Calabria

Enciclopedia Dantesca (1970)

Calabria

Giuseppe Inzitari
Pier Vincenzo Mengaldo

La C., all'epoca di D., faceva parte del Regno di Sicilia, detto poi, dopo la pace di Caltabellotta (1302), Regno di Napoli. Era il più forte stato italiano, formatosi a opera dei Normanni, che seppero organizzare in salda unità monarchica i domini longobardi, bizantini e arabi dell'Italia meridionale. Ovviamente, quel che interessa il lettore di D., è la situazione storico-politica della regione ai tempi di Federico II e di Manfredi, e dei primi re angioini. Federico II di Svevia, con l'impulso del suo genio e con la collaborazione di legisti, amministratori, condottieri, esperti, uomini di cultura indigeni e, a volte, anche stranieri, diede un avvio in senso assolutistico moderno allo stato ereditato dai Normanni.

La C., per quanto potevano consentirlo la sua posizione geografica, le vicende storiche e il sistema politico entro cui era integrata - si pensi all'amministrazione bizantina e alle strutture feudali normanno-sveve, fortuna insieme e danno per le genti del sud - ha una sua evoluzione economico-sociale e civile ed elabora una cultura, che, pur entro caratteristiche comuni, denuncia aspetti non del tutto assimilabili a quelli delle altre regioni meridionali. Acquisito il suo nome definitivo, per migrazione dalla penisola salentina, probabilmente verso la fine del sec. VII, quando i Bizantini, per effetto dell'estensione della conquista longobarda, vedono ristretto il loro dominio alla parte più propriamente peninsulare della C. e alla Sicilia, viene ricostituita dai Normanni come regione, con le delimitazioni territoriali (dal Pollino allo Stretto) e le caratteristiche amministrative (due giustizierati: C. citra e C. ultra), che rimarranno pressoché immodificate fino al 1860. L'unificazione politico-territoriale del Mezzogiorno risolve il suo isolamento economico-culturale, seguito alla conquista araba della Sicilia; il vincolo feudale, moderato da una monarchia illuminata, la solleva dallo stato d'abbandono amministrativo. La sua meravigliosa ricchezza culturale, formatasi sul fondo tradizionale romano per l'immigrazione di un gran numero di monaci orientali, che, venuti dalla Grecia, dall'Egitto, dalla Siria, dalla Palestina, portando le loro immagini sacre, i loro codici, la loro vocazione ascetica, letteraria e artistica, popolarono di cenobi le montagne della Sila e le colline vicine alla dorsale appenninica, dopo una fase di smarrimento e di stasi, dovuta al disordine bellico del tempo della conquista, nel periodo aureo della dominazione normanna allarga il suo respiro e definisce le sue caratteristiche medievali: diventa composita per l'espandersi del monachesimo latino (Cistercensi, Certosini) e per il fiorire di una cultura di tipo romano (Gioachino da Fiore e l'ordine florense), accanto e, spesso, in connessione con la più adulta cultura di tipo bizantino, caratteristica del monachesimo basiliano. Rifluisce inoltre, specie nel sec. XIII, la grecità classica tenuta viva dai Bizantini o elaborata dagli Arabi e ora trasfusa, a opera di attenti traduttori, dal greco in lingua latina. Sotto gli Svevi si sviluppa e acquista fisionomia propria una cultura di tipo laico-feudale, aperta agl'influssi arabi di prevalente atteggiamento scientifico, ma anche e soprattutto a quelli occidentali, di cui elabora, in lingua volgare italiana, le forme della poesia amorosa provenzale. Tra i poeti della scuola siciliana la C. è rappresentata da Folco Ruffo.

L'arco della vita di D. si sviluppa per intero durante il regno dei primi tre angioini (Carlo I, Carlo II, Roberto), che ereditano lo stato normanno-svevo con il complesso delle sue risorse, della sua organizzazione amministrativa e delle sue possibilità di sviluppo politico-economico. La peculiare civiltà del regno, frutto dell'elaborazione di molti secoli e dell'apporto di forze complesse, continua a operare sotto diversa dominazione e conserva e sviluppa le sue caratteristiche essenziali. Proprio con la dominazione angioina e con la grave crisi aperta dalla guerra del Vespro, coincide, nell'età di D., l'inizio della decadenza della C.: scompigliata dal flusso degli eserciti in lotta, nuovamente staccata dalla Sicilia e dai rapporti con l'Oriente, isolata da Napoli, nuovo centro culturale e politico, dalla mancanza di facili vie di comunicazione, sottoposta a gravi vessazioni fiscali e a nuove, deteriori infeudazioni ai danni delle città demaniali e della nascente borghesia, dei diritti municipali e individuali, è tenuta in uno stato di progressivo disordine dalla debolezza del potere regio e dalla crescente invadenza e irrequietezza dei baroni. A rendere più angosciosa la situazione si aggiunsero gravi eventi di natura fisica: i terremoti e la malaria che provocarono maggiori danni delle incursioni dei Saraceni e di quelle successive dei Barbareschi sulle coste calabre, accentuando il moto di arretramento dei centri abitati rivieraschi verso l'interno montuoso, all'ombra protettrice dei castelli feudali e dei conventi. La cultura calabrese, per effetto di questo particolare isolamento, va accentuando le proprie caratteristiche, costretta com'è a sviluppare in sé stessa, senza ulteriori apporti estranei, il proprio patrimonio, maturatosi particolarmente nell'ambiente monastico tradizionale, nell'incontro delle due culture e delle due Chiese: la greco-bizantina e la latino-romana. La stimola e la sottende l'ansia, che, sotto altro aspetto, era stata già di Cassiodoro, di trovare una conciliazione tra Oriente e Occidente, tra paganesimo e cristianesimo, tra Antico e Nuovo Testamento. La C. ora diffonde la propria civiltà culturale. E mentre i segni degl'influssi dell'arte e della cultura toscana, trasmesse tramite i finanzieri e i commercianti fiorentini e gli amministratori toscani, sono evidenti nella Napoli angioina, sono quasi assenti in Calabria. Sono invece assai evidenti e incisivi gl'influssi dei mistici e degli umanisti calabresi a Napoli e in Toscana. E se non è noto per quali vie si potè produrre quella pur evidente analogia, che sa d'immediata esperienza, tra le figurazioni del Codex purpureus rossanensis, del VI secolo, di origine bizantina, e le figurazioni degli affreschi giotteschi della cappella degli Scrovegni a Padova, è accertato invece, almeno nelle sue linee essenziali, come dalle montagne della Sila calabra si sia diffuso per tutta Italia il messaggio mistico-allegorico dell'abate Gioachino, raccolto dal movimento francescano, soprattutto dagli spirituali, e, trasmesso ai fraticelli, ai flagellanti, ai beghini, per queste vie sia pervenuto a Dante. Barlaam da Seminara va da Costantinopoli ad Avignone, latore di proposte conciliative tra le due Chiese, e dalla C. a Napoli, diffusore d'ellenismo e maestro di greco al Petrarca e al Boccaccio; più tardi il discepolo suo Leonzio Pilato, a Firenze, traduce Omero per impulso del Boccaccio, cui comunica lingua e cultura greco-classica. I due ellenisti calabresi, insieme con la schiera degli altri traduttori meridionali presenti alla corte angioina, sono, come avverte il Croce, " gli ultimi trasfusori della cultura normanno-sveva e meridionale nell'incipiente umanesimo, come già i rimatori siculi avevano aperto la strada ai rimatori toscani e poi ceduto loro il passo ".

Nella visione unitaria dell'Italia, in quanto caratteristica di D., la C. costituisce geograficamente uno dei due estremi della frattura geologica, che venne a risolvere, secondo una tradizione già presente negli scrittori dell'età classica, l'unità orografica della penisola: all'estremo peninsulare residuo è la città di Rhegium, non indicata, ma di cui l'etimo contrassegna e conforta, evidentemente, la tradizione seguita da D.; all'altro estremo insulare è opposto il promontorio Peloro, il cui nome ricorre, con espressa funzione, in Pg XIV 32. Dal contesto di una visione unitaria risulta anche l'individuazione della lingua, che però si risolve in una partizione ‛ bipharia ', in cui appare piuttosto confusa anche la definizione etnica della regione. Secondo il concetto della demarcazione dello spartiacque appenninico, il versante tirrenico (dextrum latus nell'orientazione cartografica seguita da D. in VE I X 7) è assimilato, per lingua, agli Apuli cui si attribuisce un comprensorio molto vasto tra la Sicilia e Roma: In utroque quidem duorum laterum, et hiis quae secuntur ad ea, linguae hominum variantur, ut lingua Siculorum cum Apulis, Apulorum cum Romanis (I X 8). La lingua dei ‛ Calabri ' interessa invece il versante ionico della C., come parte di un'area linguistica che si estende fino alla Marca Anconitana: Calabrorum cum Anconitanis (ibid.). Non è del tutto da escludersi l'ipotesi, fondata sulla delimitazione antica della C., posta tra il Tiferno e il promontorio Salentino, che restringerebbe alla popolazione di questo territorio la lingua dei Calabri e farebbe assorbire dagli Apuli anche il versante ionico dell'attuale Calabria. D., nella Commedia (il calavrese abate Giovacchino di Pd XII 140), segue evidentemente una tradizione recenziore, postbizantina, appresa attraverso B. Latini, e cioè quella che fa coincidere la regione C. con l'antico Bruzio. Occasionali sono i riferimenti a Cosenza e a Catona (Catona, secondo la lezione più accreditata; Crotona, secondo una variante meno seguita).

Il riferimento a Cosenza è episodico e serve all'individuazione del famoso, perché sinistramente impietoso, pastor di Cosenza (ormai si è quasi generalmente orientati verso il nome di Bartolomeo Pignatelli, napoletano, nella dignità a Cosenza dal 1254 al 1267), il quale, più per odio personale, come sembra dimostrato, che non per espresso mandato del papa Clemente IV, infierì sul corpo sepolto di re Manfredi e ispirò a D. l'episodio del cadavere sottratto alla guardia de la grave mora, trasferito, a lume spento, in terra sconsacrata e abbandonato agl'insulti del vento e della pioggia (Pg III 124-132). Il riferimento a Catona è una semplice determinazione di confine, per via di tre città poste ai tre punti estremi del regno di Napoli: quel corno d'Ausonia che s'imborga / di Bari, di Gaeta e di Catona, / da ove Tronto e Verde in mare sgorga (Pd VIII 62). Nel discorso di Carlo Martello, Catona o Crotona è sempre l'indicazione del termine estremo meridionale del regno, che attendeva la sua signoria; nelle chiose dei commentatori e in genere degli studiosi, invece, la variante Crotona offre lo spunto a riferimenti culturali a Pitagora e alla scuola pitagorica, citati più volte da D. (Cv II XIII 18, XV 12, III V 4, XI 3-5, IV I 1, Mn I XV 2; e la lezione Catona propone l'ipotesi, non confermata né smentita, di un viaggio di D. in C., sia pure come transito per la Sicilia, già sede della Magna Curia, per recarsi alla corte di Federico III d'Aragona.

In mancanza di precise indicazioni, le generiche frasi contenute nel Convivio, di cui l'una allusiva alle peregrinazioni dell'esule (per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, I III 4), e l'altra di più ampia significazione (con ciò sia cosa che... io mi sia quasi a tutti gli Italici appresentato, I IV 13), il riferimento ai roscida rura Pelori dell'Egloga IV (v. 46), ormai appresa in un significato allegorico, la tradizione del suo soggiorno alla corte del re aragonese, sono assunti da vari studiosi come elementi probanti di un'osservazione diretta dei luoghi indicati. In particolare, sembra suggerita da un'immediata impressione visiva, nonostante la sopravvivenza, attraverso il suggerimento virgiliano e ovidiano, della terminologia mitologica nell'acquisizione scientificamente più moderna del fenomeno, la similitudine del vortice causato da l'onda là sovra Cariddi / che si frange con quella in cui s'intoppa (If VII 22-23), a proposito dell'infernale ridda degli avari nel quarto cerchio dell'Inferno. Il riferimento a Scilla e alla costa calabra è indiretto e sembra riprendere, con un ritorno insistente, il motivo, già indicato, degli opposti termini della frattura geologica d'Italia.

La presentazione di Gioachino non appare puramente casuale, ma intenzionale, quasi necessaria: essa discopre, di là dalla breve indicazione, profonde relazioni culturali e consonanze spirituali, che sono alla base della concezione di tutto il poema. La C. è presente incisivamente nella formazione della Commedia, nell'afflato messianico e nel respiro profetico, tramite l'esponente massimo dell'ascetismo calabrese del Medioevo e il movimento florense, in cui veniva a continuarsi, per certi aspetti culturali o mistici, la tradizione vivariense e basiliana.

Nella gloria del cielo del Sole, il calavrese abate Giovacchino è lo splendore di un beato, che luce... da lato al Doctor Seraphicus, a s. Bonaventura, e in questa posizione di rilievo gerarchico è rappresentato (Pd XII 139-140). Le parole di D. sono una ripresa testuale dell'antifonario florense: " B. Joachim, spiritu dotatus prophetico, decoratus intelligentia ". Nel vasto quadro della visione dantesca, l'apporto sapienziale di Gioachino è posto come determinante e ha tutta l'attrattiva di un messaggio ricco di particolare fascino. I modi e i limiti di estensione degl'influssi gioachimiti su D. non sono, è vero, definitivamente determinati, ma vanno sempre meglio chiarendosi e determinandosi (v. GIOACHINO DA FIORE).

La fortuna di D. in Calabria. - Mancano documenti e risultanze ampie e concrete della diffusione e dello studio delle opere di D. nei secoli XIV e XV. Il predominio della cultura umanistica di tipo bizantino e romano, gli sconvolgimenti di natura politica, il silenzio della tradizione manoscritta lasciano una zona oscura, del resto comune ad alcune altre regioni d'Italia. Se mancano però documenti letterari di notevole interesse, non si può escludere la divulgazione del testo della Commedia come opera che attraeva l'interesse e il gusto di lettori dall'impegno culturale tutt'altro che volgare o anche come espressione di un'autorità da citarsi nell'ambito della predicazione religiosa. Ove si pensi alla dispersione del ricco patrimonio bibliografico manoscritto di tradizione bizantina, alla manomissione e alla distruzione delle biblioteche, di cui alcune ben fornite di codici, dei vecchi conventi, per diversi eventi succedutisi di natura politica, sociale, sismica, e persino alla recente distruzione dell'Archivio di Stato di Napoli, che raccoglieva i relitti degli archivi dei conventi soppressi, alla presenza di schiere di valorosi miniaturisti, di cui alcuni molto noti come Bonifacio di C. del '300, i Rubicano di Amantea, Giovanni di C., Matteo da Terranova, Filippo Caccavo del '400 e di ottime scuole di copisti, i resti, assai deboli e rari, dispersi qua e là, di codici danteschi recanti note, quasi reperti archeologici, di richiamo all'origine calabrese o alla loro presenza nella regione, costituiscono indizi assai significativi.

Ecco alcune indicazioni: un frammento di codice tuttora esistente nella Bibl. Capialbi di Monteleone Calabro (Vibo Valentia), membranaceo con iniziali miniate, del sec. XIV, d'immediata provenienza locale e di non identificata origine; qualche codice proveniente dalla C.: a Firenze, l'Ashburnamiano Laurenz. Append. dant. 4 del 1474, presente a Cotrone nel 1513 e, poco dopo, a Dipignano, tra i libri di A. Costanzo, quindi nella biblioteca di Sertorio Quattromani probabilmente a Cosenza, con qualche nota di metafonesi caratteristica, che denunzia almeno la possibilità di un'origine più meridionale di Napoli; alcuni codici che, attraverso l'analisi linguistica, scoprono una patina dialettale riferibile all'estremo meridione (C. o Sicilia, e meno probabilmente Salento o Basilicata); ancora a Firenze: l'Ashburn. Laurenz. 405 dell'ultimo Trecento, che, allo stato, è quello che ha le maggiori possibilità di reclamare un'origine calabrese, preferibilmente dell'area centrale della C., e il Panciatichiano 2 della Bibl. Naz., del Tre e Quattrocento, di varie mani e di generica meridionalità; ad Assisi, Bibl. comunale, il cod. 492 della Bibl. di S. Francesco, del sec. XIV, cartaceo, che contiene un Quaresimale di fra Rogerio de Sicilia o de Platea, con citazioni frequenti di terzine della Commedia caratterizzate da una patina dialettale calabro-sicula; da ricordare inoltre un codice esemplato nel sud da copisti centrosettentrionali (Firenze, Laurenz. Strozz. 152, trecentesco, con una pagina aggiunta, in volgare, riproducente note di dialetto meridionale campano-calabro-siculo); un codice che presenta tracce di sosta in C. o di appartenenza a proprietari calabresi o aventi interessi in C. (il Rehdiger 227 della Biblioteca di Breslavia, oggi presso la Bibl. universitaria di Tubinga, che riporta alla fine un elenco di entrate feudali del conte di Altomonte e Corigliano). I suindicati codici, che non esauriscono la possibilità di citazioni, e invitano a ulteriori ricerche e studi in un ambito molto vasto (si pensi al codice immediatamente citato, all'origine della raccolta Ashbur. Laurenz. Append. dant., già della Seymour Kirkup; alla presenza, negli Stati Uniti, di un codice dantesco miniato di origine napoletana, eseguito nel 1450 per Ferdinando I di Napoli; alla presenza, denunciata dall'inventario, di ben cinque codici appartenenti all'ultimo Duca di C.), costituiscono testimonianze della divulgazione del poema in C. e nell'Italia meridionale subito dopo la morte di D. e nei due secoli successivi. Si deve pensare a una circolazione in un'area più che regionale ad opera degli ordini religiosi soprattutto, e della nobiltà colta con centro culturale a Napoli.

Il sostrato, così presupposto, di una conoscenza piuttosto ampia del poema nell'area regionale o meglio meridionale, spiega la presenza di D. negli scrittori calabresi del sec. XVI. Si tratta dapprima di una presenza episodica: qualche citazione in Bernardino Martirano (1490-1558), qualche motivo ispiratore nelle lettere e nel poemetto La Maddalena di Marco Filippi di Bagnara (1521-1563), con cenni ripetuti e citazioni in G. Barrio (De Situ et antiquitate Calabriae, Pro lingua latina libri tres, De Aeternitate urbis liber unus, De Laudibus Italiae l. unus), che non ne fu ammiratore. Un maggiore impegno di studio e una maggiore conoscenza del testo rivela il raffronto tra luoghi della Commedia, intesa attraverso il Landino, e luoghi dell'Orlando Furioso, nella dotta Sposizione sopra l'Orlando Furioso di Simone Fornari, morto nella Certosa di Serra S. Bruno attorno al 1560. Un primo non disprezzabile tentativo di studio linguistico delle voci della Commedia si riscontra in S. Quattromani (1551-1607 circa), l'intelligente studioso del linguaggio amoroso del Petrarca, che tra i primi ricondusse alle origini provenzali, e delle Sposizioni delle Rime del Casa. È andata perduta la Sposizione di Dante citata nell'elenco delle opere contenuto nella biografia dell'Egizio e le Dichiarazioni di Dante; ma parte di queste ultime sono ancora reperibili nelle lettere a Orazio Marta, a V. Bilotta, a G.C. Torelli, a G.M. Bernaudo, a Muzio della Cava; e se alcune sono state superate dagli studi successivi, in quanto erroneamente riportate a un'origine classica, non più valida nell'area linguistica di D., qualche altra è ancora degna di considerazione. Non mancano tuttavia note negative suggerite dal gusto dell'eleganza formale propria dei petrarchisti, e da un deteriore spirito corrosivo. Col Quattromani si è già nell'ambiente del tardo Rinascimento, in cui l'interscambio culturale conferisce un respiro nazionale agli studiosi meridionali (v. del Quattromani la polemica col Caro, col Castelvetro, col Tasso) e nel clima dell'Umanesimo letterario e filosofico, con tendenze verso un naturalismo scientifico, dell'Accademia Cosentina, dominato e influenzato dalla grande figura di B. Telesio.

L'età moderna viene sostanzialmente aperta al culto di D., con una drammatica animazione rinnovatrice, dal genio solitario di T. Campanella.

Nel suo temperamento primitivo e quasi barbarico, ricco d'impeti generosi e audaci e di visioni apocalittiche nonché di solida dottrina, sembrano ritrovarsi insieme, quasi attraverso lontane ascendenze, alcuni caratteri peculiari dell'anima e della tradizione calabrese: un indomabile istinto di rivolta contro ipocrisie, ingiustizie, tirannie; il senso angoscioso di una secolare sofferenza sociale, di chi attende una risoluzione improvvisa, cataclismatica, e la vuole attuare con incredibile, eroica, esasperata volontà; il sogno mistico, etico-sociale, che fu già dell'abate Gioachino, di un rinnovamento ab imis della Chiesa e della società cristiana, con la conseguente attesa dell'instaurazione del regno della giustizia in un'ara di libertà. Sulla base di questi aspetti della personalità del Campanella, si manifestano note di congenialità, che non solo spiegato, ma rendono naturale, pur nella diversità, l'accostamento a D.: al suo pensiero politico, alla sua attesa sociale, alla sua visione universale, al suo temperamento, alla sua poesia fatta di parole così vive che si direbbero cose e non voci (" ut res potius quam voces ipsae voces videantur ", Poötica VIII XI [9] 167-168) e un linguaggio così immediato e adatto a ritrarre cose e affetti da essere superato solo da quello della Sacra Scrittura (" sed sacra Scriptura ipsum anteit ", Rhetorica XII III 7-8). La personalità di D. uomo, poeta, profeta, esercita una permanente suggestione sul pensiero e sull'azione di Campanella, che lo propone, nei suoi scritti spesso pervasi da motivi e fermenti danteschi, come autorità universalmente riconosciuta, come convalida alle sue tesi, come emblema del primato poetico, morale e civile d'Italia. L'esule fiorentino è sentito come ispiratore solidale dal ribelle al dispotismo spagnolo, che inveisce contro la corruzione dei vescovi e dei principi (Discorsi universali del governo ecclesiastico), che si sente nato " a debellar tre mali estremi ", " la trina bugia, sotto cui tu piangendo, o mondo, fremi " (Poesie, 8); il vindice di un assetto politico mondiale come proiezione dell'ordinamento universale, retto da sapienza, virtù, amore, in cui, esaurendosi la cupidigia dei principi, si attui la giustizia e si raggiunga la pace e la felicità terrena degli uomini, è presente allo spirito di chi affida alla città del sole e alla Monarchia Messiae il sogno di una repubblica universale teocratica. Il segno caratteristico del culto di Campanella per D. è offerto soprattutto dall'amore alla sua poesia, alla Commedia, che egli apprese tutta a memoria e molto spesso cita a memoria - come risulta da segni obbiettivi - e che considera come il più gran poema, e D. il più gran poeta tra quanti siano mai esistiti: " Poëma Danthis omnes mundi poëtas antecellit " (Atheismus triumphatus); " Poëma tam admirabile quo nullum melius adhuc in mundo vidimus " (Poëtica [9] 164-165). In una visione di universale natura vivente di vita unitaria con un'animazione molteplice, il poema di D. è considerato come specchio dell'intero genere umano, poema della natura, rappresentazione universale. L'antiaristotelismo e l'antipetrarchismo del Campanella (" fuggite amici le seconde scuole ") Si attuano sulla base di un concetto di poesia intesa come imitazione diretta della natura, che ha come metodo stilistico la naturalezza e la vivezza e come argomento la scienza delle umane e divine cose, tradotta in immagine di bellezza (la poesia è " il fiore delle scienze "). D. è il più gran poeta perché seppe meglio degli altri imitar la natura e fu più di ogni altro anche " scientiarum humanarum divinarumque peritus ", " nullius dogmatis expers ". La Commedia è il più gran poema perché esso è il fiore della scienza di Dante.

Questa concezione della poesia e la scelta di D. come massimo rappresentante di essa, con la variante dell'accostamento a Omero (e, per l'aspetto stilistico, di subordinazione a Omero), si ritrova - e ne costituisce il nucleo sostanziale - in una formulazione più organica e in una soluzione cartesiana, nella dottrina poetica di G. V. Gravina (1664-1718), la cui successione immediata al Campanella, nell'opera di restaurazione del culto di D. e di rivendicazione dell'importanza della sua poesia, non pertanto è puramente casuale. Oltre all'apporto determinante del Campanella, alla formazione letteraria del Gravina e del suo gusto di poesia concorre anche la migliore tradizione culturale calabrese e più specificamente cosentina.

G. Caloprese non fu per il Gravina solo un veicolo di cartesianesimo: egli portava con sé anche germi di gusto filologico e poetico, affinato alle eleganze formali del più moderno petrarchista del Cinquecento. È vicino infatti all'altro medico umanista cosentino Marcaurelio Severino e al Quattromani, presidente dell'Accademia, nella fatica delle Sposiiioni ai sonetti del Casa. E non è nemmeno senza significato il fatto che un altro medico, fisiologo e poeta cosentino di notevole fama, T. Cornelio, " il latinissimo ", come lo definì il Vico, abbia offerto, nel Seicento, una vivace traduzione, in distici elegiaci di squisita fattura, del XIII dell'Inferno, inserito nel contesto del trattato filosofico De Metempsycosi. Se per il Campanella il linguaggio poetico di D. è apprezzabile per la sua naturalezza e vivezza - " le parole stesse sembrano cose, non parole " (Poëtica VIII XI 167-168) - per il Gravina " le parole son tali che spesso si cangiano nel proprio essere delle cose ". Il concetto campanelliano per cui nel poema di D. si trovano efficacemente fusi tutti i generi di poesia possibili, si trova riespresso nell'affermazione graviniana che " nel Poema è tentato ogni genere di poesia, ogni maniera di dire, ogni st ile, ogni carattere " (Ragion poetica 182). Il concetto della funzione sapienziale e dell'ispirazione alogica della poesia " introdotta per favella misteriosa in cui s'ascondeano i fonti di ogni sapienza e soprattutto della divina " (ibid. II 8) conduce il Gravina, attraverso ascendenze anche campanelliane, all'idea della poesia civilizzatrice, così cara al Foscolo e presente nella concezione vichiana. Ancor più vicina all'idea vichiana è l'immagine della poesia di D. - in cui sono presenti anche schemi classici - vista come " tela che si dilata e si spande dentro una fantasia commossa se non da soprannaturale pur da straordinario fervore e quasi divino " (ibid. II 9).

Per tutto il Settecento, accanto alla dottrina del Gravina, che ha il suo ingresso ufficiale presso i ceti colti, le idee del Vico lievitano silenziosamente per manifestarsi poi apertamente nell'Ottocento. Il periodo successivo alla morte del Gravina segna un attenuarsi grave degli studi danteschi in C., nonostante il sorgere di varie Accademie d'Arcadia ispirate al programma dello stesso. L'età del Romanticismo, insieme con il destarsi dell'idea nazionale e di libertà, vede risvegliarsi, anche in C., l'interesse per la figura di D., come espressione della civiltà d'Italia, profeta dell'unità nazionale, cantore dell'umanità e dell'universa natura. Molti dei romantici calabresi, con lo stesso entusiasmo con cui partecipano ai moti d'indipendenza e di libertà, diffondono in C. e altrove il culto di D., ne studiano le opere, ne esaltano la grandezza: saggi, commenti, discorsi, poesie, novelle in versi, tragedie d'ispirazione dantesca vengono stampate in tipografie regionali o napoletane, diffusi su fogli locali, regionali o esteri. Un respiro nazionale o europeo allarga concezioni e idee, anima di un particolare colorito argomenti dettati dalla tradizione regionale, promuove programmi; un entusiasmo rinnovatore a carattere patriottico o sociale muove la loro azione. La tradizione regionale è presente accanto ad atteggiamenti byroniani, a influenze alfieriane e manzoniane, in fermenti campanelliani e graviniani, che rilievitano attraverso gli autori già indicati o si ritrovano nel solco della tradizione locale. Tramite tra neoclassicismo e romanticismo è un critico d'esperienza europea, F.S. Salfi (1759-1832), definito da G. Rossetti " il Nestore della letteratura e della libertà italiana ".

Cospiratore a Napoli nel 1794 e 1799, segretario del governo provvisorio della Rep. Partenopea, murattiano, insegnante a Brera, quindi collaboratore a Parigi della Revue Encyclopédique, il Salfi scrive ampiamente su questa rivista di argomenti danteschi dal 1819 in poi, collabora alla compilazione della Biographie Universelle e continua la storia della letteratura d'Italia del Ginguené. Erede della migliore tradizione storiografica del Settecento assorbe insieme esperienze sensiste, tradizione graviniana, suggerimenti vichiani, suggestioni foscoliane, in un efficace contemperamento. Gl'ideali di libertà, di nazionalità, di laicità, se agitano incompostamente, con atteggiamenti alfiereggianti, le sue tragedie, sono infrenati saggiamente e danno anima alla sua concezione storiografica. Nel Résumé de la littérature italienne (Parigi 1826), traccia un profilo della figura di D., in cui il senso della modernità e i più vitali concetti della tradizione sono magistralmente fusi in un superiore equilibrio: " Dante è un poeta solitario nella sua originalità e resta aderente ai suoi tempi, come espressione di essi, anche se riconduce a fonti del tutto nuove il meraviglioso dell'epopea; e la lingua si presta a tutte le significazioni, donde sì gran varietà di ritmi che nessun poeta italiano ha conosciuti ". Lo stesso superiore equilibrio, lo stesso tocco magistrale informa le recensioni agli studi danteschi, come si può desumere da quella dedicata al commento del Rossetti. Pur condividendone l'ispirazione filoghibellina, presente del resto nella sua stessa tragedia Francesca da Rimini, non accetta del Rossetti l'esagerazione nell'attribuzione dei significati reconditi.

Qualche eco del Rossetti è da notare in Domenico Mauro, il più interessante dei dantisti calabresi dell'età romantica. Questi pubblica, nel 1840, il commento all'Inferno col titolo significativo di Allegorie e bellezze della D.C., assorbito e completato poi dall'opera Concetto e forma della D.C. (Napoli 1862). Nella prefazione a questo libro, che ebbe molta diffusione in C. e consensi in Italia e all'estero, confessa di essere stato preceduto, nella rivalutazione dell'allegoria ai fini della investigazione del concetto generale e dell'unità artistica, dal Nicolini e dal Rossetti; ma aggiunge subito che il Nicolini sbagliò quando volle individuare l'unità artistica del poema in un concetto filosofico, e sbagliò egualmente il Rossetti quando volle individuarla in un concetto storico e cioè nell'allegoria della satira politica rivolta alle contingenti vicende del tempo. Egli la ricercava invece in un concetto religioso, morale e politico insieme, di validità universale, e . soprattutto in un concetto poetico. Le allegorie sono il tipico linguaggio espressivo di D., elemento dell'arte, " pure bellezze poetiche " (il preannunzio delle " pure immagini visive " dello Eliot). Esse offrono il segreto per intendere il significato sostanziale e l'unità artistica del poema. La formula della fusione ideale-reale, infinito-finito troverà poi nel De Sanctis l'affermazione più elevata. Le idee del Mauro, che non conosceva le Chiose del Gioberti, sono ritornate vive in tempi recenti, con metodologia più affinata, ma con spirito non diverso. A proposito del commento del Mauro, ha importanza non tanto l'esaltazione che ne fecero V. Hugo e altri, quanto la recensione magistrale, e che costituisce di per sé un contributo agli studi danteschi, che ne fece V. Padula, collaboratore tra i più notevoli di quel giornale d'avanguardia letteraria e politica quale fu " Il Calabrese ". Il Padula mise in evidenza l'interpretazione unitaria, che emergeva dallo studio del Mauro, per effetto dell'accordo tra materia e forma, del concorso di molteplici elementi artistici, per il valore poetico attribuito opportunamente al paesaggio, creazione autonoma ricca di vitalità originale del genio dantesco (Allegorie e Bellezze della D.C., in Prose giornalistiche, Napoli 1878). L'opera del Mauro nasceva da un fervore letterario regionale in cui si veniva abbandonando l'opinione vichiana di un D. rozzo e primitivo, espressione della barbarie d'Italia, a vantaggio di un'idea rivolta a rivalutare la civiltà del Medioevo e l'apporto dottrinario alla poesia di Dante. Si è sulla scia dell'inquadratura campanelliana e giobertiana già evidente nel Discorso (1830) di Pietro Giannoni di Acri, inteso a distruggere la falsa opinione della rozzezza del secolo, e quindi dello spirito di D.; ma ancor più evidente nelle appassionate parole di L.M. Greco (Intorno ai più eccellenti accademici cosentini, 1838) in cui è ripresentato il concetto di D. poeta universale. Vicino al tempo del primo organico studio del Mauro, usciva quel lavoro di molto impegno, che costituisce il primo tentativo, in C., di individuazione e di sistemazione organica della filosofia di D. (La filosofia di D. contenuta nella D. C. esposta ed ordinata con metodi scientifici da 0. Simonetti, Napoli 1845). Alla ricerca dell'individuazione dell'ordinamento morale e dogmatico, del fondamento dottrinario, del significato universale del poema sono rivolti i vari studi di G. di Siena (v.), tra cui il primo volume del Comento sopra la Commedia di D. (Napoli 1867-70), equilibrato, serio, attento, e, sulle orme di Venturi, Lombardi, Tommaseo, Torricelli e Fornari, ricco di richiami biblici, patristici, scolastici, ecc., e l'importante memoria letta più tardi (1885), all'Accademia Pontaniana, Del concetto filosofico e dogmatico che informa nella D.C. gli ordini della punizione e della espiazione. Un intento divulgativo, promosso da un'esigenza patriottico-educativa, perseguono D. Anzelmi (La D.C. testo e traslazione in prosa, Napoli 1875) e L. De Biase, autore di " La Commedia di D.A. esposta in prosa e spiegata nelle sue allegorie, con testo a fronte e note di G. di Siena, Napoli 1886. Più efficacemente di queste esposizioni in prosa risolvono il problema divulgativo le numerose manifestazioni d'amore e di omaggio a D., che fioriscono sotto forma di poesie, saggi, recensioni, novelle in versi, traduzioni in dialetto nei vari e spesso effimeri fogli, giornali, strenne, periodici, fondati o diretti da calabresi entro e fuori regione: " Il Viaggiatore ", " L'Omnibus ", " Il Poliorama ", " Lo Spettatore napoletano ", " Il Bruzio ", " Fata Morgana ", " Pitagora ", " Il Gravina ", " L'Eco del Savuto ", "Il Telesio ", "L'Albo bibliografico ", " La Voce cattolica ", " La Sinistra ", "L'Avanguardia ", "La Libertà " e, di particolare importanza, "Il Calabrese ", che accolse scritti dei migliori ingegni: D. Mauro, V. Padula, G. Campagna, autore del poema L'Abate Giovacchino, in terzine, tutte risonanti di reminiscenze dantesche, V. Selvaggi, B. Miraglia, C.M. Presterà, V. Dorsa, P. Giannoni, P. Camardella, ecc. Nel 1845, per merito di V. Gallo, si ha la più efficace fra le traduzioni in dialetto, limitata purtroppo ad alcuni canti dell'Inferno. Una traduzione di minor pregio dell'intera prima cantica viene offerta, due anni dopo, da S. Scervini. Molto più tardi, nel 1874, F. Limarzi pubblica la traduzione del Paradiso, in cui rivela notevole capacità di versificatore e buona conoscenza del difficile argomento. Altri traduttori: L. Gallucci (If XXXIII), F. Toscani (If I), P. Scaglione, A. Albo. L'attività di traduzione continua nel Novecento con V. Zucchi (If XXXIII), F. Pisani (If I), P. Creazzo, G. Catanzano, ecc. Finalmente G. Blasi offre la traduzione, " in nobili versi ", dell'intero poema, rimasta pressoché interamente inedita, meno alcuni canti usciti sulla " Piccozza ", foglio locale di breve vita, diretto da G. Marzano.

Al tramonto del secolo XIX e nei primi decenni del Novecento vanno declinando gli entusiasmi di tipo romantico, ma non l'impegno degli studiosi locali, alcuni dei quali lavorano in centri di studio lontani per utilizzare il materiale bibliografico di Napoli e di Roma. Gli studi, senza rinunziare a interessi più vasti, o rivolti alla poesia, si orientano preferibilmente verso problemi storici, filologici, linguistici, con un particolare interesse per la cultura regionale. Nascono o si riprendono studi specifici, relativi al rapporto tra D. e la C.: D. e il dialetto calabrese (S. De Chiara); D. e i luoghi citati nella Commedia (S. De Chiara, L. Aliquò-Lenzi); D. e l'abate Gioachino (F. Tocco, F. Mango, R. Gaudio, E. Galli, L. Costanzo, I. Rossi, A. Pepe, M. Mazzitelli, F. Foberti, P.F. Russo, di cui molto importante è la Bibliografia gioachimita; A. Piromalli); D. e la cultura calabrese (M. Mandalari, C. Pariset, S. De Chiara, A. Julia, L. Perroni-Grande, che si occupa di vari problemi specialmente bibliografici, allestisce nel 1929, a Reggio C., un'importante mostra bibliografica, e pubblica un elenco, soltanto nominativo, di dantisti e dantofili calabresi, che assorbe e integra la bibliografia del De Chiara; integra anche successivamente, con un elenco ragionato, la bibliografia dello Evola); D. e Campanella (L. Cunsolo); D. e Gravina (A. Pepe, B. Barillari, V.G. Galati). Di studi testuali e di tradizione manoscritta si occupano C. Pujia, M. Mandalari, F. Mango e V. Zappia. R. Valensise studia il problema della musica e del suono nella Commedia; A. Pagano mette in luce l'aspetto della pronta liberalità in D. e studia gl'influssi della Legenda aurea di I. da Varazze sulla Commedia; T.L. Rizzo rivaluta D. Mauro, esegeta di D., allarga il suo interesse alla Vita Nuova e, dopo il saggio del Croce, al rapporto allegoria-poesia; A. Gallippi tratta dal volgare illustre, G. Troccoli della poesia del Purgatorio, G. Inzitari della poesia del trascendente e dell'unità poetica della Commedia. Un'importante iniziativa per la diffusione dello studio di D. in C. fu presa attorno al 1930 (finita purtroppo, qualche anno più tardi) dall'arcivescovo C. Pujia, con la fondazione, in Reggio C., di una cattedra di studi danteschi. Vi tennero lezioni: lo stesso mons. Pujia, che già nel 1921 aveva celebrato il VI centenario della morte del poeta con una conferenza, in cui si esaltava D. " poeta della Chiesa Cattolica ", nel quadro del riconoscimento offerto dall'Enciclica di papa Benedetto XV; L. Maioli, autore delle opere Il pensiero di D. e D.A. e il suo Poema, e dei saggi D. e S. Bonaventura, D. e il Rinascimento, ecc. La diaspora dei migliori ingegni calabresi si accentua nel Novecento e il raccoglimento regionale e l'impronta meridionale, tipica dell'ambiente culturale del vecchio reame, non caratterizzano più la produzione critica di molti calabresi d'origine, adottati dai grandi centri di cultura dell'Italia centrosettentrionale. Tra questi i più notevoli sono: F. Battaglia, U. Bosco, S.A. Chimenz, G. Di Pino, i cui contributi di studio possono denunciare i segni di un nativo avvio e di un dono di temperamento, ma non un significato di rappresentanza della fortuna di D. in Calabria.

Arti figurative. - Nel clima romantico-patriottico dell'Ottocento nasce e si conclude l'interesse dei pittori calabresi per Dante. È una piccola, valorosa schiera: V. Morano (1813-1870), autore di un acquarello ispirato al canto III del Paradiso; A. Mazzia (1823-1891), che trattò, con molta espressività, argomenti prevalentemente allegorici (Scene dei canti XXXII e XXXIII del Purgatorio, D. in esilio, D. nella bolgia degli ipocriti). Risonanza nazionale ebbe il suo quadro D. che dalla luce guarda Roma, che, per la sua concettosità e l'intenso significato allegorico, piacque a Settembrini, a Dell'Ongaro, ecc. Di non molto pregio è La Pia dei Tolomei di A. Migliacci. F. Andreotti, toscano, è autore del Dante dell'Amministrazione provinciale di Cosenza. Tra tutti emerge, per particolare sensibilità interpretativa e per genialità d'artista, A. Cefaly (1827-1904), patriota e garibaldino, che a D. dedicò molto del suo generoso impegno. Il complesso delle sue opere, aventi un'organicità evidente nella successione - D. e Virgilio alla porta dell'Inferno (grande ceramica, con nel bordo, a mo' di fregio, altre scene dantesche), La barca di Caronte, Paolo e Francesca, Cerbero, e quindi L'Apparizione di Beatrice, Piccarda - sono da considerarsi lo sviluppo dei bozzetti dell'album (perduto), che conteneva quasi tutte le principali scene della Commedia. Se ne desume il programma e la possibilità di dare un'illustrazione complessiva del poema, attraverso i suoi momenti più significativi.

Bibl. - M. Amari, Storia dei Mussulmani in Sicilia, III, Firenze 1872; M. Schipa, Il Mezzogiorno d'Italia anteriormente alla Monarchia, Bari 1923; P. Orsi, Le Chiese basiliane della C., Firenze 1930; F. Chalandon, Histoire de la domination Normande en Italie et en Sicile, Parigi 1907; W. Cohn, Das Zeitalter der Normannen in Sizilien, Bonn 1920; E. Pontieri, I primordi della feudalità calabrese, Milano 1922; Id., C. - Storia, in Enc. Ital. VIII; Id., Normanni, ibid.; Id., Raccolta di studi intorno al Regno Normanno, Messina 1932; W. Cohn, Das Zeitalter der Hohenstauphen in Sizilien, Breslavia 1925; M. Schipa, Sicilia e Italia sotto Federico II, Napoli 1929; A. De Stefano, La cultura alla corte di Federico II imperatore, Palermo 1932; R. Caggese, Duecento e Trecento, Torino 1939; E. Kantorowitz, Kaiser Friedrich der Zweite, Berlino 1927; E. Jordan, Les origines de la domination angevine en Italie, Parigi 1909; M. Amari, La guerra del Vespro siciliano, Milano 1886; R. Caggese, Roberto d'Angiò, Firenze 1922; G.M. Monti, Il Mezzogiorno d'Italia nel Medioevo, Bari 1930; B. Croce, Storia del Regno di Napoli, ibid. 1924; F. Russo, Il Codex purpureus rossanensis, in " Calabria nobilissima " Il (1948) fasc. IV n. 7; III (1949) fasc. I e II nn. 8 e 9.

Su D. e la C.: S. De Chiara, D. e la C., città di Castello 19102; L. Aliquò-Lenzi, D. e la C., Reggio C. 19262; S. Correnti, D. e la Sicilia, in " Quaderni del Meridione ", Palermo 1965, 69; M. Pizzuti, La C. nel pensiero di D., in " Cronaca di C. ", Cosenza 1952, n. 49; C. Menicucci, D. e la C., ibid. 1952, n. 54; M. Mazzitelli, La C. in D., Carrara 1953; A. Bassermann, Dantes Spuren in Italien, Heildelberg 1897. Sulla tradizione manoscritta cfr., oltre ai consueti repertori: G. Contini, Manoscritti merid. della Commedia, in D. e l'Italia merid., Firenze 1966, 337-342; G. Palumbo, II cod. 492 della Bibl. di s. Francesco nella Comunale di Assisi, ibid. 463-478; A. Frangipane, Miniatori del Quattrocento, in " Brutium " XXXVII (1958) n. 6-7; T. De Marinis, La bibl. napoletana dei re d'Aragona, IV, Milano 1945-1952, inv. gen. nn. 637, 642, 727, 759, 763. Sopra il Campanella e il Gravina v. sub v.; per i dantisti calabresi minori v. L. Perroni-Grande, Echi danteschi negli scrittori calabresi del sec. XVI (B. Martirano, S. Fornari, M. Filippi, G. Barrio, S. Quattromani), in Da mss. e libri rari, Reggio C. 1935, 47-56; F. Mirabella, Di un poeta cinquecentista sconosciuto: M. Filippi, in " Arch. Stor. Siciliano " 1913, 55-87; F. Mango, S. Quattromani, in Note letterarie, Palermo 1894; A. Protetty, La critica e le lettere di S. Quattromani, Catanzaro 1908; L. M. Greco, Intorno ai più eccellenti Accademici Cosentini, in " Atti dell'Accad. Cosentina " I (1838) 255; L. Stocchi, S. Quattromani, in Saggio di Biblioteca cal., i, Castrovillari 1883, 43; D. Zangari, Di un ms. inedito di S. Quattromani, Napoli 1930. Su T. Campanella e G.V. Gravina, v. le bibl. alle rispettive voci in questa Enciclopedia; e inoltre U. Bosco, L'apporto della C. alla letteratura nazionale, in " Il Ponte ", Firenze 1960, 1084-1087; A. Piromalli, Storia della letter. calabrese, Cosenza 1965, 81-90; A. Vallone, La critica dantesca del Settecento, Firenze 1961, 17-22. Su T. Cornelio, v. bibliografia sub v.; C. Nardi, La vita e le opere di F.S. Salfi, Genova 1925. Su D. Mauro: F. De Sanctis, La letteratura it. del sec. XIX, a c. di N. Cortese, Napoli 1932; T.L. Rizzo, Un romantico calabrese esegeta di D., in " Annuario del Liceo-Ginnasio ‛ Campanella ' di Reggio C. " 1928; per G. Campagna, cfr.: F. De Sanctis, op. Cit., 99-108. Su G. Di Siena: B. Condò, Lettera intorno alle note di G. di Siena sopra l'Inferno di D., 1871, e v. bibliografia sub v.; su " Il Calabrese ", cfr. A. Pagano, in " Rivista crit. di cult. calabrese " I (1921), rist. in Saggi e profili di storia letteraria, Nicotera 1932: M. Boretti, Storia di un periodico " Il Calabrese " 1842-1847, in " Calabria Nobilissima " XII (1958) n. 35. Sul Simonetti: G. Marzano, Sulla filosofia di D. ecc. ordinata in modo scientifico dal prof. O. Simonetti, 1847. Sull'Anzelmi e sul De Biase: P. Giannantonio, I commentatori meridionali della D.C., in D. e l'Italia merid., Firenze 1966, 394. Sui traduttori in dialetto, cfr.: L. Accattatis, Storia della letteratura dialettale, Append. al Vocabolario cal.-it. e it.-cal., Castrovillari 1898. Di V. Gallo, F. Toscani, P. Scaglione, L. Gallucci sono riportati brani di traduzioni in D. e la C. di S. De Chiara, 119-197. Su S. Scervini: G. Capalbo, La D.C. tradotta in dialetto cal., in " Cronaca di C. " 25 maggio 1940; A. Iulia, S. Scervini, traduttore della D.C., in " Rivista Stor. Cal. " aprile-maggio 1918. Sui traduttori v. ancora: G. Mambelli, Le traduzioni della D.C., Firenze 1926. Su G. Blasi e altri: N.D. Evola, Bibliografia dantesca (1920-1930), ibid. 1932; L. Perroni-Grande, A proposito di una recente bibliografia dantesca (viene integrata, con circa trenta nomi, la bibliografia dello Evola), Reggio C. 1932; G. Marzano, G. Blasi traduttore della D.C., in " Parvula ", Vibo Valentia 1946, e ancora in " La Zagara ", Reggio C., giugno-luglio 1952 (sono ricordati quasi tutti gli altri traduttori: da V. Gallo a Fr. Pentimalli); G. Cimino, Poeti dial. calabr., in " Il Ponte " 1960, 1062-1104; F. Fichera, Letture dialettali dantesche, Milano 1959, 227-228. Sui luoghi indicati nella Commedia, cfr. ancora, oltre al De Chiara (op. cit., 21-40): L. Aliquó-Lenzi, Nel nostro Stretto: leggendo la D.C., in " Fata Morgana " Reggio C. II (1921) n. 16; Id., Leggendo la D.C., ibid. VII (1926) 21-26; Id., Miti ed idolatria in C., in " Arte e Natura " Il (1930) n. 4-5.

Su D. e la cultura cal.: M. Mandalari, D. e la C., in Anecdoti di storia, bibliografia e critica, Catania 1895; C. Pariset, Dantisti calabresi, in Divagazioni letterarie, Catanzaro 1901, 71-74; L. Perroni-Grande, I poeti calabresi alla prima mostra bibliografica dantesca calabrese, in " Il popolo di C. " 10-11 sett. 1929, s. I, a. IX, n. 216; S. Mollo, D. e la C., in " Il Mezzogiorno ", Napoli 25 ottobre 1929, a. XII n. 255; M. Mandalari, Biblioteca storico-topografica della C., Messina 1928; L. Perroni-Grande, Di alcune poesie attorno a D., Reggio C. 1934. Sul Valensise: A. Gallippi, Un dantista calabrese: R. Valensise, in " Nosside " IX, n. 2, Polistena 1930, 20, 21. Del Valensise sono degni di nota i vari studi, tra cui: La forma del suono secondo l'Alighieri, Napoli 1900; Il sorriso di Beatrice, ibid. 1905; D. e il metallo del suono, Perugia 1909; La circulata melodia nel Paradiso, Reggio C. 1928; L'Alighieri e gli Angeli musicanti, in " Nosside ", Polistena 1928.; A. Pagano, La pronta liberalità, in Saggi e Profili di St. Lett., Nicotera 1932, 3-16; Influssi della " L.A. ", etc., in " Calabria Letteraria " Il (1953-54); T.L. Rizzo, Vita nuova, Palermo 1942; Allegoria, Allegorismo e Poesia nella D.C., Milano 1941; A. Gallippi, Il volgare illustre di D., Messina 1950; G. Troccoli, Il Purgatorio, Firenze 1951; G. Inzitari, La poesia del trascendente e l'unità poetica della Commedia, Vibo Valentia 1959. Su C. Pujia e L. Maioli, cfr.: P. Tramontana, L. Maioli, I lezione di alta cultura dantesca (12-1-1929), in " Il Popolo di C. " 14-15 genn. 1929, a. XXVI n. 11; R. Sammarco, Nell'Episcopio reggino: lezioni di cultura dantesca, in " Il giornale d'Italia ", Roma 17 gennaio 1929; L. Perroni-Grande, Una cattedra dantesca a Reggio Cal. e due dantofili calabresi, in Da manoscritti e libri rari, Reggio C. 1935, 139.

Arti Figurative. - Su V. Morano: P.M. Valensise, Memorie di V. Morano (mss. bibl. Valensise, Polistena); G.B. Marzano, Elenco dei pittori, scultori, architetti, musicisti calabresi, in Scritti, IV, Vibo Valentia 1942, 251-286; A. Frangipane, C. artistica dal 1783 al 1860, Napoli 1961, 538-539. Su A. Mazzia: C. Lorenzetti, L'Accad. di B.A. di Napoli (1752-1952): A. Mazzia e G. Morelli assistenti di Postiglione, Firenze 1953, 124; Cat. della I.a Mostra d'Arte cal. (Catanzaro 1912), Bergamo 1913, 24-27. Su A. Migliaccio: Cat. della Mostra cal. d'Arte mod., Reggio C. 1921, in " Brutium " II (1923). Su A. Cefaly: A. Frangipane, Ispirazioni dantesche e regionali di A. Cefaly, ibid., XVI (1937) 11; V. Ursetta, Le scene dantesche interpretate da A. Cefaly, in " Calabria Letteraria " V (1957) 23-25.

Lingua. - ‛ Calabri ' sono chiamati in VE I X 8 gli Apuli di sinistra, per distinguerli da quelli di destra cui resta la denominazione di Apuli (v. APULIA). D. continua dunque a usare, ed estensivamente (sicché i ‛ Calabri ' confinano addirittura con gli Anconitani), Calabria col valore classico (= Puglia meridionale, Salento), anziché con quello rimasto anche oggi e già presente accanto all'altro nell'uso medievale (per es. C. ha il significato moderno nel Tresor di Brunetto, ma indica la ‛ Puglia ' (meridionale?) anche in Guido delle Colonne Historia destructionis Troiae, ed. Griffin, p. 12). È stato supposto giustamente (dal Contini, in " Giorn. stor. " CXIII [1939] 291) un influsso determinante del " Calabri rapuere " dell'epitaffio virgiliano.

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