Calamità naturali

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2006)

Calamità naturali

Paolo Migliorini

Nel corso del periodo 1965-2005 i disastri provocati da c. n. (terremoti, eruzioni vulcaniche, inondazioni, cicloni tropicali, siccità) sono progressivamente aumentati di numero, e il loro impatto sullo sviluppo umano ed economico del pianeta si è aggravato di anno in anno. Secondo la Munich Re, la maggiore società mondiale di riassicurazioni, le perdite economiche ascrivibili a tali fenomeni, che nel 2003 erano state valutate in 65 miliardi di dollari, hanno raggiunto la punta massima mai registrata (145 miliardi di dollari) nel 2004, anno funestato dal micidiale tsunami che ha sconvolto le coste di dieci paesi del Sud-Est asiatico e dell'Africa orientale. Nel corso del periodo 1985-2005 le c. n. sono state fatali a più di un milione e mezzo di individui, e il bilancio annuale delle vittime è raddoppiato nell'arco del decennio 1995-2005. Ma il numero dei morti esprime solo parzialmente le perdite umane subite da una collettività, che andrebbero misurate anche in termini di ritardato sviluppo e di sofferenze diffuse. Analogamente, la quantificazione del danno economico si riferisce solo alle perdite dirette derivanti dalla distruzione di infrastrutture e di beni pubblici e privati: raramente, infatti, le stime tengono conto anche di quelle connesse alla riduzione dei livelli di produzione a seguito dei danni riportati dagli apparati agricoli, industriali o terziari e dalle vie di comunicazione.

Rischio e vulnerabilità

Le cause del progressivo aumento delle perdite di vite e di beni materiali a scala mondiale per effetto delle c. n. sono da ricercare non tanto nell'aumentata frequenza e intensità di tali eventi, quanto nell'aumento generale della vulnerabilità umana, che è una funzione dell'azione e del comportamento delle popolazioni del pianeta. La vulnerabilità è determinata da un complesso di fattori: la densità e il livello di sviluppo della popolazione, il grado di integrità degli ecosistemi, le condizioni degli insediamenti e delle infrastrutture, la maggiore o minore efficienza dell'amministrazione e delle politiche pubbliche, la consapevolezza del rischio, la disponibilità di mezzi e il livello di capacità e di organizzazione nel fronteggiare gli eventi naturali estremi. La vulnerabilità esprime dunque la suscettibilità (oppure la resilienza) di un sistema socio-economico o di un complesso di beni materiali nei confronti dell'impatto delle calamità. Specialmente nei Paesi meno sviluppati, è evidente la correlazione tra crescente pressione demografica e aggravarsi della degradazione ambientale, con conseguente aumento della vulnerabilità umana e della gravità dell'impatto dei disastri. Uno dei principali fattori che contribuisce ad accrescere tale vulnerabilità in molte parti del mondo è la rapida e spesso incontrollata crescita delle città, alimentata dall'afflusso di immigrati poveri da aree rurali. Nel periodo 1975-2005 la popolazione urbana dei Paesi in via di sviluppo è triplicata, fino a comprendere 1,3 miliardi di individui, concentrandosi in aree (quali pianure alluvionali, pendii instabili o terreni disboscati) di cui è spesso nota la predisposizione alle inondazioni o ai terremoti. Molte grandi città sono diventate più vulnerabili alle piene improvvise dei fiumi, in quanto le modificazioni degli equilibri dei bacini idrografici di appartenenza, la mancanza di appropriati sistemi di drenaggio e l'impermeabilizzazione dei suoli hanno avuto l'effetto di accrescere il volume e la velocità di deflusso superficiale delle precipitazioni. La povertà e la vulnerabilità alle c. n. interagiscono e si rafforzano a vicenda. Le popolazioni povere sono costrette a sfruttare le risorse naturali per poter sopravvivere, e accrescono in tal modo sia il rischio sia l'esposizione ai disastri.

Per una determinata società il grado di esposizione al rischio nei confronti delle c. n. è determinato dai livelli di vulnerabilità combinati con quelli della pericolosità. Quest'ultima si definisce come la probabilità che un evento naturale pericoloso, con determinate caratteristiche, si verifichi in un certo luogo, entro un determinato intervallo di tempo. È da questa combinazione che dipende la diversa esposizione al rischio di perdere la vita in Paesi diversi, in occasione di disastri naturali di confrontabile gravità.

Calamità naturali e cambiamenti climatici

Dal momento che le perdite di vite umane e di beni materiali stanno registrando una crescita esponenziale a scala mondiale, e in considerazione del fatto che la frequenza e l'intensità degli eventi idrometeorologici estremi (punte estreme di caldo e di freddo, inondazioni, tempeste, uragani e cicloni tropicali) tendono ad aumentare, si può supporre che gli effetti dei cambiamenti del clima conseguenti ad attività antropiche abbiano già cominciato ad aggravarsi. La causa viene solitamente individuata nell'aumento delle emissioni industriali di anidride carbonica, metano, protossido d'azoto e altri gas responsabili dell'effetto serra, che, in assenza di interventi correttivi, potrebbero produrre negli anni a venire un innalzamento della temperatura globale del pianeta tale da dar luogo a un maggior numero di disastri legati a eventi idrometeorologici estremi, nonché un graduale innalzamento del livello dei mari, destinato a sua volta a creare situazioni particolarmente critiche nelle isole basse e nelle fasce costiere poco rilevate.

Appare difficile rallentare il processo di riscaldamento globale, e addirittura impossibile fermarlo. Una convenzione stipulata dalle Nazioni Unite a Rio de Janeiro nel 1992 ha dato origine a un accordo internazionale (protocollo di Kyoto, 1997) per il taglio delle emissioni, entrato in vigore il 16 febbraio 2005, dopo essere stato ratificato da 157 Paesi, che producono oltre il 60% dei gas a effetto serra. I Paesi industrializzati si sono posti come obiettivo la riduzione, entro il 2008-2012, del 5,2% delle emissioni quantificate nel 1990. Ma l'iniziativa non è condivisa da alcuni degli Stati a economia avanzata sui quali grava la maggiore responsabilità delle emissioni (in particolare gli Stati Uniti, ma anche l'Australia), che ritengono il costo eccessivo per le loro economie e si rifiutano di assumere impegni, con il pretesto che sull'esistenza di un sicuro nesso di causalità tra effetto serra, riscaldamento globale e cambiamenti del clima non c'è ancora un consenso unanime tra gli scienziati.

Distribuzione geografica e profili di specifiche calamità

La distribuzione geografica della mortalità per tipo di evento naturale indica che è la regione asiatico-pacifica quella che subisce le perdite maggiori di vite umane per effetto di terremoti, inondazioni e cicloni tropicali, sia per numero totale di vittime sia per numero di vittime rapportato alla consistenza demografica regionale. La più elevata concentrazione di mortalità a seguito di siccità si riscontra invece nel continente africano. La siccità è un tipo di calamità particolare, la quale il più delle volte si combina e interagisce con emergenze complesse, quali conflitti armati, punte estreme di povertà e malattie epidemiche. In Europa e nel Nordamerica si registrano quantità di vittime inferiori (sia assolute, sia relative) per tutti i tipi di calamità, con incidenza più alta nelle regioni europee particolarmente esposte al rischio sismico. Nell'America Latina e nei Caraibi le perdite di vite umane sono principalmente dovute a cicloni tropicali e inondazioni. Di seguito sono riportati alcuni dati e notizie essenziali relativi a calamità di tipo geologico e idrometerologico.

Sismicità

Secondo un recente Rapporto delle Nazioni Unite (Reducing disaster risk, 2004), nel periodo 1980-2000 si sono contate in tutto il mondo 158.551 perdite di vite umane a seguito di terremoti. Tra i Paesi con il maggior numero di terremoti figurano alcuni popolosi Paesi asiatici (Giappone, Indonesia e Filippine), seguiti da altri delle due Americhe (Stati Uniti, Cile, Messico), dalla Turchia e dall'India. L'indice di vulnerabilità relativa (numero di vittime in rapporto al numero di abitanti esposti al rischio sismico) registra i valori più elevati in Paesi quali ̔Irān, Afghānistān e India, dove i terremoti, oltre a essere frequenti, causano perdite di vite umane in proporzioni assai superiori a quelle di altri Paesi, quali il Cile e gli Stati Uniti. È infatti statisticamente accertato che l'indice di vulnerabilità relativa è più elevato nei Paesi connotati da una crescita urbana rapida e sregolata, oltre che incurante delle normative antisismiche. Nel decennio 1995-2005 i più gravi terremoti, in ordine di tempo, sono stati i seguenti:

(a) il 17 gennaio 1995 un terremoto di magnitudine 7,2 Richter colpì la regione di Kobe nel Giappone centro-meridionale, l'area più urbanizzata e industrializzata del Paese dopo quella di Tokyo. L'evento sismico provocò oltre 6000 vittime e 300.000 senza tetto, anche a seguito degli incendi che lo seguirono;

(b) il 17 agosto 1999 un terremoto di magnitudine 7,4 Richter colpì nottetempo la città di Izmir (Smirne) in Turchia, con effetti devastanti (18.000 morti, 300.000 senza tetto) per l'alta densità di popolazione e di infrastrutture industriali dell'area;

(c) il 26 gennaio 2001 un terremoto di magnitudine 6,5 Richter colpì lo Stato di Gujarat, una remota e relativamente poco popolata regione dell'India nord-occidentale, provocando oltre 20.000 vittime. In prossimità dell'epicentro alcuni edifici rimasero intatti, altri vennero ridotti in rovina, a riprova del fatto che la progettazione e la costruzione degli edifici nelle aree sismiche ha un'importanza cruciale;

(d) il 24 dicembre 2003 un terremoto di magnitudine 6,7 Richter rase al suolo la cittadina iraniana di Bam. Oltre 28.000 degli 80.000 abitanti (ovvero più di un terzo) furono sepolti dalle macerie delle loro abitazioni. La lontananza dalla capitale e l'impreparazione delle autorità nel fronteggiare l'emergenza contribuirono a rendere più pesante il bilancio delle vite umane perdute;

(e) il 26 dicembre 2004 un terremoto di magnitudine 9 Richter, con epicentro al largo delle coste occidentali dell'isola di Sumatra (Indonesia), scatenò uno tsunami, con ondate (alte anche 20 m) che si abbatterono sulle coste di Sumatra e della Thailandia, propagandosi poi attraverso l'Oceano Indiano fino a raggiungere, dopo circa due ore, le coste dell'India e dello Srī Laṅkā, e, dopo sette ore, le coste orientali dell'Africa; le vittime furono calcolate in 283.100. Tale evento sismico è stato il quarto in ordine di intensità nel primo quinquennio di questo nuovo secolo; inoltre l'area in cui ha seminato morti e distruzioni è stata eccezionalmente vasta (una decina di Paesi dell'Asia e dell'Africa);

(f) l'8 ottobre 2005 un terremoto di magnitudine 7,6 Richter colpì la regione himalayana del Kashmir. La città di Muzaffarabad (la capitale di quella parte del Kashmir che si trova sotto controllo pachistano), vicina all'epicentro, fu distrutta al 70%. Le vittime furono oltre 30.000, alcune delle quali nella capitale pachistana Islamabad, distante un centinaio di km dall'epicentro. I danni furono indicativamente valutati in 5 miliardi di dollari statunitensi.

(g) il 27 maggio 2006 la sezione meridionale dell'isola di Giava è stata colpita da un terremoto di magnitudine 6,3 Richter, che ha causato oltre 5000 vittime e più di 200.000 senza tetto.

Eruzioni vulcaniche

Anche se si calcola che nel corso del 20° sec. più di 80.000 persone siano morte per effetto di eruzioni vulcaniche, attualmente questo tipo di calamità provoca raramente ingenti perdite di vite umane. A differenza dei terremoti, infatti, le eruzioni possono essere previste, dato che tutti gli apparati vulcanici attivi sono conosciuti e più o meno sorvegliati. Può tuttavia succedere che un'eruzione improvvisa colga di sorpresa gli organismi preposti al monitoraggio, e, quel che è più grave, le popolazioni locali. È ciò che avvenne nel 1985 in Colombia, dove la cittadina di Armero, un centro di coltivazione del cotone con circa 20.000 abitanti, fu colta di sorpresa dall'improvviso risveglio del Nevado del Ruiz, un vulcano alto 5400 m, e travolta dall'ondata di fango piombata a valle in seguito al brusco riscaldamento dei fianchi della montagna innevata.

Inondazioni e frane

Il citato Rapporto delle Nazioni Unite (2004) riferisce che nel periodo 1980-2002 le inondazioni hanno causato in tutto il mondo 170.000 perdite di vite umane. Circa 196 milioni di uomini e donne in più di 90 Paesi sono esposti in media ogni anno a tali fenomeni, che sono responsabili di circa la metà delle vittime dovute ai disastri naturali. Gli Stati popolosi dell'Asia meridionale (India, Bangla Desh, Pakistan) e la Cina, nei quali gli abitanti tendono a concentrarsi nelle pianure alluvionali e nei bassipiani costieri, sono ai primi posti della graduatoria, sia per il numero assoluto di abitanti esposti al rischio, sia per gli indici di vulnerabilità relativa. Segue l'elenco delle più gravi inondazioni occorse nell'ultimo decennio.

Nel 1998, 240 milioni di cinesi - un quarto della popolazione del Paese - furono coinvolti da disastrose alluvioni e frane causate da piogge torrenziali e persistenti nelle province dell'Hubei e dell'Hunan. Persero la vita 2000 persone e quasi 3 milioni di abitazioni andarono distrutte nella sovraffollata e bassa pianura alluvionale del fiume Yang-tze Kiang. Le disastrose inondazioni, provocate da un ciclone, che colpirono lo Stato indiano di Orissa nel mese di novembre dell'anno successivo attestano la vulnerabilità delle popolazioni insediate nelle fasce costiere, tanto più esposte a rischi di tal genere in quanto le maree e i livelli degli oceani tendono a innalzarsi. Le inondazioni causarono la perdita di 10.000 vite umane, di 250.000 case e di 200.000 ha di raccolti. Poche settimane dopo, piogge torrenziali abbattutesi per una quindicina di giorni nella regione della capitale del Venezuela, Caracas, portarono distruzione e morte nei ranchos, agglomerati di abitazioni fragili e precarie situati nelle basse aree litoranee o addossati a pendii collinari franosi soggetti alle colate di fango, a conferma del fatto che povertà e catastrofi si rinforzano vicendevolmente. Nel 2000 le inondazioni che allagarono gran parte del Mozambico confermarono che la brutalità della natura si abbatte spesso sui Paesi più fragili e sottosviluppati. Nel dicembre 2004, frane e alluvioni portarono distruzione e morti (oltre 1500) nel Nord-Est delle Filippine. La causa fu individuata nel dissesto idrogeologico conseguente al disboscamento illegale, che nell'arco di un secolo ha ridotto la superficie forestale del Paese da 300.000 a 70.000 km2. Il forte aumento della popolazione si è tradotto in una pressione crescente sulle risorse naturali e in un numero crescente di persone insediate in aree marginali soggette al pericolo di frane e inondazioni.

Cicloni tropicali

Circa 120 milioni di persone sono esposte in media ogni anno a questo tipo di calamità (inclusi eventi simili, quali tempeste tropicali, uragani, tifoni), che ha provocato un totale di 251.400 morti in tutto il mondo nel periodo 1980-2000. I Paesi più esposti a questi disastri sono quelli che hanno aree costiere, e specialmente deltizie, densamente popolate (per es., Cina, India, Filippine, Giappone, Bangla Desh). L'entità dell'impatto dei cicloni tropicali non è dovuta tanto alla forza dei venti quanto al gran numero di eventi secondari (piogge torrenziali, inondazioni, frane) che vengono innescati da tali fenomeni. La gravità di questi eventi secondari viene solitamente amplificata dagli effetti dei processi di degradazione ambientale che nel corso del tempo hanno compromesso la stabilità e la resilienza dei territori interessati.

Gli Stati centroamericani dell'Honduras e del Nicaragua, per quanto non figurino tra i Paesi solitamente più esposti ai cicloni, nel 1998 furono quelli che subirono i danni maggiori in occasione dell'uragano Mitch, in ragione della straordinaria intensità e durata di questo evento, nonché del suo devastante impatto sulle popolazioni locali (oltre 10.500 vittime). Si trattò di uno dei più forti uragani atlantici mai registrati, con costi umani ed economici enormi. Ma il peggiore tra questi, da un secolo a questa parte, fu Katrina, che nell'agosto del 2005 si abbatté sulle coste meridionali degli Stati Uniti, travolgendo le infrastrutture petrolifere e industriali di una delle zone nevralgiche del Paese, i tre Stati della Louisiana, del Mississippi e dell'Alabama. La città di New Orleans, in gran parte allagata, dovette essere evacuata, e oltre 1300 persone persero la vita. I danni furono indicativamente calcolati in 200-300 miliardi di dollari.

Strategie e politiche di prevenzione e di riduzione dei rischi

Con l'incremento del numero e della gravità delle c. n. diventa più che mai indispensabile ricorrere a misure preventive e, dove necessario, a quelle intese a limitare i danni. La tendenza che finora ha prevalso, a tutti i livelli politici, è stata infatti quella di concentrarsi sulla reazione ai disastri, piuttosto che ricorrere a misure di prevenzione e di mitigazione dei danni attesi: un approccio destinato a comportare un aumento continuo dei costi, sia per i prevedibili effetti dei mutamenti climatici, sia per la crescita continua della popolazione e delle costruzioni in aree vulnerabili. Per contro, l'identificazione preventiva delle c. n. attese, e la riduzione del loro rischio, possono far diminuire in misura significativa i costi e gli effetti di tali fenomeni. Un'efficace misura di riduzione del rischio consiste nella predisposizione di specifiche 'carte del rischio' per regolamentare le attività di costruzione in aree vulnerabili, quali pianure alluvionali, aree franose o sismiche, prima che le c. n. si verifichino. In tali aree i piani di sviluppo edilizio dovrebbero adeguarsi a disposizioni di legge stringenti, calibrate in funzione del grado di pericolosità. Precise indicazioni relative a c. n. incombenti potrebbero essere ottenute mediante l'installazione in queste aree di sistemi di monitoraggio e di allerta, che consentirebbero di salvare vite umane e di contenere l'entità dei danni.

Le complesse problematiche connesse con la riduzione del rischio, nonché dei costi sociali ed economici dei disastri, sono state oggetto di numerose iniziative internazionali, molte delle quali promosse e coordinate dalle Nazioni Unite; tra queste ultime il Decennio internazionale per la riduzione dei disastri naturali, organizzato nel 1989. Nel quadro di tale Decennio, nel 1994 si svolse a Yokohama (in Giappone) una Conferenza mondiale sulla prevenzione dei disastri naturali, al termine della quale furono adottati una strategia e un piano di azione che (partendo dal presupposto che gli eventi estremi che causano le c. n. sono per lo più al di fuori del nostro controllo, mentre la vulnerabilità è generalmente il risultato dell'attività umana) raccomandavano di mettere in atto nuovi metodi e comportamenti per convivere con i rischi di c. n., e di intraprendere urgenti azioni per prevenire e ridurre gli effetti di tali disastri.

A undici anni di distanza si è tenuta a Kobe (di nuovo in Giappone) una seconda Conferenza, allo scopo di delineare le possibili strategie di lavoro per il 21° secolo. La sua sessione finale (22 genn. 2005) si è conclusa con l'adozione di due importanti documenti, che promuovono una cultura di prevenzione e di resilienza nei confronti dei disastri, sottolineando la necessità di collocare questo tema al centro delle politiche nazionali, data la stretta relazione che lega gli obiettivi della riduzione del rischio a quelli dello sviluppo sostenibile e della riduzione della povertà.

bibliografia

United Nations Development Programme, Reducing disaster risk. A challenge for development, New York 2004 (www.undp.org/bcpr).

International Federation of Red Cross and Red Crescent Societies, World disasters report 2005. Focus on information in disasters, London-Bloomfield (CT) 2005 (www.ifrc.org).

United Nations Inter-agency Secretariat of the International Strategy for Disaster Reduction, World conference on disaster reduction, 18-22 January 2005, Kobe, Hyogo, Japan. Proceedings of the conference, Geneva 2005 (www.unisdr.org/wcdv).

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