrapposti è possibile si accresce la probabilità dello scontro: prima che le tifoserie contrapposte fossero isolate da barriere fisiche e da cordoni di polizia succedeva che drappelli di una tifoseria si spingessero nel territorio nemico per catturare i simboli di identità dell'avversario (tipicamente bandiere e striscioni). Evitato nello stadio, per effetto delle misure di ordine pubblico, lo scontro si è oggi spostato sempre più al di fuori, prima e dopo la partita, al punto che, per evitare il contatto, i gruppi di ultras della squadra ospite vengono scortati dalle Forze dell'ordine dalla stazione ferroviaria fin dentro lo stadio e poi di nuovo alla stazione.

Tutto ciò sembra non avere più nulla a che fare con il calcio e con lo sport. Ma questa è un'affermazione nello stesso tempo vera e falsa: è vera nel senso che i motivi che spingono all'azione violenta non sono radicati nel gioco in sé, ma è falsa se con ciò si vuole negare un fatto evidente e cioè che lo sport, e il calcio in particolare, è uno dei pochi momenti nelle società moderne razionalizzate dove si possono esprimere entusiasmi, passioni e identità collettive in modi e forme intollerabili nella vita civile. Lo hanno ben compreso i regimi politici, soprattutto totalitari ma anche democratici, che hanno sempre tentato di utilizzare lo sport per trasferire le passioni collettive che esso suscita verso l'obiettivo di consolidare le identità nazionali. Negli incontri internazionali e soprattutto nei campionati del mondo la posta in gioco infatti non è solo la vittoria, ma l'orgoglio nazionale che essa trascina con sé.

Come che sia, la spettacolarità del calcio non può comunque fare a meno del pubblico eterogeneo che riempie gli stadi. Lo stadio, come monumento architettonico, è del resto uno dei manufatti più imponenti (insieme alle autostrade e agli shopping center) che caratterizzano l'epoca moderna. Ma il calcio spettacolo coinvolge anche una massa immensa e dispersa, lontana dallo stadio. È la massa di coloro che godono dello spettacolo seduti nella poltrona di casa o in qualche ritrovo pubblico dove le partite vengono teletrasmesse con le moderne tecnologie mediatiche. Si tratta di una quota di persone notevolmente cresciuta negli ultimi dieci anni e che acquista sempre più peso e importanza sul piano economico attraverso il mercato dei diritti televisivi. È un pubblico 'invisibile', ma non per questo meno presente, che nelle discussioni del lunedì nei bar e sui luoghi di lavoro commenta le partite con dovizia di particolari, assai meglio di coloro che erano fisicamente presenti allo stadio.

Il calcio teletrasmesso occupa uno spazio crescente dei palinsesti televisivi, sia delle reti ad accesso libero, pubbliche e private, sia delle emittenti satellitari, sia delle stazioni che trasmettono programmi criptati (che richiedono cioè un decodificatore per poter essere visti), sia, infine, delle televisioni ad accesso oneroso (pay-tv e pay per view). Se si dispone delle attrezzature tecnologiche idonee (e si paga l'abbonamento) è possibile attualmente accedere a pressoché tutti gli stadi delle massime divisioni di ogni grande paese in tempo reale, cioè in diretta televisiva. Tuttavia le 'dirette' e le 'differite' delle partite sono solo una piccola parte del calcio televisivo: a esse si aggiungono le trasmissioni in diretta dallo stadio o dallo studio che, oltre alle immagini della folla, fanno vedere i 'commentatori' che guardano la partita dal vivo oppure sul monitor che hanno di fronte, riportando sia i commenti immediatamente post-factum, con le immancabili interviste all'uscita degli spogliatoi, sia i commenti della sera o del giorno dopo, inframmezzati da spezzoni delle partite e dalla fatidica 'moviola', che consente di vedere al rallentatore quello che normalmente sfugge all'arbitro e agli spettatori in diretta. Si tratta di un fenomeno al quale è stato giustamente dato l'appellativo di 'calcio parlato' e che costituisce non uno spettacolo nello spettacolo (come quello dei tifosi allo stadio), ma uno spettacolo dello spettacolo, in cui una moltitudine di giornalisti si atteggiano a 'esperti' e mediano questo atteggiamento nei confronti del pubblico dei tifosi i quali, a loro volta, nei loro luoghi di ritrovo (soprattutto i bar) 'mimano' i personaggi protagonisti del calcio. In ogni tifoso infatti, come si usa dire, si nasconde un 'tecnico', un allenatore mancato, un dirigente immaginario che fa e disfa squadre, compra e cede giocatori, disputa con arbitri e guardalinee. Questo fa sì che il calcio parlato sia ormai diventato una presenza invasiva nella quotidianità di molte persone dei paesi calcisticamente avanzati.

Il calciatore: atleta, idolo e mercenario

Come abbiamo visto, il calcio ha preceduto quasi tutti gli altri sport nella strada verso il professionismo sportivo. Infatti è diventato una professione per (una parte di) coloro che lo praticano fin quasi dalle sue origini. Per il calcio non è stato mai facile rispettare i requisiti di dilettantismo delle discipline olimpiche e, spesso, la partecipazione delle rappresentative nazionali alle Olimpiadi si è fondata su una finzione.

Dapprincipio, le ricompense che un calciatore riceveva dovevano essere sufficienti a garantirgli una sussistenza forse dignitosa, ma sicuramente modesta; con il tempo però, come è noto, il calcio è diventato (almeno per alcuni) una professione altamente remunerativa, anche se bisogna tenere conto che la carriera di un calciatore è inesorabilmente limitata nel tempo (non dura in genere più di dieci, quindici anni) e finisce quando qualsiasi altra carriera avrebbe normalmente inizio. A sentire l'ammontare degli ingaggi che percepiscono ogni anno i calciatori più noti, i benpensanti restano spesso sconcertati e scandalizzati, tanto più che ai compensi pagati dalle società si aggiungono, per un ristretto numero di star al vertice della scala di popolarità (come Diego Maradona, David Beckham o Ronaldo), contratti personali come testimonial di prodotti di grande serie che ammontano a svariati milioni di dollari. Di fronte a queste cifre, i normali criteri che legittimano le gerarchie sociali sembrano sconvolti. In realtà, i calciatori professionisti che guadagnano cifre da capogiro sono una piccola minoranza. Non si deve dimenticare d'altronde, che nella nostra società nessun altro evento pubblico è capace di attirare folle più numerose di quanto faccia il calcio e quindi non è del tutto privo di senso che i maggiori protagonisti di questa 'grande festa' possano essere così lautamente ricompensati.

Tuttavia, se è vero che nelle gerarchie sociali alcuni calciatori si collocano ai gradini più alti della scala di ricchezza e popolarità, il loro prestigio e il loro potere sociale restano nel complesso modesti. A parte Rivera (il campione del Milan e della nazionale italiana negli anni Sessanta) che nella sua carriera politica è arrivato a essere sottosegretario e il grande Pelé che è diventato ministro dello Sport del suo paese, i calciatori appartengono a quella che un noto sociologo (Alberoni 1962) ha un tempo definito, parlando del fenomeno del divismo, "l'élite senza potere".

La lievitazione delle ricompense ai calciatori di maggior talento e fama ha subito una rapida accelerazione in seguito a un evento di straordinaria portata e non solo per il mondo del calcio. Il 15 dicembre 1995 la Corte di giustizia dell'Unione Europea ha emanato una sentenza destinata a rimanere storica (Russo 1997). Essa è legata al nome di un calciatore belga, Jean-Marc Bosman, un centrocampista piuttosto sconosciuto della squadra del Liegi. All'approssimarsi della scadenza del contratto con la sua società, Bosman prese contatto con la squadra francese del Dunquerque che si dimostrò disposta a ingaggiarlo. Come indennizzo per la cessione, il Liegi chiese una somma che il Dunquerque giudicò troppo onerosa e l'affare andò a monte. Rimasto disoccupato, Bosman fece causa per danni al Liegi e alla Federazione belga, rivendicando il diritto di lasciare al termine del contratto la società di appartenenza senza che questa dovesse ottenere un indennizzo per la cessione. In breve, la Corte Europea di Giustizia, suscitando lo sconcerto delle varie Federazioni nazionali e di quella europea (l'UEFA), giudicò fondata la rivendicazione e dichiarò illegittima ogni limitazione alla mobilità dei calciatori tra i paesi dell'Unione Europea in quanto lesiva del principio di libera circolazione dei lavoratori in ambito comunitario. In altre parole, alla fine del rapporto con la società di appartenenza ‒ così stabilì la Corte ‒ il famoso 'cartellino', che testimoniava il tesseramento presso la Federazione, doveva essere restituito al calciatore e non più ceduto, dietro indennizzo, alla società acquirente.

Gli effetti della sentenza furono in un certo senso devastanti per i bilanci delle società nei quali la valutazione dei giocatori compariva come voce attiva, ma l'effetto più importante fu quello di spalancare le frontiere alla mobilità dei calciatori, aprendo la breccia verso la creazione di un mercato mondiale anche al di là dei confini dell'Unione Europea. I club inglesi furono i più rapidi a cogliere le opportunità offerte dalla sentenza del caso Bosman e reclutarono alcuni tra i migliori giocatori europei. Anche l'Italia, che era stata tradizionalmente importatrice di giocatori stranieri, diventò improvvisamente esportatrice. Il risultato è che oggi le maggiori squadre europee, con poche eccezioni, sono in genere composte in gran parte da calciatori di nazionalità diversa da quella del paese al quale il club appartiene. Si può dire che non c'è altra categoria professionale, se non forse i dirigenti delle imprese multinazionali, che abbia sperimentato un processo così esteso di internazionalizzazione.

Si è venuta così a creare una situazione che ha del paradossale: mentre i tifosi sono legati alla loro squadra da un rapporto di fedeltà che normalmente dura per tutta la vita ed è fonte di identità e di orgoglio localistico, questa stessa squadra è composta di giocatori mercenari che sono normalmente disponibili a giocare per qualsiasi società che offra un contratto più remunerativo e prometta di valorizzare il loro talento. Ovviamente i tifosi mostrano un legame affettivo più stretto con i giocatori che da più lungo tempo giocano nella loro squadra del cuore o addirittura sono cresciuti nel suo vivaio, ma sembrano comunque accettare, senza molti problemi, anche quei beniamini che hanno la tendenza a cambiare frequentemente casacca. Alla lunga, però, se nel mondo del calcio i processi di globalizzazione dovessero, come peraltro è probabile, accentuarsi ulteriormente, non è da escludere che le forme più intense di attaccamento primordiale alla squadra siano destinate ad attenuarsi.

C'è un detto: "puoi cambiare macchina, lavoro, città, fidanzata, ma ci sono due cose che non puoi cambiare: tua madre e l'amore per la tua squadra". Per quanto tempo resterà ancora vero? E se, a uno di quei ragazzini che inseguono una palla su un campetto privo d'erba indossando una maglia colorata con il nome di un campione stampato sulla schiena, rivolgiamo la domanda "che vuoi fare da grande?" per quanto tempo ancora otterremo la risposta "voglio diventare calciatore"? Solo i prossimi campionati ce lo diranno.

Riferimenti bibliografici

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