Bushido

Dizionario di Storia (2010)

bushido (giapp. «la via del guerriero»)


bushido

(giapp. «la via del guerriero») Complesso di norme morali che guidava l’agire della casta guerriera in Giappone. Nitobe Inazo (1862-1933) intitola così il suo libro, che descrive all’Occidente l’etica del bushi, il guerriero giapponese. Anche se il termine è relativamente recente, questo codice etico si è sviluppato nel corso dei secoli, a partire dall’epoca dell’ascesa della casta guerriera al potere (fine epoca Heian, 794-1185) e dell’instaurazione del primo governo militare (➔ shogunato) di Kamakura (1192-1333), per poi rifinirsi nelle epoche successive, durante gli shogunati degli Ashikaga (1338-1573) e dei Tokugawa (1603-1868). Con il corso del tempo il b. ha risentito anche di influssi confuciani e buddhisti, compatibilmente con l’attività marziale. In epoca Tokugawa vi furono i primi codificatori, come Yamaga Soko (1622-85), parallelamente alle critiche riguardo all’autorità dei bushi sul resto della popolazione nonostante la discrepanza fra i valori di cui si facevano portavoce e il loro agire effettivo. Nella stessa epoca, oltre ai «codici della casa» emanati nell’ambito dei feudi (han) e a testi che descrivevano il retto comportamento di un guerriero (come lo Hagakure), a livello governativo fu emanato nel 1615 il primo Buke sho hatto («leggi per le casate militari»), che prescriveva ai signori dei feudi (daimyo) le regole di condotta, un abbigliamento semplice e decoroso, il corretto approvvigionamento in caso di visite ufficiali ecc. Il bushi considerava supreme virtù la lealtà nei confronti del proprio signore, a costo della vita, l’onore, il dovere, la pietà filiale. Il disonore non era personale, ma colpiva anche il clan, e solo la morte aveva il potere di cancellare un’onta. I bushi dei tempi antichi si gettavano sulla loro spada sul campo di battaglia in una situazione estrema, pur di non cadere nelle mani del nemico; nei periodi successivi, e soprattutto quando morire in guerra era più difficile, il bushi ricorreva al suicidio rituale (harakiri o seppuku). Il coraggio per affrontare la morte veniva insegnato nelle famiglie di bushi sin dalla tenera età: il pericolo e il controllo di sé rendevano la classe guerriera «superiore» alle altre classi. Altri valori, come la frugalità e l’economia, erano inoltre essenziali a uno stile di vita semplice, in cui le distrazioni potevano costituire un pericolo: essi erano funzionali a situazioni in cui l’attaccamento a cose e persone avrebbe potuto costituire un impedimento a una chiamata del proprio signore o a una emergenza. Con gli Ashikaga la via del guerriero iniziò a «raffinarsi», inserendo nelle sue attività quotidiane, accanto all’addestramento marziale, la meditazione zen, la pittura, l’ikebana, la cerimonia del tè, la poesia, la letteratura. In epoca Tokugawa, con oltre due secoli e mezzo di relativa pace, la cultura divenne una parte fondamentale del bushido. In epoca Meiji (1868-1912), con la scomparsa delle classi sociali, alcuni valori furono trasferiti a tutta la popolazione, come il sentimento di lealtà, che fu rivolto all’imperatore.

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